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Quando l’arte fotografa l’arte. Pittori e scultori negli scatti della Rivista Pirelli

“La fotografia di un’opera d’arte – architettura, scultura e anche pittura – è già una presentazione critica dell’opera. È sempre un’interpretazione”. Così sentenzia il critico d’arte Guido Ballo – opinione condivisa anche dal fratello Aldo, il cui lavoro era teso a “interpretare l’oggetto, restituirgli l’anima” – come si legge in un articolo del 1950 della Rivista Pirelli. Un periodico sulle cui pagine, attraverso le voci di studiosi come Giulio Carlo Argan e Gillo Dorfles, il tema delle arti figurative e il loro rapporto con l’obiettivo fotografico assumono un ruolo di primo piano. Al centro degli scatti c’è soprattutto il patrimonio artistico del Belpaese. Nel 1963 l’azienda pubblica un calendario dedicato ai rosoni più spettacolari delle chiese italiane: le facciate di San Zeno a Verona e di Santa Chiara ad Assisi, tra le altre, vengono riprese da Paolo Monti e pubblicate sul magazine, in una dedica visiva alla cultura architettonica nazionale. Anche Pepi Merisio esplora le bellezze del nostro Paese, dalle ville rinascimentali della campagna lombarda alle più importanti cupole della cristianità, allargando il suo sguardo anche alla Città del Vaticano: le immagini raccontano la vita quotidiana all’interno degli appartamenti pontifici – tra parate, visite di Stato e cerimonie officiate sotto la volta della Cappella Sistina – e della Basilica di San Pietro; l’equilibrismo di un Sanpietrino durante la pulizia della Gloria del Bernini domina la copertina dell’ultimo numero del 1967, in un dinamismo vertiginoso di grande impatto. Dai tesori del passato alle ultime tendenze della contemporaneità: nel 1970 Giuseppe Pino fotografa le operazioni di wrapping del monumento a Vittorio Emanuele II a Milano, con il sollevamento sopra la scultura del tessuto in polipropilene fissato attraverso una fune, scattando poi dalle terrazze del Duomo l’esito dell’operazione artistica di Christo e Jeanne-Claude, durata solamente due giorni, tra proteste e atti vandalici.

L’obiettivo non è puntato solamente sul capolavoro, ma anche sul suo artefice. Già nel 1950, Aligi Sassu viene ritratto sulla Rivista in sella alla sua bicicletta da corsa: secondo l’artista di Corrente, la passione per il mondo del ciclismo è fondamentale nel suggerirgli forme e colori, strappati “alla velocità, al vento delle discese e alla polvere acre delle provinciali” e utilizzati nelle ceramiche e negli oli, esito della sua esperienza cicloartistica. Un’intera generazione di pittori e scultori passa invece sotto l’occhio critico di Ugo Mulas, il “fotografo degli artisti”, il quale non si limita a riprodurre l’opera in sé, ma ne indaga il contesto, il processo di creazione, interagendo con la scena e diventandone parte. Tra i suoi ritratti più iconici, quello di Lucio Fontana del 1964 – pubblicato sulla Rivista l’anno successivo e ancora nel 1968, anche se già nel 1952 un suo “Concetto spaziale”, utilizzato in una delle trasmissioni sperimentali della RAI, era apparso sulle pagine del magazine – durante l’esecuzione di una delle sue celebri “Attese”. In realtà la sequenza è una messa in scena, in quanto l’artista decide di non operare davanti all’obiettivo, simulando invece, con il suo Stanley alla mano, davanti a tele integre o già tagliate. “È il momento in cui il taglio non è ancora cominciato e l’elaborazione concettuale è invece già tutta chiarita”: nelle parole di Mulas emerge la comprensione dell’operazione intellettuale di Fontana, della non impulsività del suo gesto artistico, dell’importanza dell’attimo sospeso che precede l’azione. Al centro degli scatti di Mulas c’è anche Henry Moore, di cui si documenta nel 1965 la realizzazione de “L’arciere”, scultura dalle superfici curve e levigate, rese con pienezza dal marmo bianco. Dal modello in gesso alla scelta del singolo blocco calcareo a Querceta – quasi un complesso rito religioso, portato a termine grazie anche all’aiuto degli artigiani locali – fino alla lavorazione del materiale nello studio di Forte dei Marmi. Mulas registra tutto: la tensione creativa, la fatica fisica e il saper fare dello scultore inglese, l’atto che dà forma all’informe. Sono tanti gli artisti ripresi dal fotografo di Pozzolengo: nel 1968 Giovanni Pintori è protagonista di un intimo reportage a Bocca di Magra; nel 1970 è con Alexander Calder tra guazzi, ludici mobiles e i più colossali stabiles, mentre l’anno dopo coglie “la musica di linee, di rapporti, di pieni e vuoti” trasmessa dall’opera di Fausto Melotti.
Tra il 1954 e il 1972, Mulas realizza inoltre una serie sulla Biennale di Venezia, cristallizzando la scena artistica internazionale di un’epoca. Tra le edizioni documentate sulla Rivista, quella del 1962, con Giò Pomodoro, Giuseppe Capogrossi e Alberto Giacometti, la cui reazione all’assegnazione del Gran Premio della scultura raggiunge la copertina. Le sue immagini delle Biennali spesso accompagnano la rubrica “Pretesti e appunti”, firmata dallo storico e critico dell’arte Franco Russoli, che esamina la contestata edizione del 1964: la vittoria di Robert Rauschenberg, fotografato da Mulas davanti al suo Studio Painting, rappresenta la definitiva consacrazione della Pop Art americana.

La fotografia immortala inoltre gli artisti alle prese con i prodotti della “P lunga”. Lo scultore Sante Monachesi contempla alla Galleria Astrolabio di Roma la sua opera in spago e resina poliuretanica espansa della Pirelli-Sapsa, denominata commercialmente “Levior”; una scultura leggera, effimera e allo stesso tempo monumentale, evoluzione storica del ready-made di ispirazione dadaista. Anche il pneumatico stesso diventa opera d’arte. Come il Cinturato Tractor Agricolo, esposto nella mostra fiorentina “Forma e Verità”, ideata nel 1966 dall’architetto Lorenzo Papi con lo scopo di dimostrare, tramite oggetti disparati, che l’arte origina sempre dalla quotidianità della vita. Nella mostra si trovano inoltre disegni di Alvar Aalto, lo scheletro della Ferrari “Dino” e un modellino del Grattacielo Pirelli. Nel 1969, all’interno di una serie di incontri tra arte e tecnica promossi dalla Galleria del Naviglio di Milano, uno stampo per coperture è presentato in un originale accoppiamento: insieme al “Giardino Futurista” di Giacomo Balla, l’oggetto assume una dimensione nuova, mostrando, come affermato nel catalogo, la bellezza nascosta “che può scaturire dalle costrizioni formali di uno strumento di lavoro, purché qualcuno ci aiuti a vederla”.
Anche le attività del Centro Culturale Pirelli sono al centro dell’obiettivo fotografico: tra le iniziative relative alle belle arti ci sono conferenze, mostre personali dei dipendenti dell’azienda, itinerari artistici nei principali centri della Penisola ed esposizioni curate dal Centro, dal Medioevo alla contemporaneità: tra queste, una dedicata nel 1967 a Franco Grignani, ripreso mentre illustra ad alcuni visitatori le sue opere allestite negli spazi del Grattacielo, in un percorso che permette di seguire la sua evoluzione dalle prime ricerche del 1950 alla piena maturità. Queste rassegne sono espressione dello stretto rapporto tra Pirelli e gli artisti; un legame che continua ancora oggi, con alcuni dei più importanti nomi internazionali chiamati a collaborare con l’azienda.

“La fotografia di un’opera d’arte – architettura, scultura e anche pittura – è già una presentazione critica dell’opera. È sempre un’interpretazione”. Così sentenzia il critico d’arte Guido Ballo – opinione condivisa anche dal fratello Aldo, il cui lavoro era teso a “interpretare l’oggetto, restituirgli l’anima” – come si legge in un articolo del 1950 della Rivista Pirelli. Un periodico sulle cui pagine, attraverso le voci di studiosi come Giulio Carlo Argan e Gillo Dorfles, il tema delle arti figurative e il loro rapporto con l’obiettivo fotografico assumono un ruolo di primo piano. Al centro degli scatti c’è soprattutto il patrimonio artistico del Belpaese. Nel 1963 l’azienda pubblica un calendario dedicato ai rosoni più spettacolari delle chiese italiane: le facciate di San Zeno a Verona e di Santa Chiara ad Assisi, tra le altre, vengono riprese da Paolo Monti e pubblicate sul magazine, in una dedica visiva alla cultura architettonica nazionale. Anche Pepi Merisio esplora le bellezze del nostro Paese, dalle ville rinascimentali della campagna lombarda alle più importanti cupole della cristianità, allargando il suo sguardo anche alla Città del Vaticano: le immagini raccontano la vita quotidiana all’interno degli appartamenti pontifici – tra parate, visite di Stato e cerimonie officiate sotto la volta della Cappella Sistina – e della Basilica di San Pietro; l’equilibrismo di un Sanpietrino durante la pulizia della Gloria del Bernini domina la copertina dell’ultimo numero del 1967, in un dinamismo vertiginoso di grande impatto. Dai tesori del passato alle ultime tendenze della contemporaneità: nel 1970 Giuseppe Pino fotografa le operazioni di wrapping del monumento a Vittorio Emanuele II a Milano, con il sollevamento sopra la scultura del tessuto in polipropilene fissato attraverso una fune, scattando poi dalle terrazze del Duomo l’esito dell’operazione artistica di Christo e Jeanne-Claude, durata solamente due giorni, tra proteste e atti vandalici.

L’obiettivo non è puntato solamente sul capolavoro, ma anche sul suo artefice. Già nel 1950, Aligi Sassu viene ritratto sulla Rivista in sella alla sua bicicletta da corsa: secondo l’artista di Corrente, la passione per il mondo del ciclismo è fondamentale nel suggerirgli forme e colori, strappati “alla velocità, al vento delle discese e alla polvere acre delle provinciali” e utilizzati nelle ceramiche e negli oli, esito della sua esperienza cicloartistica. Un’intera generazione di pittori e scultori passa invece sotto l’occhio critico di Ugo Mulas, il “fotografo degli artisti”, il quale non si limita a riprodurre l’opera in sé, ma ne indaga il contesto, il processo di creazione, interagendo con la scena e diventandone parte. Tra i suoi ritratti più iconici, quello di Lucio Fontana del 1964 – pubblicato sulla Rivista l’anno successivo e ancora nel 1968, anche se già nel 1952 un suo “Concetto spaziale”, utilizzato in una delle trasmissioni sperimentali della RAI, era apparso sulle pagine del magazine – durante l’esecuzione di una delle sue celebri “Attese”. In realtà la sequenza è una messa in scena, in quanto l’artista decide di non operare davanti all’obiettivo, simulando invece, con il suo Stanley alla mano, davanti a tele integre o già tagliate. “È il momento in cui il taglio non è ancora cominciato e l’elaborazione concettuale è invece già tutta chiarita”: nelle parole di Mulas emerge la comprensione dell’operazione intellettuale di Fontana, della non impulsività del suo gesto artistico, dell’importanza dell’attimo sospeso che precede l’azione. Al centro degli scatti di Mulas c’è anche Henry Moore, di cui si documenta nel 1965 la realizzazione de “L’arciere”, scultura dalle superfici curve e levigate, rese con pienezza dal marmo bianco. Dal modello in gesso alla scelta del singolo blocco calcareo a Querceta – quasi un complesso rito religioso, portato a termine grazie anche all’aiuto degli artigiani locali – fino alla lavorazione del materiale nello studio di Forte dei Marmi. Mulas registra tutto: la tensione creativa, la fatica fisica e il saper fare dello scultore inglese, l’atto che dà forma all’informe. Sono tanti gli artisti ripresi dal fotografo di Pozzolengo: nel 1968 Giovanni Pintori è protagonista di un intimo reportage a Bocca di Magra; nel 1970 è con Alexander Calder tra guazzi, ludici mobiles e i più colossali stabiles, mentre l’anno dopo coglie “la musica di linee, di rapporti, di pieni e vuoti” trasmessa dall’opera di Fausto Melotti.
Tra il 1954 e il 1972, Mulas realizza inoltre una serie sulla Biennale di Venezia, cristallizzando la scena artistica internazionale di un’epoca. Tra le edizioni documentate sulla Rivista, quella del 1962, con Giò Pomodoro, Giuseppe Capogrossi e Alberto Giacometti, la cui reazione all’assegnazione del Gran Premio della scultura raggiunge la copertina. Le sue immagini delle Biennali spesso accompagnano la rubrica “Pretesti e appunti”, firmata dallo storico e critico dell’arte Franco Russoli, che esamina la contestata edizione del 1964: la vittoria di Robert Rauschenberg, fotografato da Mulas davanti al suo Studio Painting, rappresenta la definitiva consacrazione della Pop Art americana.

La fotografia immortala inoltre gli artisti alle prese con i prodotti della “P lunga”. Lo scultore Sante Monachesi contempla alla Galleria Astrolabio di Roma la sua opera in spago e resina poliuretanica espansa della Pirelli-Sapsa, denominata commercialmente “Levior”; una scultura leggera, effimera e allo stesso tempo monumentale, evoluzione storica del ready-made di ispirazione dadaista. Anche il pneumatico stesso diventa opera d’arte. Come il Cinturato Tractor Agricolo, esposto nella mostra fiorentina “Forma e Verità”, ideata nel 1966 dall’architetto Lorenzo Papi con lo scopo di dimostrare, tramite oggetti disparati, che l’arte origina sempre dalla quotidianità della vita. Nella mostra si trovano inoltre disegni di Alvar Aalto, lo scheletro della Ferrari “Dino” e un modellino del Grattacielo Pirelli. Nel 1969, all’interno di una serie di incontri tra arte e tecnica promossi dalla Galleria del Naviglio di Milano, uno stampo per coperture è presentato in un originale accoppiamento: insieme al “Giardino Futurista” di Giacomo Balla, l’oggetto assume una dimensione nuova, mostrando, come affermato nel catalogo, la bellezza nascosta “che può scaturire dalle costrizioni formali di uno strumento di lavoro, purché qualcuno ci aiuti a vederla”.
Anche le attività del Centro Culturale Pirelli sono al centro dell’obiettivo fotografico: tra le iniziative relative alle belle arti ci sono conferenze, mostre personali dei dipendenti dell’azienda, itinerari artistici nei principali centri della Penisola ed esposizioni curate dal Centro, dal Medioevo alla contemporaneità: tra queste, una dedicata nel 1967 a Franco Grignani, ripreso mentre illustra ad alcuni visitatori le sue opere allestite negli spazi del Grattacielo, in un percorso che permette di seguire la sua evoluzione dalle prime ricerche del 1950 alla piena maturità. Queste rassegne sono espressione dello stretto rapporto tra Pirelli e gli artisti; un legame che continua ancora oggi, con alcuni dei più importanti nomi internazionali chiamati a collaborare con l’azienda.

Reputazione d’impresa

Pubblicato un manuale sull’ingegneria reputazione vista come strumento per comprendere prima e applicare poi una particolare qualità delle organizzazioni della produzione (e non solo)

Reputazione d’impresa. Ma anche reputazione dei manager e degli imprenditori che fanno l’impresa. Tema complesso e delicato, difficile da gestire, importante da affrontare. Tema, tra l’altro, che ormai ha assunto profili quantitativi oltre che qualitativi. Tanto da dare vita ad una “ingegneria reputazionale” che vale essere esplorata. Leggere “Ingegneria reputazionale. Comprendere, misurare e costruire la Reputazione” di Andrea Barchiesi serve proprio a questo scopo: farsi strada in un tema d’impresa che sta tra la cultura del produrre, la comunicazione, il marketing, la gestione delle risorse umane e più in generale la responsabilità sociale.

Reputazione, dunque. Argomento fino ad oggi complesso ma astratto e, oggi, invece misurabile plasmabile. A questo serve l’ingegneria reputazionale che Barchiesi spiega con dovizia di particolari iniziando  da “15 principi su cui costruire una nuova comunicazione”, perché, pare di capire, la reputazione passa dalla comunicazione (e non potrebbe che essere così). Per capire meglio cosa occorre fare, Barchiesi affronta subito la definizione di reputazione per passare poi alla comunicazione. Il passaggio successivo del libro concerna la “massa reputazionale” e quindi la forma della reputazione stessa per arrivare al tema centrale dell’ingegneria reputazionale: la misurazione della reputazione e la costruzione della reputazione. Quanto scritto da Andrea Barchiesi, tuttavia, non termina qui. Altrettanto importante è, infatti, il tema delle crisi di reputazione e delle cosiddette guerre di reputazione.

Il libro di Andrea Barchiesi è fondato su un’idea: la reputazione è un asset primario che riguarda tutti e tutto, può creare e distruggere fortune. Che, detto in altro modo, significa anche che la reputazione è una sorta di licenza ad operare senza la quale la società civile semplicemente spegne l’organizzazione priva di questa qualità. Un rischio che, tra l’altro, viene amplificato dalla rete e dalle nuove regole che questa ha imposto ma anche dall’accelerazione dei fatti e dalla possibilità di reperire ingenti masse di dati.

L’ingegneria reputazionale – è il messaggio dell’autore – crea gli strumenti per comprendere questa massa di dati e ordinarla secondo criteri strategici e valoriali; ma non solo, perché sempre l’ingegneria reputazionale trasforma la reputazione in una traiettoria positiva per l’impresa e per le organizzazioni ingenerale. Da leggere il libro di Andrea Barchiesi. E da applicare.

Ingegneria reputazionale. Comprendere, misurare e costruire la Reputazione

Andrea Barchiesi

Franco Angeli 2024

Pubblicato un manuale sull’ingegneria reputazione vista come strumento per comprendere prima e applicare poi una particolare qualità delle organizzazioni della produzione (e non solo)

Reputazione d’impresa. Ma anche reputazione dei manager e degli imprenditori che fanno l’impresa. Tema complesso e delicato, difficile da gestire, importante da affrontare. Tema, tra l’altro, che ormai ha assunto profili quantitativi oltre che qualitativi. Tanto da dare vita ad una “ingegneria reputazionale” che vale essere esplorata. Leggere “Ingegneria reputazionale. Comprendere, misurare e costruire la Reputazione” di Andrea Barchiesi serve proprio a questo scopo: farsi strada in un tema d’impresa che sta tra la cultura del produrre, la comunicazione, il marketing, la gestione delle risorse umane e più in generale la responsabilità sociale.

Reputazione, dunque. Argomento fino ad oggi complesso ma astratto e, oggi, invece misurabile plasmabile. A questo serve l’ingegneria reputazionale che Barchiesi spiega con dovizia di particolari iniziando  da “15 principi su cui costruire una nuova comunicazione”, perché, pare di capire, la reputazione passa dalla comunicazione (e non potrebbe che essere così). Per capire meglio cosa occorre fare, Barchiesi affronta subito la definizione di reputazione per passare poi alla comunicazione. Il passaggio successivo del libro concerna la “massa reputazionale” e quindi la forma della reputazione stessa per arrivare al tema centrale dell’ingegneria reputazionale: la misurazione della reputazione e la costruzione della reputazione. Quanto scritto da Andrea Barchiesi, tuttavia, non termina qui. Altrettanto importante è, infatti, il tema delle crisi di reputazione e delle cosiddette guerre di reputazione.

Il libro di Andrea Barchiesi è fondato su un’idea: la reputazione è un asset primario che riguarda tutti e tutto, può creare e distruggere fortune. Che, detto in altro modo, significa anche che la reputazione è una sorta di licenza ad operare senza la quale la società civile semplicemente spegne l’organizzazione priva di questa qualità. Un rischio che, tra l’altro, viene amplificato dalla rete e dalle nuove regole che questa ha imposto ma anche dall’accelerazione dei fatti e dalla possibilità di reperire ingenti masse di dati.

L’ingegneria reputazionale – è il messaggio dell’autore – crea gli strumenti per comprendere questa massa di dati e ordinarla secondo criteri strategici e valoriali; ma non solo, perché sempre l’ingegneria reputazionale trasforma la reputazione in una traiettoria positiva per l’impresa e per le organizzazioni ingenerale. Da leggere il libro di Andrea Barchiesi. E da applicare.

Ingegneria reputazionale. Comprendere, misurare e costruire la Reputazione

Andrea Barchiesi

Franco Angeli 2024

Due culture un solo traguardo

L’intervento del Governatore della Banca d’Italia nella Giornata del risparmio delinea i collegamenti tra questo e la buona cultura d’impresa

Risparmio come strumento di investimento. Risparmiare come atto che riesce a trasferire risorse dal presente al futuro, e gesto di lungimiranza e di attenzione non egoistica. Risparmio – anche – come elemento di stabilità e risorsa al servizio degli investimenti delle imprese oltre che di ricchezza delle famiglie. Risparmio comunque importante. E doveroso nel momento in cui, certo, se ne abbiano i mezzi per metterlo in pratica.

È attorno a questi concetti che ragiona con lucidità e chiarezza Fabio Panetta – Governatore della Banca d’Italia – nel suo intervento di pochi giorni fa in occasione della Giornata Mondiale del Risparmio 2024, la centesima dalla sua istituzione.

Panetta compie un’analisi di centro anni di “cultura del risparmio” che si intreccia con la vita del Paese, i mutamenti della società, le difficoltà dell’economia, gli elementi che collegano il risparmio al resto del sistema economico e sociale. “Risparmio e progresso economico e sociale sono strettamente connessi”, dice Panetta che, dopo aver percorso cento anni di risparmio italiano, sottolinea come la solidità dell’economia reale sia la “prima tutela del risparmio” e come questo, di fatto, contribuisca al buon stato di salute della stessa economia.  Il Governatore della Banca d’Italia, poi, ricorda che elementi fondamentali per un buon livello di risparmio sono non solo la stabilità dell’economia ma anche delle istituzioni e della moneta, e del sistema finanziario. Su tutto, poi, Panetta ricorda pure la necessità dell’integrità e del rispetto “dei più elevati valori etici e professionali” di chi ha affidato il risparmio dei cittadini e delle imprese.

Risparmio, dunque, come elemento fondante per il futuro, anzi come presupposto per una cultura del futuro che risulta essere cardine per il progresso sociale ed economico di un Paese. Quella cultura che, a ben vedere, va di pari passo con quella buona cultura d’impresa essenziale soprattutto oggi e che ha molti elementi in comune con la prima.

Quello di Fabio Panetta è un intervento che indica quanto il risparmio sia, dopo cento anni, ancora non solo utile ma importante da sviluppare, far conoscere e apprezzare.

Giornata Mondiale del Risparmio del 2024. 1924-2024 cento anni di cultura del risparmio 

Fabio Panetta

ACRI, Associazione di Fondazione e di Casse di Risparmio Spa

L’intervento del Governatore della Banca d’Italia nella Giornata del risparmio delinea i collegamenti tra questo e la buona cultura d’impresa

Risparmio come strumento di investimento. Risparmiare come atto che riesce a trasferire risorse dal presente al futuro, e gesto di lungimiranza e di attenzione non egoistica. Risparmio – anche – come elemento di stabilità e risorsa al servizio degli investimenti delle imprese oltre che di ricchezza delle famiglie. Risparmio comunque importante. E doveroso nel momento in cui, certo, se ne abbiano i mezzi per metterlo in pratica.

È attorno a questi concetti che ragiona con lucidità e chiarezza Fabio Panetta – Governatore della Banca d’Italia – nel suo intervento di pochi giorni fa in occasione della Giornata Mondiale del Risparmio 2024, la centesima dalla sua istituzione.

Panetta compie un’analisi di centro anni di “cultura del risparmio” che si intreccia con la vita del Paese, i mutamenti della società, le difficoltà dell’economia, gli elementi che collegano il risparmio al resto del sistema economico e sociale. “Risparmio e progresso economico e sociale sono strettamente connessi”, dice Panetta che, dopo aver percorso cento anni di risparmio italiano, sottolinea come la solidità dell’economia reale sia la “prima tutela del risparmio” e come questo, di fatto, contribuisca al buon stato di salute della stessa economia.  Il Governatore della Banca d’Italia, poi, ricorda che elementi fondamentali per un buon livello di risparmio sono non solo la stabilità dell’economia ma anche delle istituzioni e della moneta, e del sistema finanziario. Su tutto, poi, Panetta ricorda pure la necessità dell’integrità e del rispetto “dei più elevati valori etici e professionali” di chi ha affidato il risparmio dei cittadini e delle imprese.

Risparmio, dunque, come elemento fondante per il futuro, anzi come presupposto per una cultura del futuro che risulta essere cardine per il progresso sociale ed economico di un Paese. Quella cultura che, a ben vedere, va di pari passo con quella buona cultura d’impresa essenziale soprattutto oggi e che ha molti elementi in comune con la prima.

Quello di Fabio Panetta è un intervento che indica quanto il risparmio sia, dopo cento anni, ancora non solo utile ma importante da sviluppare, far conoscere e apprezzare.

Giornata Mondiale del Risparmio del 2024. 1924-2024 cento anni di cultura del risparmio 

Fabio Panetta

ACRI, Associazione di Fondazione e di Casse di Risparmio Spa

Elogio del volontariato aziendale: fa crescere la sostenibilità e migliora la qualità delle imprese e associazioni non profit

L’obiettivo dell’impresa è produrre beni e servizi, a condizioni economicamente vantaggiose, graditi al mercato. Fare, insomma. E fare bene. Nel passaggio in corso a una economia del primato degli stakeholders (dipendenti, fornitori, consumatori, cittadini delle comunità di riferimento dell’impresa), c’è una terza dimensione su cui insistere: fare del bene. E cioè produrre valore economico (profitti, andamenti di Borsa, remunerazioni per gli azionisti) rispettando e perseguendo una serie di valori, morali e sociali. La lezione di Adriano Olivetti sull’impresa che non si può ridurre solo all’indice dei profitti e quella di Leopoldo Pirelli sulle responsabilità sociali del buon imprenditore trova nuove eco.

È un capitalismo che si rinnova, insomma, nel segno dell’economia circolare o anche “giusta” (per tenere conto dell’insistente lezione di Papa Francesco) e della sostenibilità, ambientale e sociale. Supera i guasti provocati dalla rapacità del primato della finanza d’assalto (in tutte le declinazioni speculative di quel “greed is good”, dell’avidità e della cupidigia celebrate come comportamenti positivi da Gordon Gekko, l’esemplare protagonista di “Wall Street”, interpretato da un efficace Michael Douglas). E insiste su un vero e proprio “cambio di paradigma” secondo cui la crescita dell’economia di mercato non può avvenire se non nel contesto di una attenzione speciale per i “beni comuni”, per gli interessi della comunità, per il rispetto delle persone. Per una solida democrazia economica.

Non si tratta solo di una inclinazione benevola, da parte delle imprese. Ma di una vera e propria svolta etica e culturale, anche con la consapevolezza che “essere buoni conviene”, per usare una brillante sintesi di Ermete Realacci, presidente di Symbola. Perché, come documentano appunto le ricerche dell’associazione sull’economia green e ricca di impegni e risvolti sociali, “le imprese coesive, cioè quelle solidali e attente agli equilibri delle comunità del loro territorio, sono più competitive e innovative, ma anche più capaci di export” (https://symbola.net/approfondimento/imprese-coesive/ ).

In questo quadro, ha un peso crescente anche il volontariato aziendale, come spiega bene un libro che si intitola appunto “Il volontariato aziendale – Profit e non profit insieme per il bene di comunità e territori” scritto da Patrizia Giorgio, Laura Guardini e Renata Villa e appena pubblicato da Egea, con una prefazione di Ferruccio de Bortoli e un contribuito di Rossella Sobrero.

Le tre autrici hanno messo a frutto le loro esperienze in contesti molto diversi ma complementari, tra imprese, attività del “terzo settore” e un “laboratorio” che favorisce il dialogo i tra i due mondi. Con l’obiettivo prioritario di “far comprendere che un progetto di volontariato aziendale è efficace solo se viene pensato, pianificato e promosso attraverso una partnership in cui impresa e organizzazione non profit sono sullo stesso piano, in un rapporto paritario, simmetrico e di reciprocità”. Un quadro della situazione. E una vera e propria bussola in grado di orientare le imprese a impegnarsi, con esempi concreti di attività e criteri di valutazione dei risultati.

Tutto nasce nel 2015, dall’incontro tra due donne intraprendenti, Lina Sotis, giornalista del Corriere della Sera e fondatrice dell’associazione “Quartieri tranquilli” e Patrizia Grieco, manager di solide esperienze, allora presidente dell’Enel. L’obiettivo comune è incoraggiare i dipendenti delle imprese a partecipare, in orario di lavoro, alla realizzazione di progetti di carattere solidale, collaborando appunto con una organizzazione non profit. Nel tempo, la Fondazione Sodalitas (nata nel 1995 per iniziativa di Assolombarda e di un gruppo di imprese milanesi e oggi presieduta da Alberto Pirelli) si è impegnata nell’iniziativa, mettendo a disposizione la propria esperienza di volontariato. E oggi ci si muove per allargare l’ambito delle attività, in una condizione di crescente interesse, sia delle aziende che dei loro dipendenti, per l’impegno sociale.

L’ultimo rapporto di CECP (Chief Executives for Corporate Purpose) su un campione di imprese a livello internazionale, rivela che la percentuale media di dipendenti che hanno fatto almeno un’ora di volontariato aziendale nel 2022 è stata del 19,8%, in aumento di circa il 3% rispetto al 2021. Si tratta di un incremento del fenomeno ancora limitato, rispetto al tasso del periodo precedente alla pandemia Covid, che era del 29% nel ‘19. E solo in alcuni settori come quello energetico, finanziario e nei servizi di pubblica utilità la crescita della partecipazione è più sostenuta. Ma, nonostante tutto, la crescita continua.

E in Italia? Il volontariato aziendale, spiega il libro, “è ancora una pratica in fase di sviluppo. E le aziende più attive sono principalmente le sedi italiane di multinazionali estere”. Una ricerca sviluppata da Fondazione Terzjus nel 2023, con la collaborazione dell’ufficio studi di Unioncamere, “ha rilevato che a livello nazionale solo il 5% delle imprese che impiegano almeno 50 dipendenti sviluppa iniziative di volontariato aziendale, e di queste il 39,4% si orienta verso il volontariato di competenza”, la messa a disposizione di persone che, grazie appunto alle loro competenze aziendali, collaborano a rendere più funzionali ed efficaci le iniziative di “terzo settore”. Più in generale, la ricerca mostra comunque come “il volontariato non sembra essere un fenomeno residuale nel tessuto economico del Paese, dal momento che coinvolge direttamente circa un terzo delle imprese medio-grandi (31%), le quali già consentono (o pensano di farlo a breve) ai lavoratori e ai manager di impegnarsi nel sociale”.

Commenta Ferruccio de Bortoli: “Le organizzazioni di volontariato soffrono più per la mancanza di profili competenti che per la scarsità di risorse. E non è raro che nelle aziende, all’approssimarsi della pensione, si liberino energie di valore che possono essere prestate, con piena soddisfazione dei singoli, ad attività part time nelle imprese sociali”. E l’azienda? “Nell’attività solidale, il bene è reciproco. Lo può essere anche per un’azienda, per renderla più sostenibile e accettabile. Per i suoi dipendenti, che si sentiranno cittadini attivi e consapevoli. E soprattutto per i destinatari finali, le persone che hanno bisogno, che non sono mai l’oggetto e nemmeno lo strumento, anche delle migliori iniziative. Questa è la differenza tra l’egoismo della carità e la bellezza incomparabile del bene fatto bene”.

Ne è convinto anche Enrico Giovannini, direttore scientifico dell’Asvis, l’associazione per lo sviluppo sostenibile: “Le vie per costruire uno sviluppo sostenibile sono numerose. E anche il volontariato aziendale può contribuire ad accrescere il benessere della società”.

La sintesi è di Patrizia Grieco, adesso presidente di Anima Holding: “Promuovere il volontariato in azienda contribuisce a costruire una società civile viva e attiva e risponde a quella ricerca di senso e di uno scopo che sempre più persone chiedono al lavoro”.

(foto Getty Images)

L’obiettivo dell’impresa è produrre beni e servizi, a condizioni economicamente vantaggiose, graditi al mercato. Fare, insomma. E fare bene. Nel passaggio in corso a una economia del primato degli stakeholders (dipendenti, fornitori, consumatori, cittadini delle comunità di riferimento dell’impresa), c’è una terza dimensione su cui insistere: fare del bene. E cioè produrre valore economico (profitti, andamenti di Borsa, remunerazioni per gli azionisti) rispettando e perseguendo una serie di valori, morali e sociali. La lezione di Adriano Olivetti sull’impresa che non si può ridurre solo all’indice dei profitti e quella di Leopoldo Pirelli sulle responsabilità sociali del buon imprenditore trova nuove eco.

È un capitalismo che si rinnova, insomma, nel segno dell’economia circolare o anche “giusta” (per tenere conto dell’insistente lezione di Papa Francesco) e della sostenibilità, ambientale e sociale. Supera i guasti provocati dalla rapacità del primato della finanza d’assalto (in tutte le declinazioni speculative di quel “greed is good”, dell’avidità e della cupidigia celebrate come comportamenti positivi da Gordon Gekko, l’esemplare protagonista di “Wall Street”, interpretato da un efficace Michael Douglas). E insiste su un vero e proprio “cambio di paradigma” secondo cui la crescita dell’economia di mercato non può avvenire se non nel contesto di una attenzione speciale per i “beni comuni”, per gli interessi della comunità, per il rispetto delle persone. Per una solida democrazia economica.

Non si tratta solo di una inclinazione benevola, da parte delle imprese. Ma di una vera e propria svolta etica e culturale, anche con la consapevolezza che “essere buoni conviene”, per usare una brillante sintesi di Ermete Realacci, presidente di Symbola. Perché, come documentano appunto le ricerche dell’associazione sull’economia green e ricca di impegni e risvolti sociali, “le imprese coesive, cioè quelle solidali e attente agli equilibri delle comunità del loro territorio, sono più competitive e innovative, ma anche più capaci di export” (https://symbola.net/approfondimento/imprese-coesive/ ).

In questo quadro, ha un peso crescente anche il volontariato aziendale, come spiega bene un libro che si intitola appunto “Il volontariato aziendale – Profit e non profit insieme per il bene di comunità e territori” scritto da Patrizia Giorgio, Laura Guardini e Renata Villa e appena pubblicato da Egea, con una prefazione di Ferruccio de Bortoli e un contribuito di Rossella Sobrero.

Le tre autrici hanno messo a frutto le loro esperienze in contesti molto diversi ma complementari, tra imprese, attività del “terzo settore” e un “laboratorio” che favorisce il dialogo i tra i due mondi. Con l’obiettivo prioritario di “far comprendere che un progetto di volontariato aziendale è efficace solo se viene pensato, pianificato e promosso attraverso una partnership in cui impresa e organizzazione non profit sono sullo stesso piano, in un rapporto paritario, simmetrico e di reciprocità”. Un quadro della situazione. E una vera e propria bussola in grado di orientare le imprese a impegnarsi, con esempi concreti di attività e criteri di valutazione dei risultati.

Tutto nasce nel 2015, dall’incontro tra due donne intraprendenti, Lina Sotis, giornalista del Corriere della Sera e fondatrice dell’associazione “Quartieri tranquilli” e Patrizia Grieco, manager di solide esperienze, allora presidente dell’Enel. L’obiettivo comune è incoraggiare i dipendenti delle imprese a partecipare, in orario di lavoro, alla realizzazione di progetti di carattere solidale, collaborando appunto con una organizzazione non profit. Nel tempo, la Fondazione Sodalitas (nata nel 1995 per iniziativa di Assolombarda e di un gruppo di imprese milanesi e oggi presieduta da Alberto Pirelli) si è impegnata nell’iniziativa, mettendo a disposizione la propria esperienza di volontariato. E oggi ci si muove per allargare l’ambito delle attività, in una condizione di crescente interesse, sia delle aziende che dei loro dipendenti, per l’impegno sociale.

L’ultimo rapporto di CECP (Chief Executives for Corporate Purpose) su un campione di imprese a livello internazionale, rivela che la percentuale media di dipendenti che hanno fatto almeno un’ora di volontariato aziendale nel 2022 è stata del 19,8%, in aumento di circa il 3% rispetto al 2021. Si tratta di un incremento del fenomeno ancora limitato, rispetto al tasso del periodo precedente alla pandemia Covid, che era del 29% nel ‘19. E solo in alcuni settori come quello energetico, finanziario e nei servizi di pubblica utilità la crescita della partecipazione è più sostenuta. Ma, nonostante tutto, la crescita continua.

E in Italia? Il volontariato aziendale, spiega il libro, “è ancora una pratica in fase di sviluppo. E le aziende più attive sono principalmente le sedi italiane di multinazionali estere”. Una ricerca sviluppata da Fondazione Terzjus nel 2023, con la collaborazione dell’ufficio studi di Unioncamere, “ha rilevato che a livello nazionale solo il 5% delle imprese che impiegano almeno 50 dipendenti sviluppa iniziative di volontariato aziendale, e di queste il 39,4% si orienta verso il volontariato di competenza”, la messa a disposizione di persone che, grazie appunto alle loro competenze aziendali, collaborano a rendere più funzionali ed efficaci le iniziative di “terzo settore”. Più in generale, la ricerca mostra comunque come “il volontariato non sembra essere un fenomeno residuale nel tessuto economico del Paese, dal momento che coinvolge direttamente circa un terzo delle imprese medio-grandi (31%), le quali già consentono (o pensano di farlo a breve) ai lavoratori e ai manager di impegnarsi nel sociale”.

Commenta Ferruccio de Bortoli: “Le organizzazioni di volontariato soffrono più per la mancanza di profili competenti che per la scarsità di risorse. E non è raro che nelle aziende, all’approssimarsi della pensione, si liberino energie di valore che possono essere prestate, con piena soddisfazione dei singoli, ad attività part time nelle imprese sociali”. E l’azienda? “Nell’attività solidale, il bene è reciproco. Lo può essere anche per un’azienda, per renderla più sostenibile e accettabile. Per i suoi dipendenti, che si sentiranno cittadini attivi e consapevoli. E soprattutto per i destinatari finali, le persone che hanno bisogno, che non sono mai l’oggetto e nemmeno lo strumento, anche delle migliori iniziative. Questa è la differenza tra l’egoismo della carità e la bellezza incomparabile del bene fatto bene”.

Ne è convinto anche Enrico Giovannini, direttore scientifico dell’Asvis, l’associazione per lo sviluppo sostenibile: “Le vie per costruire uno sviluppo sostenibile sono numerose. E anche il volontariato aziendale può contribuire ad accrescere il benessere della società”.

La sintesi è di Patrizia Grieco, adesso presidente di Anima Holding: “Promuovere il volontariato in azienda contribuisce a costruire una società civile viva e attiva e risponde a quella ricerca di senso e di uno scopo che sempre più persone chiedono al lavoro”.

(foto Getty Images)

Fondazione Pirelli alla XXIII Settimana della Cultura d’Impresa

L’innovazione digitale per un nuovo umanesimo industriale

Si terrà dal 14 al 28 novembre 2024 la XXIII Settimana della Cultura d’Impresa, la rassegna di eventi promossa da Confindustria e Museimpresa, quest’anno focalizzata sul tema “Mani che pensano. Intelligenza artificiale, arte e cultura per il rilancio dell’impresa”. Uno dei principali cambiamenti in atto nel mondo delle imprese – e non solo – riguarda infatti la digital economy e gli sviluppi dell’Intelligenza Artificiale: si aprono sfide nuove e complesse, con evidenti connotazioni culturali. Anche in questa 23ª edizione, Fondazione Pirelli sarà presente alla manifestazione con iniziative che raccontano, o utilizzano quali strumento di divulgazione, il mondo delle tecnologie digitali. Nella convinzione che la digital innovation, in cui l’AI ha oggi un ruolo determinante, non si riduca all’utilizzo acritico e puramente performativo delle nuove tecnologie, ma rappresenti un modo di ripensare i processi produttivi e creativi, una nuova fase della cultura politecnica.

La Settimana della Cultura d’Impresa 2024 sarà l’occasione per presentare al pubblico la mostra “L’officina dello sport. Le squadre, la ricerca, la tecnologia, la passione e i valori sociali”. Un percorso espositivo che si apre con una “Wunderkammer”: documenti e oggetti iconici dialogano con un ambiente digitale per raccontare l’innovazione dei prodotti della “P lunga” in ambito sportivo. Lo sport è anche al centro del nostro welfare aziendale, caposaldo della cultura d’impresa di Pirelli fin dagli anni Venti del Novecento.

La sezione iconografica della mostra si amplia nell’Open Space della Fondazione con le tavole illustrate realizzate da Lorenzo Mattotti per il volume “L’officina dello sport”, le celebri campagne pubblicitarie di Pirelli con i protagonisti del mondo sportivo come Alberto Ascari, Carl Lewis, Adriano Panatta, Marie-José Pérec, Ronaldo e Serena Williams, fotografie che immortalano il backstage delle competizioni, il ruolo del team dietro le vittorie dei campioni, l’importanza della ricerca tecnologica, la passione dietro le performance degli atleti.

La ricchezza del patrimonio conservato in Fondazione è inoltre esplorabile mediante una parete interattiva che permette di ripercorrere oltre un secolo e mezzo di storia aziendale e di successi sportivi attraverso due timeline tematiche. Un’esperienza immersiva in un mondo di emozioni e innovazioni, una storia di competizioni che inizia con la nascita dell’azienda e che continua ancora oggi.

L’appuntamento è per venerdì 29 novembre, con 3 turni di visite guidate (ore 16.30, 17.30 e 19.00), della durata di circa 60 minuti. Il turno delle 17.30 sarà dedicato alle famiglie (con bambini e ragazzi dai 6 ai 14 anni) che dopo la visita guidata saranno coinvolte in un’appassionante sfida a colpi di quiz sul legame tra Pirelli e il mondo dello sport.

L’ingresso è gratuito e su prenotazione, fino a esaurimento posti, iscrivendosi ai percorsi tramite questo tool per i turni delle ore 16.30 e 19.00, e a questo tool per il “family quiz” delle 17.30.

L’innovazione digitale per un nuovo umanesimo industriale

Si terrà dal 14 al 28 novembre 2024 la XXIII Settimana della Cultura d’Impresa, la rassegna di eventi promossa da Confindustria e Museimpresa, quest’anno focalizzata sul tema “Mani che pensano. Intelligenza artificiale, arte e cultura per il rilancio dell’impresa”. Uno dei principali cambiamenti in atto nel mondo delle imprese – e non solo – riguarda infatti la digital economy e gli sviluppi dell’Intelligenza Artificiale: si aprono sfide nuove e complesse, con evidenti connotazioni culturali. Anche in questa 23ª edizione, Fondazione Pirelli sarà presente alla manifestazione con iniziative che raccontano, o utilizzano quali strumento di divulgazione, il mondo delle tecnologie digitali. Nella convinzione che la digital innovation, in cui l’AI ha oggi un ruolo determinante, non si riduca all’utilizzo acritico e puramente performativo delle nuove tecnologie, ma rappresenti un modo di ripensare i processi produttivi e creativi, una nuova fase della cultura politecnica.

La Settimana della Cultura d’Impresa 2024 sarà l’occasione per presentare al pubblico la mostra “L’officina dello sport. Le squadre, la ricerca, la tecnologia, la passione e i valori sociali”. Un percorso espositivo che si apre con una “Wunderkammer”: documenti e oggetti iconici dialogano con un ambiente digitale per raccontare l’innovazione dei prodotti della “P lunga” in ambito sportivo. Lo sport è anche al centro del nostro welfare aziendale, caposaldo della cultura d’impresa di Pirelli fin dagli anni Venti del Novecento.

La sezione iconografica della mostra si amplia nell’Open Space della Fondazione con le tavole illustrate realizzate da Lorenzo Mattotti per il volume “L’officina dello sport”, le celebri campagne pubblicitarie di Pirelli con i protagonisti del mondo sportivo come Alberto Ascari, Carl Lewis, Adriano Panatta, Marie-José Pérec, Ronaldo e Serena Williams, fotografie che immortalano il backstage delle competizioni, il ruolo del team dietro le vittorie dei campioni, l’importanza della ricerca tecnologica, la passione dietro le performance degli atleti.

La ricchezza del patrimonio conservato in Fondazione è inoltre esplorabile mediante una parete interattiva che permette di ripercorrere oltre un secolo e mezzo di storia aziendale e di successi sportivi attraverso due timeline tematiche. Un’esperienza immersiva in un mondo di emozioni e innovazioni, una storia di competizioni che inizia con la nascita dell’azienda e che continua ancora oggi.

L’appuntamento è per venerdì 29 novembre, con 3 turni di visite guidate (ore 16.30, 17.30 e 19.00), della durata di circa 60 minuti. Il turno delle 17.30 sarà dedicato alle famiglie (con bambini e ragazzi dai 6 ai 14 anni) che dopo la visita guidata saranno coinvolte in un’appassionante sfida a colpi di quiz sul legame tra Pirelli e il mondo dello sport.

L’ingresso è gratuito e su prenotazione, fino a esaurimento posti, iscrivendosi ai percorsi tramite questo tool per i turni delle ore 16.30 e 19.00, e a questo tool per il “family quiz” delle 17.30.

Le quattro rettrici di Milano contro il gender gap: sfida di equità ma anche di sviluppo economico

Quattro donne contro il gender gap. Quattro rettrici universitarie di Milano, per l’esattezza: Elena Beccalli della Cattolica, Marina Brambilla della Statale, Giovanna Iannantuoni della Bicocca (è anche presidentessa della Crui, la Conferenza dei rettori di tutte le università italiane) e Donatella Sciuto del Politecnico. C’è una foto esemplare (la Repubblica, 26 ottobre) che le ritrae una accanto all’altra, con il sindaco della città Beppe Sala, mentre discutono, a Palazzo Marino, con un gruppo di studenti e studentesse delle scuole superiori, per ragionare insieme su come fare crescere la partecipazione femminile al mercato del lavoro e su quali vantaggi possono derivarne non solo per l’economia, ma anche e soprattutto per la coesione sociale, lo sviluppo sostenibile, la qualità della vita (la Repubblica, 26 ottobre).

È una foto simbolica, del cammino fatto dalle donne, proprio a Milano, sul piano della responsabilità politica e culturale (potrebbe essere ancora più significativa in futuro, se si pensa che a novembre si insedia la nuova rettrice dello Iulm, Valentina Garavaglia e che si potrebbe pur dire “milanese” anche Anna Gervasoni, la rettrice della Liuc, l’università di Castellanza geograficamente in provincia di Varese ma fortemente connessa con i territori produttivi del nord di Milano). Ma al di là della foto, i ragionamenti delle rettrici contengono anche un monito: su quanto resta ancora da fare per ridurre e poi eliminare quelle differenze di genere che riguardano il lavoro, la retribuzione, i diritti e perché no? il potere, come accesso agli strumenti in grado di determinare gli equilibri economici e sociali e tracciare un migliore futuro.

Una cosa sembra infatti chiara: ragionare sul ruolo, sul peso e sulla responsabilità delle donne non significa soltanto avere in campo conoscenze e competenze rivolte a migliorare la condizione femminile, ma soprattutto poter disporre di un universo intellettuale e culturale, di una “intelligenza del cuore”, di una sensibilità e di una attitudine pragmatica alla soluzione dei problemi che possono essere determinanti per quel “cambio di paradigma” economico e sociale di cui si parla da tempo e che investe l’economia produttiva in senso stretto, la vita civile, la sfera complessa dei diritti e dei doveri, il welfare, l’insieme della nostra stessa democrazia.

E riguarda, naturalmente, le condizioni di un miglior futuro. Compresa l’evoluzione e la governance dell’Intelligenza Artificiale. Come chiarisce Donatella Sciuto, Politecnico: “Se penso che i sistemi di AI sono sviluppati per la stragrande maggioranza dagli uomini è chiaro che anche la tecnologia può diventare un ulteriore pregiudizio di genere”. E dunque? Sembra oramai acquisito il fatto che, per dirla in modo semplice, la struttura degli algoritmi, la costruzione della relazione tra domande e risposte abbiano bisogno di un impegno multidisciplinare (cyberscience, fisica, matematica, statistica, ingegneria ma anche sociologia, filosofia, psicologia, economia, diritto) per capirne senso e valori e governarne dinamiche e conseguenze. L’importante è che la presenza femminile, disciplina per disciplina, sia elevata. L’impegno delle quattro rettrici indica una strada da seguire.

C’è un punto fermo: insistere sul merito, sulle capacità professionali delle donne. “Non siamo diventate rettrici per le quote rosa. Abbiamo studiato, fatto ricerca e concorsi”, sostiene Marina Brambilla, al vertice della Statale. E dunque “le donne riescono a diventare protagoniste laddove sono messe nelle condizioni di studiare come i loro compagni. Penso che Milano e la Lombardia possano essere un esempio”.

Ci sono tre articoli della Costituzione che possono fare da riferimento, il 3, il 31 e il 37, che esplicitamente stabilisce che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore” (ne abbiamo parlato nel blog del 17 settembre). E c’è una disparità che continua a incidere sia sulla vita personale di milioni di donne sia sulla qualità stessa dello sviluppo economico del Paese.

Guardiamo alcuni dati, per capire meglio. Il tasso di occupazione femminile, secondo l’Istat, è stato nel primo semestre ‘24 del 52,7%, in miglioramento rispetto al 51,9 dello stesso periodo dell’anno precedente. Ma comunque nettamente al di sotto di quello maschile, rispettivamente al 70,4% nel ’24 e al 69,4% del ’23, con una forbice di 18 punti, molto più ampia del 10% della media Ue. Un divario di genere che continua a collocarci nelle ultime posizioni europee. E si ripercuote negativamente sull’andamento complessivo dell’economia italiana: “Se il nostro tasso di occupazione femminile raggiungesse la media europea, il Pil crescerebbe del 7,4%”, sostiene Azzurra Rinaldi, economista, direttrice della School of Gender Economics dell’università “La Sapienza” di Roma. Il ragionamento vale anche guardando al contesto della Ue: “Investire sull’uguaglianza di genere, come documenta l’Istituto europeo per la parità di genere, potrebbe fare aumentare il Pil pro capite in Europa nel 2050 dal 6,1% al 9,6%. Il che vuol dire approssimativamente un guadagno tra 1,95 e 3,15 trilioni di euro”, commenta Linda Laura Sabbadini (la Repubblica, 25 settembre), chiedendosi retoricamente se bastino queste prospettive per “cambiare finalmente strada” ai governi europei e investire sulla parità e il lavoro femminile. Insiste Sabbadini: “Il nostro Paese è ancora prigioniero di una visione miope, non solo perché ingiusta e penalizzante, ma perché frutto di una cultura che non comprende che investire sulla parità di genere significa trainare la crescita economica”.

Altri dati rilevanti vengono dall’Inps che documenta come “le madri sono penalizzate su stipendi e carriere” (la Repubblica, 25 settembre). Il fenomeno, in letteratura economica e sociale si chiama child penalty, per indicare le conseguenze che una maternità ha su lavoro e carriera. Si apre un differenziale con gli uomini, che progrediscono sotto i due aspetti, mentre le madri vivono una condizione di part time e di rallentamento degli avanzamenti professionale. Con un divario che raramente si recupera (circa trenta punti, calcola l’Inps). E con effetti, ovviamente, anche sulle pensioni: l’assegno medio dei pensionati supera del 35% quello delle pensionate.

C’è ancora un altro aspetto, che l’Inps mette in rilievo: la crescente tendenza femminile all’abbandono del lavoro, dopo la nascita di un figlio. Se, prima di quella nascita, la probabilità di lasciare il lavoro è più o meno pari (9% gli uomini, 11% le donne), subito dopo, nell’anno della nascita, il rischio sale al 18% per la madre e comincia a scendere all’8% per il padre. A due anni, il rischio per la madre è ancora alto (14%) e solo dopo il terzo anno si torna in condizione di parità. Naturalmente se si può contare su sostegni familiari e sociali (a cominciare dagli asili nido).

La situazione, naturalmente, si aggrava per le lavoratrici part time.

Una situazione da cambiare radicalmente. Con scelte politiche. Investimenti di welfare. Pari opportunità. E modifiche delle tendenze culturali. Un impegno di sguardo lungo e ampio respiro. Non esattamente quello di cui ci parlano cronache e statistiche.

Non si tratta solo di giustizia e di migliori equilibri sociali. Ma anche di vantaggio in termini di valori e di qualità dello sviluppo. Commenta Marina Beccalli, Università Cattolica: Ci sono moltissimi studi internazionali che documentano come nelle organizzazioni o aziende dov’è maggiore la presenza di donne ci sono meno frodi, comportamenti più etici, un maggiore orientamento alla sostenibilità”.

(foto Getty Images)

Quattro donne contro il gender gap. Quattro rettrici universitarie di Milano, per l’esattezza: Elena Beccalli della Cattolica, Marina Brambilla della Statale, Giovanna Iannantuoni della Bicocca (è anche presidentessa della Crui, la Conferenza dei rettori di tutte le università italiane) e Donatella Sciuto del Politecnico. C’è una foto esemplare (la Repubblica, 26 ottobre) che le ritrae una accanto all’altra, con il sindaco della città Beppe Sala, mentre discutono, a Palazzo Marino, con un gruppo di studenti e studentesse delle scuole superiori, per ragionare insieme su come fare crescere la partecipazione femminile al mercato del lavoro e su quali vantaggi possono derivarne non solo per l’economia, ma anche e soprattutto per la coesione sociale, lo sviluppo sostenibile, la qualità della vita (la Repubblica, 26 ottobre).

È una foto simbolica, del cammino fatto dalle donne, proprio a Milano, sul piano della responsabilità politica e culturale (potrebbe essere ancora più significativa in futuro, se si pensa che a novembre si insedia la nuova rettrice dello Iulm, Valentina Garavaglia e che si potrebbe pur dire “milanese” anche Anna Gervasoni, la rettrice della Liuc, l’università di Castellanza geograficamente in provincia di Varese ma fortemente connessa con i territori produttivi del nord di Milano). Ma al di là della foto, i ragionamenti delle rettrici contengono anche un monito: su quanto resta ancora da fare per ridurre e poi eliminare quelle differenze di genere che riguardano il lavoro, la retribuzione, i diritti e perché no? il potere, come accesso agli strumenti in grado di determinare gli equilibri economici e sociali e tracciare un migliore futuro.

Una cosa sembra infatti chiara: ragionare sul ruolo, sul peso e sulla responsabilità delle donne non significa soltanto avere in campo conoscenze e competenze rivolte a migliorare la condizione femminile, ma soprattutto poter disporre di un universo intellettuale e culturale, di una “intelligenza del cuore”, di una sensibilità e di una attitudine pragmatica alla soluzione dei problemi che possono essere determinanti per quel “cambio di paradigma” economico e sociale di cui si parla da tempo e che investe l’economia produttiva in senso stretto, la vita civile, la sfera complessa dei diritti e dei doveri, il welfare, l’insieme della nostra stessa democrazia.

E riguarda, naturalmente, le condizioni di un miglior futuro. Compresa l’evoluzione e la governance dell’Intelligenza Artificiale. Come chiarisce Donatella Sciuto, Politecnico: “Se penso che i sistemi di AI sono sviluppati per la stragrande maggioranza dagli uomini è chiaro che anche la tecnologia può diventare un ulteriore pregiudizio di genere”. E dunque? Sembra oramai acquisito il fatto che, per dirla in modo semplice, la struttura degli algoritmi, la costruzione della relazione tra domande e risposte abbiano bisogno di un impegno multidisciplinare (cyberscience, fisica, matematica, statistica, ingegneria ma anche sociologia, filosofia, psicologia, economia, diritto) per capirne senso e valori e governarne dinamiche e conseguenze. L’importante è che la presenza femminile, disciplina per disciplina, sia elevata. L’impegno delle quattro rettrici indica una strada da seguire.

C’è un punto fermo: insistere sul merito, sulle capacità professionali delle donne. “Non siamo diventate rettrici per le quote rosa. Abbiamo studiato, fatto ricerca e concorsi”, sostiene Marina Brambilla, al vertice della Statale. E dunque “le donne riescono a diventare protagoniste laddove sono messe nelle condizioni di studiare come i loro compagni. Penso che Milano e la Lombardia possano essere un esempio”.

Ci sono tre articoli della Costituzione che possono fare da riferimento, il 3, il 31 e il 37, che esplicitamente stabilisce che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore” (ne abbiamo parlato nel blog del 17 settembre). E c’è una disparità che continua a incidere sia sulla vita personale di milioni di donne sia sulla qualità stessa dello sviluppo economico del Paese.

Guardiamo alcuni dati, per capire meglio. Il tasso di occupazione femminile, secondo l’Istat, è stato nel primo semestre ‘24 del 52,7%, in miglioramento rispetto al 51,9 dello stesso periodo dell’anno precedente. Ma comunque nettamente al di sotto di quello maschile, rispettivamente al 70,4% nel ’24 e al 69,4% del ’23, con una forbice di 18 punti, molto più ampia del 10% della media Ue. Un divario di genere che continua a collocarci nelle ultime posizioni europee. E si ripercuote negativamente sull’andamento complessivo dell’economia italiana: “Se il nostro tasso di occupazione femminile raggiungesse la media europea, il Pil crescerebbe del 7,4%”, sostiene Azzurra Rinaldi, economista, direttrice della School of Gender Economics dell’università “La Sapienza” di Roma. Il ragionamento vale anche guardando al contesto della Ue: “Investire sull’uguaglianza di genere, come documenta l’Istituto europeo per la parità di genere, potrebbe fare aumentare il Pil pro capite in Europa nel 2050 dal 6,1% al 9,6%. Il che vuol dire approssimativamente un guadagno tra 1,95 e 3,15 trilioni di euro”, commenta Linda Laura Sabbadini (la Repubblica, 25 settembre), chiedendosi retoricamente se bastino queste prospettive per “cambiare finalmente strada” ai governi europei e investire sulla parità e il lavoro femminile. Insiste Sabbadini: “Il nostro Paese è ancora prigioniero di una visione miope, non solo perché ingiusta e penalizzante, ma perché frutto di una cultura che non comprende che investire sulla parità di genere significa trainare la crescita economica”.

Altri dati rilevanti vengono dall’Inps che documenta come “le madri sono penalizzate su stipendi e carriere” (la Repubblica, 25 settembre). Il fenomeno, in letteratura economica e sociale si chiama child penalty, per indicare le conseguenze che una maternità ha su lavoro e carriera. Si apre un differenziale con gli uomini, che progrediscono sotto i due aspetti, mentre le madri vivono una condizione di part time e di rallentamento degli avanzamenti professionale. Con un divario che raramente si recupera (circa trenta punti, calcola l’Inps). E con effetti, ovviamente, anche sulle pensioni: l’assegno medio dei pensionati supera del 35% quello delle pensionate.

C’è ancora un altro aspetto, che l’Inps mette in rilievo: la crescente tendenza femminile all’abbandono del lavoro, dopo la nascita di un figlio. Se, prima di quella nascita, la probabilità di lasciare il lavoro è più o meno pari (9% gli uomini, 11% le donne), subito dopo, nell’anno della nascita, il rischio sale al 18% per la madre e comincia a scendere all’8% per il padre. A due anni, il rischio per la madre è ancora alto (14%) e solo dopo il terzo anno si torna in condizione di parità. Naturalmente se si può contare su sostegni familiari e sociali (a cominciare dagli asili nido).

La situazione, naturalmente, si aggrava per le lavoratrici part time.

Una situazione da cambiare radicalmente. Con scelte politiche. Investimenti di welfare. Pari opportunità. E modifiche delle tendenze culturali. Un impegno di sguardo lungo e ampio respiro. Non esattamente quello di cui ci parlano cronache e statistiche.

Non si tratta solo di giustizia e di migliori equilibri sociali. Ma anche di vantaggio in termini di valori e di qualità dello sviluppo. Commenta Marina Beccalli, Università Cattolica: Ci sono moltissimi studi internazionali che documentano come nelle organizzazioni o aziende dov’è maggiore la presenza di donne ci sono meno frodi, comportamenti più etici, un maggiore orientamento alla sostenibilità”.

(foto Getty Images)

Come sostenere la sostenibilità in azienda

Un libro appena pubblicato fornisce un buon manuale per orientarsi in un percorso non facile

Sostenibilità apparentemente conosciuta. È la condizione vissuta da molte imprese il cui management solo in apparenza conosce i meandri della sostenibilità, e di tutto ciò che ne consegue. Questione non solo di informazioni accurate e di attenzione, ma anche di cultura d’impresa che, necessariamente, deve cambiare sempre più velocemente (seppur stando ancorata ad alcuni principi irrinunciabili).

L’introduzione dei criteri di sostenibilità nelle aziende è qualcosa che ha a che fare con l’organizzazione ma anche con la strategia e, come si è detto, con il substrato culturale di chi in azienda lavora. È attorno a queste idee che Niccolò Maria Todaro, Francesco Testa e Marco Frey hanno scritto il loro “Integrare la sostenibilità in azienda. Un percorso strategico, organizzativo e culturale” da poco pubblicato in open access.

“L’integrazione della sostenibilità nelle odierne realtà imprenditoriali richiede (…) un cambiamento profondo nel modo di fare impresa, volto a ridefinire obiettivi e priorità attraverso i diversi ambiti dell’azione organizzativa”, scrivono nelle prime pagine gli autori che ricordano subito i contenuti significativi di questo mutamento: il cambiamento delle strategie e del modello di business, delle modalità di organizzazione del lavoro, delle modalità stesse con le quali le persone si relazionano con il lavoro e sul luogo di lavoro. Questione complessa, dunque, quella della integrazione della sostenibilità in un’impresa, questione che, tra l’altro, da un lato è una scelta ma, dall’altro, diventa un obbligo imposto dalla realtà e che rappresenta pure una sfida “alla capacità delle odierne realtà imprenditoriali di radicare i principi dello sviluppo sostenibile nel proprio modus operandi, ben aldilà di impegni simbolici e iniziative cosmetiche”.

Todaro, Testa e Frey provano con il loro libro a fornire una mappa per orientare chi è alle prese con un’operazione di questo genere. Iniziando dall’approfondire che cosa sia per davvero la sostenibilità, per fornirne quindi una visione orientata al futuro e, subito dopo, legare la sostenibilità alla necessità, come si diceva prima, di un cambio di cultura organizzativa e d’impresa. Il libro si chiude poi con due capitoli dedicati alla guida del cambiamento necessario nelle diverse componenti d’impresa.

Scrivono nelle loro conclusioni gli autori come il raggiungimento della sostenibilità aziendale “non costituisca  una meta statica, quanto piuttosto un processo continuo di adattamento a, e di integrazione di, priorità divergenti e obiettivi conflittuali. Questo non si esaurisce nell’assetto competitivo dell’impresa, ma si riverbera nelle scelte che determinano l’assetto organizzativo, la cultura, e il ruolo delle persone in azienda”.

Integrare la sostenibilità in azienda. Un percorso strategico, organizzativo e culturale

Niccolò Maria Todaro, Francesco Testa, Marco Frey

Franco Angeli, 2024

Un libro appena pubblicato fornisce un buon manuale per orientarsi in un percorso non facile

Sostenibilità apparentemente conosciuta. È la condizione vissuta da molte imprese il cui management solo in apparenza conosce i meandri della sostenibilità, e di tutto ciò che ne consegue. Questione non solo di informazioni accurate e di attenzione, ma anche di cultura d’impresa che, necessariamente, deve cambiare sempre più velocemente (seppur stando ancorata ad alcuni principi irrinunciabili).

L’introduzione dei criteri di sostenibilità nelle aziende è qualcosa che ha a che fare con l’organizzazione ma anche con la strategia e, come si è detto, con il substrato culturale di chi in azienda lavora. È attorno a queste idee che Niccolò Maria Todaro, Francesco Testa e Marco Frey hanno scritto il loro “Integrare la sostenibilità in azienda. Un percorso strategico, organizzativo e culturale” da poco pubblicato in open access.

“L’integrazione della sostenibilità nelle odierne realtà imprenditoriali richiede (…) un cambiamento profondo nel modo di fare impresa, volto a ridefinire obiettivi e priorità attraverso i diversi ambiti dell’azione organizzativa”, scrivono nelle prime pagine gli autori che ricordano subito i contenuti significativi di questo mutamento: il cambiamento delle strategie e del modello di business, delle modalità di organizzazione del lavoro, delle modalità stesse con le quali le persone si relazionano con il lavoro e sul luogo di lavoro. Questione complessa, dunque, quella della integrazione della sostenibilità in un’impresa, questione che, tra l’altro, da un lato è una scelta ma, dall’altro, diventa un obbligo imposto dalla realtà e che rappresenta pure una sfida “alla capacità delle odierne realtà imprenditoriali di radicare i principi dello sviluppo sostenibile nel proprio modus operandi, ben aldilà di impegni simbolici e iniziative cosmetiche”.

Todaro, Testa e Frey provano con il loro libro a fornire una mappa per orientare chi è alle prese con un’operazione di questo genere. Iniziando dall’approfondire che cosa sia per davvero la sostenibilità, per fornirne quindi una visione orientata al futuro e, subito dopo, legare la sostenibilità alla necessità, come si diceva prima, di un cambio di cultura organizzativa e d’impresa. Il libro si chiude poi con due capitoli dedicati alla guida del cambiamento necessario nelle diverse componenti d’impresa.

Scrivono nelle loro conclusioni gli autori come il raggiungimento della sostenibilità aziendale “non costituisca  una meta statica, quanto piuttosto un processo continuo di adattamento a, e di integrazione di, priorità divergenti e obiettivi conflittuali. Questo non si esaurisce nell’assetto competitivo dell’impresa, ma si riverbera nelle scelte che determinano l’assetto organizzativo, la cultura, e il ruolo delle persone in azienda”.

Integrare la sostenibilità in azienda. Un percorso strategico, organizzativo e culturale

Niccolò Maria Todaro, Francesco Testa, Marco Frey

Franco Angeli, 2024

Smartness, nuovi territori e nuove organizzazioni

In una tesi la sintesi dei concetti e delle applicazioni dell’approccio smart

Smartness. Ovvero un modo di intendere lo sviluppo urbano e dei territori che sia espressione di un equilibrio complesso tra esigenze ambientali, di sostenibilità, resilienza, adattabilità, economicità, produttività e vivibilità. Smart City, quindi, ma oggi anche Smart Land e Smart Community, animate da un dialogo continuo tra istanze differenti, che si integrano, si valorizzano a vicenda, si confrontano per dare vita a qualcosa ogni volta di diverso e migliore. Concetto e realtà sicuramente complessi, quelli legati allo smartness, che devono essere ben compresi per trovare realizzazioni adeguate. Leggere “Smart City e Smart Land: politiche locali per uno sviluppo sostenibile” – ricerca di Matteo Paccagnella discussa presso l’Università degli studi di Padova – aiuta a comprendere qualcosa di più di tutto questo.

Paccagnella parte dalla considerazione che in Europa, attualmente, tre quarti della cittadinanza risiede in aree urbane e si stima che entro il 2050 le città ospiteranno l’85% dell’intera popolazione europea. È da questi numeri che emerge la necessità di ripensare i luoghi in maniera “intelligente” e sostenibile; tenendo anche conto contemporaneamente della necessità di riorganizzare i territori superando “l’architettura amministrativa fatta di confini ormai incapaci di contenere le conseguenze di fenomeni che hanno portata globale”.

Una prospettiva che, secondo Paccagnella, deve riguardare tutti – cittadini, enti locali, imprese, associazioni e centri di ricerca – nei rispettivi ruoli e che implica anche un cambio di passo nella cultura del vivere civile così come in quella d’impresa.

Il lavoro di Matteo Paccagnella cerca di mettere ordine nel patrimonio di conoscenza accumulato fino ad oggi sul tema. Partendo da un concetto: lo smartness è di fatto un “nuovo Rinascimento” fatto di elementi sociali, economici e di governo che devono essere ripensati. La ricerca, dopo aver fissato i concetti di base, si occupa di approfondire il passaggio da Smart City a Smart Land e si chiude con l’analisi di due casi studio: Bologna e Torino.

 

Smart City e Smart Land: politiche locali per uno sviluppo sostenibile

Matteo Paccagnella

Tesi, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di scienze politiche, giuridiche e studi internazionali, Corso di laurea triennale in Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Diritti Umani, 2024

In una tesi la sintesi dei concetti e delle applicazioni dell’approccio smart

Smartness. Ovvero un modo di intendere lo sviluppo urbano e dei territori che sia espressione di un equilibrio complesso tra esigenze ambientali, di sostenibilità, resilienza, adattabilità, economicità, produttività e vivibilità. Smart City, quindi, ma oggi anche Smart Land e Smart Community, animate da un dialogo continuo tra istanze differenti, che si integrano, si valorizzano a vicenda, si confrontano per dare vita a qualcosa ogni volta di diverso e migliore. Concetto e realtà sicuramente complessi, quelli legati allo smartness, che devono essere ben compresi per trovare realizzazioni adeguate. Leggere “Smart City e Smart Land: politiche locali per uno sviluppo sostenibile” – ricerca di Matteo Paccagnella discussa presso l’Università degli studi di Padova – aiuta a comprendere qualcosa di più di tutto questo.

Paccagnella parte dalla considerazione che in Europa, attualmente, tre quarti della cittadinanza risiede in aree urbane e si stima che entro il 2050 le città ospiteranno l’85% dell’intera popolazione europea. È da questi numeri che emerge la necessità di ripensare i luoghi in maniera “intelligente” e sostenibile; tenendo anche conto contemporaneamente della necessità di riorganizzare i territori superando “l’architettura amministrativa fatta di confini ormai incapaci di contenere le conseguenze di fenomeni che hanno portata globale”.

Una prospettiva che, secondo Paccagnella, deve riguardare tutti – cittadini, enti locali, imprese, associazioni e centri di ricerca – nei rispettivi ruoli e che implica anche un cambio di passo nella cultura del vivere civile così come in quella d’impresa.

Il lavoro di Matteo Paccagnella cerca di mettere ordine nel patrimonio di conoscenza accumulato fino ad oggi sul tema. Partendo da un concetto: lo smartness è di fatto un “nuovo Rinascimento” fatto di elementi sociali, economici e di governo che devono essere ripensati. La ricerca, dopo aver fissato i concetti di base, si occupa di approfondire il passaggio da Smart City a Smart Land e si chiude con l’analisi di due casi studio: Bologna e Torino.

 

Smart City e Smart Land: politiche locali per uno sviluppo sostenibile

Matteo Paccagnella

Tesi, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di scienze politiche, giuridiche e studi internazionali, Corso di laurea triennale in Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Diritti Umani, 2024

Fotografare il design. Il racconto del prodotto negli stand Pirelli degli anni Cinquanta e Sessanta

“Il prodotto industriale guadagna fascino e prestigio agli occhi del pubblico arricchendosi della fantasia dell’architetto […]. Ma come può un architetto qualificare un prodotto? Mediante un’ambientazione studiata, collocandolo in un certo modo in un certo sistema di spazi; in poche parole, inventandogli un contesto estetico”. Così scrive Armanda Guiducci sulle pagine della Rivista Pirelli del 1960, analizzando con sguardo critico la moderna civiltà del benessere, che permette all’uomo di indugiare sul momento della fruizione e nel “piacere più raffinato del consumare”. Nelle parole della scrittrice napoletana emerge l’importanza del rapporto tra gli artisti e il mondo dell’impresa; un incontro di visioni fondamentale per veicolare con la massima efficacia al grande pubblico non solo la storia e i valori di un’azienda, ma anche il racconto del prodotto, valorizzato dall’intervento di architetti e designer attraverso la costruzione di stand, negozi o vetrine che comunichino “a colpo d’occhio” la potenza commerciale di una società.
Le fotografie conservate nel nostro Archivio Storico testimoniano l’importanza per Pirelli delle fiere internazionali, palcoscenico ideale per lanciare nuovi prodotti all’avanguardia e attrarre l’attenzione del pubblico, e il coinvolgimento delle grandi firme del secolo scorso nella creazione dell’identità visiva della “P lunga” attraverso ambienti sempre più spettacolari.

A differenza degli allestimenti di inizio Novecento, privi di un preciso criterio espositivo – come si vede nell’immagine del Prager Autosalon del 1929, con un affastellamento “scultoreo” di pneumatici – a partire dagli anni Cinquanta le fiere diventano luogo privilegiato di sperimentazione architettonica: al Salone dell’Automobile di Torino del 1958 la collaborazione tra Bob Noorda e Roberto Menghi dà vita a uno spazio luminoso, dedicato non solo ai prodotti dell’azienda, sollevati da terra tramite cavi appesi al soffitto, ma anche alla costruzione del Grattacielo Pirelli; è lo stesso designer olandese a essere immortalato seduto sulle poltrone del padiglione, come a dare un ultimo sguardo al proprio lavoro prima dell’inaugurazione. Tra le varie attrazioni degli stand “P lunga” catturate dall’obiettivo ci sono dimostrazioni di montaggio e smontaggio di pneumatici, gonfiabili e dirigibili in tessuto gommato, installazioni rotanti e speciali macchine dimostrative che permettono ai visitatori di sperimentare il grado di molleggio delle sospensioni in gomma dell’azienda.

Pirelli partecipa anche a rassegne dedicate alle due ruote, come l’Esposizione Internazionale del Ciclo e Motociclo, coinvolgendo artisti come Pino Tovaglia, Marco Zanuso, Franca Helg, Franco Albini e Massimo Vignelli. È realizzato da quest’ultimo l’ambiente per l’edizione del 1963, fotografato da Roberto Facchini: pneumatici su piedistalli illuminati, schermi con immagini delle più importanti vittorie Pirelli nel mondo delle corse e soprattutto la macchina “Directomat”, piccolo robot che fornisce, stampate su carta, “120 risposte alle vostre domande sportive”, suscitando l’interesse e la curiosità di grandi e piccoli. Gli stand Pirelli all’EICMA non si limitano a mostrare i prodotti ma ne illustrano le fasi di lavorazione, simulano il loro uso su un circuito con manichini-corridori in sella a biciclette gommate Pirelli, e ricostruiscono il cammino del velocipede con la presentazione di rari pezzi storici, dalla Draisina, il “cavallo di legno” a pedali del 1855, alla Bianchi del 1952 di Fausto Coppi, vincitore quell’anno del Giro d’Italia e del Tour de France.

La varietà delle esposizioni a cui Pirelli prende parte riflette l’eterogeneità dei suoi prodotti alla metà del Novecento: dalla Mostra Triennale Antincendi del 1953 – in cui l’azienda è presente con articoli antinfortunistici come tubi, respiratori e maschere – al Salone Internazionale dell’Imballaggio di Padova del 1956, dove una Fiat 600 imbustata con foglia tubolare “Visqueen” è fotografata all’interno dello stand interamente in polietilene progettato da Noorda; dal Festival Internazionale del Bambino organizzato a Palermo nel 1957, in cui prende forma lo “zoo Pirelli” con giocattoli Rempel, al I Salone Internazionale del Mobile di Milano del 1961, dove uno scatto ritrae un operaio specializzato durante la fase di incollaggio della gommapiuma Pirelli a una seduta. Non mancano poi rassegne all’estero, tra cui la Feria Oficial e Internacional de Muestras de Barcelona del 1959: lo scenografico allestimento dello stand Pirelli, dedicato ai conduttori elettrici, è caratterizzato da una piscina centrale circondata da enormi colonne verticali a forma di cavo e da disegni rappresentanti il processo di trasporto dell’energia attraverso i prodotti della “P lunga”.

Gli scatti documentano poi le visite ufficiali da parte delle più importanti personalità politiche dell’epoca. Come il principe Umberto di Savoia con la moglie Maria José del Belgio, immortalati davanti al plastico dello stabilimento della Bicocca alla Fiera di Milano del 1933 – in dialogo con il disegno a matita e biacca dello stesso soggetto appeso alle parete – o come il Re d’Italia Vittorio Emanuele III, fotografato l’anno successivo all’uscita del classicheggiante Padiglione Pirelli, opera di Piero Portaluppi. Dalla Monarchia alla Repubblica: al Salone di Torino vengono ripresi i presidenti Luigi Einaudi nel 1951 e Giuseppe Saragat nel 1965, quest’ultimo insieme con Leopoldo Pirelli e Juan Manuel Fangio, protagonista quell’anno di una serie di spot pubblicitari per il Cinturato. Anche il Re Baldovino del Belgio visita lo stand Pirelli al Salone Internazionale dell’Automobile del 1960 di Bruxelles: l’obiettivo lo ritrae in dialogo con i tecnici dell’azienda, “interessatosi vivamente ai particolari della nuova invenzione del BS3”, protagonista indiscusso dell’evento.

L’importanza degli allestimenti espositivi come racconto della propria identità è sentita da Pirelli ancora oggi, come testimoniato recentemente dallo spazio realizzato nell’ambito dell’edizione 2024 del Goodwood Festival of Speed – stand dedicato alla mobilità elettrica e ai materiali sostenibili utilizzati nella produzione dei pneumatici – e dalla nuova mostra di Fondazione Pirelli, “L’officina dello sport”, dedicata allo storico legame tra l’azienda e le competizioni sportive.

“Il prodotto industriale guadagna fascino e prestigio agli occhi del pubblico arricchendosi della fantasia dell’architetto […]. Ma come può un architetto qualificare un prodotto? Mediante un’ambientazione studiata, collocandolo in un certo modo in un certo sistema di spazi; in poche parole, inventandogli un contesto estetico”. Così scrive Armanda Guiducci sulle pagine della Rivista Pirelli del 1960, analizzando con sguardo critico la moderna civiltà del benessere, che permette all’uomo di indugiare sul momento della fruizione e nel “piacere più raffinato del consumare”. Nelle parole della scrittrice napoletana emerge l’importanza del rapporto tra gli artisti e il mondo dell’impresa; un incontro di visioni fondamentale per veicolare con la massima efficacia al grande pubblico non solo la storia e i valori di un’azienda, ma anche il racconto del prodotto, valorizzato dall’intervento di architetti e designer attraverso la costruzione di stand, negozi o vetrine che comunichino “a colpo d’occhio” la potenza commerciale di una società.
Le fotografie conservate nel nostro Archivio Storico testimoniano l’importanza per Pirelli delle fiere internazionali, palcoscenico ideale per lanciare nuovi prodotti all’avanguardia e attrarre l’attenzione del pubblico, e il coinvolgimento delle grandi firme del secolo scorso nella creazione dell’identità visiva della “P lunga” attraverso ambienti sempre più spettacolari.

A differenza degli allestimenti di inizio Novecento, privi di un preciso criterio espositivo – come si vede nell’immagine del Prager Autosalon del 1929, con un affastellamento “scultoreo” di pneumatici – a partire dagli anni Cinquanta le fiere diventano luogo privilegiato di sperimentazione architettonica: al Salone dell’Automobile di Torino del 1958 la collaborazione tra Bob Noorda e Roberto Menghi dà vita a uno spazio luminoso, dedicato non solo ai prodotti dell’azienda, sollevati da terra tramite cavi appesi al soffitto, ma anche alla costruzione del Grattacielo Pirelli; è lo stesso designer olandese a essere immortalato seduto sulle poltrone del padiglione, come a dare un ultimo sguardo al proprio lavoro prima dell’inaugurazione. Tra le varie attrazioni degli stand “P lunga” catturate dall’obiettivo ci sono dimostrazioni di montaggio e smontaggio di pneumatici, gonfiabili e dirigibili in tessuto gommato, installazioni rotanti e speciali macchine dimostrative che permettono ai visitatori di sperimentare il grado di molleggio delle sospensioni in gomma dell’azienda.

Pirelli partecipa anche a rassegne dedicate alle due ruote, come l’Esposizione Internazionale del Ciclo e Motociclo, coinvolgendo artisti come Pino Tovaglia, Marco Zanuso, Franca Helg, Franco Albini e Massimo Vignelli. È realizzato da quest’ultimo l’ambiente per l’edizione del 1963, fotografato da Roberto Facchini: pneumatici su piedistalli illuminati, schermi con immagini delle più importanti vittorie Pirelli nel mondo delle corse e soprattutto la macchina “Directomat”, piccolo robot che fornisce, stampate su carta, “120 risposte alle vostre domande sportive”, suscitando l’interesse e la curiosità di grandi e piccoli. Gli stand Pirelli all’EICMA non si limitano a mostrare i prodotti ma ne illustrano le fasi di lavorazione, simulano il loro uso su un circuito con manichini-corridori in sella a biciclette gommate Pirelli, e ricostruiscono il cammino del velocipede con la presentazione di rari pezzi storici, dalla Draisina, il “cavallo di legno” a pedali del 1855, alla Bianchi del 1952 di Fausto Coppi, vincitore quell’anno del Giro d’Italia e del Tour de France.

La varietà delle esposizioni a cui Pirelli prende parte riflette l’eterogeneità dei suoi prodotti alla metà del Novecento: dalla Mostra Triennale Antincendi del 1953 – in cui l’azienda è presente con articoli antinfortunistici come tubi, respiratori e maschere – al Salone Internazionale dell’Imballaggio di Padova del 1956, dove una Fiat 600 imbustata con foglia tubolare “Visqueen” è fotografata all’interno dello stand interamente in polietilene progettato da Noorda; dal Festival Internazionale del Bambino organizzato a Palermo nel 1957, in cui prende forma lo “zoo Pirelli” con giocattoli Rempel, al I Salone Internazionale del Mobile di Milano del 1961, dove uno scatto ritrae un operaio specializzato durante la fase di incollaggio della gommapiuma Pirelli a una seduta. Non mancano poi rassegne all’estero, tra cui la Feria Oficial e Internacional de Muestras de Barcelona del 1959: lo scenografico allestimento dello stand Pirelli, dedicato ai conduttori elettrici, è caratterizzato da una piscina centrale circondata da enormi colonne verticali a forma di cavo e da disegni rappresentanti il processo di trasporto dell’energia attraverso i prodotti della “P lunga”.

Gli scatti documentano poi le visite ufficiali da parte delle più importanti personalità politiche dell’epoca. Come il principe Umberto di Savoia con la moglie Maria José del Belgio, immortalati davanti al plastico dello stabilimento della Bicocca alla Fiera di Milano del 1933 – in dialogo con il disegno a matita e biacca dello stesso soggetto appeso alle parete – o come il Re d’Italia Vittorio Emanuele III, fotografato l’anno successivo all’uscita del classicheggiante Padiglione Pirelli, opera di Piero Portaluppi. Dalla Monarchia alla Repubblica: al Salone di Torino vengono ripresi i presidenti Luigi Einaudi nel 1951 e Giuseppe Saragat nel 1965, quest’ultimo insieme con Leopoldo Pirelli e Juan Manuel Fangio, protagonista quell’anno di una serie di spot pubblicitari per il Cinturato. Anche il Re Baldovino del Belgio visita lo stand Pirelli al Salone Internazionale dell’Automobile del 1960 di Bruxelles: l’obiettivo lo ritrae in dialogo con i tecnici dell’azienda, “interessatosi vivamente ai particolari della nuova invenzione del BS3”, protagonista indiscusso dell’evento.

L’importanza degli allestimenti espositivi come racconto della propria identità è sentita da Pirelli ancora oggi, come testimoniato recentemente dallo spazio realizzato nell’ambito dell’edizione 2024 del Goodwood Festival of Speed – stand dedicato alla mobilità elettrica e ai materiali sostenibili utilizzati nella produzione dei pneumatici – e dalla nuova mostra di Fondazione Pirelli, “L’officina dello sport”, dedicata allo storico legame tra l’azienda e le competizioni sportive.

Le fragilità dell’Italia, tra economia sommersa e lavoro povero e le risposte da cercare nello sviluppo dell’industria di qualità

L’occupazione in Italia cresce, superando il tetto dei 24 milioni di persone con un lavoro, più o meno stabile, più o meno all’altezza dei propri bisogni e delle proprie aspettative. I disoccupati sono appena il 6,2%, mai così pochi almeno dal 2009. I mercati finanziari tutto sommato non mostrano particolari preoccupazioni sulla tenuta del sistema Italia e dei conti pubblici, senza far crescere lo spread. E il governo Meloni ha ragione di vedere il bicchiere dell’economia mezzo pieno, anche se sono sempre sempre meno le possibilità di arrivare alla fine dell’anno a una crescita del Pil dell’1%, così come previsto da Palazzo Chigi (la Banca d’Italia stima ragionevolmente un +0,8%).

“Paradossi (e record) del lavoro”, scrive Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera (20 ottobre) mettendo in evidenza “i timori” legati a una situazione in cui il tasso di occupazione italiano è al 62,3% mentre negli altri grandi paesi Ue è attorno all’80% e i giovani e le donne continuano a essere in buona parte estranei al mercato del lavoro. Bassi salari, che non hanno recuperato l’inflazione degli ultimi anni. Crescente disaffezione rispetto alle imprese e alla pubblica amministrazione in cui si è occupati. Carenza di mano d’opera, aggravata dalle prospettive di “inverno demografico”. E un clima generale che fa temere che il dinamismo di cui l’Italia aveva dato prova proprio nel post Covid, più che in altre aree europee, tenda a scemare.

A guardare bene le cronache delle ultime settimane, al di là dell’andamento della congiuntura, si intravvedono però degli elementi di fragilità che è indispensabile tenere ben presenti, proprio per poter impostare politiche economiche e sociali in grado di rianimare l’economia e impostare una ripresa più solida, più duratura. E quegli elementi sono sia la crescita del peso dell’economia sommersa e illegale sia l’aumento della povertà, anche tra i lavoratori.

L’allarme risuona nelle parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Sacche di salari bassi lacerano la coesione sociale”, ha detto, alla cerimonia delle Stelle al merito per chi si è distinto nella sua attività lavorativa (Il Sole24Ore, 18 ottobre). Non si tratta solo di una questione economica. Ma di una ferita nel corpo del Paese, con conseguenze rilevanti sulla tenuta delle relazioni e sulla stessa solidità della comunità nazionale. La coesione sociale, infatti, è fondamentale per la democrazia. E senza questa coesione sono in discussione anche le possibilità di costruire robuste ipotesi di futuro e di sviluppo sostenibile per le nuove generazioni. Una democrazia solida è quella che riesce a tenere insieme le libertà politiche, sociali e civili, l’economia di mercato e dunque l’intraprendenza e la crescita economica e il welfare, il benessere diffuso. Altrimenti, la crisi si aggrava.

Insiste dunque il presidente Mattarella: “E’ vero che i dati sulla crescita confortano. Ma è anche vero che l’occupazione si sta frammentando, tra una fascia alta in cui a qualità e professionalità corrispondono buone retribuzioni, mentre in basso si creano sacche di salari insufficienti, alimentati anche da part time involontari e da precarietà. Si tratta di un elemento si preoccupante lacerazione della coesione sociale”.

Vediamo i dati, allora. Ci sono in Italia, secondo l’Istat (dati ‘23) 5,7 milioni di persone in povertà assoluta (erano 4,1 milione dieci anni fa) e le famiglie sono 2,2 milioni, con una percentuale dell’8,4%, in crescita rispetto al 6,2% del 2014. La povertà colpisce anche le famiglie che hanno come persona di riferimento un operaio: sale al 16,5% la loro quota, dal 14,7% del ‘22. Il Mezzogiorno è l’area più colpita.

È vero che aumenta l’occupazione, dice sempre l’Istat, ma l’inflazione ha vanificato l’incidenza positiva del salario conquistato sulle possibilità di spesa: un calo dell’1,5% in termini reali della spesa equivalente. E più in generale, le retribuzioni reali hanno perso il 10% dal 2019 (dati Inps, Il Sole24Ore 18 ottobre).

C’è un altro fatto su cui riflettere: l’incidenza di povertà assoluta tra i minori, che si attesta al 13,8% e riguarda 1,3 milioni di bambini e ragazzi: generazioni che vedono compromesso il loro futuro e che rischiano di ritrovarsi ai margini dello sviluppo economico e della vita civile, con drammatiche discriminazioni sulla formazione, la sanità, la qualità della vita. Un’alterazione profonda del dettato della Costituzione sull’uguaglianza delle opportunità per i cittadini.

Su queste condizioni incide molto l’avere una economia “in nero”, sommersa o illegale: lavori poveri, bassa sicurezza, alta precarietà, carenza di diritti, misere prospettive. Ecco la seconda fragilità. Cui non si pone sufficiente rimedio (la storica tendenza ai condoni, previdenziali e fiscali, non aiuta certo l’emersione e la trasparenza economica).

Economia sommersa e illegale: record a 202 miliardi (+9,6%), scrive Carlo Marroni sul Sole24Ore (19 ottobre). L’economia sommersa vale 182 miliardi, quella illegale, terreno di potere e violenza di ‘ndrangheta, camorra e mafia oltre che delle varie altre organizzazioni criminali, sfiora i 20 miliardi. I dati sono dell’Istat e certificano come questa economia “nera” valga il 10% del Pil. Una crescente alterazione degli equilibri economici e sociali, un’altra mina che mette seriamente in pericolo la coesione sociale del Paese e ne limita fortemente le possibilità di sviluppo sostenibile, ambientale ed sociale.

Che risposta politica darne? Al di là delle misure, indispensabili, per tamponare le condizioni estreme di povertà e delle iniziative di contrasto del lavoro “in nero” e dell’evasione fiscale (si stanno recuperando risorse, ma poche e lentamente, con un Fisco che continua a gravare sul lavoro dipendente e le imprese in regola), serve una radicale, profonda politica economica e fiscale che promuova la crescita e la modernizzazione del Paese. E una politica industriale di respiro europeo che incoraggi gli investimenti nei settori che hanno più futuro. A cominciare dall’industria di qualità. E dunque faccia crescere i salari, agganciandoli alla produttività (e proprio su questo servirebbe avere una fiscalità di vantaggio).

Vale la pena, per averne un’indicazione, leggere le parole di Mario Carraro, uno dei migliori e più lungimiranti imprenditori italiani, 95 anni, industria metalmeccanica di qualità a Campodarsego (Padova) e grande passione per la cultura: “L’amore per la fabbrica e la riflessione costante fanno nascere il futuro”, ha detto in una intervista a Paolo Bricco (Il Sole24Ore, 20 ottobre). Ricerca, produttività, sguardo internazionale, politica di riforme, attenzione per l’innovazione e le energie delle giovani generazioni.

La crescita equilibrata del Paese, infatti, ha come cardine la sua industria migliore. Con la promozione e il sostegno fiscale a un made in Italy che non si concentri solo sul “tipico” ben conosciuto (abbigliamento, arredamento e agro-alimentare) ma faccia leva sui settori più competitivi e produttivi, la meccatronica e la robotica, la chimica e la farmaceutica, la cantieristica navale e l’aerospazio, la gomma e la componentistica automotive, cioè su tutte quelle produzioni industriali che fanno da pilastro per quei 630 miliardi di export che tengono in piedi il sistema Paese e alimentano una lunga serie di servizi innovativi per l’impresa. Qualità, innovazione e sviluppo, insomma. Salari e benessere. L’industria come cardine anche di quella coesione sociale che sta giustamente a cuore al presidente Mattarella e agli italiani più responsabili.

L’occupazione in Italia cresce, superando il tetto dei 24 milioni di persone con un lavoro, più o meno stabile, più o meno all’altezza dei propri bisogni e delle proprie aspettative. I disoccupati sono appena il 6,2%, mai così pochi almeno dal 2009. I mercati finanziari tutto sommato non mostrano particolari preoccupazioni sulla tenuta del sistema Italia e dei conti pubblici, senza far crescere lo spread. E il governo Meloni ha ragione di vedere il bicchiere dell’economia mezzo pieno, anche se sono sempre sempre meno le possibilità di arrivare alla fine dell’anno a una crescita del Pil dell’1%, così come previsto da Palazzo Chigi (la Banca d’Italia stima ragionevolmente un +0,8%).

“Paradossi (e record) del lavoro”, scrive Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera (20 ottobre) mettendo in evidenza “i timori” legati a una situazione in cui il tasso di occupazione italiano è al 62,3% mentre negli altri grandi paesi Ue è attorno all’80% e i giovani e le donne continuano a essere in buona parte estranei al mercato del lavoro. Bassi salari, che non hanno recuperato l’inflazione degli ultimi anni. Crescente disaffezione rispetto alle imprese e alla pubblica amministrazione in cui si è occupati. Carenza di mano d’opera, aggravata dalle prospettive di “inverno demografico”. E un clima generale che fa temere che il dinamismo di cui l’Italia aveva dato prova proprio nel post Covid, più che in altre aree europee, tenda a scemare.

A guardare bene le cronache delle ultime settimane, al di là dell’andamento della congiuntura, si intravvedono però degli elementi di fragilità che è indispensabile tenere ben presenti, proprio per poter impostare politiche economiche e sociali in grado di rianimare l’economia e impostare una ripresa più solida, più duratura. E quegli elementi sono sia la crescita del peso dell’economia sommersa e illegale sia l’aumento della povertà, anche tra i lavoratori.

L’allarme risuona nelle parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Sacche di salari bassi lacerano la coesione sociale”, ha detto, alla cerimonia delle Stelle al merito per chi si è distinto nella sua attività lavorativa (Il Sole24Ore, 18 ottobre). Non si tratta solo di una questione economica. Ma di una ferita nel corpo del Paese, con conseguenze rilevanti sulla tenuta delle relazioni e sulla stessa solidità della comunità nazionale. La coesione sociale, infatti, è fondamentale per la democrazia. E senza questa coesione sono in discussione anche le possibilità di costruire robuste ipotesi di futuro e di sviluppo sostenibile per le nuove generazioni. Una democrazia solida è quella che riesce a tenere insieme le libertà politiche, sociali e civili, l’economia di mercato e dunque l’intraprendenza e la crescita economica e il welfare, il benessere diffuso. Altrimenti, la crisi si aggrava.

Insiste dunque il presidente Mattarella: “E’ vero che i dati sulla crescita confortano. Ma è anche vero che l’occupazione si sta frammentando, tra una fascia alta in cui a qualità e professionalità corrispondono buone retribuzioni, mentre in basso si creano sacche di salari insufficienti, alimentati anche da part time involontari e da precarietà. Si tratta di un elemento si preoccupante lacerazione della coesione sociale”.

Vediamo i dati, allora. Ci sono in Italia, secondo l’Istat (dati ‘23) 5,7 milioni di persone in povertà assoluta (erano 4,1 milione dieci anni fa) e le famiglie sono 2,2 milioni, con una percentuale dell’8,4%, in crescita rispetto al 6,2% del 2014. La povertà colpisce anche le famiglie che hanno come persona di riferimento un operaio: sale al 16,5% la loro quota, dal 14,7% del ‘22. Il Mezzogiorno è l’area più colpita.

È vero che aumenta l’occupazione, dice sempre l’Istat, ma l’inflazione ha vanificato l’incidenza positiva del salario conquistato sulle possibilità di spesa: un calo dell’1,5% in termini reali della spesa equivalente. E più in generale, le retribuzioni reali hanno perso il 10% dal 2019 (dati Inps, Il Sole24Ore 18 ottobre).

C’è un altro fatto su cui riflettere: l’incidenza di povertà assoluta tra i minori, che si attesta al 13,8% e riguarda 1,3 milioni di bambini e ragazzi: generazioni che vedono compromesso il loro futuro e che rischiano di ritrovarsi ai margini dello sviluppo economico e della vita civile, con drammatiche discriminazioni sulla formazione, la sanità, la qualità della vita. Un’alterazione profonda del dettato della Costituzione sull’uguaglianza delle opportunità per i cittadini.

Su queste condizioni incide molto l’avere una economia “in nero”, sommersa o illegale: lavori poveri, bassa sicurezza, alta precarietà, carenza di diritti, misere prospettive. Ecco la seconda fragilità. Cui non si pone sufficiente rimedio (la storica tendenza ai condoni, previdenziali e fiscali, non aiuta certo l’emersione e la trasparenza economica).

Economia sommersa e illegale: record a 202 miliardi (+9,6%), scrive Carlo Marroni sul Sole24Ore (19 ottobre). L’economia sommersa vale 182 miliardi, quella illegale, terreno di potere e violenza di ‘ndrangheta, camorra e mafia oltre che delle varie altre organizzazioni criminali, sfiora i 20 miliardi. I dati sono dell’Istat e certificano come questa economia “nera” valga il 10% del Pil. Una crescente alterazione degli equilibri economici e sociali, un’altra mina che mette seriamente in pericolo la coesione sociale del Paese e ne limita fortemente le possibilità di sviluppo sostenibile, ambientale ed sociale.

Che risposta politica darne? Al di là delle misure, indispensabili, per tamponare le condizioni estreme di povertà e delle iniziative di contrasto del lavoro “in nero” e dell’evasione fiscale (si stanno recuperando risorse, ma poche e lentamente, con un Fisco che continua a gravare sul lavoro dipendente e le imprese in regola), serve una radicale, profonda politica economica e fiscale che promuova la crescita e la modernizzazione del Paese. E una politica industriale di respiro europeo che incoraggi gli investimenti nei settori che hanno più futuro. A cominciare dall’industria di qualità. E dunque faccia crescere i salari, agganciandoli alla produttività (e proprio su questo servirebbe avere una fiscalità di vantaggio).

Vale la pena, per averne un’indicazione, leggere le parole di Mario Carraro, uno dei migliori e più lungimiranti imprenditori italiani, 95 anni, industria metalmeccanica di qualità a Campodarsego (Padova) e grande passione per la cultura: “L’amore per la fabbrica e la riflessione costante fanno nascere il futuro”, ha detto in una intervista a Paolo Bricco (Il Sole24Ore, 20 ottobre). Ricerca, produttività, sguardo internazionale, politica di riforme, attenzione per l’innovazione e le energie delle giovani generazioni.

La crescita equilibrata del Paese, infatti, ha come cardine la sua industria migliore. Con la promozione e il sostegno fiscale a un made in Italy che non si concentri solo sul “tipico” ben conosciuto (abbigliamento, arredamento e agro-alimentare) ma faccia leva sui settori più competitivi e produttivi, la meccatronica e la robotica, la chimica e la farmaceutica, la cantieristica navale e l’aerospazio, la gomma e la componentistica automotive, cioè su tutte quelle produzioni industriali che fanno da pilastro per quei 630 miliardi di export che tengono in piedi il sistema Paese e alimentano una lunga serie di servizi innovativi per l’impresa. Qualità, innovazione e sviluppo, insomma. Salari e benessere. L’industria come cardine anche di quella coesione sociale che sta giustamente a cuore al presidente Mattarella e agli italiani più responsabili.

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