Accedi all’Archivio online
Esplora l’Archivio online per trovare fonti e materiali. Seleziona la tipologia di supporto documentale che più ti interessa e inserisci le parole chiave della tua ricerca.
    Seleziona una delle seguenti categorie:
  • Documenti
  • Fotografie
  • Disegni e manifesti
  • Audiovisivi
  • Pubblicazioni e riviste
  • Tutti
Assistenza alla consultazione
Per richiedere la consultazione del materiale conservato nell’Archivio Storico e nelle Biblioteche della Fondazione Pirelli al fine di studi e ricerche e conoscere le modalità di utilizzo dei materiali per prestiti e mostre, compila il seguente modulo.
Riceverai una mail di conferma dell'avvenuta ricezione della richiesta e sarai ricontattato.
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Seleziona il grado di istruzione della scuola di appartenenza
Back
Scuola Primaria
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.

Dichiaro di avere preso visione dell’informativa relativa al trattamento dei miei dati personali, e autorizzo la Fondazione Pirelli al trattamento dei miei dati personali per l’invio, anche a mezzo e-mail, di comunicazioni relative ad iniziative/convegni organizzati dalla Fondazione Pirelli.

Back
Scuole secondarie di I grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Scuole secondarie di II grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Università
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Vuoi organizzare un percorso personalizzato con i tuoi studenti? Per informazioni e prenotazioni scrivi a universita@fondazionepirelli.org

Visita la Fondazione
Per informazioni sulle attività della Fondazione, visite guidate e l'accessibilità agli spazi
contattare il numero 0264423971 o compilare il form qui sotto anticipando nel campo note i dettagli nella richiesta.

Milano deve saper essere “lenta e veloce” per migliorare sviluppo e qualità della vita

Festìna lente”. Affrettati lentamente, muoviti con sveltezza ma anche con prudenza. La frase è attribuita dallo storico Svetonio all’imperatore Augusto, costruttore d’impero. E’ stata il motto di Aldo Manuzio, tipografo ed editore, nella Venezia rinascimentale, massimo dello splendore mercantile. Ed ha ispirato l’insegna della flotta di Cosimo I de’ Medici, granduca d’una Firenze cinquecentesca potente, ricca, colta, cosmopolita: lo stemma, ben visibile ancora oggi sulle decorazioni di Palazzo Vecchio, era una tartaruga sormontata da una vela gonfia di vento. La frase sembra un ossimoro, un complicato gioco di opposizioni e negazioni. Ha invece la forza dell’intelligenza e la profondità d’una buona prospettiva: velocità e cautela. Un senso originale del buon uso del tempo.

“Festìna lente” potrebbe essere oggi la sintesi delle discussioni che si sono aperte a Milano sul futuro della metropoli, partendo proprio dalle considerazioni del sindaco Beppe Sala affidate a un’intervista al Corriere della Sera (24 settembre): Milano deve “rallentare”, puntare su una maggiore qualità della vita, superare la frenesia dei ritmi profittevoli a ogni costo, ripensare criticamente i miti della “velocità”. Ci sono, nelle riflessioni di Sala, alcune sagge considerazioni di fondo: l’ideologia novecentesca del “progresso infinito” è entrata in crisi, la cultura futurista della velocità come valore merita posto nella memoria e nelle preziose collezioni d’arte (le opere di Boccioni e Balla, testimoni del tempo e capolavori fuori dal tempo), l’economia ha bisogno di superare l’ossessione della quantità e insistere invece sulla qualità, sulla sostenibilità, sulle strategie per uno sviluppo migliore e più equilibrato (lo suggerisce d’altronde parecchia buona letteratura economica internazionale, lo ricorda il monito di Papa Francesco per una “economia giusta”). Ne segue un suggerimento acuto: Milano, locomotiva economica, può essere paradigma positivo per tutto il sistema Paese che guardi all’Europa.

Ampio dibattito, dunque. Con interventi critici, come quello di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (“Milano non deve fermarsi ma migliorarsi”). E attenzione positiva, come quella di Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda. “Più lenti e produttivi, ecco la mossa giusta per vivere meglio. E dal 2030 in strada solo auto elettriche”. Insiste Sala: “La velocità di Milano non può essere messa in discussione neanche per un attimo, se con questo s’intende la sua capacità d’essere pronta e reattiva alle sollecitazioni che vengono dal mondo che la circonda e al quale vuole intensamente appartenere”. Ma mettendo comunque da canto “un’idea di velocità figlia d’un progresso proprio del secolo scorso” e semmai usando le nuove tecnologie per vivere meglio.

“Festìna lente”, appunto. Bisogna imparare a ragionare sul senso e sul valore del tempo.

C’è la velocità positiva delle connessioni digitali che migliorano traffico, servizi, medicina, assistenza, ricerca, intrattenimento da “smart city” (“Milano capitale europea del 5G, nella svolta di Internet superveloce”, annuncia Aldo Bisio, amministratore delegato di Vodafone Italia, parlando di robusti investimenti per progetti europei che riguardano sanità, sicurezza, energia, education, etc.). E c’è la lentezza necessaria per le discussioni pubbliche approfondite, per la partecipazione, per l’inclusione. E’ lenta, la democrazia, ma indispensabile, migliore comunque, per un’equilibrata convivenza civile, della rapidità delle scelte tecnocratiche. Dev’essere veloce, cioè efficiente ed efficace, l’applicazione delle decisioni prese democraticamente e responsabilmente nell’interesse dei cittadini.

E’ veloce, velocissima, nevrotica, la finanza rapace che lucra vantaggi sulle mutazioni rapide dei corsi di titoli e valute sui mercati globali. Ma è lento, il tempo della manifattura, delle fabbriche, del lavoro industriale (luoghi da valori forti, aziendali e personali, da riscoprire).

E’ lenta, la ricerca che porta, dopo tentativi ripetuti, errori, ripensamenti e nuove strade, alla “scoperta sulla molecola che limita lo sviluppo del tumore” (un successo italiano dei ricercatori dell’Humanitas guidati da u grande scienziato come Alberto Mantovani). Ma veloce dev’essere il procedimento dei brevetti e la produzione dell’industria farmaceutica, secondo criteri di competitività.

Il gioco dell’ossimoro può andare avanti quasi all’infinito. Gli esempi fatti servono per dire che la contrapposizione tra “lento” e “rock” va bene per una divertente e originale battuta televisiva, ma non per una discussione seria sul futuro di Milano. Le idee hanno bisogno di tempo. La frenesia è nemica dei progetti innovativi e della stessa buona politica.

Una indicazione condivisibile viene da Renzo Piano, che da grande architetto e senatore a vita, ha destinato cultura e risorse al progetto di “rammendo” e recupero delle periferie (Ponte Lambro, a Milano): la lentezza è “riflessione, farsi delle domande, ragionare sul modo più giusto per affrontare le questioni legate alla vita e alla città” (Corriere della Sera, 30 ottobre). E ancora: “Il mio compito è seminare qualcosa, accendere una coscienza. Milano oggi può essere capofila di un pensiero profondo che non è la decrescita felice ma la rinascita senza cancellare la storia”. Ci vuole tempo, per farlo bene.

Festìna lente”. Affrettati lentamente, muoviti con sveltezza ma anche con prudenza. La frase è attribuita dallo storico Svetonio all’imperatore Augusto, costruttore d’impero. E’ stata il motto di Aldo Manuzio, tipografo ed editore, nella Venezia rinascimentale, massimo dello splendore mercantile. Ed ha ispirato l’insegna della flotta di Cosimo I de’ Medici, granduca d’una Firenze cinquecentesca potente, ricca, colta, cosmopolita: lo stemma, ben visibile ancora oggi sulle decorazioni di Palazzo Vecchio, era una tartaruga sormontata da una vela gonfia di vento. La frase sembra un ossimoro, un complicato gioco di opposizioni e negazioni. Ha invece la forza dell’intelligenza e la profondità d’una buona prospettiva: velocità e cautela. Un senso originale del buon uso del tempo.

“Festìna lente” potrebbe essere oggi la sintesi delle discussioni che si sono aperte a Milano sul futuro della metropoli, partendo proprio dalle considerazioni del sindaco Beppe Sala affidate a un’intervista al Corriere della Sera (24 settembre): Milano deve “rallentare”, puntare su una maggiore qualità della vita, superare la frenesia dei ritmi profittevoli a ogni costo, ripensare criticamente i miti della “velocità”. Ci sono, nelle riflessioni di Sala, alcune sagge considerazioni di fondo: l’ideologia novecentesca del “progresso infinito” è entrata in crisi, la cultura futurista della velocità come valore merita posto nella memoria e nelle preziose collezioni d’arte (le opere di Boccioni e Balla, testimoni del tempo e capolavori fuori dal tempo), l’economia ha bisogno di superare l’ossessione della quantità e insistere invece sulla qualità, sulla sostenibilità, sulle strategie per uno sviluppo migliore e più equilibrato (lo suggerisce d’altronde parecchia buona letteratura economica internazionale, lo ricorda il monito di Papa Francesco per una “economia giusta”). Ne segue un suggerimento acuto: Milano, locomotiva economica, può essere paradigma positivo per tutto il sistema Paese che guardi all’Europa.

Ampio dibattito, dunque. Con interventi critici, come quello di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (“Milano non deve fermarsi ma migliorarsi”). E attenzione positiva, come quella di Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda. “Più lenti e produttivi, ecco la mossa giusta per vivere meglio. E dal 2030 in strada solo auto elettriche”. Insiste Sala: “La velocità di Milano non può essere messa in discussione neanche per un attimo, se con questo s’intende la sua capacità d’essere pronta e reattiva alle sollecitazioni che vengono dal mondo che la circonda e al quale vuole intensamente appartenere”. Ma mettendo comunque da canto “un’idea di velocità figlia d’un progresso proprio del secolo scorso” e semmai usando le nuove tecnologie per vivere meglio.

“Festìna lente”, appunto. Bisogna imparare a ragionare sul senso e sul valore del tempo.

C’è la velocità positiva delle connessioni digitali che migliorano traffico, servizi, medicina, assistenza, ricerca, intrattenimento da “smart city” (“Milano capitale europea del 5G, nella svolta di Internet superveloce”, annuncia Aldo Bisio, amministratore delegato di Vodafone Italia, parlando di robusti investimenti per progetti europei che riguardano sanità, sicurezza, energia, education, etc.). E c’è la lentezza necessaria per le discussioni pubbliche approfondite, per la partecipazione, per l’inclusione. E’ lenta, la democrazia, ma indispensabile, migliore comunque, per un’equilibrata convivenza civile, della rapidità delle scelte tecnocratiche. Dev’essere veloce, cioè efficiente ed efficace, l’applicazione delle decisioni prese democraticamente e responsabilmente nell’interesse dei cittadini.

E’ veloce, velocissima, nevrotica, la finanza rapace che lucra vantaggi sulle mutazioni rapide dei corsi di titoli e valute sui mercati globali. Ma è lento, il tempo della manifattura, delle fabbriche, del lavoro industriale (luoghi da valori forti, aziendali e personali, da riscoprire).

E’ lenta, la ricerca che porta, dopo tentativi ripetuti, errori, ripensamenti e nuove strade, alla “scoperta sulla molecola che limita lo sviluppo del tumore” (un successo italiano dei ricercatori dell’Humanitas guidati da u grande scienziato come Alberto Mantovani). Ma veloce dev’essere il procedimento dei brevetti e la produzione dell’industria farmaceutica, secondo criteri di competitività.

Il gioco dell’ossimoro può andare avanti quasi all’infinito. Gli esempi fatti servono per dire che la contrapposizione tra “lento” e “rock” va bene per una divertente e originale battuta televisiva, ma non per una discussione seria sul futuro di Milano. Le idee hanno bisogno di tempo. La frenesia è nemica dei progetti innovativi e della stessa buona politica.

Una indicazione condivisibile viene da Renzo Piano, che da grande architetto e senatore a vita, ha destinato cultura e risorse al progetto di “rammendo” e recupero delle periferie (Ponte Lambro, a Milano): la lentezza è “riflessione, farsi delle domande, ragionare sul modo più giusto per affrontare le questioni legate alla vita e alla città” (Corriere della Sera, 30 ottobre). E ancora: “Il mio compito è seminare qualcosa, accendere una coscienza. Milano oggi può essere capofila di un pensiero profondo che non è la decrescita felice ma la rinascita senza cancellare la storia”. Ci vuole tempo, per farlo bene.

La complessità del vivere insieme

In un libro il ragionamento sull’evoluzione dei rapporti fra individuo e società in un mondo sempre più interconnesso eppure popolato da individui

Imprese come comunità. Imprenditori e manager come uomini e donne immersi in ambiti sociali complessi. L’azienda non solo come organizzazione meccanica ma come insieme di relazioni umane e tecnologiche. Si tratta di alcuni dei concetti di una cultura d’impresa che guarda alla totalità dell’uomo lavoratore, ai meccanismi complessi del produrre, al fitto intreccio fra prodotto e produttore che caratterizza l’impresa moderna. Approcci che necessitano anche di una “collocazione” in ambiti più vasti, che consentano una consapevolezza più ampia dell’agire imprenditoriale e produttivo.

E’ proprio un quadro di questo genere ciò che fornisce la lettura di “Vivere insieme. Comunità e relazioni nella società globale”. Il libro – scritto da Piero Amerio, professore emerito di Psicologia sociale  all’Università di Torino -, è una gran viaggio attorno ad alcune delle idee più importanti del vivere oggi: l’individuo, la globalizzazione,  la sicurezza, la solidarietà, le possibili comunità.

Alla base di tutto una considerazione. Oggi grazie alla rete possiamo entrare in contatto con persone in ogni parte del globo e intrattenere relazioni ben al di là degli spazi tradizionali. Un mondo globalizzato che coinvolge strutture sociali e processi mentali e che va compreso anche con strumenti diversi dai consueti.

Amerio inizia quindi da un ragionamento sulle categorie dell’individuo come essere sociale e come essere individuale per passare poi ad un approfondimento sull’apparente paradosso di un mondo globalizzato e quindi sempre più connesso nelle sue parti, ma in realtà sempre più disunito e “privato”. E’ proprio nell’ambito della fotografia dell’oggi, che Amerio tocca anche situazione, ruolo e comportamenti delle imprese in relazione agli individui e ai mercati. Ma non solo.  Il libro prosegue infatti sottolineando il ruolo della ricerca di sicurezza e dei rischi (nel terzo capitolo), oltre che della solidarietà (nel quarto capitolo), come altrettanti elementi di continuità e di novità nell’agire dell’uomo. Il traguardo del “divenire persone in comunità possibili”, e quindi la precisazione di quali siano queste comunità, conclude il racconto.

Amerio riesce a prendere per mano chi legge per condurlo lungo un cammino che tocca anche concetti difficili; e lo fa con un linguaggio sempre piano seppur denso, comprensibile anche quando affronta passaggi oggettivamente complessi.

Vivere insieme. Comunità e relazioni nella società globale

Piero Amerio

il Mulino, 2017

In un libro il ragionamento sull’evoluzione dei rapporti fra individuo e società in un mondo sempre più interconnesso eppure popolato da individui

Imprese come comunità. Imprenditori e manager come uomini e donne immersi in ambiti sociali complessi. L’azienda non solo come organizzazione meccanica ma come insieme di relazioni umane e tecnologiche. Si tratta di alcuni dei concetti di una cultura d’impresa che guarda alla totalità dell’uomo lavoratore, ai meccanismi complessi del produrre, al fitto intreccio fra prodotto e produttore che caratterizza l’impresa moderna. Approcci che necessitano anche di una “collocazione” in ambiti più vasti, che consentano una consapevolezza più ampia dell’agire imprenditoriale e produttivo.

E’ proprio un quadro di questo genere ciò che fornisce la lettura di “Vivere insieme. Comunità e relazioni nella società globale”. Il libro – scritto da Piero Amerio, professore emerito di Psicologia sociale  all’Università di Torino -, è una gran viaggio attorno ad alcune delle idee più importanti del vivere oggi: l’individuo, la globalizzazione,  la sicurezza, la solidarietà, le possibili comunità.

Alla base di tutto una considerazione. Oggi grazie alla rete possiamo entrare in contatto con persone in ogni parte del globo e intrattenere relazioni ben al di là degli spazi tradizionali. Un mondo globalizzato che coinvolge strutture sociali e processi mentali e che va compreso anche con strumenti diversi dai consueti.

Amerio inizia quindi da un ragionamento sulle categorie dell’individuo come essere sociale e come essere individuale per passare poi ad un approfondimento sull’apparente paradosso di un mondo globalizzato e quindi sempre più connesso nelle sue parti, ma in realtà sempre più disunito e “privato”. E’ proprio nell’ambito della fotografia dell’oggi, che Amerio tocca anche situazione, ruolo e comportamenti delle imprese in relazione agli individui e ai mercati. Ma non solo.  Il libro prosegue infatti sottolineando il ruolo della ricerca di sicurezza e dei rischi (nel terzo capitolo), oltre che della solidarietà (nel quarto capitolo), come altrettanti elementi di continuità e di novità nell’agire dell’uomo. Il traguardo del “divenire persone in comunità possibili”, e quindi la precisazione di quali siano queste comunità, conclude il racconto.

Amerio riesce a prendere per mano chi legge per condurlo lungo un cammino che tocca anche concetti difficili; e lo fa con un linguaggio sempre piano seppur denso, comprensibile anche quando affronta passaggi oggettivamente complessi.

Vivere insieme. Comunità e relazioni nella società globale

Piero Amerio

il Mulino, 2017

Imprese e famiglia, una fotografia

Pubblicato da poche settimane un articolo che analizza e organizza oltre cento studi sull’azienda familiare

Famiglia e impresa come un tutt’uno inscindibile. Comunità d’intenti oltre che di vita. Con regole e storie particolari che vanno comprese a fondo per essere valutate. Espressione di una cultura del produrre con tratti ben definiti, le imprese familiari hanno comunque tratti comuni, che travalicano quelli dimensionali e che sono stati oggetto di innumerevoli studi e approfondimenti.

Una raccolta di analisi e di casi reali di imprese familiari, è quella contenuta in “Researching Entrepreneurship in Family Firms” scritto a più mani da

Cristina Bettinelli (dell’Università di Bergamo), Salvatore Sciascia (della IULM di Milano), Kathleen Randerson  (della Audencia Business School-France) e Alain Fayolle (della Emlyon Business School, France) e appena pubblicato sul Journal of Small business management. L’articolo raccoglie una revisione sistematica della letteratura di 109 articoli scritti sul tema dell’imprenditoria familiare con particolare attenzione agli antecedenti, ai risultati e ai processi di imprenditorialità nelle imprese di questo genere. Gli autori offrono anche una breve sintesi dei contributi di ciascuna delle ricerche elencate.

Ciò che ne emerge è un ritratto a tutto tondo delle impresa familiari, descritte nelle loro diverse sfaccettature e soprattutto analizzate dal punto di vista delle spinte d’origine oltre che nelle dinamiche gestionali caratterizzate da legami familiari oltre che organizzativi. Con un’attenzione particolare al condizionamento sui risultati finali – di bilancio ma anche in termini di sviluppo e di relazioni con l’esterno -, che la “condizione familiare” può provocare. Famiglia come risorsa d’impresa, dunque, ma anche come vincolo da gestire.

L’articolo scritto da Bettinelli, Sciascia, Randerson e Fayolle ha il grande merito di mettere ordine in una materia – quella dello studio dell’impresa familiare -, piuttosto complicata e sfaccettata e di farlo con metodo e chiarezza.

Researching Entrepreneurship in Family Firms

Cristina Bettinelli, Salvatore Sciascia, Kathleen Randerson e Alain Fayolle

Journal of Small business management, Volume 55, Issue 4,  October 2017

Pubblicato da poche settimane un articolo che analizza e organizza oltre cento studi sull’azienda familiare

Famiglia e impresa come un tutt’uno inscindibile. Comunità d’intenti oltre che di vita. Con regole e storie particolari che vanno comprese a fondo per essere valutate. Espressione di una cultura del produrre con tratti ben definiti, le imprese familiari hanno comunque tratti comuni, che travalicano quelli dimensionali e che sono stati oggetto di innumerevoli studi e approfondimenti.

Una raccolta di analisi e di casi reali di imprese familiari, è quella contenuta in “Researching Entrepreneurship in Family Firms” scritto a più mani da

Cristina Bettinelli (dell’Università di Bergamo), Salvatore Sciascia (della IULM di Milano), Kathleen Randerson  (della Audencia Business School-France) e Alain Fayolle (della Emlyon Business School, France) e appena pubblicato sul Journal of Small business management. L’articolo raccoglie una revisione sistematica della letteratura di 109 articoli scritti sul tema dell’imprenditoria familiare con particolare attenzione agli antecedenti, ai risultati e ai processi di imprenditorialità nelle imprese di questo genere. Gli autori offrono anche una breve sintesi dei contributi di ciascuna delle ricerche elencate.

Ciò che ne emerge è un ritratto a tutto tondo delle impresa familiari, descritte nelle loro diverse sfaccettature e soprattutto analizzate dal punto di vista delle spinte d’origine oltre che nelle dinamiche gestionali caratterizzate da legami familiari oltre che organizzativi. Con un’attenzione particolare al condizionamento sui risultati finali – di bilancio ma anche in termini di sviluppo e di relazioni con l’esterno -, che la “condizione familiare” può provocare. Famiglia come risorsa d’impresa, dunque, ma anche come vincolo da gestire.

L’articolo scritto da Bettinelli, Sciascia, Randerson e Fayolle ha il grande merito di mettere ordine in una materia – quella dello studio dell’impresa familiare -, piuttosto complicata e sfaccettata e di farlo con metodo e chiarezza.

Researching Entrepreneurship in Family Firms

Cristina Bettinelli, Salvatore Sciascia, Kathleen Randerson e Alain Fayolle

Journal of Small business management, Volume 55, Issue 4,  October 2017

Ridisegnare la Grande Milano “smart city” tra nuove funzioni e collegamenti “in un’ora”

“Una città per competere deve avere ali e radici”. La sintesi è di Ulrich Beck, uno dei maggiori sociologi dei nostri tempi difficili. E, nella sua apparente semplicità, riassume bene il senso delle sfide su un migliore sviluppo d’una metropoli come Milano, tra storia e futuro, forza dei luoghi e dinamiche dei flussi. E’ molto cresciuta, nel tempo, Milano. Esprime vivacità sociale e intraprendenze culturali ed economiche da “capitale europea”, pur non essendo la capitale politica del Paese (simile, in questo, a Francoforte, nella dialettica con Berlino). E continua a esercitare una forte attrattività per persone, idee, capitali che potrebbe essere rafforzata dall’arrivo dell’Ema (l’Agenzia Europea per il Farmaco: una battaglia di competenze e poteri ancora aperta, con Milano in pole position) ma che rimarrà comunque d’attualità.

Come continuare dunque a ragionare sulla sua crescita? E che scelte politiche pensare, definire in dettaglio, sostenere? Si può partire dalla consapevolezza che la competizione economica attuale si gioca tra grandi sistemi metropolitani spesso transnazionali e integrati e non più secondo gli schemi tradizionali degli Stati-nazione. Un percorso però non lineare.

Gli Stati-nazione, infatti, nell’attualità politica segnata dalla crisi della globalizzazione, riprendono spazio nell’immaginario popolare e nel discorso pubblico. Riemergono perfino “le piccole patrie”, con una critica crescente nei confronti delle istituzioni sovranazionali (compresa la Ue, messa in difficoltà dai burocratismi delle istituzioni di Bruxelles e dai nazionalismi ai limiti della grettezza, soprattutto nelle zone della ex Mitteleuropa ai confini con la Germania). C’è dunque una contraddizione aperta tra i flussi della produzioni e degli scambi e le tradizionali strutture statuali. E si aggravano problemi politici, economici e sociali di difficile governabilità.

Vale la pena tenere in gran conto la lezione di Parag Khanna, politologo Usa d’origine indiana, studioso di geo-politica: “Il cammino verso il progresso globale sta nelle capacità delle città di condividere le migliori pratiche tra loro”. Città e grandi aree metropolitane, aggiunge Khanna, “i cui confini sono stabiliti dalla connettività”, materiale (le grandi infrastrutture di comunicazione e trasporto) e immateriale (i collegamenti “digital” che comunque rinviano a una relazione “fisica” tra persone e luoghi, come diremo meglio tra poco). Si ripropone così, proprio nelle dimensioni della “connettività” per il governo democratico e lo sviluppo economico e sociale d’un territorio, la dialettica (cara alle analisi di Aldo Bonomi) ma anche il dialogo tra la forza dei luoghi (le radici, le identità nazionali, le caratteristiche dei “territori”) e le dinamiche dei flussi. Luoghi-flussi: un’antinomia lacerante o una nuova ipotesi di civiltà?

Milano offre spunti interessanti di riflessione, se la si guarda, per esempio, come parte essenziale d’una grande area che va da Torino a Verona, dal nord di Como e Varese (verso la Svizzera) al sud della “grande Emilia” e che ha appunto la metropoli lombarda come baricentro fisico e culturale, proprio lungo l’asse produttivo e culturale che può saldare Europa continentale e Mediterraneo. Una delle aree più ricche d’Europa, in cui si incrociano manifattura (in accelerata trasformazione da “Industry4.0”), servizi hi tech, conoscenza, creatività. Il ridisegno di flussi e luoghi scandito dai tempi rapidi dell’Alta Velocità Ferroviaria ha avviato questo processo meta-geografico.

Milano da sintetizzare con un’unità di misura del tempo e non dello spazio: “Milano in un’ora”. Un’ora di treno (l’andata e il ritorno con Torino, Bologna, Verona e si spera in tempi brevi anche Genova). Un’ora o poco più d’aereo (Parigi, Londra, Monaco, Zurigo, Francoforte, Barcellona).

Milano, insomma, metropoli attrattiva e dinamica. Al centro dei grandi flussi Nord/Sud (le rotte mediterranee che approdano a Genova, i nuovi valichi alpini) e Ovest/Est. Con due grandi temi politici aperti, tra sfide europee e sguardo purtroppo di corta portata della politica nazionale (troppo tentata da provincialismi e clientele): come reggere la tensione della competitività internazionale? E come trainare il resto del Paese?

Ecco perché occorre ripensare criticamente i flussi delle aree metropolitane: flussi fisici e flussi digitali. E ragionare sulle caratteristiche delle smart cities e degli smart citizens (lo fa con l’abituale acuta intelligenza Carlo Ratti nel nuovo libro “La città di domani: come le reti stanno cambiando il futuro urbano”, scritto con Matthew Claudel e appena pubblicato da Einaudi). Si fanno i conti con le radicali trasformazioni del lavoro (meglio: dei lavori), dell’appartenenza territoriale, delle relazioni sociali. Ma anche degli spazi commerciali (per fare solo un esempio: come convivono Amazon e il piccolo negozio specializzato, i grandi centri commerciali e le botteghe di quartiere? e come dunque diversificare domanda e qualità di differenti risposte, fuori dalle secche dei protezionismi corporativi e dell’avidità dei più grossi operatori commerciali?).

La ridefinizione di competitività e qualità della vita (e le loro interdipendenze) sta negli incroci inediti tra tempi della vita, tempi del lavoro, tempi sociali. Come vivere il tempo libero (libero da che?). E come legare “smart working” con creatività e produttività strettamente dipendenti dal dialogo, dall’interazione diretta, dalla ricerca comune negli spazi fisici condivisi di un’impresa, un laboratorio creativo, un’aula universitaria, un centro di ricerca.

C’è ancora un altro tema, su cui riflettere: la radicale mutazione delle tradizionali classificazioni urbane: centro-periferia; uffici-fabbriche/ abitazioni; quartiere; piazza; relazioni vicino/lontano (vicino a dove? lontano da dove?). Un forte bisogno, insomma, di ridisegnare le città metropolitane innovando il rapporto tra le funzioni. E periferie “da rammendare”, secondo l’indicazione di Renzo Piano e riconsiderare come occasioni di “nuove centralità”, secondo il suggerimento di Vittorio Gregotti (“Arcipelago Milano”, sulla Rete, ne sta facendo occasione d’interessante dibattito, con le belle interviste di Chiara Ponzini).

A Milano il dibattito è in corso, più ricco e vivace che altrove (grazie anche all’esperienza positiva di “nuove” aree come Porta Nuova e City Life, con i loro grattacieli). Le partite aperte su Human Technopole e sulla riqualificazione dei sette grandi scali ferroviari offrono l’opportunità di uno straordinario ridisegno della città, mentre rivivono aree del centro urbano e ex aree industriali rinate negli anni Novanta con nuove funzioni (Bicocca) discutono di “distretto culturale” e relazioni tra formazione (università), servizi, nuove dimensioni e funzioni dell’ampio territorio del “nord Milano”.

Sullo sfondo di tali e tante considerazioni, c’è la “wiky city: le relazioni costruite secondo “digital”, “internet of things”, “ubiquitous computing”, con il moltiplicarsi dei “big data” e una virtualità che segna la vita. Ma tornando, anche per questa strada, dalle relazioni immateriali alla positiva materialità delle relazioni. Si invera la profezia di Manuel Castells, uno dei maggiori esperti di comunicazione della seconda metà del Novecento: “I contatti nati su Internet hanno bisogno di un posto offline dove ritrovarsi”. Cresce contemporaneamente il bisogno di fisicità: aumentano i luoghi di incontro fisico, si torna alla materialità dei manufatti (i ragazzi nativi digitali più evoluti studiano sui libri di carta). E si fanno i conti con inedite dimensioni del traffico urbano nella cadenza degli orari del giorno e della notte. Una rivoluzione che tocca naturalmente anche il trasporto, fuori dalle antiche abitudini e antinomie: non più solo pubblico e privato, ma da “sharing economy”: auto, moto e bici “condivise”, con un forte valore “pubblico” di un uso “individuale” del trasporto all’interno di una “comunità”. Milano è metropoli d’avanguardia, anche da questo punto di vista. Luoghi e flussi, funzioni e relazioni si incrociano ancora una volta.

“Una città per competere deve avere ali e radici”. La sintesi è di Ulrich Beck, uno dei maggiori sociologi dei nostri tempi difficili. E, nella sua apparente semplicità, riassume bene il senso delle sfide su un migliore sviluppo d’una metropoli come Milano, tra storia e futuro, forza dei luoghi e dinamiche dei flussi. E’ molto cresciuta, nel tempo, Milano. Esprime vivacità sociale e intraprendenze culturali ed economiche da “capitale europea”, pur non essendo la capitale politica del Paese (simile, in questo, a Francoforte, nella dialettica con Berlino). E continua a esercitare una forte attrattività per persone, idee, capitali che potrebbe essere rafforzata dall’arrivo dell’Ema (l’Agenzia Europea per il Farmaco: una battaglia di competenze e poteri ancora aperta, con Milano in pole position) ma che rimarrà comunque d’attualità.

Come continuare dunque a ragionare sulla sua crescita? E che scelte politiche pensare, definire in dettaglio, sostenere? Si può partire dalla consapevolezza che la competizione economica attuale si gioca tra grandi sistemi metropolitani spesso transnazionali e integrati e non più secondo gli schemi tradizionali degli Stati-nazione. Un percorso però non lineare.

Gli Stati-nazione, infatti, nell’attualità politica segnata dalla crisi della globalizzazione, riprendono spazio nell’immaginario popolare e nel discorso pubblico. Riemergono perfino “le piccole patrie”, con una critica crescente nei confronti delle istituzioni sovranazionali (compresa la Ue, messa in difficoltà dai burocratismi delle istituzioni di Bruxelles e dai nazionalismi ai limiti della grettezza, soprattutto nelle zone della ex Mitteleuropa ai confini con la Germania). C’è dunque una contraddizione aperta tra i flussi della produzioni e degli scambi e le tradizionali strutture statuali. E si aggravano problemi politici, economici e sociali di difficile governabilità.

Vale la pena tenere in gran conto la lezione di Parag Khanna, politologo Usa d’origine indiana, studioso di geo-politica: “Il cammino verso il progresso globale sta nelle capacità delle città di condividere le migliori pratiche tra loro”. Città e grandi aree metropolitane, aggiunge Khanna, “i cui confini sono stabiliti dalla connettività”, materiale (le grandi infrastrutture di comunicazione e trasporto) e immateriale (i collegamenti “digital” che comunque rinviano a una relazione “fisica” tra persone e luoghi, come diremo meglio tra poco). Si ripropone così, proprio nelle dimensioni della “connettività” per il governo democratico e lo sviluppo economico e sociale d’un territorio, la dialettica (cara alle analisi di Aldo Bonomi) ma anche il dialogo tra la forza dei luoghi (le radici, le identità nazionali, le caratteristiche dei “territori”) e le dinamiche dei flussi. Luoghi-flussi: un’antinomia lacerante o una nuova ipotesi di civiltà?

Milano offre spunti interessanti di riflessione, se la si guarda, per esempio, come parte essenziale d’una grande area che va da Torino a Verona, dal nord di Como e Varese (verso la Svizzera) al sud della “grande Emilia” e che ha appunto la metropoli lombarda come baricentro fisico e culturale, proprio lungo l’asse produttivo e culturale che può saldare Europa continentale e Mediterraneo. Una delle aree più ricche d’Europa, in cui si incrociano manifattura (in accelerata trasformazione da “Industry4.0”), servizi hi tech, conoscenza, creatività. Il ridisegno di flussi e luoghi scandito dai tempi rapidi dell’Alta Velocità Ferroviaria ha avviato questo processo meta-geografico.

Milano da sintetizzare con un’unità di misura del tempo e non dello spazio: “Milano in un’ora”. Un’ora di treno (l’andata e il ritorno con Torino, Bologna, Verona e si spera in tempi brevi anche Genova). Un’ora o poco più d’aereo (Parigi, Londra, Monaco, Zurigo, Francoforte, Barcellona).

Milano, insomma, metropoli attrattiva e dinamica. Al centro dei grandi flussi Nord/Sud (le rotte mediterranee che approdano a Genova, i nuovi valichi alpini) e Ovest/Est. Con due grandi temi politici aperti, tra sfide europee e sguardo purtroppo di corta portata della politica nazionale (troppo tentata da provincialismi e clientele): come reggere la tensione della competitività internazionale? E come trainare il resto del Paese?

Ecco perché occorre ripensare criticamente i flussi delle aree metropolitane: flussi fisici e flussi digitali. E ragionare sulle caratteristiche delle smart cities e degli smart citizens (lo fa con l’abituale acuta intelligenza Carlo Ratti nel nuovo libro “La città di domani: come le reti stanno cambiando il futuro urbano”, scritto con Matthew Claudel e appena pubblicato da Einaudi). Si fanno i conti con le radicali trasformazioni del lavoro (meglio: dei lavori), dell’appartenenza territoriale, delle relazioni sociali. Ma anche degli spazi commerciali (per fare solo un esempio: come convivono Amazon e il piccolo negozio specializzato, i grandi centri commerciali e le botteghe di quartiere? e come dunque diversificare domanda e qualità di differenti risposte, fuori dalle secche dei protezionismi corporativi e dell’avidità dei più grossi operatori commerciali?).

La ridefinizione di competitività e qualità della vita (e le loro interdipendenze) sta negli incroci inediti tra tempi della vita, tempi del lavoro, tempi sociali. Come vivere il tempo libero (libero da che?). E come legare “smart working” con creatività e produttività strettamente dipendenti dal dialogo, dall’interazione diretta, dalla ricerca comune negli spazi fisici condivisi di un’impresa, un laboratorio creativo, un’aula universitaria, un centro di ricerca.

C’è ancora un altro tema, su cui riflettere: la radicale mutazione delle tradizionali classificazioni urbane: centro-periferia; uffici-fabbriche/ abitazioni; quartiere; piazza; relazioni vicino/lontano (vicino a dove? lontano da dove?). Un forte bisogno, insomma, di ridisegnare le città metropolitane innovando il rapporto tra le funzioni. E periferie “da rammendare”, secondo l’indicazione di Renzo Piano e riconsiderare come occasioni di “nuove centralità”, secondo il suggerimento di Vittorio Gregotti (“Arcipelago Milano”, sulla Rete, ne sta facendo occasione d’interessante dibattito, con le belle interviste di Chiara Ponzini).

A Milano il dibattito è in corso, più ricco e vivace che altrove (grazie anche all’esperienza positiva di “nuove” aree come Porta Nuova e City Life, con i loro grattacieli). Le partite aperte su Human Technopole e sulla riqualificazione dei sette grandi scali ferroviari offrono l’opportunità di uno straordinario ridisegno della città, mentre rivivono aree del centro urbano e ex aree industriali rinate negli anni Novanta con nuove funzioni (Bicocca) discutono di “distretto culturale” e relazioni tra formazione (università), servizi, nuove dimensioni e funzioni dell’ampio territorio del “nord Milano”.

Sullo sfondo di tali e tante considerazioni, c’è la “wiky city: le relazioni costruite secondo “digital”, “internet of things”, “ubiquitous computing”, con il moltiplicarsi dei “big data” e una virtualità che segna la vita. Ma tornando, anche per questa strada, dalle relazioni immateriali alla positiva materialità delle relazioni. Si invera la profezia di Manuel Castells, uno dei maggiori esperti di comunicazione della seconda metà del Novecento: “I contatti nati su Internet hanno bisogno di un posto offline dove ritrovarsi”. Cresce contemporaneamente il bisogno di fisicità: aumentano i luoghi di incontro fisico, si torna alla materialità dei manufatti (i ragazzi nativi digitali più evoluti studiano sui libri di carta). E si fanno i conti con inedite dimensioni del traffico urbano nella cadenza degli orari del giorno e della notte. Una rivoluzione che tocca naturalmente anche il trasporto, fuori dalle antiche abitudini e antinomie: non più solo pubblico e privato, ma da “sharing economy”: auto, moto e bici “condivise”, con un forte valore “pubblico” di un uso “individuale” del trasporto all’interno di una “comunità”. Milano è metropoli d’avanguardia, anche da questo punto di vista. Luoghi e flussi, funzioni e relazioni si incrociano ancora una volta.

XVI Settimana della Cultura d’Impresa. Pirelli, 145 anni d’innovazione: storia di fabbriche e persone, prodotti e nuovi linguaggi

Si rinnova l’appuntamento annuale con la Settimana della Cultura d’Impresa, l’evento promosso da Confindustria in collaborazione con Museimpresa giunto alla sua XVI edizione, che si terrà dal 10 al 24 novembre prossimi sul tema “I linguaggi della crescita: impresa, cultura, territorio”. Sabato 11 novembre anche Fondazione Pirelli parteciperà all’evento con un’apertura straordinaria e visite guidate alla scoperta della storia di Pirelli e delle sue più famose campagne pubblicitarie dagli anni Settanta agli anni Duemila, raccontate nel libro “La pubblicità con la P maiuscola

Attraverso installazioni e proiezioni all’interno della suggestiva ex torre di raffreddamento dell’Headquarters Pirelli sarà possibile ripercorrere la storia della pubblicità Pirelli: dagli spot tv degli anni Settanta alle campagne globali con testimonial del cinema e dello sport, come Sharon Stone, Carl Lewis e Ronaldo. Durante i tour guidati gli scatti più belli postati sui social con gli hashtag #fondazionepirelli #SettimanaCulturaImpresa saranno condivisi sui canali Facebook (tag) e Instagram (tag)di Fondazione Pirelli.

Per i più piccoli  dai 6 ai 10 anni, in contemporanea con i tour guidati, saranno organizzate delle attività creative fino a un massimo di 15 partecipanti per turno durante i seguenti orari di visita: ore 10.00, 11.30, 14.30 e 16.00

L’itinerario includerà eccezionalmente anche la visita alla quattrocentesca Bicocca degli Arcimboldi recentemente restaurata.

Orario visite: turni con partenza ogni 30 minuti dalle 9.30 – 12.00 / 14.30 – 17.00

Durata: circa 75 minuti

Gruppi di massimo 25 partecipanti per turno

Ingresso libero, fino a esaurimento posti

Prenotazione obbligatoria previa registrazione al sito cliccando qui

Ingresso da via Bicocca degli Arcimboldi 3, Milano 

Per informazioni: visite@fondazionepirelli.org tel 0264423971

Guarda la gallery della giornata.

Si rinnova l’appuntamento annuale con la Settimana della Cultura d’Impresa, l’evento promosso da Confindustria in collaborazione con Museimpresa giunto alla sua XVI edizione, che si terrà dal 10 al 24 novembre prossimi sul tema “I linguaggi della crescita: impresa, cultura, territorio”. Sabato 11 novembre anche Fondazione Pirelli parteciperà all’evento con un’apertura straordinaria e visite guidate alla scoperta della storia di Pirelli e delle sue più famose campagne pubblicitarie dagli anni Settanta agli anni Duemila, raccontate nel libro “La pubblicità con la P maiuscola

Attraverso installazioni e proiezioni all’interno della suggestiva ex torre di raffreddamento dell’Headquarters Pirelli sarà possibile ripercorrere la storia della pubblicità Pirelli: dagli spot tv degli anni Settanta alle campagne globali con testimonial del cinema e dello sport, come Sharon Stone, Carl Lewis e Ronaldo. Durante i tour guidati gli scatti più belli postati sui social con gli hashtag #fondazionepirelli #SettimanaCulturaImpresa saranno condivisi sui canali Facebook (tag) e Instagram (tag)di Fondazione Pirelli.

Per i più piccoli  dai 6 ai 10 anni, in contemporanea con i tour guidati, saranno organizzate delle attività creative fino a un massimo di 15 partecipanti per turno durante i seguenti orari di visita: ore 10.00, 11.30, 14.30 e 16.00

L’itinerario includerà eccezionalmente anche la visita alla quattrocentesca Bicocca degli Arcimboldi recentemente restaurata.

Orario visite: turni con partenza ogni 30 minuti dalle 9.30 – 12.00 / 14.30 – 17.00

Durata: circa 75 minuti

Gruppi di massimo 25 partecipanti per turno

Ingresso libero, fino a esaurimento posti

Prenotazione obbligatoria previa registrazione al sito cliccando qui

Ingresso da via Bicocca degli Arcimboldi 3, Milano 

Per informazioni: visite@fondazionepirelli.org tel 0264423971

Guarda la gallery della giornata.

Multimedia

Images

La bella comunicazione

Un libro sui mondi  e sui modi di comunicare ieri e oggi. Buona lettura anche per le imprese

Le imprese devono farsi conoscere. E farsi conoscere meglio di prima. Questione di concorrenza, di mercati più rapidi e “cattivi”, di informazione che deve essere sempre più attenta e accurata. Il farsi conoscere correttamente è anche un aspetto importante della cultura d’impresa, di ogni impresa, che voglia dirsi completa. L’organizzazione e i luoghi della produzione come sistemi aperti al mondo, non sono concetti astratti ma concreti, che si fanno ogni giorno.

E’ necessario tuttavia saper comunicare e, forse di più, saper distinguere quando la comunicazione diventa sovrabbondante, troppa, eccessiva, soffocante mancando quindi uno dei suoi obiettivi principali: informare sulla realtà e mettere tutti nelle uguali condizioni di scelta. Condizione difficile da raggiungere – quella di una comunicazione corretta e non soffocante -, soprattutto oggi.

Leggere “Comunicare meno. Comunicare meglio” di Serena Scarpello (firma del gruppo di Comunicazione Internazionale HAVAS dove per la divisione PR Milan si occupa di strategie di comunicazione, corporate magazine, relazioni con la stampa e organizzazione eventi), è un passo utile da compiere per comprendere meglio gli ambiti comunicativi nei quali le aziende si devono muovere.

Scarpello (seppur ancora giovane) ha dalla sua una grande esperienza di vita nei meandri della comunicazione e conduce il lettore lungo un percorso che lo mette in grado di affrontare con maggiore consapevolezza le criticità della comunicazione moderna. Partendo da una constatazione: la comunicazione è sempre più circolare, i contenuti e i contenitori si moltiplicano e noi siamo meno concentrati a causa dall’abbondanza delle informazioni gratuite e sempre disponibili, e più indaffarati nella corsa al controllo del nostro tempo.

Serena Scarpello inizia il suo viaggio dal punto di partenza giusto: la semplicità. Semplicità per farsi capire da tutti. Semplicità nelle sue innumerevoli declinazioni di chiarezza, completezza, bellezza e così via. Il succo della buona comunicazione, insomma. Da qui Scarpello dipana il suo ragionamento. Toccando fra l’altro le tappe della comunicazione d’impresa – da Enrico Mattei e Maurizio Cattelan -, con esempi importanti come ENI, Pirelli, Dompé, ATM, Bemberg, Finmeccanica, Chevron e molti altri raccontati attraverso prodotti editoriali e testimonianze. Per passare poi al racconto nelle sue varie forme (ciò che oggi va sotto il nome di storytelling), anche in questo caso affrontato con l’aiuto di esempi notevoli, per arrivare quindi alla questione della vita dei libri – come strumenti d’eccellenza nella comunicazione -, e dei libri nella vita. E approdare poi alla figura e al ruolo di chi si occupa di comunicazione oggi (con una attenzione particolare alle figure più strettamente collegate al web ma anche alla pubbliche relazioni in generale), oltre che alle regole della Rete. Tutto scritto ragionando e dando quando serve indicazioni operative.  A corredo del testo, inoltre, un apparato di immagini che spesso valgono più di mille parole.

Serena Scarpello ha scritto un libro fitto di informazioni e contenuti (la troppa comunicazione è sempre dietro l’angolo), che è bello da leggere e da rileggere più volte. Che può fare discutere (e con il quale si può anche non essere totalmente d’accordo) e che quindi raggiunge il grande obiettivo di far pensare.

Comunicazione meno. Comunicare meglio

Serena Scarpello

Guerini Next, 2017

Un libro sui mondi  e sui modi di comunicare ieri e oggi. Buona lettura anche per le imprese

Le imprese devono farsi conoscere. E farsi conoscere meglio di prima. Questione di concorrenza, di mercati più rapidi e “cattivi”, di informazione che deve essere sempre più attenta e accurata. Il farsi conoscere correttamente è anche un aspetto importante della cultura d’impresa, di ogni impresa, che voglia dirsi completa. L’organizzazione e i luoghi della produzione come sistemi aperti al mondo, non sono concetti astratti ma concreti, che si fanno ogni giorno.

E’ necessario tuttavia saper comunicare e, forse di più, saper distinguere quando la comunicazione diventa sovrabbondante, troppa, eccessiva, soffocante mancando quindi uno dei suoi obiettivi principali: informare sulla realtà e mettere tutti nelle uguali condizioni di scelta. Condizione difficile da raggiungere – quella di una comunicazione corretta e non soffocante -, soprattutto oggi.

Leggere “Comunicare meno. Comunicare meglio” di Serena Scarpello (firma del gruppo di Comunicazione Internazionale HAVAS dove per la divisione PR Milan si occupa di strategie di comunicazione, corporate magazine, relazioni con la stampa e organizzazione eventi), è un passo utile da compiere per comprendere meglio gli ambiti comunicativi nei quali le aziende si devono muovere.

Scarpello (seppur ancora giovane) ha dalla sua una grande esperienza di vita nei meandri della comunicazione e conduce il lettore lungo un percorso che lo mette in grado di affrontare con maggiore consapevolezza le criticità della comunicazione moderna. Partendo da una constatazione: la comunicazione è sempre più circolare, i contenuti e i contenitori si moltiplicano e noi siamo meno concentrati a causa dall’abbondanza delle informazioni gratuite e sempre disponibili, e più indaffarati nella corsa al controllo del nostro tempo.

Serena Scarpello inizia il suo viaggio dal punto di partenza giusto: la semplicità. Semplicità per farsi capire da tutti. Semplicità nelle sue innumerevoli declinazioni di chiarezza, completezza, bellezza e così via. Il succo della buona comunicazione, insomma. Da qui Scarpello dipana il suo ragionamento. Toccando fra l’altro le tappe della comunicazione d’impresa – da Enrico Mattei e Maurizio Cattelan -, con esempi importanti come ENI, Pirelli, Dompé, ATM, Bemberg, Finmeccanica, Chevron e molti altri raccontati attraverso prodotti editoriali e testimonianze. Per passare poi al racconto nelle sue varie forme (ciò che oggi va sotto il nome di storytelling), anche in questo caso affrontato con l’aiuto di esempi notevoli, per arrivare quindi alla questione della vita dei libri – come strumenti d’eccellenza nella comunicazione -, e dei libri nella vita. E approdare poi alla figura e al ruolo di chi si occupa di comunicazione oggi (con una attenzione particolare alle figure più strettamente collegate al web ma anche alla pubbliche relazioni in generale), oltre che alle regole della Rete. Tutto scritto ragionando e dando quando serve indicazioni operative.  A corredo del testo, inoltre, un apparato di immagini che spesso valgono più di mille parole.

Serena Scarpello ha scritto un libro fitto di informazioni e contenuti (la troppa comunicazione è sempre dietro l’angolo), che è bello da leggere e da rileggere più volte. Che può fare discutere (e con il quale si può anche non essere totalmente d’accordo) e che quindi raggiunge il grande obiettivo di far pensare.

Comunicazione meno. Comunicare meglio

Serena Scarpello

Guerini Next, 2017

Partecipazione produttiva

Una ricerca appena presentata alla comunità scientifica, fa ordine nella triangolazione fra produttività, creatività e benessere nelle imprese

Si produce meglio dove si lavora meglio. Non è una banalità, ma una constatazione che ormai pesa molto nel dibattito – e nella pratica – della gestione aziendale. C’è, in altri termini, un forte legame fra gli elementi di una triade: produttività, creatività e benessere.  Un collegamento che va compreso e quindi realizzato, tenendo conto delle circostanze con le quali di volta in volta la vita d’impresa prende forma.

A mettere ordine nell’argomento – che non è semplice -, ci ha provato Luciano Pilotti (dell’Università di Milano, Dipartimento di Scienze dello sviluppo) con il suo “Welfare aziendale tra Industry 4.0 e smart working: leve di wellness, partecipative, creative per la crescita della produttività cognitiva e del Paese” ricerca presentata nell’ambito del Convegno internazionale di studio. “Impresa, lavoro e non lavoro nell’economia digitale”.

Pilotti parte dalla constatazione che le discussioni attorno ai concetti e alle applicazioni che uniscono produttività e benessere, si sono in questo periodo intensificate. L’obiettivo della ricerca è quello di connettere, scrive l’autore, questa “ accelerazione del dibattito nazionale e/o internazionale sul Welfare Aziendale alle necessità delle imprese di accrescere la produttività da una parte (soprattutto quella a base cognitiva e digitale) e, dall’altra di sviluppare la creatività, in particolare di tipo condiviso attraverso le leve di un miglioramento della qualità dei contesti organizzativi, d’impresa, di network e di comunità a partire dai livelli di benessere delle persone e delle loro relazioni”.

Dopo aver messo bene a fuoco la “triangolazione virtuosa fra produttività, creatività e benessere-felicità”, Pilotti esamina quindi i collegamenti più particolari fra Industria 4.0 e politiche industriali per passare poi al welfare di prossimità tra le reti di PMI arrivando quindi a ragionare sugli eco-sistemi territoriali. La ricerca poi prosegue approfondendo i rapporti fra produttività e benessere, fra produttività cognitiva e benessere e fra uomo e macchina.

Si legge quasi al fondo dell’indagine: “Benessere e Felicità, Passioni ed Emozioni divengono a tutti gli effetti ingredienti fondamentali di una organizzazione adattiva e dinamica perché flessibile e resiliente, ridondante e partecipativa. Una organizzazione con una vision  per il futuro che si incardina sul ‘prendersi cura delle persone che la abitano’ che (…) può (e deve) accoppiarsi con la produttività cognitiva e l’innovazione condivisa della quale necessita, per produrre creatività e valore”.

Il tema affrontato dalla ricerca non è fra i più facili, ma Pilotti scrive bene e con chiarezza e si fa leggere.

Welfare aziendale tra Industry 4.0 e smart working: leve di wellness, partecipative, creative per la crescita della produttività cognitiva e del Paese

Luciano Pilotti

Convegno internazionale di studio. “Impresa, lavoro e non lavoro nell’economia digitale), Brescia, 12-13 ottobre 2017

Una ricerca appena presentata alla comunità scientifica, fa ordine nella triangolazione fra produttività, creatività e benessere nelle imprese

Si produce meglio dove si lavora meglio. Non è una banalità, ma una constatazione che ormai pesa molto nel dibattito – e nella pratica – della gestione aziendale. C’è, in altri termini, un forte legame fra gli elementi di una triade: produttività, creatività e benessere.  Un collegamento che va compreso e quindi realizzato, tenendo conto delle circostanze con le quali di volta in volta la vita d’impresa prende forma.

A mettere ordine nell’argomento – che non è semplice -, ci ha provato Luciano Pilotti (dell’Università di Milano, Dipartimento di Scienze dello sviluppo) con il suo “Welfare aziendale tra Industry 4.0 e smart working: leve di wellness, partecipative, creative per la crescita della produttività cognitiva e del Paese” ricerca presentata nell’ambito del Convegno internazionale di studio. “Impresa, lavoro e non lavoro nell’economia digitale”.

Pilotti parte dalla constatazione che le discussioni attorno ai concetti e alle applicazioni che uniscono produttività e benessere, si sono in questo periodo intensificate. L’obiettivo della ricerca è quello di connettere, scrive l’autore, questa “ accelerazione del dibattito nazionale e/o internazionale sul Welfare Aziendale alle necessità delle imprese di accrescere la produttività da una parte (soprattutto quella a base cognitiva e digitale) e, dall’altra di sviluppare la creatività, in particolare di tipo condiviso attraverso le leve di un miglioramento della qualità dei contesti organizzativi, d’impresa, di network e di comunità a partire dai livelli di benessere delle persone e delle loro relazioni”.

Dopo aver messo bene a fuoco la “triangolazione virtuosa fra produttività, creatività e benessere-felicità”, Pilotti esamina quindi i collegamenti più particolari fra Industria 4.0 e politiche industriali per passare poi al welfare di prossimità tra le reti di PMI arrivando quindi a ragionare sugli eco-sistemi territoriali. La ricerca poi prosegue approfondendo i rapporti fra produttività e benessere, fra produttività cognitiva e benessere e fra uomo e macchina.

Si legge quasi al fondo dell’indagine: “Benessere e Felicità, Passioni ed Emozioni divengono a tutti gli effetti ingredienti fondamentali di una organizzazione adattiva e dinamica perché flessibile e resiliente, ridondante e partecipativa. Una organizzazione con una vision  per il futuro che si incardina sul ‘prendersi cura delle persone che la abitano’ che (…) può (e deve) accoppiarsi con la produttività cognitiva e l’innovazione condivisa della quale necessita, per produrre creatività e valore”.

Il tema affrontato dalla ricerca non è fra i più facili, ma Pilotti scrive bene e con chiarezza e si fa leggere.

Welfare aziendale tra Industry 4.0 e smart working: leve di wellness, partecipative, creative per la crescita della produttività cognitiva e del Paese

Luciano Pilotti

Convegno internazionale di studio. “Impresa, lavoro e non lavoro nell’economia digitale), Brescia, 12-13 ottobre 2017

Sette “frammenti d’un discorso amoroso” per l’Italia che vuole continuare a crescere

Il viaggio in Italia, con occhi curiosi e spregiudicati, riserva sorprese. Positive, tutto sommato. Sui temi dello sviluppo economico e sociale, della qualità della vita, delle possibilità d’un futuro migliore. Non un’Italia allo sfascio, dove tutto va male. Ma un’Italia dinamica, che contrasta i pur gravissimi segni di declino. Ne emergono evidenze chiare in un documentario diretto dal regista Mimmo Calopresti e voluto dalle Assicurazioni Generali, proiettato lo scorso fine settimana a Venezia durante l’ultima edizione degli Aspen Seminars for Leaders, incontri dedicati ai temi dei migranti e dei confronti di culture, della mobilità, delle “life sciences” e della ricerca scientifica, dell’innovazione imprenditoriale, della qualità della vita e dello sviluppo equilibrato e sostenibile. In primo piano, “L’Italia creativa”, che non si ripiega nel mugugno e nella protesta pregiudiziale ma, proprio di fronte al malessere diffuso, lavora, inventa, innova, fa. Un’Italia in movimento. Calopresti, capofila di una serie di altri registi di gran nome, i loro assistenti e lo staff delle Generali hanno incontrato migliaia di persone, nelle piazze delle città e dei paesi del Centro-Sud. Le hanno fatte parlare. E hanno messo insieme, con criteri da buon cinema documentario, un film interessante su “Genialità italiana”, presentato al Festival del Cinema di Venezia e poi discusso all’Aspen. Una testimonianza di robusto interesse sulla cosiddetta “Italia che non ti aspetti”. Non stolido ottimismo a tutti i costi, incurante dei problemi. Ma scelta di volontà e ragione di impegnarsi, nella vita sociale ed economica, ma anche in politica, per cambiare le cose. Cittadini che, nelle loro comunità, diventano attori sociali positivi e non spettatori malinconici del declino. Varrebbe la pena, adesso, allargare lo sguardo cinematografico alle piazze e alle aree industriali del Centro Nord e raccontare anche “l’Italia che non t’aspetti” delle fabbriche e delle “start up” innovative, dei laboratori di ricerca, dei servizi digitali, di quel “paradiso della brugola” (una vite speciale ad alta tecnologia) e di quella “morale del tornio” che, rilanciando proprio la migliore manifattura, sta costruendo paradigmi di sviluppo economico e sociale di straordinaria qualità, in grado di provare a trainare tutto il Paese fuori dalla crisi.

Il viaggio in Italia può essere, dunque, occasione per prendere consapevolezza della forza di attività e iniziative. Vale la pena ricordare le pagine di Walter Benjamin, una delle migliori intelligenze del Novecento: ogni viaggio diventa un racconto e non c’è racconto che non sia un racconto di viaggio. Quest’Italia in cambiamento, insomma, merita un racconto molto migliore, più pertinente e vero di quello che, parziale e spesso pregiudiziale, leggiamo nelle cronache degli scontri politici (con forti e devianti elementi di propaganda) e nelle descrizioni ipercritiche, soprattutto sul web (affollato da notizie false e distorte). Quest’Italia, è vero, è fragile, ferita, lenta, ingiusta, inquinata da mafia, corruzione, evasione fiscale, privilegi corporativi, squilibri sociali, intollerabili inutili burocrazia. Ma non è solo questo. Nell’inferno italiano, memori della straordinaria lezione civile di Italo Calvino, è necessario valorizzare “quello che non è inferno”, farlo vivere, dargli spazio.

Fare vivere e dare forza di rappresentazione, per esempio, a quegli italiani che non se ne stanno ad “aspettare il treno” e a lamentarsi del “treno che è passato” ma “costruiscono stazioni” e “producono treni”. E si rivelano bravissimi “sarti meccanici”, capaci di costruire, meglio di tanti altri produttori tedeschi e americani, giapponesi e cinesi, macchinari e impianti, robot industriali e servizi hi tech, animando quella che si chiama “Industria4.0”, innovativo sistema di produzione e servizi in cui proprio noi italiani, capaci di intelligenza creativa e flessibilità progettuale e produttiva, abbiamo ottime carte da giocare. Sono le condizioni per fare crescere una nuova stagione di “humanifacturing” (ne abbiamo parlato nel blog della settimana scorsa), un incrocio tra competenze umanistiche di solide origini e  ingegneria manifatturiera, cultura politecnica d’alto livello in cui scienza, laboratori, fabbriche si ritrovano in un incrocio virtuoso che incide su conoscenza, economia società: il “paradigma Natta”, riflettendo, appunto, sulla lezione di Giulio Natta, premio Nobel per la chimica nel 1963, eccellente scienziato cresciuto tra il Politecnico di Milano e di Torino, le università di Pavia e Roma e i centri di ricerca di Pirelli e Montecatini (il suo polipropilene rivoluziona l’industria chimica e della plastica).

La “grande Milano”, strettamente connessa con Torino, Bologna e, verso est, Brescia e Verona, ne è indicazione positiva: dinamica area di respiro europeo, ricca di industria, servizi, conoscenza (le eccellenti università) e in grando di attrarre talenti, competenze, capitali. Un’area in cui costruire lavoro e interpretare i nuovi processi dell’economia “digital” in cui tramontano antiche mestieri e se ne creano di nuovi: processo non lineare né socialmente indolore, che ha un grande bisogno di innovazione sociale e buona politica. Processo comunque in corso, faticosamente ma pure creativamente.

C’è un ultimo pensiero su cui riflettere, nel racconto dell’Italia creativa: la bellezza. Il patrimonio culturale e ambientale. Ma anche la capacità di “produrre cose belle che piacciono al mondo” (secondo l’originale e sempre valida definizione di Carlo M. Cipolla): un made in Italy che nei prodotti d’alta gamma, nelle “meccatronica” (ben raccontata da un brillante spot di Assolombarda e Pubblicità Progresso, da ritrovare sul web e riguardare, per l’incrocio tra persone e tecnologie), nel design continua ad avere testimonianze di successo, cardini di futuro.

Sette riflessioni, dunque: un nuovo “racconto italiano” del viaggio nella contemporaneità, la capacità di “costruire stazioni e treni”, il “pensiero su misura” degli “straordinari sarti meccanici”, le qualità dell’”humanifacturing”, le capacità d’attrazione di intelligenze e risorse, il “nuovo” lavoro, la valorizzazione della “bellezza”. Possono essere sette “frammenti d’un discorso amoroso” per quest’Italia in cambiamento che, nonostante tutto, insiste per continuare a crescere. E meglio.

Il viaggio in Italia, con occhi curiosi e spregiudicati, riserva sorprese. Positive, tutto sommato. Sui temi dello sviluppo economico e sociale, della qualità della vita, delle possibilità d’un futuro migliore. Non un’Italia allo sfascio, dove tutto va male. Ma un’Italia dinamica, che contrasta i pur gravissimi segni di declino. Ne emergono evidenze chiare in un documentario diretto dal regista Mimmo Calopresti e voluto dalle Assicurazioni Generali, proiettato lo scorso fine settimana a Venezia durante l’ultima edizione degli Aspen Seminars for Leaders, incontri dedicati ai temi dei migranti e dei confronti di culture, della mobilità, delle “life sciences” e della ricerca scientifica, dell’innovazione imprenditoriale, della qualità della vita e dello sviluppo equilibrato e sostenibile. In primo piano, “L’Italia creativa”, che non si ripiega nel mugugno e nella protesta pregiudiziale ma, proprio di fronte al malessere diffuso, lavora, inventa, innova, fa. Un’Italia in movimento. Calopresti, capofila di una serie di altri registi di gran nome, i loro assistenti e lo staff delle Generali hanno incontrato migliaia di persone, nelle piazze delle città e dei paesi del Centro-Sud. Le hanno fatte parlare. E hanno messo insieme, con criteri da buon cinema documentario, un film interessante su “Genialità italiana”, presentato al Festival del Cinema di Venezia e poi discusso all’Aspen. Una testimonianza di robusto interesse sulla cosiddetta “Italia che non ti aspetti”. Non stolido ottimismo a tutti i costi, incurante dei problemi. Ma scelta di volontà e ragione di impegnarsi, nella vita sociale ed economica, ma anche in politica, per cambiare le cose. Cittadini che, nelle loro comunità, diventano attori sociali positivi e non spettatori malinconici del declino. Varrebbe la pena, adesso, allargare lo sguardo cinematografico alle piazze e alle aree industriali del Centro Nord e raccontare anche “l’Italia che non t’aspetti” delle fabbriche e delle “start up” innovative, dei laboratori di ricerca, dei servizi digitali, di quel “paradiso della brugola” (una vite speciale ad alta tecnologia) e di quella “morale del tornio” che, rilanciando proprio la migliore manifattura, sta costruendo paradigmi di sviluppo economico e sociale di straordinaria qualità, in grado di provare a trainare tutto il Paese fuori dalla crisi.

Il viaggio in Italia può essere, dunque, occasione per prendere consapevolezza della forza di attività e iniziative. Vale la pena ricordare le pagine di Walter Benjamin, una delle migliori intelligenze del Novecento: ogni viaggio diventa un racconto e non c’è racconto che non sia un racconto di viaggio. Quest’Italia in cambiamento, insomma, merita un racconto molto migliore, più pertinente e vero di quello che, parziale e spesso pregiudiziale, leggiamo nelle cronache degli scontri politici (con forti e devianti elementi di propaganda) e nelle descrizioni ipercritiche, soprattutto sul web (affollato da notizie false e distorte). Quest’Italia, è vero, è fragile, ferita, lenta, ingiusta, inquinata da mafia, corruzione, evasione fiscale, privilegi corporativi, squilibri sociali, intollerabili inutili burocrazia. Ma non è solo questo. Nell’inferno italiano, memori della straordinaria lezione civile di Italo Calvino, è necessario valorizzare “quello che non è inferno”, farlo vivere, dargli spazio.

Fare vivere e dare forza di rappresentazione, per esempio, a quegli italiani che non se ne stanno ad “aspettare il treno” e a lamentarsi del “treno che è passato” ma “costruiscono stazioni” e “producono treni”. E si rivelano bravissimi “sarti meccanici”, capaci di costruire, meglio di tanti altri produttori tedeschi e americani, giapponesi e cinesi, macchinari e impianti, robot industriali e servizi hi tech, animando quella che si chiama “Industria4.0”, innovativo sistema di produzione e servizi in cui proprio noi italiani, capaci di intelligenza creativa e flessibilità progettuale e produttiva, abbiamo ottime carte da giocare. Sono le condizioni per fare crescere una nuova stagione di “humanifacturing” (ne abbiamo parlato nel blog della settimana scorsa), un incrocio tra competenze umanistiche di solide origini e  ingegneria manifatturiera, cultura politecnica d’alto livello in cui scienza, laboratori, fabbriche si ritrovano in un incrocio virtuoso che incide su conoscenza, economia società: il “paradigma Natta”, riflettendo, appunto, sulla lezione di Giulio Natta, premio Nobel per la chimica nel 1963, eccellente scienziato cresciuto tra il Politecnico di Milano e di Torino, le università di Pavia e Roma e i centri di ricerca di Pirelli e Montecatini (il suo polipropilene rivoluziona l’industria chimica e della plastica).

La “grande Milano”, strettamente connessa con Torino, Bologna e, verso est, Brescia e Verona, ne è indicazione positiva: dinamica area di respiro europeo, ricca di industria, servizi, conoscenza (le eccellenti università) e in grando di attrarre talenti, competenze, capitali. Un’area in cui costruire lavoro e interpretare i nuovi processi dell’economia “digital” in cui tramontano antiche mestieri e se ne creano di nuovi: processo non lineare né socialmente indolore, che ha un grande bisogno di innovazione sociale e buona politica. Processo comunque in corso, faticosamente ma pure creativamente.

C’è un ultimo pensiero su cui riflettere, nel racconto dell’Italia creativa: la bellezza. Il patrimonio culturale e ambientale. Ma anche la capacità di “produrre cose belle che piacciono al mondo” (secondo l’originale e sempre valida definizione di Carlo M. Cipolla): un made in Italy che nei prodotti d’alta gamma, nelle “meccatronica” (ben raccontata da un brillante spot di Assolombarda e Pubblicità Progresso, da ritrovare sul web e riguardare, per l’incrocio tra persone e tecnologie), nel design continua ad avere testimonianze di successo, cardini di futuro.

Sette riflessioni, dunque: un nuovo “racconto italiano” del viaggio nella contemporaneità, la capacità di “costruire stazioni e treni”, il “pensiero su misura” degli “straordinari sarti meccanici”, le qualità dell’”humanifacturing”, le capacità d’attrazione di intelligenze e risorse, il “nuovo” lavoro, la valorizzazione della “bellezza”. Possono essere sette “frammenti d’un discorso amoroso” per quest’Italia in cambiamento che, nonostante tutto, insiste per continuare a crescere. E meglio.

Pirelli e il Compasso d’Oro: storie di design

Scorrendo la lista delle imprese vincitrici della prima edizione del Compasso d’Oro (1954), prestigioso premio per il design industriale, accanto ad aziende di arredamento, elettrodomestici, oggetti per lo sport e il tempo libero, compare la Pigomma srl, società dedicata alla produzione di giocattoli, premiata per la scimmietta in gommapiuma Zizì, disegnata da Bruno Munari. Forse è poco noto che, dietro questa piccola società c’è uno dei maggiori gruppi multinazionali italiani: il Gruppo Pirelli. La Pigomma è infatti una delle tante società che compongono la costellazione di aziende e consociate del settore prodotti diversificati del Gruppo Pirelli, primo comparto produttivo della società (quando iniziò negli anni Settanta dell’Ottocento con articoli in gomma tecnici e per il consumo), al quale si affiancarono in seguito il comparto cavi e il comparto pneumatici.

Negli anni d’oro del design industriale in Italia, gli anni in cui nacque e si sviluppò il Premio Compasso d’Oro, il settore prodotti diversificati Pirelli conobbe una crescita esponenziale, giungendo a interessare praticamente ogni comparto industriale, dello sport, del tempo libero, con articoli realizzati in una varietà di materiali sintetici e plastici, oltre che di gomma. A partire dal quel primo riconoscimento ottenuto nel 1954, la storia di Pirelli incrocia quella del Compasso d’Oro numerose volte. Nel 1956 tra i vincitori del premio figura il Cifra 5, orologio elettromeccanico a scatto di cifre disegnato da Gino Valle per la società Solari di Udine. Qualche anno più tardi, nel 1964 – dopo essersi aggiudicata anche un altro Compasso d’Oro, nel 1962, per i teleindicatori per aeroporti e stazioni, sempre disegnati da Valle – la Solari entra a far parte del Settore Prodotti Diversificati della Pirelli, che si estendeva in quegli anni anche all’elettronica e all’elettromeccanica.

In quello stesso 1964 la giuria del Compasso d’Oro premia un importante progetto per Milano: la prima linea metropolitana cittadina, la linea rossa, che collegava Sesto Marelli a Lotto lungo 21 stazioni. Anche Pirelli, e in particolare le aziende consociate del comparto articoli vari, contribuirono alla realizzazione di questo progetto, con diversi prodotti tecnici per scale mobili, impianto di condizionamento e riscaldamento delle stazioni, tubazioni. Ma soprattutto con un prodotto, che caratterizzerà fortemente l’immagine delle stazioni della metropolitana: il pavimento in gomma a bolli, primo caso di utilizzo di rivestimento in gomma tra tutte le metropolitane europee, ancora oggi presente in numerose stazioni. Una componente importante del progetto per l’allestimento e la segnaletica della metropolitana, per il quale furono premiati con il Compasso d’Oro gli architetti Franco Albini e Franca Helg e il grafico Bob Noorda. Tra le motivazioni del premio, proprio “l’organizzazione tecnologica e dimensionale delle superfici interne dei vari ambienti e il contrappunto dei materiali”. Il pavimento a bolli era prodotto dalla Società del Linoleum, consociata della Pirelli attiva dal 1898 e dedicata alla produzione di pavimenti resilienti (pavimenti in gomma Pirelli, in linoleum, in prealino, vinilici rinforzati, moquette) che a partire dal secondo dopoguerra si diffusero presso edifici pubblici e privati, cinema e teatri, navi. Alla Linoleum nasce un’altra storia in qualche modo collegata al Compasso d’Oro. Nel 1929 infatti la società fonda quella che può essere considerata la prima rivista “aziendale” del Gruppo Pirelli: “Edilizia Moderna”. La rivista, dedicata all’architettura e all’arredamento, si pose subito tra le protagoniste del dibattito culturale in campo architettonico e urbanistico, insieme alle più importanti riviste del tempo, “Casabella” e “Domus” (anche grazie al contributo di Leonardo Sinisgalli, a capo della propaganda della Linoleum tra il 1936 e il 1937). Un ruolo portato avanti nel tempo, come dimostra l’assegnazione del Compasso d’Oro del 1967 al numero monografico della rivista dedicato al design e alla professione del designer.

Infine, in questa rassegna dei Compassi d’Oro che in qualche modo “toccano” Pirelli, non possono mancare i premi alla carriera tributati a grandi nomi del design italiano: Giancarlo Iliprandi e Enzo Mari, premiati nel 2011. Alessandro Mendini, premiato nel 2014. Tutti hanno collaborato con Pirelli e con la sua direzione Propaganda, che negli anni Cinquanta e Sessanta è stata una straordinaria fucina di creatività per diverse generazioni di grafici e designer. Nel 1958, Alessandro Mendini, appena laureato, realizza, all’interno dello studio Brunati – Mendini – Villa, alcune pubblicità per i pneumatici Pirelli. Nel 1963 un giovanissimo Enzo Mari progetta il packaging della borsa per acqua caldaAmica”, disegnata da Roberto Menghi. Nei primi anni Sessanta anche Giancarlo Iliprandi si cimenta con la pubblicità di diversi prodotti Pirelli, dai pneumatici per scooter al nastro adesivo prodotto dalla consociata Ades Sint.

La storia di Pirelli e del Compasso d’Oro continua con l’inserimento nell’ADI Design Index della mostra “L’anima di gomma”, già vincitrice del Red Dot Design Award 2013, la candidatura del progetto editoriale “La Pubblicità con la P maiuscola” all’edizione 2020 del Premio Compasso d’Oro e del progetto “Storie del Grattacielo” all’ADI Design Index 2020.

Scorrendo la lista delle imprese vincitrici della prima edizione del Compasso d’Oro (1954), prestigioso premio per il design industriale, accanto ad aziende di arredamento, elettrodomestici, oggetti per lo sport e il tempo libero, compare la Pigomma srl, società dedicata alla produzione di giocattoli, premiata per la scimmietta in gommapiuma Zizì, disegnata da Bruno Munari. Forse è poco noto che, dietro questa piccola società c’è uno dei maggiori gruppi multinazionali italiani: il Gruppo Pirelli. La Pigomma è infatti una delle tante società che compongono la costellazione di aziende e consociate del settore prodotti diversificati del Gruppo Pirelli, primo comparto produttivo della società (quando iniziò negli anni Settanta dell’Ottocento con articoli in gomma tecnici e per il consumo), al quale si affiancarono in seguito il comparto cavi e il comparto pneumatici.

Negli anni d’oro del design industriale in Italia, gli anni in cui nacque e si sviluppò il Premio Compasso d’Oro, il settore prodotti diversificati Pirelli conobbe una crescita esponenziale, giungendo a interessare praticamente ogni comparto industriale, dello sport, del tempo libero, con articoli realizzati in una varietà di materiali sintetici e plastici, oltre che di gomma. A partire dal quel primo riconoscimento ottenuto nel 1954, la storia di Pirelli incrocia quella del Compasso d’Oro numerose volte. Nel 1956 tra i vincitori del premio figura il Cifra 5, orologio elettromeccanico a scatto di cifre disegnato da Gino Valle per la società Solari di Udine. Qualche anno più tardi, nel 1964 – dopo essersi aggiudicata anche un altro Compasso d’Oro, nel 1962, per i teleindicatori per aeroporti e stazioni, sempre disegnati da Valle – la Solari entra a far parte del Settore Prodotti Diversificati della Pirelli, che si estendeva in quegli anni anche all’elettronica e all’elettromeccanica.

In quello stesso 1964 la giuria del Compasso d’Oro premia un importante progetto per Milano: la prima linea metropolitana cittadina, la linea rossa, che collegava Sesto Marelli a Lotto lungo 21 stazioni. Anche Pirelli, e in particolare le aziende consociate del comparto articoli vari, contribuirono alla realizzazione di questo progetto, con diversi prodotti tecnici per scale mobili, impianto di condizionamento e riscaldamento delle stazioni, tubazioni. Ma soprattutto con un prodotto, che caratterizzerà fortemente l’immagine delle stazioni della metropolitana: il pavimento in gomma a bolli, primo caso di utilizzo di rivestimento in gomma tra tutte le metropolitane europee, ancora oggi presente in numerose stazioni. Una componente importante del progetto per l’allestimento e la segnaletica della metropolitana, per il quale furono premiati con il Compasso d’Oro gli architetti Franco Albini e Franca Helg e il grafico Bob Noorda. Tra le motivazioni del premio, proprio “l’organizzazione tecnologica e dimensionale delle superfici interne dei vari ambienti e il contrappunto dei materiali”. Il pavimento a bolli era prodotto dalla Società del Linoleum, consociata della Pirelli attiva dal 1898 e dedicata alla produzione di pavimenti resilienti (pavimenti in gomma Pirelli, in linoleum, in prealino, vinilici rinforzati, moquette) che a partire dal secondo dopoguerra si diffusero presso edifici pubblici e privati, cinema e teatri, navi. Alla Linoleum nasce un’altra storia in qualche modo collegata al Compasso d’Oro. Nel 1929 infatti la società fonda quella che può essere considerata la prima rivista “aziendale” del Gruppo Pirelli: “Edilizia Moderna”. La rivista, dedicata all’architettura e all’arredamento, si pose subito tra le protagoniste del dibattito culturale in campo architettonico e urbanistico, insieme alle più importanti riviste del tempo, “Casabella” e “Domus” (anche grazie al contributo di Leonardo Sinisgalli, a capo della propaganda della Linoleum tra il 1936 e il 1937). Un ruolo portato avanti nel tempo, come dimostra l’assegnazione del Compasso d’Oro del 1967 al numero monografico della rivista dedicato al design e alla professione del designer.

Infine, in questa rassegna dei Compassi d’Oro che in qualche modo “toccano” Pirelli, non possono mancare i premi alla carriera tributati a grandi nomi del design italiano: Giancarlo Iliprandi e Enzo Mari, premiati nel 2011. Alessandro Mendini, premiato nel 2014. Tutti hanno collaborato con Pirelli e con la sua direzione Propaganda, che negli anni Cinquanta e Sessanta è stata una straordinaria fucina di creatività per diverse generazioni di grafici e designer. Nel 1958, Alessandro Mendini, appena laureato, realizza, all’interno dello studio Brunati – Mendini – Villa, alcune pubblicità per i pneumatici Pirelli. Nel 1963 un giovanissimo Enzo Mari progetta il packaging della borsa per acqua caldaAmica”, disegnata da Roberto Menghi. Nei primi anni Sessanta anche Giancarlo Iliprandi si cimenta con la pubblicità di diversi prodotti Pirelli, dai pneumatici per scooter al nastro adesivo prodotto dalla consociata Ades Sint.

La storia di Pirelli e del Compasso d’Oro continua con l’inserimento nell’ADI Design Index della mostra “L’anima di gomma”, già vincitrice del Red Dot Design Award 2013, la candidatura del progetto editoriale “La Pubblicità con la P maiuscola” all’edizione 2020 del Premio Compasso d’Oro e del progetto “Storie del Grattacielo” all’ADI Design Index 2020.

Multimedia

Images

Pirelli: Sustainable Culture. April 2016 – September 2017

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?