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Quando l’impresa entra in comunità

Sempre di più le imprese interagiscono con le comunità in cui sono inserite. Anche se queste sono a livello planetario. Ma come lo fanno? E perché?

Un’esplorazione importante di questo aspetto dell’agire aziendale è stata condotta da Andrea Fosfuri e Marco Giarratana (del Dipartimento di Management e Tecnologia dell’Università Bocconi), con Esther Roca (dell’Universidad Carlos III di Madrid), in “Community-Focused Strategies” (apparso su Strategic Organization).

I tre ricercatori partono da casi concreti come Patagonia, impresa californiana produttrice di capi di abbigliamento outdoor, che è componente attivo di varie comunità ambientaliste, oppure Kiehl’s, che produce cosmetici ed è nota per sponsorizzare l’Heritage of Price, un gruppo non-profit impegnato nella parità dei diritti umani. Ma anche quello della Shell Oil e molti altri. Fosfuri, Giarratana e Roca esaminano i diversi esempi concreti dal punto di vista delle strategie d’impresa e coniano il concetto di Community-Focused Strategies (CFS), cioè quelle azioni sociali su cui un’impresa si impegna a stabilire connessioni relazionali con una o più comunità che rappresentano (potenziali) clienti. Gli autori poi classificano le CFS in quattro tipi: signaling, identity-enhancing, identity-creation e avoiding.

Le strategie di signaling indicano l’allineamento dei valori aziendali con quelli della comunità esistente, ma con un impegno aziendale debole sui valori della comunità. E’ il caso della Shell Oil, che investe in iniziative pubblicitarie ambientaliste. Il secondo tipo di CFS, identity-enhancing, è caratterizzato da un forte investimento dell’impresa nei confronti dei valori sociali della comunità. Ad esempio, la O’Neill sponsorizza gare di surf contemporaneamente a giornate dedicate alla pulizia e salvaguardia delle spiagge. La CFS identity-creation, invece, richiede un ruolo più attivo dell’azienda rispetto alla comunità. È la stessa azienda che fornisce attraverso una serie di azioni ben sincronizzate con i propri prodotti, gran parte dell’identità alla comunità su cui agisce e che non esisterebbe senza la presenza dell’azienda. E’ il caso di esempi famosi come Ducati, Harley-Davidson e Piaggio. Infine, avoiding CFS si ha quando l’impresa si astiene dall’entrare in contatto con le comunità.

Tutto – ed è forse la caratteristica più importante -, viene affrontato con piglio pratico: uno degli obiettivi degli autori, infatti, è quello di proporre una serie di suggerimenti per i manager su quale strategia scegliere, su quali risorse investire, e sui potenziali limiti e problematiche da evitare.

Community-Focused Strategies

Andrea Fosfuri, Marco Giarratana, Esther Roca 

in Strategic Organization, volume 9, numero 3, pagine 222-239.

Sempre di più le imprese interagiscono con le comunità in cui sono inserite. Anche se queste sono a livello planetario. Ma come lo fanno? E perché?

Un’esplorazione importante di questo aspetto dell’agire aziendale è stata condotta da Andrea Fosfuri e Marco Giarratana (del Dipartimento di Management e Tecnologia dell’Università Bocconi), con Esther Roca (dell’Universidad Carlos III di Madrid), in “Community-Focused Strategies” (apparso su Strategic Organization).

I tre ricercatori partono da casi concreti come Patagonia, impresa californiana produttrice di capi di abbigliamento outdoor, che è componente attivo di varie comunità ambientaliste, oppure Kiehl’s, che produce cosmetici ed è nota per sponsorizzare l’Heritage of Price, un gruppo non-profit impegnato nella parità dei diritti umani. Ma anche quello della Shell Oil e molti altri. Fosfuri, Giarratana e Roca esaminano i diversi esempi concreti dal punto di vista delle strategie d’impresa e coniano il concetto di Community-Focused Strategies (CFS), cioè quelle azioni sociali su cui un’impresa si impegna a stabilire connessioni relazionali con una o più comunità che rappresentano (potenziali) clienti. Gli autori poi classificano le CFS in quattro tipi: signaling, identity-enhancing, identity-creation e avoiding.

Le strategie di signaling indicano l’allineamento dei valori aziendali con quelli della comunità esistente, ma con un impegno aziendale debole sui valori della comunità. E’ il caso della Shell Oil, che investe in iniziative pubblicitarie ambientaliste. Il secondo tipo di CFS, identity-enhancing, è caratterizzato da un forte investimento dell’impresa nei confronti dei valori sociali della comunità. Ad esempio, la O’Neill sponsorizza gare di surf contemporaneamente a giornate dedicate alla pulizia e salvaguardia delle spiagge. La CFS identity-creation, invece, richiede un ruolo più attivo dell’azienda rispetto alla comunità. È la stessa azienda che fornisce attraverso una serie di azioni ben sincronizzate con i propri prodotti, gran parte dell’identità alla comunità su cui agisce e che non esisterebbe senza la presenza dell’azienda. E’ il caso di esempi famosi come Ducati, Harley-Davidson e Piaggio. Infine, avoiding CFS si ha quando l’impresa si astiene dall’entrare in contatto con le comunità.

Tutto – ed è forse la caratteristica più importante -, viene affrontato con piglio pratico: uno degli obiettivi degli autori, infatti, è quello di proporre una serie di suggerimenti per i manager su quale strategia scegliere, su quali risorse investire, e sui potenziali limiti e problematiche da evitare.

Community-Focused Strategies

Andrea Fosfuri, Marco Giarratana, Esther Roca 

in Strategic Organization, volume 9, numero 3, pagine 222-239.

Guardare dentro al processo di creazione del prodotto

Creare è un’attività propria del vero imprenditore, ma non solo. Perché si crea, sempre nell’ambito dell’impresa, anche quando si dà vita ad un nuovo prodotto, dal design particolare, pensato per soddisfare consumatori nuovi oppure per originare un mercato che prima era inesistente. Ma accade una cosa strana. A guardarci dentro – nel processo che porta dall’idea al prodotto – si scorge tutto l’essere proprio di ogni impresa, la sua cultura, la sua storia, la storia di chi la guida e di chi vi lavora.

E’, il guardare dentro a processi di questo genere, un esercizio importante nel quale ci si è provato Michele Bottoni (giovane economista formatosi alla Ca’ Foscari e all’Università di Ferrara, specializzato in marketing), con il suo “Design-driven Business. Quando lo spirito di innovazione anima la cultura d’impresa”.

Bottoni parte da un assunto: “Il design è un meccanismo che prevede l’esercizio della traduzione, richiedendo un consistente sforzo creativo e cognitivo capace di generare innovazione. Di conseguenza, il presupposto fondamentale su cui verte questo processo è il riconoscimento della tradizione, nonché cultura aziendale, come capitale intangibile”.

Per capire meglio come, in realtà, si muove questo meccanismo, l’autore esplora la struttura organizzativa di quelle aziende che preservano i valori della piccola bottega rinascimentale.  Sotto i  riflettori comparti d’eccellenza del saper fare nazionale come quello delle calzature, del legno, del ferro. Bottoni, riconosce l’impresa come “luogo di educazione al linguaggio del brand-DNA e l’imprenditore come catalizzatore di conoscenza tacita e difficilmente codificabile”.

Il fatto che nella creazione d’impresa non tutto sia codificabile è il perno del ragionamento. Se ne rende conto Bottoni che arriva a dire come la vera innovazione nelle imprese non dipenda dalle regole ma dalle eccezioni che le confermano. Tutto in un processo creativo che accumula conoscenze da progetto a progetto, esperienze dovute alle oscillazioni dei mercati e al mutamento delle strategie aziendali e del contesto socio-culturale nel quale l’impresa opera.

Design-driven Business. Quando lo spirito di innovazione anima la cultura d’impresa 

Michele Bottoni

Zona, 2012

Creare è un’attività propria del vero imprenditore, ma non solo. Perché si crea, sempre nell’ambito dell’impresa, anche quando si dà vita ad un nuovo prodotto, dal design particolare, pensato per soddisfare consumatori nuovi oppure per originare un mercato che prima era inesistente. Ma accade una cosa strana. A guardarci dentro – nel processo che porta dall’idea al prodotto – si scorge tutto l’essere proprio di ogni impresa, la sua cultura, la sua storia, la storia di chi la guida e di chi vi lavora.

E’, il guardare dentro a processi di questo genere, un esercizio importante nel quale ci si è provato Michele Bottoni (giovane economista formatosi alla Ca’ Foscari e all’Università di Ferrara, specializzato in marketing), con il suo “Design-driven Business. Quando lo spirito di innovazione anima la cultura d’impresa”.

Bottoni parte da un assunto: “Il design è un meccanismo che prevede l’esercizio della traduzione, richiedendo un consistente sforzo creativo e cognitivo capace di generare innovazione. Di conseguenza, il presupposto fondamentale su cui verte questo processo è il riconoscimento della tradizione, nonché cultura aziendale, come capitale intangibile”.

Per capire meglio come, in realtà, si muove questo meccanismo, l’autore esplora la struttura organizzativa di quelle aziende che preservano i valori della piccola bottega rinascimentale.  Sotto i  riflettori comparti d’eccellenza del saper fare nazionale come quello delle calzature, del legno, del ferro. Bottoni, riconosce l’impresa come “luogo di educazione al linguaggio del brand-DNA e l’imprenditore come catalizzatore di conoscenza tacita e difficilmente codificabile”.

Il fatto che nella creazione d’impresa non tutto sia codificabile è il perno del ragionamento. Se ne rende conto Bottoni che arriva a dire come la vera innovazione nelle imprese non dipenda dalle regole ma dalle eccezioni che le confermano. Tutto in un processo creativo che accumula conoscenze da progetto a progetto, esperienze dovute alle oscillazioni dei mercati e al mutamento delle strategie aziendali e del contesto socio-culturale nel quale l’impresa opera.

Design-driven Business. Quando lo spirito di innovazione anima la cultura d’impresa 

Michele Bottoni

Zona, 2012

Produttività, più cultura e formazione

La crisi di competitività del sistema Italia dipende anche dal suo basso tasso di produttività. E la produttività, proprio per un paese europeo che deve puntare sul “bello e ben fatto”, sul “premium”, sui prodotti “alto di gamma” e ad elevato valore aggiunto, si fonda su una serie di elementi da software sociale e culturale. Una solida consapevolezza critica della cultura del sistema Paese. Un robusto capitale sociale, per la rete di relazioni che garantiscano collaborazione e competizione solidale (“cum petere”, andare avanti insieme). E un sempre più sofisticato capitale umano, che dipende soprattutto dalla qualità e dalla quantità di formazione ricevuta. L’Italia è purtroppo sempre più carente, da questo punto di vista. Lo nota Gian Arturo Ferrari (uno dei più autorevoli manager editoriali, per anni ai vertici della Mondadori) quando denuncia sulla prima pagina del “Corriere della Sera” del 30 gennaio “il nesso tra una scuola rabberciata, una formazione professionale spregiata, un’università sgangherata, tassi di lettura desolanti e la loro logica conseguenza, cioè una bassissima produttività”. Una riprova? Nei drammatici dati sul crollo delle frequenze universitarie. Quasi 60mila studenti in meno negli ultimi dieci anni. Capitale umano non coltivato. Un patrimonio di potenzialità di competenze e impegno via via depauperato, proprio in tempi in cui l’elemento chiave dello sviluppo sta nei percorsi dell’”economia della conoscenza”. Che fare, allora? Servono investimenti, per una ripresa economica, che tarda a venire. E riforme radicali. Non solo sui temi economici in senso stretto. Ma, appunto, anche su cultura e formazione. Sinora, invece, destinatarie di decrescenti quote di investimenti pubblici e di spesa di cattiva qualità, al contrario che negli altri grandi paesi della Ue.

La crisi di competitività del sistema Italia dipende anche dal suo basso tasso di produttività. E la produttività, proprio per un paese europeo che deve puntare sul “bello e ben fatto”, sul “premium”, sui prodotti “alto di gamma” e ad elevato valore aggiunto, si fonda su una serie di elementi da software sociale e culturale. Una solida consapevolezza critica della cultura del sistema Paese. Un robusto capitale sociale, per la rete di relazioni che garantiscano collaborazione e competizione solidale (“cum petere”, andare avanti insieme). E un sempre più sofisticato capitale umano, che dipende soprattutto dalla qualità e dalla quantità di formazione ricevuta. L’Italia è purtroppo sempre più carente, da questo punto di vista. Lo nota Gian Arturo Ferrari (uno dei più autorevoli manager editoriali, per anni ai vertici della Mondadori) quando denuncia sulla prima pagina del “Corriere della Sera” del 30 gennaio “il nesso tra una scuola rabberciata, una formazione professionale spregiata, un’università sgangherata, tassi di lettura desolanti e la loro logica conseguenza, cioè una bassissima produttività”. Una riprova? Nei drammatici dati sul crollo delle frequenze universitarie. Quasi 60mila studenti in meno negli ultimi dieci anni. Capitale umano non coltivato. Un patrimonio di potenzialità di competenze e impegno via via depauperato, proprio in tempi in cui l’elemento chiave dello sviluppo sta nei percorsi dell’”economia della conoscenza”. Che fare, allora? Servono investimenti, per una ripresa economica, che tarda a venire. E riforme radicali. Non solo sui temi economici in senso stretto. Ma, appunto, anche su cultura e formazione. Sinora, invece, destinatarie di decrescenti quote di investimenti pubblici e di spesa di cattiva qualità, al contrario che negli altri grandi paesi della Ue.

Buon imprenditore in buona società

Chi è l’imprenditore? A questa domanda hanno cercato di rispondere in tanti e da più parti. E’ un interrogativo difficile, la cui riposta può far precipitare in un abisso. Eppure c’è chi ha cercato di rispondere a questo interrogativo senza teorizzare nulla, ma raccontando una storia. E’ il caso di Luigi Einaudi che più di un  secolo fa scrisse “Un principe mercante”: storia di Enrico dell’Acqua, di Busto Arsizio, che percorse il mondo “facendosi da se’” e creando il paradigma dell’imprenditore italiano. Quel racconto ha fatto storia nella letteratura economica – forse anche perché scritto in maniera comprensibile – ed è stato ripreso oggi da Paolo Silvestri in un articolo apparso su Biblioteca della libertà, Rivista quadrimestrale online del Centro Einaudi di Torino. Il risultato è un altro racconto, una cavalcata lungo un secolo di economia e di insegnamento civile in cui si stagliano, oltre che ovviamente Einaudi, anche nomi come Piero Gobetti, Adam Smith, Norberto Bobbio e Josep Shumpeter e, più recentemente Sergio Ricossa e Giuseppe Berta.

Quelle di Silvestri sono 16 pagine dalle quali emergono i tratti fondamentali dell’essere imprenditore ieri come oggi e cioè di colui il cui comportamento non può essere teorizzato più di tanto ma va raccontato e osservato per essere compreso, anche se non si riuscirà mai a capirlo fino in fondo. Ciò nonostante Silvestri, riprendendo ovviamente Einaudi, azzarda a dire che “l’imprenditore è colui che: 1) «sceglie le merci che dovranno essere prodotte», 2) «delibera ciò che si deve e che non si deve mettere sul mercato», 3) fissa le «linee strategiche» e i «fini» dell’azienda e «calcola i mezzi» più adeguati al loro raggiungimento, 4) soddisfa i «bisogni dei consumatori», anche quelli più «strani»”.

Si tratta, forse, di una fotografia semplicistica dell’essere imprenditore oggi, ma è anche un ritratto “dal vero” che vale la pena di essere esaminato. Soprattutto per almeno due concetti che emergono dall’articolo. La buona imprenditorialità va, prima di tutto, di pari passo con il buongoverno e la creazione di una società aperta agli stimoli e al merito. La buona imprenditorialità e la buona cultura d’impresa, poi, nascono da una tensione positiva tra prudenza e rischio, tra tradizione e innovazione.

Il paradigma dell’imprenditore in una società liberale: tra prudenza e rischio-innovazione

Paolo Silvestri

Biblioteca della libertà

Rivista quadrimestrale online del Centro Einaudi, 2012

Chi è l’imprenditore? A questa domanda hanno cercato di rispondere in tanti e da più parti. E’ un interrogativo difficile, la cui riposta può far precipitare in un abisso. Eppure c’è chi ha cercato di rispondere a questo interrogativo senza teorizzare nulla, ma raccontando una storia. E’ il caso di Luigi Einaudi che più di un  secolo fa scrisse “Un principe mercante”: storia di Enrico dell’Acqua, di Busto Arsizio, che percorse il mondo “facendosi da se’” e creando il paradigma dell’imprenditore italiano. Quel racconto ha fatto storia nella letteratura economica – forse anche perché scritto in maniera comprensibile – ed è stato ripreso oggi da Paolo Silvestri in un articolo apparso su Biblioteca della libertà, Rivista quadrimestrale online del Centro Einaudi di Torino. Il risultato è un altro racconto, una cavalcata lungo un secolo di economia e di insegnamento civile in cui si stagliano, oltre che ovviamente Einaudi, anche nomi come Piero Gobetti, Adam Smith, Norberto Bobbio e Josep Shumpeter e, più recentemente Sergio Ricossa e Giuseppe Berta.

Quelle di Silvestri sono 16 pagine dalle quali emergono i tratti fondamentali dell’essere imprenditore ieri come oggi e cioè di colui il cui comportamento non può essere teorizzato più di tanto ma va raccontato e osservato per essere compreso, anche se non si riuscirà mai a capirlo fino in fondo. Ciò nonostante Silvestri, riprendendo ovviamente Einaudi, azzarda a dire che “l’imprenditore è colui che: 1) «sceglie le merci che dovranno essere prodotte», 2) «delibera ciò che si deve e che non si deve mettere sul mercato», 3) fissa le «linee strategiche» e i «fini» dell’azienda e «calcola i mezzi» più adeguati al loro raggiungimento, 4) soddisfa i «bisogni dei consumatori», anche quelli più «strani»”.

Si tratta, forse, di una fotografia semplicistica dell’essere imprenditore oggi, ma è anche un ritratto “dal vero” che vale la pena di essere esaminato. Soprattutto per almeno due concetti che emergono dall’articolo. La buona imprenditorialità va, prima di tutto, di pari passo con il buongoverno e la creazione di una società aperta agli stimoli e al merito. La buona imprenditorialità e la buona cultura d’impresa, poi, nascono da una tensione positiva tra prudenza e rischio, tra tradizione e innovazione.

Il paradigma dell’imprenditore in una società liberale: tra prudenza e rischio-innovazione

Paolo Silvestri

Biblioteca della libertà

Rivista quadrimestrale online del Centro Einaudi, 2012

Giocando si impara per davvero, anche in azienda

Mattone su mattone si può costruire un castello capace di sfidare i secoli. E mattoncino su mattoncino c’è chi ha costruito un’azienda – la Lego – entrata nel cuore di miliardi di persone ma che non sempre, se si guarda dentro la sua storia, ha avuto vita facile. Proprio quella storia, la storia della Lego, è però un esempio da raccontare per comprendere come un’impresa con un prodotto di successo può arrivare a rischiare di fallire per poi rinascere.

Raccontare la storia della Lego è ciò che hanno fatto Mikael Lindholm, Frank Stokholm – dirigente aziendale il primo, giornalista il secondo -, nel loro “Lego story”. Un libro che si legge come un gioco ma che ripercorre, in maniera immediata, la vita di una delle aziende più famose al mondo, dalla sua nascita come fabbrica di giocattoli di legno in un paesino dello Jutland  negli anni Trenta, fino alla sua decadenza – quasi sommersa dal successo del suo prodotto che però pare non riuscire a vincere la concorrenza dell’elettronica -, per arrivare alla sua rinascita in tempi recentissimi. Quella della Lego è anche la storia di una famiglia di imprenditori – i Kristiansen – alle prese con tutti i problemi di crescita della propria azienda, di passaggio generazionale fra padri e figli, di approccio alla modernità e alle nuove tecnologie, comuni a moltissime altre imprese “familiari”. Tutto basato su due principi validi per tutti: l’obiettivo non deve essere quello di diventare il maggiore produttore di giocattoli, ma il migliore; mentre è importante pensare non a chi acquista il prodotto ma a chi lo utilizza.

Ma non è tutto, perché il libro contiene una seconda parte – scritta da Leonardo Previ, professore di Storia economica della cultura alla Cattolica di Milano -, che racconta come i mattoncini Lego servano anche per dare vita ad una metodologia di sviluppo organizzativo nata nei dipartimenti di ricerca della IMD di Losanna e approdata nelle aule di formazione manageriale di tutto il mondo: nelle mani dei manager i mattoncini diventano uno strumento per accelerare la comunicazione interna e i processi decisionali. Come dire: giocando s’impara davvero.

Lego story

Mikael Lindholm, Frank Stokholm, Leonardo Previ

Egea, 2012

Mattone su mattone si può costruire un castello capace di sfidare i secoli. E mattoncino su mattoncino c’è chi ha costruito un’azienda – la Lego – entrata nel cuore di miliardi di persone ma che non sempre, se si guarda dentro la sua storia, ha avuto vita facile. Proprio quella storia, la storia della Lego, è però un esempio da raccontare per comprendere come un’impresa con un prodotto di successo può arrivare a rischiare di fallire per poi rinascere.

Raccontare la storia della Lego è ciò che hanno fatto Mikael Lindholm, Frank Stokholm – dirigente aziendale il primo, giornalista il secondo -, nel loro “Lego story”. Un libro che si legge come un gioco ma che ripercorre, in maniera immediata, la vita di una delle aziende più famose al mondo, dalla sua nascita come fabbrica di giocattoli di legno in un paesino dello Jutland  negli anni Trenta, fino alla sua decadenza – quasi sommersa dal successo del suo prodotto che però pare non riuscire a vincere la concorrenza dell’elettronica -, per arrivare alla sua rinascita in tempi recentissimi. Quella della Lego è anche la storia di una famiglia di imprenditori – i Kristiansen – alle prese con tutti i problemi di crescita della propria azienda, di passaggio generazionale fra padri e figli, di approccio alla modernità e alle nuove tecnologie, comuni a moltissime altre imprese “familiari”. Tutto basato su due principi validi per tutti: l’obiettivo non deve essere quello di diventare il maggiore produttore di giocattoli, ma il migliore; mentre è importante pensare non a chi acquista il prodotto ma a chi lo utilizza.

Ma non è tutto, perché il libro contiene una seconda parte – scritta da Leonardo Previ, professore di Storia economica della cultura alla Cattolica di Milano -, che racconta come i mattoncini Lego servano anche per dare vita ad una metodologia di sviluppo organizzativo nata nei dipartimenti di ricerca della IMD di Losanna e approdata nelle aule di formazione manageriale di tutto il mondo: nelle mani dei manager i mattoncini diventano uno strumento per accelerare la comunicazione interna e i processi decisionali. Come dire: giocando s’impara davvero.

Lego story

Mikael Lindholm, Frank Stokholm, Leonardo Previ

Egea, 2012

Eleganza e praticità firmate Pirelli

E’ del 1890 il primo catalogo a contenere tra i vari prodotti anche “Le specialità di gomma elastica per calzature” Pirelli. Inizia così la produzione di suole: lisce, righettate o a punta di diamante, di tacchi di colore bianco, rosso o nero, e di galosce per proteggere dalla pioggia le calzature da signora.

Eleganza e praticità firmata Pirelli. Sono questi gli anni in cui la comunicazione pubblicitaria sperimenta nuove formule attraverso la pubblicazione di manifesti e inserzioni. Cambia anche il logo: la P si allunga a coprire le altre lettere del nome della società, ma permane la stella con le iniziali PCM (Pirelli & C. Milano) che diventa la “marca” dell’azienda e dei suoi prodotti.

Tacco stella”, è il nome dato al più famoso dei tacchi in gomma, prodotto in varie tipologie: girevole dall’uso facile e immediato, collocato sotto la scarpa con un apposito cacciavite per permetterne l’utilizzo su tutta la circonferenza; oppure con “piastrina girevole” o “inserita”, o ancora di tipo “fisso”, con “piastrina visibile di cuoio e chiodini”. Tra tutti i prodotti è quello che più si presta ad essere pubblicizzato con opere di illustratori attivi sulla stampa umoristica come Bagni, Bazzi, Cappadonia: artisti abili a giocare ironicamente con bizzarri animali e figure caricaturali come quella con il busto a forma di mappamondo, a simboleggiare l’espansione internazionale di Pirelli.

Negli anni ’20 una testimonial d’eccezione posa per la soprascarpa “hevea” (nome scientifico dell’albero della gomma): è la giovanissima attrice Paola Borboni.

Nel dopoguerra la suola segna il prepotente ritorno di Pirelli sulla scena della pubblicità con la campagnacamminate Pirelli, ideata da Ermanno Scopinich nel 1948: si tratta di una ripresa fotografica dal basso di un uomo che cammina su una lastra di vetro, diffusa a Milano con manifesti di dimensioni eccezionali. Tutta la città ne parla ed è impossibile non ammirarla.

Il risultato della ricerca e della sperimentazione di nuovi materiali negli anni’50 è la Coria sintetica, la “suola del passeggio moderno”, che riunisce le qualità del cuoio e della gomma: leggera, resistente, impermeabile ed economica; in una parola, funzionale. Nel 1953 Bruno Munari ne disegna il manifesto pubblicitario: due suole in primo piano, stilizzate. E un motivo geometrico, il labirinto, che si snoda fra i muri delle città della Lombardia. 

Come i pneumatici lasciano un segno a seconda del loro modello, così è per le suole: ad ognuna di loro uno specifico “battistrada”: Accademica, Alpina e Aprica, per la montagna. Belpasso, Viavai o Lungarno per il passeggio. Per chi ama il passo elastico, la Ripple “cammina per voi”. E per chi predilige l’estetica, ecco la suola Levanto, con un’elegante alternanza di vuoti e di pieni.

E’ del 1890 il primo catalogo a contenere tra i vari prodotti anche “Le specialità di gomma elastica per calzature” Pirelli. Inizia così la produzione di suole: lisce, righettate o a punta di diamante, di tacchi di colore bianco, rosso o nero, e di galosce per proteggere dalla pioggia le calzature da signora.

Eleganza e praticità firmata Pirelli. Sono questi gli anni in cui la comunicazione pubblicitaria sperimenta nuove formule attraverso la pubblicazione di manifesti e inserzioni. Cambia anche il logo: la P si allunga a coprire le altre lettere del nome della società, ma permane la stella con le iniziali PCM (Pirelli & C. Milano) che diventa la “marca” dell’azienda e dei suoi prodotti.

Tacco stella”, è il nome dato al più famoso dei tacchi in gomma, prodotto in varie tipologie: girevole dall’uso facile e immediato, collocato sotto la scarpa con un apposito cacciavite per permetterne l’utilizzo su tutta la circonferenza; oppure con “piastrina girevole” o “inserita”, o ancora di tipo “fisso”, con “piastrina visibile di cuoio e chiodini”. Tra tutti i prodotti è quello che più si presta ad essere pubblicizzato con opere di illustratori attivi sulla stampa umoristica come Bagni, Bazzi, Cappadonia: artisti abili a giocare ironicamente con bizzarri animali e figure caricaturali come quella con il busto a forma di mappamondo, a simboleggiare l’espansione internazionale di Pirelli.

Negli anni ’20 una testimonial d’eccezione posa per la soprascarpa “hevea” (nome scientifico dell’albero della gomma): è la giovanissima attrice Paola Borboni.

Nel dopoguerra la suola segna il prepotente ritorno di Pirelli sulla scena della pubblicità con la campagnacamminate Pirelli, ideata da Ermanno Scopinich nel 1948: si tratta di una ripresa fotografica dal basso di un uomo che cammina su una lastra di vetro, diffusa a Milano con manifesti di dimensioni eccezionali. Tutta la città ne parla ed è impossibile non ammirarla.

Il risultato della ricerca e della sperimentazione di nuovi materiali negli anni’50 è la Coria sintetica, la “suola del passeggio moderno”, che riunisce le qualità del cuoio e della gomma: leggera, resistente, impermeabile ed economica; in una parola, funzionale. Nel 1953 Bruno Munari ne disegna il manifesto pubblicitario: due suole in primo piano, stilizzate. E un motivo geometrico, il labirinto, che si snoda fra i muri delle città della Lombardia. 

Come i pneumatici lasciano un segno a seconda del loro modello, così è per le suole: ad ognuna di loro uno specifico “battistrada”: Accademica, Alpina e Aprica, per la montagna. Belpasso, Viavai o Lungarno per il passeggio. Per chi ama il passo elastico, la Ripple “cammina per voi”. E per chi predilige l’estetica, ecco la suola Levanto, con un’elegante alternanza di vuoti e di pieni.

Summer vacation ideas

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Surfing trip

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Mountain tracking

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“I like travelling on my own. It means I’m completely free to think about what’s around me.”

– Robert Winston

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Central Europe

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Explore USA

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Exotic countries

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“The use of travelling is to regulate imagination by reality, and instead of thinking how things may be, to see them as they are.”

– Samuel Johnson

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Surfing trip

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Mountain tracking

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“I like travelling on my own. It means I’m completely free to think about what’s around me.”

– Robert Winston

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Central Europe

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Explore USA

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Exotic countries

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“The use of travelling is to regulate imagination by reality, and instead of thinking how things may be, to see them as they are.”

– Samuel Johnson

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Curabitur vel lorem in velit vestibulum [dt_tooltip title=”lorem ipsum”]Morbi augue dui, bibendum quis euismod sit amet, tincidunt id dui. Integer auctor turpis vel orci blandit sit amet bibendum felis varius.[/dt_tooltip] amet lobortis. Sed faucibus tristique nisi sit amet lacinia. Suspendisse at massa non nulla placerat ultrices ullamcorper at ligula.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

Leggere Re Lear per guardare a fondo l’animo delle persone

Buona cultura d’impresa è anche capire a fondo le persone, costruire un sistema di relazioni positive tra loro, dare spazio al valore e ai valori delle donne e degli uomini con cui si lavora. Per farlo, la grande letteratura è indispensabile. Shakespeare, per esempio. E, tanto per citare una delle sue opere più significative, il “Re Lear”. Se ne è parlato martedì 22 gennaio, nel corso dell’incontro organizzato dalla HRCommunity Academy alla Fondazione Pirelli, su iniziativa dei responsabili delle Risorse Umane del gruppo: un approfondito dibattito tra dirigenti di aziende italiane e multinazionali di primo piano, esperti del settore, studiosi.

Perché Re Lear? Perché la tragedia di Shakespeare, al pari di moltissime delle sue opere, sa entrare nel profondo dell’animo delle persone, esplorarne il cuore di tenebra, rivelarne dimensioni inattese.

La storia è nota. Il sovrano decide di dividere il suo regno fra le tre figlie, sulla base dell’amore che ognuna di loro saprà dichiarare al padre. Le prime due, Goneril e Regan, si lasciano andare ad affermazioni intense, straordinarie. La terza, Cordelia, rifiuta la gara: la dichiarazione può essere falsa, la parola ingannare, mentre contano di più i fatti e la profondità dei sentimenti, anche non detti ma concretamente mostrati. Il re si indigna. La caccia di casa. E divide il regno tra le altre due. Si va verso la tragedia. Perché Goneril e Regan, ottenuti potere e ricchezze, maltrattano il padre, finito randagio, in esilio. E scontri di interessi lacerano le corti e i territori di Britannia e Francia. Sino alle morti.

La lezione? La vanità delle promesse. Il predominio dell’avidità in assenza di regole sagge e giuste. L’importanza di capire fino in fondo carattere, attitudini e valori delle persone. Il potere ha le sue dinamiche, in tutte le relazioni. Anche in un’impresa, naturalmente. Risente di regole, culture di fondo, attitudini e, appunto, valori. Facile, il precipizio. Necessari, al contrario, le costruzioni di lunghi sentieri virtuosi. Buona cultura d’impresa, appunto. Shakespearianamente.

Buona cultura d’impresa è anche capire a fondo le persone, costruire un sistema di relazioni positive tra loro, dare spazio al valore e ai valori delle donne e degli uomini con cui si lavora. Per farlo, la grande letteratura è indispensabile. Shakespeare, per esempio. E, tanto per citare una delle sue opere più significative, il “Re Lear”. Se ne è parlato martedì 22 gennaio, nel corso dell’incontro organizzato dalla HRCommunity Academy alla Fondazione Pirelli, su iniziativa dei responsabili delle Risorse Umane del gruppo: un approfondito dibattito tra dirigenti di aziende italiane e multinazionali di primo piano, esperti del settore, studiosi.

Perché Re Lear? Perché la tragedia di Shakespeare, al pari di moltissime delle sue opere, sa entrare nel profondo dell’animo delle persone, esplorarne il cuore di tenebra, rivelarne dimensioni inattese.

La storia è nota. Il sovrano decide di dividere il suo regno fra le tre figlie, sulla base dell’amore che ognuna di loro saprà dichiarare al padre. Le prime due, Goneril e Regan, si lasciano andare ad affermazioni intense, straordinarie. La terza, Cordelia, rifiuta la gara: la dichiarazione può essere falsa, la parola ingannare, mentre contano di più i fatti e la profondità dei sentimenti, anche non detti ma concretamente mostrati. Il re si indigna. La caccia di casa. E divide il regno tra le altre due. Si va verso la tragedia. Perché Goneril e Regan, ottenuti potere e ricchezze, maltrattano il padre, finito randagio, in esilio. E scontri di interessi lacerano le corti e i territori di Britannia e Francia. Sino alle morti.

La lezione? La vanità delle promesse. Il predominio dell’avidità in assenza di regole sagge e giuste. L’importanza di capire fino in fondo carattere, attitudini e valori delle persone. Il potere ha le sue dinamiche, in tutte le relazioni. Anche in un’impresa, naturalmente. Risente di regole, culture di fondo, attitudini e, appunto, valori. Facile, il precipizio. Necessari, al contrario, le costruzioni di lunghi sentieri virtuosi. Buona cultura d’impresa, appunto. Shakespearianamente.

“Buona comunità” e “buona pratica”

Si chiamano “comunità di pratica” e sono, di fatto, gruppi di persone accomunate da un interesse, una passione, dei problemi da risolvere e che, soprattutto, riescono ad interagire fra di loro in maniera positiva. Il concetto cerca di dare forma a molte realtà presenti anche in Italia, anche fra le imprese, specialmente fra quelle collocate in territori caratterizzati da una forte presenza di piccole entità, artigiane ma non solo. Possono rappresentare, queste comunità, una delle leve su cui fare forza per rilanciare la produzione e l’economia, superare la crisi. Perché producono non solo ricchezza in senso tradizionale, ma, soprattutto, conoscenza, saperi, evoluzione di quel saper fare che ha reso grande l’industria nazionale.

A studiare le “comunità di pratica” è anche Massimiliano Costa – professore di Economia della Formazione alla Ca’ Foscari di Venezia -, che nel suo “Le comunità di pratica per valorizzare la cultura d’impresa e i saperi del territorio” (apparso nei Quaderni di ricerca sull’artigianato della CGIA di Mestre), ne indaga origine e significato e ne individua – con una analisi dettagliata anche se non sempre facile -, le caratteristiche strutturali. Tutto partendo da una serie di studi che si rifanno ad esperienze concrete, anche dell’Italia industriale di oggi ma non solo, che fanno capo a settori d’eccellenza dell’artigianato e delle piccole impresa (l’abbigliamento, le calzature, l’elettronica).

Ne emerge un ritratto con alcuni punti fermi. Ad iniziare dalla condivisione del linguaggio, per passare ad un’identità condivisa, ad una capacità di negoziazione e di comprensione della pratica che contribuiscono, tutte insieme, alla nascita della comunità stessa. Costa, poi, guarda più da vicino queste formazioni e, d’accordo con altri studiosi, arriva a quelle che chiama “determinanti” delle “comunità di pratica”: tre elementi obbligatori senza i quali la comunità davvero non nasce nemmeno. Si tratta della reciprocità delle relazioni, della presenza di un patrimonio di conoscenze condivise e di un obiettivo comune. A ben vedere, esattamente ciò che si crea in tante imprese.

Ma perché le “comunità di pratica”  servono anche alle aziende e agli imprenditori? Per Costa, solo così questi ultimi possono diventare “contemporaneamente erogatori e destinatari degli apprendimenti manageriali”. E c’è anche di più. Attraverso queste entità è possibile, per esempio, ideare servizi di supporto alle piccole imprese, favorire la diffusione di reti, intensificare l’ICT e anche l’e-learning, favorire la creazione di reti di formazione  e di supporto per le giovani imprese. Attraverso di esse, si ricompone una cultura d’impresa a più facce e identità, propria della più bella Italia.

Le comunità di pratica per valorizzare la cultura d’impresa e i saperi del territorio

Massimiliano Costa

Quaderni di ricerca sull’artigianato, n. 47

CGIA – Mestre

Si chiamano “comunità di pratica” e sono, di fatto, gruppi di persone accomunate da un interesse, una passione, dei problemi da risolvere e che, soprattutto, riescono ad interagire fra di loro in maniera positiva. Il concetto cerca di dare forma a molte realtà presenti anche in Italia, anche fra le imprese, specialmente fra quelle collocate in territori caratterizzati da una forte presenza di piccole entità, artigiane ma non solo. Possono rappresentare, queste comunità, una delle leve su cui fare forza per rilanciare la produzione e l’economia, superare la crisi. Perché producono non solo ricchezza in senso tradizionale, ma, soprattutto, conoscenza, saperi, evoluzione di quel saper fare che ha reso grande l’industria nazionale.

A studiare le “comunità di pratica” è anche Massimiliano Costa – professore di Economia della Formazione alla Ca’ Foscari di Venezia -, che nel suo “Le comunità di pratica per valorizzare la cultura d’impresa e i saperi del territorio” (apparso nei Quaderni di ricerca sull’artigianato della CGIA di Mestre), ne indaga origine e significato e ne individua – con una analisi dettagliata anche se non sempre facile -, le caratteristiche strutturali. Tutto partendo da una serie di studi che si rifanno ad esperienze concrete, anche dell’Italia industriale di oggi ma non solo, che fanno capo a settori d’eccellenza dell’artigianato e delle piccole impresa (l’abbigliamento, le calzature, l’elettronica).

Ne emerge un ritratto con alcuni punti fermi. Ad iniziare dalla condivisione del linguaggio, per passare ad un’identità condivisa, ad una capacità di negoziazione e di comprensione della pratica che contribuiscono, tutte insieme, alla nascita della comunità stessa. Costa, poi, guarda più da vicino queste formazioni e, d’accordo con altri studiosi, arriva a quelle che chiama “determinanti” delle “comunità di pratica”: tre elementi obbligatori senza i quali la comunità davvero non nasce nemmeno. Si tratta della reciprocità delle relazioni, della presenza di un patrimonio di conoscenze condivise e di un obiettivo comune. A ben vedere, esattamente ciò che si crea in tante imprese.

Ma perché le “comunità di pratica”  servono anche alle aziende e agli imprenditori? Per Costa, solo così questi ultimi possono diventare “contemporaneamente erogatori e destinatari degli apprendimenti manageriali”. E c’è anche di più. Attraverso queste entità è possibile, per esempio, ideare servizi di supporto alle piccole imprese, favorire la diffusione di reti, intensificare l’ICT e anche l’e-learning, favorire la creazione di reti di formazione  e di supporto per le giovani imprese. Attraverso di esse, si ricompone una cultura d’impresa a più facce e identità, propria della più bella Italia.

Le comunità di pratica per valorizzare la cultura d’impresa e i saperi del territorio

Massimiliano Costa

Quaderni di ricerca sull’artigianato, n. 47

CGIA – Mestre

Come cooperare e quindi produrre meglio?

Undici strade per arrivare a cooperare di più, dare vita ad un’economia e una produzione diverse, guardare in maniera differente l’impresa, i mercati, la persona, lo stare insieme. Un libro che è un sperimento, una corsa a perdifiato nei labirinti dell’economia accompagnati da undici penne diverse: economisti, naturalmente, ma anche filosofi, giuristi, sociologi, studiosi di letteratura. “Del cooperare. Manifesto per una nuova economia”, è tutto questo, ma soprattutto è il tentativo – in buona parte riuscito – di aprire undici squarci di positività in un mondo che, all’apparenza, di positivo ha ben poco.

In poco meno di 200 pagine, il testo (pubblicato da Feltrinelli insieme a Vita, il magazine del non profit italiano), tenta di rispondere ad una domanda: come possiamo fare per vivere meglio insieme? Sotto ogni punto di vista, a partire, però, dall’economia, cioè da quella parte del vivere comune che, che piaccia o no, condiziona buona parte del resto.

Gli undici capitoli – uno per ogni autore che ha partecipato all’impresa – guardano quindi ad una particolare declinazione dell’economia: del credere, dell’io, del noi, del dono, del generare, della solidarietà, del gesto, della cura, del cooperare (naturalmente), del comunicare, dei “commons”. Non si tratta di un viaggio melenso e sulle nuvole, ma di un’analisi effettuata con stili diversi ma puntuali, che indaga territori particolari della produzione, della finanza, della moneta, del mercato assumendo sempre come assunto di base quanto posto nella premessa al volume: “Un sapere tecnico, da solo, non basta mai. Non basta agli uomini, non basta alle cose, non basta alla loro economia, non basta al mondo. Nell’epoca del grande disincanto, c’è infatti tutto un mondo da reincantare, là fuori”. Dove con reincantare non si vuole dire “prendere in giro nuovamente”, “reingannare”, ma, al contrario, trovare nuovi spunti per guardare avanti, risolvere i problemi, lavorare insieme.

Non è forse per caso che il volume si apre con un breve saggio sull’economia del credere (in cui si dice che non si può andare avanti senza fede, ma non quella religiosa, bensì quella che in qualche modo indica fiducia nel futuro), e si conclude con un premio Nobel che racconta l’economia dei “commons”, cioè dei beni comuni, delle risorse che sono di tutti e che valgono per tutti.

Del cooperare. Manifesto per una nuova economia

Autori Vari (G. Agamben, P. Barcellona, L. Becchetti, A. Brandalise, P. Dacrema, L. De Biase, M. Magatti, E. Ostrom, S. Petrosino, G. Sapelli, S. Zamagni)

Vita-Feltrinelli, 2012.

Undici strade per arrivare a cooperare di più, dare vita ad un’economia e una produzione diverse, guardare in maniera differente l’impresa, i mercati, la persona, lo stare insieme. Un libro che è un sperimento, una corsa a perdifiato nei labirinti dell’economia accompagnati da undici penne diverse: economisti, naturalmente, ma anche filosofi, giuristi, sociologi, studiosi di letteratura. “Del cooperare. Manifesto per una nuova economia”, è tutto questo, ma soprattutto è il tentativo – in buona parte riuscito – di aprire undici squarci di positività in un mondo che, all’apparenza, di positivo ha ben poco.

In poco meno di 200 pagine, il testo (pubblicato da Feltrinelli insieme a Vita, il magazine del non profit italiano), tenta di rispondere ad una domanda: come possiamo fare per vivere meglio insieme? Sotto ogni punto di vista, a partire, però, dall’economia, cioè da quella parte del vivere comune che, che piaccia o no, condiziona buona parte del resto.

Gli undici capitoli – uno per ogni autore che ha partecipato all’impresa – guardano quindi ad una particolare declinazione dell’economia: del credere, dell’io, del noi, del dono, del generare, della solidarietà, del gesto, della cura, del cooperare (naturalmente), del comunicare, dei “commons”. Non si tratta di un viaggio melenso e sulle nuvole, ma di un’analisi effettuata con stili diversi ma puntuali, che indaga territori particolari della produzione, della finanza, della moneta, del mercato assumendo sempre come assunto di base quanto posto nella premessa al volume: “Un sapere tecnico, da solo, non basta mai. Non basta agli uomini, non basta alle cose, non basta alla loro economia, non basta al mondo. Nell’epoca del grande disincanto, c’è infatti tutto un mondo da reincantare, là fuori”. Dove con reincantare non si vuole dire “prendere in giro nuovamente”, “reingannare”, ma, al contrario, trovare nuovi spunti per guardare avanti, risolvere i problemi, lavorare insieme.

Non è forse per caso che il volume si apre con un breve saggio sull’economia del credere (in cui si dice che non si può andare avanti senza fede, ma non quella religiosa, bensì quella che in qualche modo indica fiducia nel futuro), e si conclude con un premio Nobel che racconta l’economia dei “commons”, cioè dei beni comuni, delle risorse che sono di tutti e che valgono per tutti.

Del cooperare. Manifesto per una nuova economia

Autori Vari (G. Agamben, P. Barcellona, L. Becchetti, A. Brandalise, P. Dacrema, L. De Biase, M. Magatti, E. Ostrom, S. Petrosino, G. Sapelli, S. Zamagni)

Vita-Feltrinelli, 2012.

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