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Governance della vita insieme

L’analisi sintetica di uno dei concetti più usati e abusati ne chiarisce l’importanza e il ruolo

 

“Governare”, ma anche gestire, prendersi cura, porre attenzione. Nei confronti di un territorio, di un’impresa, di una comunità. Mettere in pratica, insomma, una governance. Il  vocabolo è complesso – seppure ormai di uso comune – e nasconde molteplici interpretazioni; ad esso occorre accostarsi con attenzione. E’ quanto fa Alfio Mastropaolo (del Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino), in un suo articolo apparso recentemente sui Quaderni di Sociologia.

Mastropaolo scrive commentando un libro pubblicato in Francia e tradotto poi in Italia, ma quanto espone vale indipendentemente dal motivo che ha originato l’articolo.

Spiega all’inizio l’autore: “Il compito assegnato alle parole, e ai concetti, è sempre arduo. Sono tra le tante invenzioni con cui gli esseri umani cercano di ordinare, semplificare e governare il mondo intorno a sé. Non sono pacifici. Parole e concetti sono imposti in vario modo da alcuni ad altri. Ci sono addetti professionali che se ne prendono cura, ma questo non ne semplifica il destino. Soprattutto parole e concetti non sono univoci. Molti hanno una pluralità di significati, spesso incoerenti. In più, cambiano facilmente. Destinati a mettere ordine, i dizionari di rado vi riescono. Intanto perché i dizionari sono tanti. In secondo luogo, perché neanche l’autorità dei dizionari pacifica i significati. Se c’è un termine da ultimo usato e abusato, che di significati ne ha pure troppi, è quello di governance”.

Mastropaolo quindi sintetizza i diversi ambiti nei quali governance  viene usato e aggiunge: “La governance segna un trapasso: indica un movimento che intende archiviare la plurisecolare tradizione di governo attraverso lo Stato e fondata sui principi di sovranità e autorità e soppiantarla con una tecnica alternativa di conduzione della vita associata”. Ciò che conta ancora di più, spiega poi l’autore, è il carattere “misto” (pubblico/privato), delle situazioni di governo del territorio alle quali la governance  dà vita. Cura della comunità, quindi, con la partecipazione di tutti gli attori che di questa fanno parte, anche le imprese (private ma non solo), che in qualche modo inseriscono nella propria cultura del produrre anche l’attenzione a quanto accade oltre i cancelli della fabbrica.

L’intervento di Alfio Mastropaolo ha un grande merito: riassume in poco spazio un un insieme di concetti non facile e intersecantesi fra di loro. Una buona lettura.

Significati, utilizzi e fortune del concetto di governance

Alfio Mastropaolo

Quaderni di Sociologia, 76-2018

L’analisi sintetica di uno dei concetti più usati e abusati ne chiarisce l’importanza e il ruolo

 

“Governare”, ma anche gestire, prendersi cura, porre attenzione. Nei confronti di un territorio, di un’impresa, di una comunità. Mettere in pratica, insomma, una governance. Il  vocabolo è complesso – seppure ormai di uso comune – e nasconde molteplici interpretazioni; ad esso occorre accostarsi con attenzione. E’ quanto fa Alfio Mastropaolo (del Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino), in un suo articolo apparso recentemente sui Quaderni di Sociologia.

Mastropaolo scrive commentando un libro pubblicato in Francia e tradotto poi in Italia, ma quanto espone vale indipendentemente dal motivo che ha originato l’articolo.

Spiega all’inizio l’autore: “Il compito assegnato alle parole, e ai concetti, è sempre arduo. Sono tra le tante invenzioni con cui gli esseri umani cercano di ordinare, semplificare e governare il mondo intorno a sé. Non sono pacifici. Parole e concetti sono imposti in vario modo da alcuni ad altri. Ci sono addetti professionali che se ne prendono cura, ma questo non ne semplifica il destino. Soprattutto parole e concetti non sono univoci. Molti hanno una pluralità di significati, spesso incoerenti. In più, cambiano facilmente. Destinati a mettere ordine, i dizionari di rado vi riescono. Intanto perché i dizionari sono tanti. In secondo luogo, perché neanche l’autorità dei dizionari pacifica i significati. Se c’è un termine da ultimo usato e abusato, che di significati ne ha pure troppi, è quello di governance”.

Mastropaolo quindi sintetizza i diversi ambiti nei quali governance  viene usato e aggiunge: “La governance segna un trapasso: indica un movimento che intende archiviare la plurisecolare tradizione di governo attraverso lo Stato e fondata sui principi di sovranità e autorità e soppiantarla con una tecnica alternativa di conduzione della vita associata”. Ciò che conta ancora di più, spiega poi l’autore, è il carattere “misto” (pubblico/privato), delle situazioni di governo del territorio alle quali la governance  dà vita. Cura della comunità, quindi, con la partecipazione di tutti gli attori che di questa fanno parte, anche le imprese (private ma non solo), che in qualche modo inseriscono nella propria cultura del produrre anche l’attenzione a quanto accade oltre i cancelli della fabbrica.

L’intervento di Alfio Mastropaolo ha un grande merito: riassume in poco spazio un un insieme di concetti non facile e intersecantesi fra di loro. Una buona lettura.

Significati, utilizzi e fortune del concetto di governance

Alfio Mastropaolo

Quaderni di Sociologia, 76-2018

Un racconto d’impresa

La storia della Callipo di Pizzo in Calabria non è un manuale di management ma può insegnare ugualmente molto

Ogni impresa ha una sua storia. E ogni storia va raccontata. E quando questa storia è bella e interessante, quando dice qualcosa a chi la ascolta, allora vale ancora di più l’impegno di raccontarla. E’ il caso della Callipo di Pizzo in Calabria, azienda di lavorazione del tonno (ma non solo), che nel 2013 ha compiuto cento anni e le cui vicende sono state descritte, con dovizia di parole e immagini, da Gianfranco Manfredi nel suo “Callipo dal 1913” pubblicato da poco.
Quella della Callipo (oggi Giacinto Callipo Conserve Alimentari), è una storia centenaria che ha inizio appunto nel 1913, quando il fondatore, Giacinto, avvia un’attività, prima in Calabria e tra le prime in Italia, di lavorazione e conservazione del Tonno del Mediterraneo. L’azienda, oggi parte di un gruppo composto da 6 società con attività diversificate, è guidata da uno dei discendenti (Filippo Callipo) insieme con i figli. Lungo il secolo, cinque generazioni di imprenditori che sono riusciti a conciliare tradizione con resistenza sul mercato (fatta anche da un’innovazione accorta), creando così un marchio che è diventato uno dei “volti nobili” del Mezzogiorno italiano.
Testi, dunque, è soprattutto immagini, che epoca dopo epoca cercano di far capire quanto sia intimo il legame fra famiglia (i Callipo, appunto) e impresa e fra questa e chi vi lavora. Sulla scorta di scatti d’epoca e di documenti, dunque, Manfredi scrive un libro che non è un manuale di buona gestione d’impresa, e non è nemmeno una storia di una famiglia. “Callipo dal 1913” è un po’ l’una e l’altra cosa: libro buono per insegnare a gestire un’organizzazione della produzione, ma libro altrettanto buono per apprendere qualcosa di un territorio e di comparto (la Calabria e l’alimentare), certamente difficili ma non per questo da trascurare.
Nel sintetizzare il libro, ha ragione l’editore che ha scritto: “Prima che una storia di impresa, questo volume è una storia di valori, di visione e di saper fare. Una presenza di lunga durata che ha sempre messo al centro le persone, il territorio, l’eccellenza”. Buona impresa italiana, insomma, e buona cultura d’impresa.

Callipo dal 1913
Gianfranco Manfredi
Rubbettino, 2019

La storia della Callipo di Pizzo in Calabria non è un manuale di management ma può insegnare ugualmente molto

Ogni impresa ha una sua storia. E ogni storia va raccontata. E quando questa storia è bella e interessante, quando dice qualcosa a chi la ascolta, allora vale ancora di più l’impegno di raccontarla. E’ il caso della Callipo di Pizzo in Calabria, azienda di lavorazione del tonno (ma non solo), che nel 2013 ha compiuto cento anni e le cui vicende sono state descritte, con dovizia di parole e immagini, da Gianfranco Manfredi nel suo “Callipo dal 1913” pubblicato da poco.
Quella della Callipo (oggi Giacinto Callipo Conserve Alimentari), è una storia centenaria che ha inizio appunto nel 1913, quando il fondatore, Giacinto, avvia un’attività, prima in Calabria e tra le prime in Italia, di lavorazione e conservazione del Tonno del Mediterraneo. L’azienda, oggi parte di un gruppo composto da 6 società con attività diversificate, è guidata da uno dei discendenti (Filippo Callipo) insieme con i figli. Lungo il secolo, cinque generazioni di imprenditori che sono riusciti a conciliare tradizione con resistenza sul mercato (fatta anche da un’innovazione accorta), creando così un marchio che è diventato uno dei “volti nobili” del Mezzogiorno italiano.
Testi, dunque, è soprattutto immagini, che epoca dopo epoca cercano di far capire quanto sia intimo il legame fra famiglia (i Callipo, appunto) e impresa e fra questa e chi vi lavora. Sulla scorta di scatti d’epoca e di documenti, dunque, Manfredi scrive un libro che non è un manuale di buona gestione d’impresa, e non è nemmeno una storia di una famiglia. “Callipo dal 1913” è un po’ l’una e l’altra cosa: libro buono per insegnare a gestire un’organizzazione della produzione, ma libro altrettanto buono per apprendere qualcosa di un territorio e di comparto (la Calabria e l’alimentare), certamente difficili ma non per questo da trascurare.
Nel sintetizzare il libro, ha ragione l’editore che ha scritto: “Prima che una storia di impresa, questo volume è una storia di valori, di visione e di saper fare. Una presenza di lunga durata che ha sempre messo al centro le persone, il territorio, l’eccellenza”. Buona impresa italiana, insomma, e buona cultura d’impresa.

Callipo dal 1913
Gianfranco Manfredi
Rubbettino, 2019

La buona reputazione delle imprese italiane merita una migliore politica industriale

Campioni di buona reputazione. Ci sono cinque aziende italiane tra le prime quaranta al mondo nella classifica Rep Track 2019 del Reputation Institute: Ferrero, Pirelli, Armani, Barilla e Lavazza. Confermano che il “made in Italy” fatto da qualità, tecnologia, gusto, visione internazionale ma anche profonda identità storica e culturale della migliore manifattura sono valori vincenti, capaci di produrre valore per gli azionisti ma soprattutto consenso di mercati e stakeholders.

Al primo posto della classifica mondiale c’è Rolex. Poi Lego e Walt Disney. Ancora dopo, Adidas, Microsoft, Sony, Canon, Michelin, Netflix e Bosch. La prima delle italiane è Ferrero, al 19° posto. Pirelli è al 23°, seguita da Armani. 31° Barilla, 38° Lavazza (con un recupero di ben undici posizioni rispetto all’anno precedente). La classifica è stilata raccogliendo più di 230mila valutazioni individuali nel gennaio 2019 e misurando così la reputazione di circa 10mila aziende in 15 mercati diversi: giudizi comparativi, trend di mercato, affidabilità dei brand, riconoscimenti per comportamenti aziendali e qualità e corrispondenza dei prodotti alle comunicazioni rivolte a consumatori e investitori.

La reputazione, naturalmente, ha effetti anche sul business delle imprese positivamente riconosciute: nasce dal rapporto con tutti gli interlocutori (fornitori, clienti, investitori, lavoratori, comunità in cui si manifesta la presenza aziendale, produttiva o commerciale), influenza nuovi consumi, stimola investimenti. E’ un termometro di fiducia e attrattività, anche per le nuove generazioni che cercano aziende in cui è bello andare a lavorare.

La conferma e il miglioramento della reputazione delle imprese italiane è una buona notizia, in tempi così difficili e controversi di recessione. L’Ocse teme per l’Italia nel 2019 una crescita sotto zero, -0,2% per l’esattezza, in un quadro generale di rallentamento dell’economia mondiale, la Banca d’Italia parla di “rischi veri per l’economia”, altri autorevoli osservatori economici concordano su una tendenza che oscilla tra recessione e stagnazione. Il governo giallo-verde aveva calcolato invece l’1%, con una previsione clamorosamente irrealistica.

Eppure, nonostante tutto, le imprese più dinamiche si muovono, crescono, confermano la fiducia di consumatori e investitori internazionali, dicono che la partita dello sviluppo è tutt’altro che persa. A patto che esistano scelte di governo per la politica economica e la politica industriale che tengano accesi i motori della crescita, tutto il contrario cioè di quello che la maggioranza Lega-M5S a Palazzo Chigi sta facendo.

Cosa dicono ancora i risultati della classifica del Reputation Institute? Siamo di fronte a cinque multinazionali italiane forti di un’ampia presenza sui mercati del mondo, ma anche di un robusto radicamento nei territori d’origine (Alba e il Piemonte, Milano, Parma, Torino) che garantisce una solida cultura d’impresa capace di fare sintesi sempre originali tra memoria e innovazione, investendo molto in ricerca e sviluppo e mostrando sofisticate capacità di fare comunicazione riconoscibile, essenziale per rafforzare la fiducia. Sono imprese capaci di crescere secondo i paradigmi della “fabbrica bella” e cioè ben progettata, accogliente, luminosa, sicura, ambientalmente e socialmente sostenibile (ne sono esempio lo stabilimento hi tech Pirelli a Settimo Torinese progettato da Renzo Piano e l’esemplare stabilimento Lavazza, sempre a Settimo). Gruppi manifatturieri che da gran tempo considerano la sostenibilità come leva fondamentale della competitività.

Sono imprese, insomma, attente a costruire supply chain ricche di piccole e medie imprese, stimolando così un allargamento dell’innovazione e della produttività. Grandi imprese come principale motore economico di ampi tessuti industriali, tutto il contrario cioè della retorica del “piccolo è bello” e del privilegio delle micro imprese contrapposte alle grandi che caratterizza le scelte governative.

Le cinque aziende nella “Top 40” per alta reputazione sono, naturalmente, eccellenze. Ma tutt’altro che casi isolati. Chi conosce il mondo dell’industria e dei servizi collegati sa bene che anche in questi anni difficili moltissime imprese hanno investito, innovato, puntato sulla qualità e sui prodotti d’alta gamma, fatto ricerca in accordo con le università, conquistato spazi sui mercati internazionali. Hanno creato occupazione e, contemporaneamente, garantito un migliore benessere diffuso, non solo per i loro dipendenti, ma anche per i territori legati agli stabilimenti produttivi, con originali forme di welfare aziendale. Sono state all’altezza elle sfide digitali di “Industria 4.0” e fatto da motore fondamentale per la ripresa economica.

Meritano dunque attenzione, fiducia, politiche fiscali che continuino a stimolare l’innovazione (proprio quei provvedimenti che in governi diversi, di centro destra e di centro sinistra, hanno consentito la crescita economica) e infrastrutture materiali (ferrovie, autostrade, porti, sistemi logistici, etc.) e immateriali (reti digitali, investimenti in ricerca e formazione). Una politica industriale, appunto. Proprio quella che sinora il governo Conte e i suoi ministri non hanno fatto.

Campioni di buona reputazione. Ci sono cinque aziende italiane tra le prime quaranta al mondo nella classifica Rep Track 2019 del Reputation Institute: Ferrero, Pirelli, Armani, Barilla e Lavazza. Confermano che il “made in Italy” fatto da qualità, tecnologia, gusto, visione internazionale ma anche profonda identità storica e culturale della migliore manifattura sono valori vincenti, capaci di produrre valore per gli azionisti ma soprattutto consenso di mercati e stakeholders.

Al primo posto della classifica mondiale c’è Rolex. Poi Lego e Walt Disney. Ancora dopo, Adidas, Microsoft, Sony, Canon, Michelin, Netflix e Bosch. La prima delle italiane è Ferrero, al 19° posto. Pirelli è al 23°, seguita da Armani. 31° Barilla, 38° Lavazza (con un recupero di ben undici posizioni rispetto all’anno precedente). La classifica è stilata raccogliendo più di 230mila valutazioni individuali nel gennaio 2019 e misurando così la reputazione di circa 10mila aziende in 15 mercati diversi: giudizi comparativi, trend di mercato, affidabilità dei brand, riconoscimenti per comportamenti aziendali e qualità e corrispondenza dei prodotti alle comunicazioni rivolte a consumatori e investitori.

La reputazione, naturalmente, ha effetti anche sul business delle imprese positivamente riconosciute: nasce dal rapporto con tutti gli interlocutori (fornitori, clienti, investitori, lavoratori, comunità in cui si manifesta la presenza aziendale, produttiva o commerciale), influenza nuovi consumi, stimola investimenti. E’ un termometro di fiducia e attrattività, anche per le nuove generazioni che cercano aziende in cui è bello andare a lavorare.

La conferma e il miglioramento della reputazione delle imprese italiane è una buona notizia, in tempi così difficili e controversi di recessione. L’Ocse teme per l’Italia nel 2019 una crescita sotto zero, -0,2% per l’esattezza, in un quadro generale di rallentamento dell’economia mondiale, la Banca d’Italia parla di “rischi veri per l’economia”, altri autorevoli osservatori economici concordano su una tendenza che oscilla tra recessione e stagnazione. Il governo giallo-verde aveva calcolato invece l’1%, con una previsione clamorosamente irrealistica.

Eppure, nonostante tutto, le imprese più dinamiche si muovono, crescono, confermano la fiducia di consumatori e investitori internazionali, dicono che la partita dello sviluppo è tutt’altro che persa. A patto che esistano scelte di governo per la politica economica e la politica industriale che tengano accesi i motori della crescita, tutto il contrario cioè di quello che la maggioranza Lega-M5S a Palazzo Chigi sta facendo.

Cosa dicono ancora i risultati della classifica del Reputation Institute? Siamo di fronte a cinque multinazionali italiane forti di un’ampia presenza sui mercati del mondo, ma anche di un robusto radicamento nei territori d’origine (Alba e il Piemonte, Milano, Parma, Torino) che garantisce una solida cultura d’impresa capace di fare sintesi sempre originali tra memoria e innovazione, investendo molto in ricerca e sviluppo e mostrando sofisticate capacità di fare comunicazione riconoscibile, essenziale per rafforzare la fiducia. Sono imprese capaci di crescere secondo i paradigmi della “fabbrica bella” e cioè ben progettata, accogliente, luminosa, sicura, ambientalmente e socialmente sostenibile (ne sono esempio lo stabilimento hi tech Pirelli a Settimo Torinese progettato da Renzo Piano e l’esemplare stabilimento Lavazza, sempre a Settimo). Gruppi manifatturieri che da gran tempo considerano la sostenibilità come leva fondamentale della competitività.

Sono imprese, insomma, attente a costruire supply chain ricche di piccole e medie imprese, stimolando così un allargamento dell’innovazione e della produttività. Grandi imprese come principale motore economico di ampi tessuti industriali, tutto il contrario cioè della retorica del “piccolo è bello” e del privilegio delle micro imprese contrapposte alle grandi che caratterizza le scelte governative.

Le cinque aziende nella “Top 40” per alta reputazione sono, naturalmente, eccellenze. Ma tutt’altro che casi isolati. Chi conosce il mondo dell’industria e dei servizi collegati sa bene che anche in questi anni difficili moltissime imprese hanno investito, innovato, puntato sulla qualità e sui prodotti d’alta gamma, fatto ricerca in accordo con le università, conquistato spazi sui mercati internazionali. Hanno creato occupazione e, contemporaneamente, garantito un migliore benessere diffuso, non solo per i loro dipendenti, ma anche per i territori legati agli stabilimenti produttivi, con originali forme di welfare aziendale. Sono state all’altezza elle sfide digitali di “Industria 4.0” e fatto da motore fondamentale per la ripresa economica.

Meritano dunque attenzione, fiducia, politiche fiscali che continuino a stimolare l’innovazione (proprio quei provvedimenti che in governi diversi, di centro destra e di centro sinistra, hanno consentito la crescita economica) e infrastrutture materiali (ferrovie, autostrade, porti, sistemi logistici, etc.) e immateriali (reti digitali, investimenti in ricerca e formazione). Una politica industriale, appunto. Proprio quella che sinora il governo Conte e i suoi ministri non hanno fatto.

InsideEdu: a lezione di Comunicazione Visiva in Fondazione Pirelli

Proseguono le video-interviste agli studenti in visita alla Fondazione Pirelli per il progetto InsideEdu che dà voce ai bambini e ai ragazzi che partecipano alle attività didattiche del programma Fondazione Pirelli Educational.

I ragazzi sono stati ripresi durante il percorso educativo “Una P lunga quasi 150 anni” per far conoscere anche ai più giovani la storia della comunicazione visiva di Pirelli attraverso la visione diretta di bozzetti e materiali pubblicitari originali e tramite un laboratorio che porta alla realizzazione di un vero e proprio filmato pubblicitario animato creato con la tecnica dello stop-motion. Per l’occasione gli armadi e i cassetti dell’Archivio Storico Pirelli sono stati aperti per mostrare alle scuole una selezione del ricco patrimonio della sezione dedicata alla comunicazione, composta da oltre 565 disegni e bozzetti originali, da oltre 2000 esecutivi di stampa e oltre 4000 pubblicità a stampa. Questo materiale testimonia la feconda collaborazione di Pirelli con grafici e designer del calibro di Lora Lamm, Alessandro Mendini, Bruno Munari, Bob Noorda e Armando Testa – per citarne alcuni – o agenzie pubblicitarie come l’Agenzia Centro e Young & Rubicam.

Con la mediazione dello staff di Fondazione Pirelli Educational, durante il laboratorio ogni pubblicità è stata osservata e analizzata dagli studenti che ne hanno evidenziato la tecnica esecutiva di realizzazione, lo slogan e il linguaggio visivo scelto dall’artista. I ragazzi hanno potuto anche vedere le trasformazioni che hanno interessato il logo di Pirelli, dalla prima attestazione per un segnalibro del 1907 ai brand Book degli anni Ottanta e Novanta.

Tra i materiali che più hanno suscitato l’interesse dei ragazzi il bozzetto per il film pubblicitario Novità al Salone Internazionale dell’Auto di Torino realizzato dai disegnatori della casa di Produzione Pagot Film nel 1951 con la tecnica del rodovetro per pubblicizzare il Cinturato Pirelli. Gli studenti, tramite la visione diretta di questo documento storico hanno scoperto così come si realizzava un film d’animazione prima dell’esistenza del computer e dei programmi digitali oggi in uso.

Il rodovetro, e più in generale la visione di storiche pubblicità e fruibili anche tramite una video installazione negli spazi della Fondazione Pirelli, sono diventati il punto di partenza per il laboratorio conclusivo del percorso che ha visto i ragazzi impegnati a creare una nuova pubblicità animata per il “pneumatico con la P maiuscola”, grazie all’uso di un’app e di strumenti multimediali.

Conoscere il lavoro che sta alla base della realizzazione di una campagna pubblicitaria e confrontarsi con celebri grafici del passato più lontano e più recente, costituisce una possibile fonte di ispirazione per gli studenti che vorranno intraprendere la carriera di graphic designer o di art director.

Proseguono le video-interviste agli studenti in visita alla Fondazione Pirelli per il progetto InsideEdu che dà voce ai bambini e ai ragazzi che partecipano alle attività didattiche del programma Fondazione Pirelli Educational.

I ragazzi sono stati ripresi durante il percorso educativo “Una P lunga quasi 150 anni” per far conoscere anche ai più giovani la storia della comunicazione visiva di Pirelli attraverso la visione diretta di bozzetti e materiali pubblicitari originali e tramite un laboratorio che porta alla realizzazione di un vero e proprio filmato pubblicitario animato creato con la tecnica dello stop-motion. Per l’occasione gli armadi e i cassetti dell’Archivio Storico Pirelli sono stati aperti per mostrare alle scuole una selezione del ricco patrimonio della sezione dedicata alla comunicazione, composta da oltre 565 disegni e bozzetti originali, da oltre 2000 esecutivi di stampa e oltre 4000 pubblicità a stampa. Questo materiale testimonia la feconda collaborazione di Pirelli con grafici e designer del calibro di Lora Lamm, Alessandro Mendini, Bruno Munari, Bob Noorda e Armando Testa – per citarne alcuni – o agenzie pubblicitarie come l’Agenzia Centro e Young & Rubicam.

Con la mediazione dello staff di Fondazione Pirelli Educational, durante il laboratorio ogni pubblicità è stata osservata e analizzata dagli studenti che ne hanno evidenziato la tecnica esecutiva di realizzazione, lo slogan e il linguaggio visivo scelto dall’artista. I ragazzi hanno potuto anche vedere le trasformazioni che hanno interessato il logo di Pirelli, dalla prima attestazione per un segnalibro del 1907 ai brand Book degli anni Ottanta e Novanta.

Tra i materiali che più hanno suscitato l’interesse dei ragazzi il bozzetto per il film pubblicitario Novità al Salone Internazionale dell’Auto di Torino realizzato dai disegnatori della casa di Produzione Pagot Film nel 1951 con la tecnica del rodovetro per pubblicizzare il Cinturato Pirelli. Gli studenti, tramite la visione diretta di questo documento storico hanno scoperto così come si realizzava un film d’animazione prima dell’esistenza del computer e dei programmi digitali oggi in uso.

Il rodovetro, e più in generale la visione di storiche pubblicità e fruibili anche tramite una video installazione negli spazi della Fondazione Pirelli, sono diventati il punto di partenza per il laboratorio conclusivo del percorso che ha visto i ragazzi impegnati a creare una nuova pubblicità animata per il “pneumatico con la P maiuscola”, grazie all’uso di un’app e di strumenti multimediali.

Conoscere il lavoro che sta alla base della realizzazione di una campagna pubblicitaria e confrontarsi con celebri grafici del passato più lontano e più recente, costituisce una possibile fonte di ispirazione per gli studenti che vorranno intraprendere la carriera di graphic designer o di art director.

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Buona etica, buona impresa

Le relazioni fra business ethics e gestione aziendale raccontate dal punto di vista storico e applicativo

 

Etica d’impresa. Tratto solo in apparenza “moderno”, quello dell’eticità del condurre un processo produttivo è in realtà condizione non nuova sia nelle analisi teoriche che nella pratica. Oltre e prima delle grandi crisi economiche, insomma, l’eticità del produrre e del fare impresa è, in qualche modo, sempre esistita. Per rendersene conto – e per rinfrescare strumenti utili analisi anche delle imprese dell’oggi -, è bello leggere l’editoriale di Gianfranco Rusconi (“Business ethics ed etica aziendale”) ad uno degli ultimi numeri di Impresa Progetto – Electronic Journal of Management. Il brano, infatti, è una sorta di piccolo vademecum sull’etica d’impresa, scritto con linearità e quindi di facile lettura.

Lo stesso autore spiega all’inizio che l’intento del testo è quello di presentare “alcune riflessioni sulla diffusione, avvenuta negli ultimi decenni, di studi, discorsi e applicazioni della business ethics”. Con una premessa che viene subito sottolineata all’inizio del lavoro: l’etica d’impresa non è cosa nuova, ma fa parte della migliore tradizione italiana di studio (e di pratica) della gestione d’impresa nel nostro Paese.

L’articolo prende quindi in considerazione prima la storia,    la natura e lo sviluppo della    business ethics, poi le opportunità e le criticità dell’etica d’impresa guardando soprattutto alle relazioni fra l’interno e l’esterno della stessa.

La conclusione di Rusconi è importante. “La maggiore responsabilizzazione etica degli stakeholder, ciascuno in relazione al suo peso e dimensione qualitativa (qualità della vita lavorativa, ambiente di lavoro e naturale, ecc.) e quantitativa (dividendi, salari, redditività, imposte ecc.), può essere utile anche in termini di competizione e sviluppo dell’azienda, comportando sia una maggiore consapevolezza della propria situazione e delle interrelazioni ad essa connesse, sia una più ampia conoscenza da parte dei manager/imprenditori dio ciò che accade in modo esplicito, implicito o latente nel sistema molto complesso che devono guidare”.

Business ethics ed etica aziendale

Gianfranco Rusconi

Editoriale a Impresa Progetto – Electronic Journal of Management, n. 3, 2018

Le relazioni fra business ethics e gestione aziendale raccontate dal punto di vista storico e applicativo

 

Etica d’impresa. Tratto solo in apparenza “moderno”, quello dell’eticità del condurre un processo produttivo è in realtà condizione non nuova sia nelle analisi teoriche che nella pratica. Oltre e prima delle grandi crisi economiche, insomma, l’eticità del produrre e del fare impresa è, in qualche modo, sempre esistita. Per rendersene conto – e per rinfrescare strumenti utili analisi anche delle imprese dell’oggi -, è bello leggere l’editoriale di Gianfranco Rusconi (“Business ethics ed etica aziendale”) ad uno degli ultimi numeri di Impresa Progetto – Electronic Journal of Management. Il brano, infatti, è una sorta di piccolo vademecum sull’etica d’impresa, scritto con linearità e quindi di facile lettura.

Lo stesso autore spiega all’inizio che l’intento del testo è quello di presentare “alcune riflessioni sulla diffusione, avvenuta negli ultimi decenni, di studi, discorsi e applicazioni della business ethics”. Con una premessa che viene subito sottolineata all’inizio del lavoro: l’etica d’impresa non è cosa nuova, ma fa parte della migliore tradizione italiana di studio (e di pratica) della gestione d’impresa nel nostro Paese.

L’articolo prende quindi in considerazione prima la storia,    la natura e lo sviluppo della    business ethics, poi le opportunità e le criticità dell’etica d’impresa guardando soprattutto alle relazioni fra l’interno e l’esterno della stessa.

La conclusione di Rusconi è importante. “La maggiore responsabilizzazione etica degli stakeholder, ciascuno in relazione al suo peso e dimensione qualitativa (qualità della vita lavorativa, ambiente di lavoro e naturale, ecc.) e quantitativa (dividendi, salari, redditività, imposte ecc.), può essere utile anche in termini di competizione e sviluppo dell’azienda, comportando sia una maggiore consapevolezza della propria situazione e delle interrelazioni ad essa connesse, sia una più ampia conoscenza da parte dei manager/imprenditori dio ciò che accade in modo esplicito, implicito o latente nel sistema molto complesso che devono guidare”.

Business ethics ed etica aziendale

Gianfranco Rusconi

Editoriale a Impresa Progetto – Electronic Journal of Management, n. 3, 2018

Concreta cultura d’impresa

Un racconto di storia d’azienda, svela il connubio positivo fra vita e lavoro

Le imprese sono luoghi di lavoro (anche duro), ma possono diventare luoghi di vita a tutto tondo. Fucine di storie oltre che di fatica. Fonti di ricchezza materiale ma anche di qualcosa di più. Non tutte, certamente, ma molte sicuramente. E’ il caso delle fabbriche del Gruppo Mastrotto, azienda di primo piano nel mondo in fatto di lavorazione della pelle che, con chi l’ha creata e chi l’ha fatta crescere e vivere, è finita per essere protagonista di un libro fra il racconto d’impresa e il romanzo.
“Dalla pelle al cuore. Storie di vita e d’impresa del Gruppo Mastrotto” è l’ultimo libro (pubblicato quest’anno) di Alessandro Zaltron e deve essere letto come un racconto di vita d’impresa che diventa anche manuale di buona gestione.
“La piattaforma da cui si parte per raccontare la storia del Gruppo Mastrotto – viene subito detto -, è tutta umana e fatta di sentimento e cervello, di famiglia e amicizia, di relazioni locali e storie domestiche, di macchinari antichi e idee analogiche”. Scritto in occasione dei sessant’anni del gruppo, il libro ripercorre capitolo per capitolo la vita aziendale di qualcosa che adesso è stato definito come una “multinazionale tascabile”, ma che più semplicemente (o se si vuole più concretamente), è il frutto dell’ingegno imprenditoriale (italiano) di un famiglia del distretto industriale del vicentino.
Dalle pagine di Zaltron si delinea quindi il percorso con il quale un’identità aziendale viene prima abbozzata, poi sviluppata e alla fine resa concreta dal punto di vista personale e professionale con i contributi di singole persone e di un intero gruppo di lavoro. Scorrono quindi nelle pagine aneddoti ma anche approfondimenti di passaggi cruciali nella vita dell’impresa. Che, si apprende, si è inserita a pieno titolo anche nel territorio, guardando da un lato a mercati mondiali sempre più complessi ma, dall’altro, anche al suo interno e al proprio capitale sociale, arrivando ad una complessità organizzativa crescente.
Il libro di Zaltron si legge, come si è detto, come un romanzo ma è in realtà un manuale di buona cultura d’impresa. Una nota particolare e positiva meritano poi le immagini che sono parte insostituibile del testo.

Dalla pelle al cuore. Storie di vita e d’impresa del Gruppo Mastrotto
Alessandro Zaltron
Rizzoli, 2019

Un racconto di storia d’azienda, svela il connubio positivo fra vita e lavoro

Le imprese sono luoghi di lavoro (anche duro), ma possono diventare luoghi di vita a tutto tondo. Fucine di storie oltre che di fatica. Fonti di ricchezza materiale ma anche di qualcosa di più. Non tutte, certamente, ma molte sicuramente. E’ il caso delle fabbriche del Gruppo Mastrotto, azienda di primo piano nel mondo in fatto di lavorazione della pelle che, con chi l’ha creata e chi l’ha fatta crescere e vivere, è finita per essere protagonista di un libro fra il racconto d’impresa e il romanzo.
“Dalla pelle al cuore. Storie di vita e d’impresa del Gruppo Mastrotto” è l’ultimo libro (pubblicato quest’anno) di Alessandro Zaltron e deve essere letto come un racconto di vita d’impresa che diventa anche manuale di buona gestione.
“La piattaforma da cui si parte per raccontare la storia del Gruppo Mastrotto – viene subito detto -, è tutta umana e fatta di sentimento e cervello, di famiglia e amicizia, di relazioni locali e storie domestiche, di macchinari antichi e idee analogiche”. Scritto in occasione dei sessant’anni del gruppo, il libro ripercorre capitolo per capitolo la vita aziendale di qualcosa che adesso è stato definito come una “multinazionale tascabile”, ma che più semplicemente (o se si vuole più concretamente), è il frutto dell’ingegno imprenditoriale (italiano) di un famiglia del distretto industriale del vicentino.
Dalle pagine di Zaltron si delinea quindi il percorso con il quale un’identità aziendale viene prima abbozzata, poi sviluppata e alla fine resa concreta dal punto di vista personale e professionale con i contributi di singole persone e di un intero gruppo di lavoro. Scorrono quindi nelle pagine aneddoti ma anche approfondimenti di passaggi cruciali nella vita dell’impresa. Che, si apprende, si è inserita a pieno titolo anche nel territorio, guardando da un lato a mercati mondiali sempre più complessi ma, dall’altro, anche al suo interno e al proprio capitale sociale, arrivando ad una complessità organizzativa crescente.
Il libro di Zaltron si legge, come si è detto, come un romanzo ma è in realtà un manuale di buona cultura d’impresa. Una nota particolare e positiva meritano poi le immagini che sono parte insostituibile del testo.

Dalla pelle al cuore. Storie di vita e d’impresa del Gruppo Mastrotto
Alessandro Zaltron
Rizzoli, 2019

La parità di genere è essenziale per uno sviluppo sostenibile. Il buon esempio dell’Università Bicocca e del risparmio Usa

Parità di genere, il buon esempio viene da un’università, Milano Bicocca: qui c’è un “equilibrio perfetto” di uomini e donne tra le “figure di comando” dell’ateneo, ma anche una forte e crescente presenza femminile tra i docenti e gli studenti. Lo dimostra il primo “Bilancio di genere”, presentato alla fine del gennaio scorso, che documenta come le donne rappresentino il 44% del corpo docente, il 60% del personale tecnico amministrativo e il 62% degli iscritti. Parità in Consiglio d’Amministrazione e nel Senato Accademico. Sei donne alla guida dei dipartimenti, in tutto quattordici. Una donna Rettore, Cristina Messa. Una donna direttore generale, Loredana Luzzi. Una condizione migliore della media nazionale, in un mondo, quello universitario, in cui comunque la presenza femminile è maggiore e più equilibrata che in altri settori della vita sociale e civile, in quello economico, per esempio. “Il nostro primo Bilancio di genere ha evidenziato le azioni trasversali messe in atto dall’Università. E gli indicatori mostrano come Milano Bicocca, ateneo giovane, appena vent’anni di vita, abbia investito in misura più equa, rispetto alla media nazionale, sulla professionalità della comunità accademica, anche grazie alla presenza di donne ai vertici dell’Università”, commenta Francesca Zaiczyk, professore ordinario di Sociologia urbana e coordinatrice del Bilancio di genere in Bicocca.

Il buon lavoro fatto a Milano indica quale strada seguire per provare ad allineare l’Italia alle migliori condizioni degli altri paesi europei, per la parità di genere, uscendo dalla mediocre situazione dell’essere fanalino di coda (IlSole24Ore, 3 marzo). Guardando alle classifiche del Global Gender Gap Report 2018 del World Economic Forum sui 147 paesi che ne fanno parte, l’Italia è al 70° posto, con un voto globale appena sopra la media: l’ultima delle grandi economie Ue, appena sopra la Grecia (78°) ma molto distante da Francia (12°), Germania (14°), Svizzera (20°) ma anche Spagna (29°). Ci penalizza la presenza relativamente bassa delle donne nel mondo del lavoro, soprattutto nelle posizioni di vertice aziendale, la differenza nel salario medio, la scarsa possibilità di conciliare lavoro e vita privata se si hanno figli (anche per le carenze di servizi sociali efficienti). La posizione, è vero, migliora un po’ dall’82° posto del 2017. Ma restiamo sempre in una condizione negativa, che incide sulla soddisfazione sociale e sulle aspettative, ma anche sulle possibilità di insistere sulle dinamiche positive dello sviluppo sostenibile: non c’è sostenibilità, sulla strada di una crescita dell’economia “giusta” e “civile” senza una reale ed equa partecipazione delle donne al mondo del lavoro. Lo confermano parecchie iniziative dedicate appunto a questa dimensione, da “Valore D” a “Steamiamoci”, promossa da Assolombarda alcuni anni fa e rilanciata nel tempo.

Più donne al lavoro significa anche più crescita: se le partecipazione femminile italiana fosse del 60% (la percentuale della ricca e dinamica Lombardia, allineata alla media Ue e maggiore della media nazionale del 47%), il Pil del Paese crescerebbe del 7%.

Vale la pena ricordare anche alcuni altri dati. Le donne al vertice di grandi imprese sono ancora poche, pure in Italia. Ma il loro numero sta aumentano. La legge Golfo-Mosca del 2011 sull’obbligo di avere almeno un quinto di donne nelle società quotate in Borsa (le cosiddette “quote rosa”) ha fatto crescere la loro presenza (erano il 2% nel 2003, sono il 35% nel 2017). Ma resta molta strada da fare, nel mondo aziendale in generale: sono donne solo il 19% del top management nel complesso delle imprese italiane (dati Luiss Business School 2018). E la legge Golfo-Mosca, in scadenza, va aggiornata in modo da stimolare una maggiore presenza non solo nei Consigli, ma direttamente nella gestione delle attività aziendali, partendo dalle imprese quotate e penetrando più ampiamente nel vasto mondo delle imprese, anche quelle medie e piccole. Sono proprio le nostre “multinazionali tascabili”, in gran parte d’origine familiare ma oramai ampiamente managerializzate e presenti sui mercati globali, ad avere bisogno di quella “intelligenza del cuore” e di quella sapiente flessibilità culturale e sociale che una presenza femminile può assicurare in modo particolarmente rilevante.

Nel “cambio di paradigma” imposto all’economia dalla Grande Crisi, in cerca di uno sviluppo di qualità, proprio questa è una dimensione essenziale.

Un’indicazione interessante arriva da uno dei mondi tradizionalmente maschili, quello della finanza. C’è un poker di donne, al vertice delle principali società americane del risparmio gestito, che governano un portafoglio di 6.700 miliardi di dollari (l’equivalente del Pil di Italia e Giappone). Ecco i loro nomi: Anne Richards di Fidelity International, Abigail Johnson di Fidelity, Mary Callahan Erdoes di JP Morgan Chiase e Michelle Scrimgeour, appena nominata amministratore delegato di Legal & General Investment Management, la società dell’omonimo gruppo assicurativo inglese con un patrimonio di 1,3 trilioni di dollari in gestione.

Una così potente e qualificata presenza femminile, raccontata da “L’Economia” del Corriere della Sera (4 marzo) è appunto una novità rilevante. E siccome nella grande finanza nulla succede se non rispondendo a robusti interessi, si scopre che proprio nella gestione del risparmio le donne si sono dimostrate più affidabili, acute, lungimiranti, abili nel capire e nel costruire futuri sicuri: proprio quel che chiedono le famiglie che ai fondi affidano i loro soldi, garanzia d’un migliore avvenire per i figli o d’una vecchiaia più tranquilla.

Parità di genere, il buon esempio viene da un’università, Milano Bicocca: qui c’è un “equilibrio perfetto” di uomini e donne tra le “figure di comando” dell’ateneo, ma anche una forte e crescente presenza femminile tra i docenti e gli studenti. Lo dimostra il primo “Bilancio di genere”, presentato alla fine del gennaio scorso, che documenta come le donne rappresentino il 44% del corpo docente, il 60% del personale tecnico amministrativo e il 62% degli iscritti. Parità in Consiglio d’Amministrazione e nel Senato Accademico. Sei donne alla guida dei dipartimenti, in tutto quattordici. Una donna Rettore, Cristina Messa. Una donna direttore generale, Loredana Luzzi. Una condizione migliore della media nazionale, in un mondo, quello universitario, in cui comunque la presenza femminile è maggiore e più equilibrata che in altri settori della vita sociale e civile, in quello economico, per esempio. “Il nostro primo Bilancio di genere ha evidenziato le azioni trasversali messe in atto dall’Università. E gli indicatori mostrano come Milano Bicocca, ateneo giovane, appena vent’anni di vita, abbia investito in misura più equa, rispetto alla media nazionale, sulla professionalità della comunità accademica, anche grazie alla presenza di donne ai vertici dell’Università”, commenta Francesca Zaiczyk, professore ordinario di Sociologia urbana e coordinatrice del Bilancio di genere in Bicocca.

Il buon lavoro fatto a Milano indica quale strada seguire per provare ad allineare l’Italia alle migliori condizioni degli altri paesi europei, per la parità di genere, uscendo dalla mediocre situazione dell’essere fanalino di coda (IlSole24Ore, 3 marzo). Guardando alle classifiche del Global Gender Gap Report 2018 del World Economic Forum sui 147 paesi che ne fanno parte, l’Italia è al 70° posto, con un voto globale appena sopra la media: l’ultima delle grandi economie Ue, appena sopra la Grecia (78°) ma molto distante da Francia (12°), Germania (14°), Svizzera (20°) ma anche Spagna (29°). Ci penalizza la presenza relativamente bassa delle donne nel mondo del lavoro, soprattutto nelle posizioni di vertice aziendale, la differenza nel salario medio, la scarsa possibilità di conciliare lavoro e vita privata se si hanno figli (anche per le carenze di servizi sociali efficienti). La posizione, è vero, migliora un po’ dall’82° posto del 2017. Ma restiamo sempre in una condizione negativa, che incide sulla soddisfazione sociale e sulle aspettative, ma anche sulle possibilità di insistere sulle dinamiche positive dello sviluppo sostenibile: non c’è sostenibilità, sulla strada di una crescita dell’economia “giusta” e “civile” senza una reale ed equa partecipazione delle donne al mondo del lavoro. Lo confermano parecchie iniziative dedicate appunto a questa dimensione, da “Valore D” a “Steamiamoci”, promossa da Assolombarda alcuni anni fa e rilanciata nel tempo.

Più donne al lavoro significa anche più crescita: se le partecipazione femminile italiana fosse del 60% (la percentuale della ricca e dinamica Lombardia, allineata alla media Ue e maggiore della media nazionale del 47%), il Pil del Paese crescerebbe del 7%.

Vale la pena ricordare anche alcuni altri dati. Le donne al vertice di grandi imprese sono ancora poche, pure in Italia. Ma il loro numero sta aumentano. La legge Golfo-Mosca del 2011 sull’obbligo di avere almeno un quinto di donne nelle società quotate in Borsa (le cosiddette “quote rosa”) ha fatto crescere la loro presenza (erano il 2% nel 2003, sono il 35% nel 2017). Ma resta molta strada da fare, nel mondo aziendale in generale: sono donne solo il 19% del top management nel complesso delle imprese italiane (dati Luiss Business School 2018). E la legge Golfo-Mosca, in scadenza, va aggiornata in modo da stimolare una maggiore presenza non solo nei Consigli, ma direttamente nella gestione delle attività aziendali, partendo dalle imprese quotate e penetrando più ampiamente nel vasto mondo delle imprese, anche quelle medie e piccole. Sono proprio le nostre “multinazionali tascabili”, in gran parte d’origine familiare ma oramai ampiamente managerializzate e presenti sui mercati globali, ad avere bisogno di quella “intelligenza del cuore” e di quella sapiente flessibilità culturale e sociale che una presenza femminile può assicurare in modo particolarmente rilevante.

Nel “cambio di paradigma” imposto all’economia dalla Grande Crisi, in cerca di uno sviluppo di qualità, proprio questa è una dimensione essenziale.

Un’indicazione interessante arriva da uno dei mondi tradizionalmente maschili, quello della finanza. C’è un poker di donne, al vertice delle principali società americane del risparmio gestito, che governano un portafoglio di 6.700 miliardi di dollari (l’equivalente del Pil di Italia e Giappone). Ecco i loro nomi: Anne Richards di Fidelity International, Abigail Johnson di Fidelity, Mary Callahan Erdoes di JP Morgan Chiase e Michelle Scrimgeour, appena nominata amministratore delegato di Legal & General Investment Management, la società dell’omonimo gruppo assicurativo inglese con un patrimonio di 1,3 trilioni di dollari in gestione.

Una così potente e qualificata presenza femminile, raccontata da “L’Economia” del Corriere della Sera (4 marzo) è appunto una novità rilevante. E siccome nella grande finanza nulla succede se non rispondendo a robusti interessi, si scopre che proprio nella gestione del risparmio le donne si sono dimostrate più affidabili, acute, lungimiranti, abili nel capire e nel costruire futuri sicuri: proprio quel che chiedono le famiglie che ai fondi affidano i loro soldi, garanzia d’un migliore avvenire per i figli o d’una vecchiaia più tranquilla.

Fondazione Pirelli apre le porte della Bicocca ai bambini

Fondazione Pirelli a MuseoCity 2019 con la cultura d’impresa sostenibile

Domenica 3 marzo Fondazione Pirelli ha partecipato con visite guidate e laboratori per bambini alla terza edizione di MuseoCity, iniziativa promossa dal Comune di Milano che ha coinvolto diversi musei e istituzioni milanesi.

Pirelli, una storia di innovazione e passione: gomma, tecnologia, lavoro e ambiente”, il titolo dei tour guidati che hanno condotto gli oltre 250 visitatori, tra immagini e testimonianze, alla scoperta di quasi un secolo e mezzo di storia di processi, materie prime e prodotti sostenibili di Pirelli. Una storia di persone e di macchine, di ricerca, dove l’ingegno dell’uomo si incontra con la natura per trovare materiali innovativi e processi di produzione sempre più rispettosi per l’uomo e per l’ambiente. Il percorso è stato articolato in tre tappe: dall’edificio dell’Headquarters Pirelli, simbolo della precoce sensibilità dell’azienda per la riduzione dell’impiego dell’acqua, alla Fondazione Pirelli – dove si conservano preziose immagini e testimonianze della cultura sostenibile, ambientale e sociale dell’azienda – passando per la quattrocentesca Bicocca degli Arcimboldi, con le sue suggestioni leonardesche. I più piccoli hanno invece potuto scoprire come i quattro elementi naturali siano parte della creazione del pneumatico: attraverso semplici esperimenti hanno potuto capire come sia importante rispettare la natura, seguire e provare l’incredibile ricetta che porta alla creazione di un pneumatico, divertendosi poi a creare una piccola gomma da cancellare pronta per essere vulcanizzata.

Domenica 3 marzo Fondazione Pirelli ha partecipato con visite guidate e laboratori per bambini alla terza edizione di MuseoCity, iniziativa promossa dal Comune di Milano che ha coinvolto diversi musei e istituzioni milanesi.

Pirelli, una storia di innovazione e passione: gomma, tecnologia, lavoro e ambiente”, il titolo dei tour guidati che hanno condotto gli oltre 250 visitatori, tra immagini e testimonianze, alla scoperta di quasi un secolo e mezzo di storia di processi, materie prime e prodotti sostenibili di Pirelli. Una storia di persone e di macchine, di ricerca, dove l’ingegno dell’uomo si incontra con la natura per trovare materiali innovativi e processi di produzione sempre più rispettosi per l’uomo e per l’ambiente. Il percorso è stato articolato in tre tappe: dall’edificio dell’Headquarters Pirelli, simbolo della precoce sensibilità dell’azienda per la riduzione dell’impiego dell’acqua, alla Fondazione Pirelli – dove si conservano preziose immagini e testimonianze della cultura sostenibile, ambientale e sociale dell’azienda – passando per la quattrocentesca Bicocca degli Arcimboldi, con le sue suggestioni leonardesche. I più piccoli hanno invece potuto scoprire come i quattro elementi naturali siano parte della creazione del pneumatico: attraverso semplici esperimenti hanno potuto capire come sia importante rispettare la natura, seguire e provare l’incredibile ricetta che porta alla creazione di un pneumatico, divertendosi poi a creare una piccola gomma da cancellare pronta per essere vulcanizzata.

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Da Parigi e Berlino un “Manifesto” per lo sviluppo industriale mentre il governo italiano è sempre più assente ai tavoli europei

Un Manifesto di Francia e Germania per rilanciare la politica industriale dell’Europa e investire insieme sull’innovazione, sull’Intelligenza Artificiale, sullo sviluppo di grandi imprese europee per fronteggiare la concorrenza che arriva, sempre più pesante, dagli Usa e dalla Cina. Parigi e Berlino, insomma, fanno un altro passo insieme, per indicare una via d’uscita dalla crisi che rallenta la Ue. E pongono a tutti gli altri paesi, a cominciare dall’Italia, una sfida di grande peso: o crescere secondo obiettivi comuni o ritrovarsi in seconda fila o peggio ancora ai margini di un’Europa “a due velocità” il cui motore sta lungo l’asse franco-tedesco.

Sono tempi difficili, per l’economia europea, in rallentamento, anche a causa della brusca frenata che colpisce l’industria dell’auto tedesca e, di conseguenza, l’intera filiera automotive europea (l’Italia ne risente massicciamente, essendo fornitrice di primo piano di Bmw, Audi, Volkswagen e Daimler), sotto il peso delle mosse di Trump (“L’automotive europeo è una minaccia per la sicurezza nazionale”) e dei conflitti commerciali Usa-Cina. Le incertezze legate alla Brexit aggravano il quadro. E le tensioni politiche che travagliano parecchi paesi Ue e fanno emergere i rischi legati a populismi, sovranismi e nazionalismi protezionistici dicono che, proprio alla vigilia delle elezioni di maggio per il nuovo Parlamento Europeo è necessario che i paesi e i governi che ancora credono nell’indispensabilità dell’Europa e dunque in una sua riforma e in un suo rafforzamento devono dare chiari e attivi segnali politici per cercare di fermare decrescita, crisi politica e rischi di declino.

“Fuori dall’Europa o dall’euro non c’è più sovranità”, ha detto venerdì scorso Mario Draghi, presidente della Bce, agli studenti di Bologna, durante la cerimonia per la laurea honoris causa in Giurisprudenza. Altro che sovranismi alla polacca, all’ungherese o, purtroppo, all’italiana. E altro che chiusure impaurite nel recinto delle “piccole patrie” e dei localismi miseri. L’Europa, ha aggiunto Draghi, ha bisogno naturalmente di riforme, “per adattare le istituzioni Ue al cambiamento”, per fare fronte alle sfide esterne “sempre più minacciose” e per “rispondere alla percezione che l’Unione Europea manchi di equità, fra Paesi e classi sociali”. Ma la strategia è “più Europa” e un’Europa migliore, non certo la dissoluzione dell’Europa o il suo impoverimento, come vorrebbero gli Usa di Trump e la Russia di Putin (amatissime dai nazionalisti, anche qui in Italia).

Draghi ha ricordato che la vera sovranità si riflette nel migliore controllo degli eventi, per rispondere ai bisogni fondamentali dei cittadini: “La pace, la sicurezza e il pubblico bene del popolo”, secondo le parole del filosofo liberale settecentesco John Locke, uno dei riferimenti etici e politici dell’idea europea. Un’Europa da cambiare, certo. Ma senza dimenticare che la Ue “è stata un successo”, comprese le politiche finanziarie della Bce di fronte alla Grande Crisi. Europa nonostante tutto, dunque. Una lezione da tenere a mente.

Le scelte di Parigi e Berlino vanno in questa direzione. Dopo il rinnovo del “Patto di Acquisgrana” nel gennaio scorso e l’avvio dell’elaborazione di una politica comune per il Bilancio dell’Eurozona, proprio il Manifesto per la politica industriale indica concretamente strategie e misure per fare crescere dei “campioni europei”. Come? Investire di più sull’innovazione e lo sviluppo delle tecnologie di punta dell’AI (Artificial Intellicence, appunto), la robotica e i processi digitali di applicazione alla sanità, ai trasporti, all’ambiente e all’energia. L’auto elettrica è uno dei settori comuni di crescita. Ma anche tutto ciò che riguarda Industry 4.0 (che il governo italiano, ostile all’industria, alla ricerca scientifica e all’innovazione, ha purtroppo messo ai margini dell’attenzione, ostacolando la crescita economica).

Il secondo tema cardine del Manifesto riguarda una riforma dell’Antitrust Ue. Scottati dal “no” di Bruxelles all’intesa Alstom-Siemens sui treni ad alta velocità, Parigi e Berlino vogliono modificare le regole per la concorrenza, pensando a come proteggere meglio i nuovi “campioni europei” dalle sfide che vengono da Usa e Cina, impegnatissima a fare shopping di imprese europee hi tech. La modifica della concorrenza e delle norme antitrust non è vista di buon occhio né da ambienti della Commissione né da parecchi degli Stati europei, soprattutto di quelli del Nord. Ma il tema è posto con forza. E se ne discuterà, in una dialettica certo non accademica tra “liberisti” e “interventisti”.

Il terzo tema cardine riguarda l’impegno dei singoli paesi a monitorare i propri asset industriali strategici per evitare che ogni cessione di competenze, brevetti, know how in singoli paesi metta in crisi l’intera industria europea. Tema complesso, naturalmente, perché indice sulle libertà di mercato e d’impresa. Ma questione comunque in discussione, anche per sollecitare impegni di reciprocità per gli investimenti di imprese europee negli Usa e in Cina.

E l’Italia? In tutte queste discussioni è sostanzialmente assente. Le mosse anti-Bruxelles di parecchi esponenti del governo verde-giallo, le sparate polemiche di potenti ministri contro la Ue, l’euro, e i “burocrati” europei, le simpatie filo-Putin e i contrasti accesi con la Francia e le freddezze con la Germania non aiutano.

“Germania e Francia accelerano in assenza dell’Italia”, commenta su “Il Sole24Ore” l’editorialista Attilio Geroni (20 febbraio). E, pochi giorni più tardi, ecco un secondo commento, di Giuseppe Chiellino: “L’Italia resta fuori dal disegno dell’integrazione europea”. Con una notazione preoccupante, appunto per il nostro Paese: “Nel cosiddetto Gruppo G3, che ha l’obiettivo di porsi come principale forza propositiva sui dossier più importanti – dal bilancio alle politiche dell’immigrazione alle prossime nomine comunitarie, accanto a Francia e Germania non c’è l’Italia, ma la Spagna”.

Proprio la Brexit avrebbe consentito all’Italia, seconda manifattura europea, terza economia Ue, di stare ben salda e rilevante su uno dei vertici del “triangolo europeo” con tedeschi e francesi. Le poco lungimiranti scelte del governo Conte ci hanno invece emarginati. E sono in tanti, a Bruxelles e nelle capitali degli altri principali paesi europei, a ritenere che l’Italia, colpita da una nuova recessione e politicamente poco affidabile su bilancio pubblico e politiche di sviluppo, vada considerata non come un partner strategico ma come una zavorra per l’Europa in movimento.

E’ un quadro allarmante. Cui, nella distrazione e nell’irresponsabilità governativa, provano a rispondere proprio le imprese. Con un vertice tra la Confindustria e l’omologa organizzazione imprenditoriale francese Medef, a Versailles, il 28 e il 29 febbraio. E con la preparazione di un altro incontro, in cui coinvolgere l’associazione tedesca Bdi. Un’assunzione di responsabilità industriale, che prova a mettere un freno ai guasti politici di governo e maggioranza e a ritessere una strategia di sviluppo europea.

Un Manifesto di Francia e Germania per rilanciare la politica industriale dell’Europa e investire insieme sull’innovazione, sull’Intelligenza Artificiale, sullo sviluppo di grandi imprese europee per fronteggiare la concorrenza che arriva, sempre più pesante, dagli Usa e dalla Cina. Parigi e Berlino, insomma, fanno un altro passo insieme, per indicare una via d’uscita dalla crisi che rallenta la Ue. E pongono a tutti gli altri paesi, a cominciare dall’Italia, una sfida di grande peso: o crescere secondo obiettivi comuni o ritrovarsi in seconda fila o peggio ancora ai margini di un’Europa “a due velocità” il cui motore sta lungo l’asse franco-tedesco.

Sono tempi difficili, per l’economia europea, in rallentamento, anche a causa della brusca frenata che colpisce l’industria dell’auto tedesca e, di conseguenza, l’intera filiera automotive europea (l’Italia ne risente massicciamente, essendo fornitrice di primo piano di Bmw, Audi, Volkswagen e Daimler), sotto il peso delle mosse di Trump (“L’automotive europeo è una minaccia per la sicurezza nazionale”) e dei conflitti commerciali Usa-Cina. Le incertezze legate alla Brexit aggravano il quadro. E le tensioni politiche che travagliano parecchi paesi Ue e fanno emergere i rischi legati a populismi, sovranismi e nazionalismi protezionistici dicono che, proprio alla vigilia delle elezioni di maggio per il nuovo Parlamento Europeo è necessario che i paesi e i governi che ancora credono nell’indispensabilità dell’Europa e dunque in una sua riforma e in un suo rafforzamento devono dare chiari e attivi segnali politici per cercare di fermare decrescita, crisi politica e rischi di declino.

“Fuori dall’Europa o dall’euro non c’è più sovranità”, ha detto venerdì scorso Mario Draghi, presidente della Bce, agli studenti di Bologna, durante la cerimonia per la laurea honoris causa in Giurisprudenza. Altro che sovranismi alla polacca, all’ungherese o, purtroppo, all’italiana. E altro che chiusure impaurite nel recinto delle “piccole patrie” e dei localismi miseri. L’Europa, ha aggiunto Draghi, ha bisogno naturalmente di riforme, “per adattare le istituzioni Ue al cambiamento”, per fare fronte alle sfide esterne “sempre più minacciose” e per “rispondere alla percezione che l’Unione Europea manchi di equità, fra Paesi e classi sociali”. Ma la strategia è “più Europa” e un’Europa migliore, non certo la dissoluzione dell’Europa o il suo impoverimento, come vorrebbero gli Usa di Trump e la Russia di Putin (amatissime dai nazionalisti, anche qui in Italia).

Draghi ha ricordato che la vera sovranità si riflette nel migliore controllo degli eventi, per rispondere ai bisogni fondamentali dei cittadini: “La pace, la sicurezza e il pubblico bene del popolo”, secondo le parole del filosofo liberale settecentesco John Locke, uno dei riferimenti etici e politici dell’idea europea. Un’Europa da cambiare, certo. Ma senza dimenticare che la Ue “è stata un successo”, comprese le politiche finanziarie della Bce di fronte alla Grande Crisi. Europa nonostante tutto, dunque. Una lezione da tenere a mente.

Le scelte di Parigi e Berlino vanno in questa direzione. Dopo il rinnovo del “Patto di Acquisgrana” nel gennaio scorso e l’avvio dell’elaborazione di una politica comune per il Bilancio dell’Eurozona, proprio il Manifesto per la politica industriale indica concretamente strategie e misure per fare crescere dei “campioni europei”. Come? Investire di più sull’innovazione e lo sviluppo delle tecnologie di punta dell’AI (Artificial Intellicence, appunto), la robotica e i processi digitali di applicazione alla sanità, ai trasporti, all’ambiente e all’energia. L’auto elettrica è uno dei settori comuni di crescita. Ma anche tutto ciò che riguarda Industry 4.0 (che il governo italiano, ostile all’industria, alla ricerca scientifica e all’innovazione, ha purtroppo messo ai margini dell’attenzione, ostacolando la crescita economica).

Il secondo tema cardine del Manifesto riguarda una riforma dell’Antitrust Ue. Scottati dal “no” di Bruxelles all’intesa Alstom-Siemens sui treni ad alta velocità, Parigi e Berlino vogliono modificare le regole per la concorrenza, pensando a come proteggere meglio i nuovi “campioni europei” dalle sfide che vengono da Usa e Cina, impegnatissima a fare shopping di imprese europee hi tech. La modifica della concorrenza e delle norme antitrust non è vista di buon occhio né da ambienti della Commissione né da parecchi degli Stati europei, soprattutto di quelli del Nord. Ma il tema è posto con forza. E se ne discuterà, in una dialettica certo non accademica tra “liberisti” e “interventisti”.

Il terzo tema cardine riguarda l’impegno dei singoli paesi a monitorare i propri asset industriali strategici per evitare che ogni cessione di competenze, brevetti, know how in singoli paesi metta in crisi l’intera industria europea. Tema complesso, naturalmente, perché indice sulle libertà di mercato e d’impresa. Ma questione comunque in discussione, anche per sollecitare impegni di reciprocità per gli investimenti di imprese europee negli Usa e in Cina.

E l’Italia? In tutte queste discussioni è sostanzialmente assente. Le mosse anti-Bruxelles di parecchi esponenti del governo verde-giallo, le sparate polemiche di potenti ministri contro la Ue, l’euro, e i “burocrati” europei, le simpatie filo-Putin e i contrasti accesi con la Francia e le freddezze con la Germania non aiutano.

“Germania e Francia accelerano in assenza dell’Italia”, commenta su “Il Sole24Ore” l’editorialista Attilio Geroni (20 febbraio). E, pochi giorni più tardi, ecco un secondo commento, di Giuseppe Chiellino: “L’Italia resta fuori dal disegno dell’integrazione europea”. Con una notazione preoccupante, appunto per il nostro Paese: “Nel cosiddetto Gruppo G3, che ha l’obiettivo di porsi come principale forza propositiva sui dossier più importanti – dal bilancio alle politiche dell’immigrazione alle prossime nomine comunitarie, accanto a Francia e Germania non c’è l’Italia, ma la Spagna”.

Proprio la Brexit avrebbe consentito all’Italia, seconda manifattura europea, terza economia Ue, di stare ben salda e rilevante su uno dei vertici del “triangolo europeo” con tedeschi e francesi. Le poco lungimiranti scelte del governo Conte ci hanno invece emarginati. E sono in tanti, a Bruxelles e nelle capitali degli altri principali paesi europei, a ritenere che l’Italia, colpita da una nuova recessione e politicamente poco affidabile su bilancio pubblico e politiche di sviluppo, vada considerata non come un partner strategico ma come una zavorra per l’Europa in movimento.

E’ un quadro allarmante. Cui, nella distrazione e nell’irresponsabilità governativa, provano a rispondere proprio le imprese. Con un vertice tra la Confindustria e l’omologa organizzazione imprenditoriale francese Medef, a Versailles, il 28 e il 29 febbraio. E con la preparazione di un altro incontro, in cui coinvolgere l’associazione tedesca Bdi. Un’assunzione di responsabilità industriale, che prova a mettere un freno ai guasti politici di governo e maggioranza e a ritessere una strategia di sviluppo europea.

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