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Viaggio attorno all’imprenditore

Sintetizzati un breve libro i tratti salienti della figura imprenditoriale

Mappe e punti di riferimento. Nodi che invece di essere sciolti devono rimanere stretti a legare fra di loro concetti importanti. Condizioni che devono essere presenti anche nelle imprese, a fissare caratteristiche peculiari dell’imprenditore e dei manager  che vi lavorano, e quindi a caratterizzare la cultura produttiva di ogni stabilimento.

Per tutto questo occorrono basi di riferimento come quella fornita da Francesco Andrea Saviozzi con il suo “Imprenditorialità”. L’autore (Direttore del Master in Imprenditorialità e strategia aziendale dell’Università Bocconi), ha scritto un volume agile che prende le mosse da una domanda: perché sbagliando s’imprende? La risposta arriva dall’esame, sotto diversi profili, della figura dell’imprenditore e dei diversi aspetti che occorre considerare relativamente alla sua azione.

Dopo la definizione di chi sia un imprenditore e da quali motivazioni sia spinto nella sua azione, il volume passa a considerare il processo imprenditoriale e quello di identificazione delle opportunità imprenditoriali, il modello di business, il meccanismo di valutazione della sostenibilità finanziaria di un’idea progettuale, la gestione imprenditoriale nel suo farsi.

Dalla lettura arrivano quindi due messaggi importanti. Prima di tutto l’aspetto umano e sociale dell’attività d’impresa e imprenditoriale. Poi il significato gestionale dell’agire imprenditoriale.

Saviozzi risponde ad una domanda semplice  eppure complessa: chi sono gli imprenditori? E, poi, che cosa li rende tali e quale personalità hanno? E che impatto hanno con le loro azioni? Poi si passa al processo, all’agire concreto delle persone. E’ il processo imprenditoriale che viene analizzato visto come “mestiere” prima di tutto e quindi ancora una volta come “cosa umana” prima che meccanicisticamente ordinabile in fasi e processi.

Saviozzi ha scritto un libro apparentemente “facile” oltre che breve (nemmeno 200 pagine), ma densissimo. Da leggere.

Imprenditorialità

Francesco Andrea Saviozzi

Egea, 2017

Sintetizzati un breve libro i tratti salienti della figura imprenditoriale

Mappe e punti di riferimento. Nodi che invece di essere sciolti devono rimanere stretti a legare fra di loro concetti importanti. Condizioni che devono essere presenti anche nelle imprese, a fissare caratteristiche peculiari dell’imprenditore e dei manager  che vi lavorano, e quindi a caratterizzare la cultura produttiva di ogni stabilimento.

Per tutto questo occorrono basi di riferimento come quella fornita da Francesco Andrea Saviozzi con il suo “Imprenditorialità”. L’autore (Direttore del Master in Imprenditorialità e strategia aziendale dell’Università Bocconi), ha scritto un volume agile che prende le mosse da una domanda: perché sbagliando s’imprende? La risposta arriva dall’esame, sotto diversi profili, della figura dell’imprenditore e dei diversi aspetti che occorre considerare relativamente alla sua azione.

Dopo la definizione di chi sia un imprenditore e da quali motivazioni sia spinto nella sua azione, il volume passa a considerare il processo imprenditoriale e quello di identificazione delle opportunità imprenditoriali, il modello di business, il meccanismo di valutazione della sostenibilità finanziaria di un’idea progettuale, la gestione imprenditoriale nel suo farsi.

Dalla lettura arrivano quindi due messaggi importanti. Prima di tutto l’aspetto umano e sociale dell’attività d’impresa e imprenditoriale. Poi il significato gestionale dell’agire imprenditoriale.

Saviozzi risponde ad una domanda semplice  eppure complessa: chi sono gli imprenditori? E, poi, che cosa li rende tali e quale personalità hanno? E che impatto hanno con le loro azioni? Poi si passa al processo, all’agire concreto delle persone. E’ il processo imprenditoriale che viene analizzato visto come “mestiere” prima di tutto e quindi ancora una volta come “cosa umana” prima che meccanicisticamente ordinabile in fasi e processi.

Saviozzi ha scritto un libro apparentemente “facile” oltre che breve (nemmeno 200 pagine), ma densissimo. Da leggere.

Imprenditorialità

Francesco Andrea Saviozzi

Egea, 2017

“Il canto della fabbrica”: ecco come la musica racconta l’industria hi tech, i suoi ritmi e i suoni

“L’uomo (qui in fabbrica) non perde le sue attitudini, non rinuncia al suo genio. Nell’oggetto, nel prodotto, nella merce c’è riconoscibile la misura della sua capacità. La macchina docile lo aiuta”. Sono parole di Leonardo Sinisgalli, ingegnere e poeta, lucano d’origine e milanese per scelta di lavoro e di vita, “firma” della Rivista Pirelli e poi di “Civiltà delle macchine”. Erano state scritte nel 1949. E adesso fanno da didascalia d’una “calandretta”, un’apparecchiatura per pneumatici degli inizi del Novecento, installata nell’atrio dell’HeadQuarters Pirelli qui a Milano, per ricordare a tutti, ogni giorno, la centralità della fabbrica: una testimonianza del lavoro e della tecnica, che segna il tempo e diventa metafora della migliore condizione industriale. Le persone. E il loro “fare, e fare bene”. Appunto, “la macchina, docile, aiuta”.

Cambiano, le fabbriche. E le macchine. Diventano digitali. Computer. Robot.  Relazioni web. Big data. Resta, la manifattura di qualità. Ma con un’anima hi tech. Cambiano naturalmente anche il lavoro e le competenze delle persone.

“La fabbrica bella”, luminosa, ambientalmente e socialmente sostenibile ha un nuovo volto e una nuova cultura. Ha bisogno anche di un nuovo racconto.

Prendendo spunto da Settimo Torinese, lo stabilimento Pirelli con la “spina” progettata da Renzo Piano (la struttura centrale tra i due corpi produttivi, che ospita uffici, servizi e laboratori di ricerca e sviluppo) in anni recenti si è costruito un racconto per immagini (le fotografie di Peter Lindbergh e di Carlo Furgeri Gilbert) e poi un racconto teatrale (“Settimo – La fabbrica e il lavoro”, per il Piccolo Teatro di Milano, con la regia di Serena Sinigaglia).

Adesso, la sfida affrontata è ancora più ambiziosa: la “fabbrica bella” e “digital” può avere anche una sua musica.

Nel cuore del Novecento la fabbrica dell’acciaio e delle catene di montaggio aveva costruito un suono che ne interpretava l’anima dura, faticosa, stridente, con i “quattro colpi di sirena” della Seconda Sinfonia di Shostakovich, per esempio (eseguita proprio novant’anni fa, nel 1927, per celebrare il decennale della Rivoluzione d’Ottobre). Oggi, fuori da ogni retorica, che suono ha l’industria contemporanea?

Nasce così Il canto della fabbrica, dall’incontro tra un compositore, Francesco Fiore e un gruppo musicale d’eccellenza, l’Orchestra da Camera Italiana diretta da Salvatore Accardo e le persone e le macchine del Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese. Osservazione, ascolto, scoperta. E dialogo. Tra le macchine (i mescolatori, le calandre, i robot  “Next Mirs”) e i violini, i violoncelli e le viole. Tra i tecnici dell’industria. E i musicisti. Ritmi da cui farsi ispirare e da rielaborare. E silenzi, come intervalli della produzione e “spazio interiore di risonanza della musica” (la lezione innovativa d’un grande musicista italiano, Salvatore Sciarrino). La produzione si fa suono. La musica dell’Orchestra ne è originale interpretazione.

Racconta il maestro Fiore: “Da una visita in fabbrica a Settimo ho ricavato l’idea che il brano dovesse essere ispirato all’industria contemporanea e ai suoi ritmi produttivi, ma  anche essere concepito specificatamente per l’arte di Salvatore Accardo e per le caratteristiche della sua Orchestra. Una fabbrica intesa come luogo dell’uomo che interviene nell’ambiente naturale per creare un suo luogo di lavoro, e dove il sapere e il lavoro comune devono trovare una sintesi in un prodotto finale: appunto, la musica”.

Ecco i temi ispiratori: “Il silenzioso balletto degli enormi robot al lavoro con i loro movimenti d’una grazia meccanica così estranea al gesto naturale dell’uomo; la profondità dalla quale viene cavata la mescola chimica che deve trasformarsi nel prodotto finito; la coesistenza del vecchio e del nuovo, fatica umana e automi apparentemente impassibili e instancabili, antichi macchinari e computer di ultimissima generazione. Tutto questo ho cercato di riversare nel mio brano: come da un’idea o cellula primigenia (nel caso specifico le note mi – do – sol – do diesis) si possa, attraverso la trasformazione e l’elaborazione, creare qualcosa che non perda il contatto con l’elemento generante ma segua le varie ramificazioni, a volte contraddittorie o contrastanti che un processo di sviluppo può portare”.

Spiega ancora Fiore: “Mentre procedevo nella composizione, un aspetto mi diveniva sempre più chiaro, e cioè che il violino solista assumeva nella concezione del brano la funzione del pensiero dell’uomo: di qualcosa che ha il compito di riassumere gli impulsi e le possibilità date dalla materia e di rielaborare tutto ciò in una sintesi chiarificatrice”.

La parte solistica “è stata quindi concepita non per il violino, ma più specificatamente per il violino come è inteso da Salvatore Accardo: uno strumento dove ragione e sentimento si equilibrano e temperano a vicenda, e dove il talento individuale viene esaltato dal mettersi al servizio della crescita spirituale della collettività”.

Musica e comunità. Creatività. E rigore nell’interpretazione e nell’esecuzione. Dialettica. Un “ricercare”. Anche da questi punti di vista, la cultura della fabbrica trova una rappresentazione musicale. Racconta Salvatore Accardo: “Con Francesco Fiore, profondo conoscitore delle potenzialità espressive e tecniche della nostra Orchestra, abbiamo passato un anno a provare, sperimentare suoni ed armonie. E abbiamo condiviso l’importanza del ‘fare con mano’, toccando la materia, in questo caso musicale, strumentale, plasmandola secondo le caratteristiche degli interpreti, rinnovando un sapere antico. Lo stretto rapporto fra compositore e interprete è un lato essenziale della creazione musicale”.

“Fare con mano”, si dice anche del lavoro di fabbrica: manifattura. Ed è affascinante, insiste Accardo, “questa convergenza creativa tra musicisti e tecnici, uomini e donne di cultura musicale e ingegneri e operai. Il lavoro e il suono. Sintesi di straordinario fascino e profonda emozione”.

Come tradurre tutto ciò in una composizione? “Il significato profondo del brano sta nella dicotomia fra la parte dell’orchestra e quella del Violino. Mentre in qualche modo la parte orchestrale può rappresentare (attraverso la sua severità e il contrappunto rigidamente strutturato) il mondo delle macchine produttive moderne, digitali, che agiscono inesorabilmente nel cuore della fabbrica, la parte affidata al Violino invece utilizza un linguaggio a volte capriccioso, virtuosistico, meditativo e imprevedibile in modo da guidare, come fosse il pensiero umano, l’intero percorso del brano verso un’ideale sintesi”.

Emerge un altro aspetto del racconto per musica: la relazione continua fra tradizione e innovazione. Tema che segna, peraltro, tutto il percorso della Fondazione Pirelli.

C’è appunto un’abitudine che continua a maturare. Testimoniata, per esempio, da un concerto di John Cage, nel ’54, stagione tra le più innovative e creative del musicista. Dove? Al Centro Culturale Pirelli di Milano. Lavoro. Fabbrica. Musica. I segni del tempo.

Ancora una volta, come nella migliore cultura italiana, le conoscenze scientifiche e la “téchne” (il saper fare delle buone fabbriche) si incontrano con le conoscenze umanistiche. Esprimono cultura politecnica. Che nel tempo, anche in Pirelli, prende forma di letteratura, teatro, cinema, fotografia, arte visiva. E musica. La creatività trae forza dal rigore meccanico. La matematica , espressa in forma digitale, guida la produzione. Ma sa pure dare vita a note, accordi, armonie. Bach ne è stato maestro. La metamorfosi, nell’incontro con il mutamento dei tempi, risuona anche in questo “Canto”. Appunto un “ricercare”, come nella lezione di Bach.

Si approfondiscono così le relazioni tra la Pirelli e l’Orchestra da Camera Italiana (un dialogo che va avanti da anni, anche con le prove delle stagioni concertistiche aperte ai dipendenti del gruppo, per vedere dal vivo “come nasce” un’esecuzione musicale). E si rinsaldano i rapporti tra Pirelli e MiTo Settembre Musica.

Concerti nei luoghi del lavoro, in fabbrica, al Polo Industriale di Settimo Torinese nel 2010, 2011 e 2014 (con una straordinaria esecuzione della Settima Sinfonia di Beethoven, davanti a più di mille persone) e poi nel 2016 nell’Auditorium Pirelli in Bicocca, a Milano, hanno sottolineato l’impegno di ridare, alla musica, il ruolo di protagonista della grande cultura popolare, con la consapevolezza che le persone non hanno mai smesso di amare la musica classica e semmai chiedono, soprattutto tra le nuove generazioni, relazioni più intense, originali, cariche di intelligenza ed emozioni, aperte a una idea di modernità che sa vivere tra tradizione e innovazione.

Con il “Canto della fabbrica” si fa un passo in più. Il lavoro e l’industria producono musica. E la sua rappresentazione sceglie proprio i luoghi del lavoro per esprimersi al meglio. Inedite armonie.

“L’uomo (qui in fabbrica) non perde le sue attitudini, non rinuncia al suo genio. Nell’oggetto, nel prodotto, nella merce c’è riconoscibile la misura della sua capacità. La macchina docile lo aiuta”. Sono parole di Leonardo Sinisgalli, ingegnere e poeta, lucano d’origine e milanese per scelta di lavoro e di vita, “firma” della Rivista Pirelli e poi di “Civiltà delle macchine”. Erano state scritte nel 1949. E adesso fanno da didascalia d’una “calandretta”, un’apparecchiatura per pneumatici degli inizi del Novecento, installata nell’atrio dell’HeadQuarters Pirelli qui a Milano, per ricordare a tutti, ogni giorno, la centralità della fabbrica: una testimonianza del lavoro e della tecnica, che segna il tempo e diventa metafora della migliore condizione industriale. Le persone. E il loro “fare, e fare bene”. Appunto, “la macchina, docile, aiuta”.

Cambiano, le fabbriche. E le macchine. Diventano digitali. Computer. Robot.  Relazioni web. Big data. Resta, la manifattura di qualità. Ma con un’anima hi tech. Cambiano naturalmente anche il lavoro e le competenze delle persone.

“La fabbrica bella”, luminosa, ambientalmente e socialmente sostenibile ha un nuovo volto e una nuova cultura. Ha bisogno anche di un nuovo racconto.

Prendendo spunto da Settimo Torinese, lo stabilimento Pirelli con la “spina” progettata da Renzo Piano (la struttura centrale tra i due corpi produttivi, che ospita uffici, servizi e laboratori di ricerca e sviluppo) in anni recenti si è costruito un racconto per immagini (le fotografie di Peter Lindbergh e di Carlo Furgeri Gilbert) e poi un racconto teatrale (“Settimo – La fabbrica e il lavoro”, per il Piccolo Teatro di Milano, con la regia di Serena Sinigaglia).

Adesso, la sfida affrontata è ancora più ambiziosa: la “fabbrica bella” e “digital” può avere anche una sua musica.

Nel cuore del Novecento la fabbrica dell’acciaio e delle catene di montaggio aveva costruito un suono che ne interpretava l’anima dura, faticosa, stridente, con i “quattro colpi di sirena” della Seconda Sinfonia di Shostakovich, per esempio (eseguita proprio novant’anni fa, nel 1927, per celebrare il decennale della Rivoluzione d’Ottobre). Oggi, fuori da ogni retorica, che suono ha l’industria contemporanea?

Nasce così Il canto della fabbrica, dall’incontro tra un compositore, Francesco Fiore e un gruppo musicale d’eccellenza, l’Orchestra da Camera Italiana diretta da Salvatore Accardo e le persone e le macchine del Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese. Osservazione, ascolto, scoperta. E dialogo. Tra le macchine (i mescolatori, le calandre, i robot  “Next Mirs”) e i violini, i violoncelli e le viole. Tra i tecnici dell’industria. E i musicisti. Ritmi da cui farsi ispirare e da rielaborare. E silenzi, come intervalli della produzione e “spazio interiore di risonanza della musica” (la lezione innovativa d’un grande musicista italiano, Salvatore Sciarrino). La produzione si fa suono. La musica dell’Orchestra ne è originale interpretazione.

Racconta il maestro Fiore: “Da una visita in fabbrica a Settimo ho ricavato l’idea che il brano dovesse essere ispirato all’industria contemporanea e ai suoi ritmi produttivi, ma  anche essere concepito specificatamente per l’arte di Salvatore Accardo e per le caratteristiche della sua Orchestra. Una fabbrica intesa come luogo dell’uomo che interviene nell’ambiente naturale per creare un suo luogo di lavoro, e dove il sapere e il lavoro comune devono trovare una sintesi in un prodotto finale: appunto, la musica”.

Ecco i temi ispiratori: “Il silenzioso balletto degli enormi robot al lavoro con i loro movimenti d’una grazia meccanica così estranea al gesto naturale dell’uomo; la profondità dalla quale viene cavata la mescola chimica che deve trasformarsi nel prodotto finito; la coesistenza del vecchio e del nuovo, fatica umana e automi apparentemente impassibili e instancabili, antichi macchinari e computer di ultimissima generazione. Tutto questo ho cercato di riversare nel mio brano: come da un’idea o cellula primigenia (nel caso specifico le note mi – do – sol – do diesis) si possa, attraverso la trasformazione e l’elaborazione, creare qualcosa che non perda il contatto con l’elemento generante ma segua le varie ramificazioni, a volte contraddittorie o contrastanti che un processo di sviluppo può portare”.

Spiega ancora Fiore: “Mentre procedevo nella composizione, un aspetto mi diveniva sempre più chiaro, e cioè che il violino solista assumeva nella concezione del brano la funzione del pensiero dell’uomo: di qualcosa che ha il compito di riassumere gli impulsi e le possibilità date dalla materia e di rielaborare tutto ciò in una sintesi chiarificatrice”.

La parte solistica “è stata quindi concepita non per il violino, ma più specificatamente per il violino come è inteso da Salvatore Accardo: uno strumento dove ragione e sentimento si equilibrano e temperano a vicenda, e dove il talento individuale viene esaltato dal mettersi al servizio della crescita spirituale della collettività”.

Musica e comunità. Creatività. E rigore nell’interpretazione e nell’esecuzione. Dialettica. Un “ricercare”. Anche da questi punti di vista, la cultura della fabbrica trova una rappresentazione musicale. Racconta Salvatore Accardo: “Con Francesco Fiore, profondo conoscitore delle potenzialità espressive e tecniche della nostra Orchestra, abbiamo passato un anno a provare, sperimentare suoni ed armonie. E abbiamo condiviso l’importanza del ‘fare con mano’, toccando la materia, in questo caso musicale, strumentale, plasmandola secondo le caratteristiche degli interpreti, rinnovando un sapere antico. Lo stretto rapporto fra compositore e interprete è un lato essenziale della creazione musicale”.

“Fare con mano”, si dice anche del lavoro di fabbrica: manifattura. Ed è affascinante, insiste Accardo, “questa convergenza creativa tra musicisti e tecnici, uomini e donne di cultura musicale e ingegneri e operai. Il lavoro e il suono. Sintesi di straordinario fascino e profonda emozione”.

Come tradurre tutto ciò in una composizione? “Il significato profondo del brano sta nella dicotomia fra la parte dell’orchestra e quella del Violino. Mentre in qualche modo la parte orchestrale può rappresentare (attraverso la sua severità e il contrappunto rigidamente strutturato) il mondo delle macchine produttive moderne, digitali, che agiscono inesorabilmente nel cuore della fabbrica, la parte affidata al Violino invece utilizza un linguaggio a volte capriccioso, virtuosistico, meditativo e imprevedibile in modo da guidare, come fosse il pensiero umano, l’intero percorso del brano verso un’ideale sintesi”.

Emerge un altro aspetto del racconto per musica: la relazione continua fra tradizione e innovazione. Tema che segna, peraltro, tutto il percorso della Fondazione Pirelli.

C’è appunto un’abitudine che continua a maturare. Testimoniata, per esempio, da un concerto di John Cage, nel ’54, stagione tra le più innovative e creative del musicista. Dove? Al Centro Culturale Pirelli di Milano. Lavoro. Fabbrica. Musica. I segni del tempo.

Ancora una volta, come nella migliore cultura italiana, le conoscenze scientifiche e la “téchne” (il saper fare delle buone fabbriche) si incontrano con le conoscenze umanistiche. Esprimono cultura politecnica. Che nel tempo, anche in Pirelli, prende forma di letteratura, teatro, cinema, fotografia, arte visiva. E musica. La creatività trae forza dal rigore meccanico. La matematica , espressa in forma digitale, guida la produzione. Ma sa pure dare vita a note, accordi, armonie. Bach ne è stato maestro. La metamorfosi, nell’incontro con il mutamento dei tempi, risuona anche in questo “Canto”. Appunto un “ricercare”, come nella lezione di Bach.

Si approfondiscono così le relazioni tra la Pirelli e l’Orchestra da Camera Italiana (un dialogo che va avanti da anni, anche con le prove delle stagioni concertistiche aperte ai dipendenti del gruppo, per vedere dal vivo “come nasce” un’esecuzione musicale). E si rinsaldano i rapporti tra Pirelli e MiTo Settembre Musica.

Concerti nei luoghi del lavoro, in fabbrica, al Polo Industriale di Settimo Torinese nel 2010, 2011 e 2014 (con una straordinaria esecuzione della Settima Sinfonia di Beethoven, davanti a più di mille persone) e poi nel 2016 nell’Auditorium Pirelli in Bicocca, a Milano, hanno sottolineato l’impegno di ridare, alla musica, il ruolo di protagonista della grande cultura popolare, con la consapevolezza che le persone non hanno mai smesso di amare la musica classica e semmai chiedono, soprattutto tra le nuove generazioni, relazioni più intense, originali, cariche di intelligenza ed emozioni, aperte a una idea di modernità che sa vivere tra tradizione e innovazione.

Con il “Canto della fabbrica” si fa un passo in più. Il lavoro e l’industria producono musica. E la sua rappresentazione sceglie proprio i luoghi del lavoro per esprimersi al meglio. Inedite armonie.

Pirelli, le corse e il circuito di Monza nelle foto d’archivio

Sin dai suoi albori la storia dell’automobilismo sportivo è segnata dalla presenza di Pirelli: dopo le prime grandi imprese, come il raid Pechino-Parigi, vinto dalla Itala gommata Pirelli nel 1907, o la New York-Parigi -corsa attraverso l’Alaska nel 1908– a partire dagli anni Venti, forte della rivoluzionaria tecnologia cord che conferiva una maggiore resistenza e tenuta di strada al pneumatico, Pirelli comincia ad affrontare le gare di tutta Europa, in circuito e su strada.

Negli stessi anni -e forse non a caso- nasce, all’interno dell’organigramma aziendale, una funzione dedicata alla Propaganda. L’ufficio, che aveva tra i suoi obiettivi la “pubblicità e reclame”, la realizzazione di listini, cataloghi e stampati pubblicitari vari, curava anche la partecipazione alle gare automobilistiche, percepite fin da allora come veicolo di promozione di forte impatto. Tra le attività svolte vi era anche quella di documentare la partecipazione di Pirelli alle gare. Per questo, le fotografie più antiche conservate nell’archivio fotografico della Propaganda Pirelli riguardano proprio le prime gare degli anni Venti: la Coppa della Consuma, il circuito del Garda, il circuito del Savio a Ravenna. E naturalmente il circuito di Monza, sul quale Pirelli è presente sin dal 1922, anno della sua inaugurazione. E poi nel 1923, sulla Miller di Martin de Alzaga, nel 1924, sulla vittoriosa Alfa Romeo P2 di Antonio Ascari, e ancora nel 1925 sulla Alfa Romeo guidata da Gastone Brilli Peri (dopo la morte di Ascari) che si aggiudica il campionato del mondo. Gli anni Trenta e Quaranta vedono il trionfo di piloti quali Tazio Nuvolari e Nino Farina, sempre su Alfa Romeo e Ferrari, a Monza, come nelle famosissime Targa Florio e Mille Miglia. Per gli anni Trenta ricca è anche la documentazione sulla partecipazione a gare internazionali: la Tobruk-Tripoli, il Gran Premio di Leopoli in Polonia, il Gran Premio di San Sebastiano in Spagna, il GP di Finlandia, il GP di San Paolo in Brasile e molte altre.

Grazie al completamento della catalogazione della serie “corse auto, sono oggi disponibili on line tutte le fotografie relative a gare automobilistiche, commissionate dalla Propaganda Pirelli tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta. “Filtrando” le immagini per parola chiave è possibile ripercorrere le imprese di grandi piloti, grandi macchine e grandi circuiti, come quello di Monza: una storia che continua ancora oggi…

Sin dai suoi albori la storia dell’automobilismo sportivo è segnata dalla presenza di Pirelli: dopo le prime grandi imprese, come il raid Pechino-Parigi, vinto dalla Itala gommata Pirelli nel 1907, o la New York-Parigi -corsa attraverso l’Alaska nel 1908– a partire dagli anni Venti, forte della rivoluzionaria tecnologia cord che conferiva una maggiore resistenza e tenuta di strada al pneumatico, Pirelli comincia ad affrontare le gare di tutta Europa, in circuito e su strada.

Negli stessi anni -e forse non a caso- nasce, all’interno dell’organigramma aziendale, una funzione dedicata alla Propaganda. L’ufficio, che aveva tra i suoi obiettivi la “pubblicità e reclame”, la realizzazione di listini, cataloghi e stampati pubblicitari vari, curava anche la partecipazione alle gare automobilistiche, percepite fin da allora come veicolo di promozione di forte impatto. Tra le attività svolte vi era anche quella di documentare la partecipazione di Pirelli alle gare. Per questo, le fotografie più antiche conservate nell’archivio fotografico della Propaganda Pirelli riguardano proprio le prime gare degli anni Venti: la Coppa della Consuma, il circuito del Garda, il circuito del Savio a Ravenna. E naturalmente il circuito di Monza, sul quale Pirelli è presente sin dal 1922, anno della sua inaugurazione. E poi nel 1923, sulla Miller di Martin de Alzaga, nel 1924, sulla vittoriosa Alfa Romeo P2 di Antonio Ascari, e ancora nel 1925 sulla Alfa Romeo guidata da Gastone Brilli Peri (dopo la morte di Ascari) che si aggiudica il campionato del mondo. Gli anni Trenta e Quaranta vedono il trionfo di piloti quali Tazio Nuvolari e Nino Farina, sempre su Alfa Romeo e Ferrari, a Monza, come nelle famosissime Targa Florio e Mille Miglia. Per gli anni Trenta ricca è anche la documentazione sulla partecipazione a gare internazionali: la Tobruk-Tripoli, il Gran Premio di Leopoli in Polonia, il Gran Premio di San Sebastiano in Spagna, il GP di Finlandia, il GP di San Paolo in Brasile e molte altre.

Grazie al completamento della catalogazione della serie “corse auto, sono oggi disponibili on line tutte le fotografie relative a gare automobilistiche, commissionate dalla Propaganda Pirelli tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta. “Filtrando” le immagini per parola chiave è possibile ripercorrere le imprese di grandi piloti, grandi macchine e grandi circuiti, come quello di Monza: una storia che continua ancora oggi…

Ambiente d’impresa

In una tesi presentata all’Università di Padova raccontati i legami fra aziende e tutela ambientale

Impresa e ambiente non sono incompatibili. Assunto ormai condiviso, quest’ultimo, anche se non sempre perfettamente realizzato. Così come è ancora meno applicato il proseguimento lungo il cammino che apre questa concezione del produrre: la maggiore attenzione all’ambiente può far crescere più di prima ogni impresa. E’ il delinearsi di una nuova è più complessa cultura d’impresa.

Esplorare ciò che sta dentro e attorno questi concetti è importante. Ed è ciò che ha fatto Valentina Trevisan con “Il Made in Italy si tinge di ‘green’ Comunicare la sostenibilità ambientale delle imprese italiane”, lavoro presentato nell’ambito del Corso di Laurea Magistrale in Strategie di Comunicazione del Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali “Marco Fanno” dell’Università degli Studi di Padova.

Si tratta di una ricerca che di fatto ragiona attorno al cambiamento culturale e di vita imposto dalla necessità di tutelare l’ambiente e quindi sulle conseguenze che questo ha portato nel rapporto fra imprese e mercati.

“Se la post-modernità si può dire essere caratterizzata da una nuova figura di consumatore – viene spiegato all’inizio del lavoro –, si è reso necessario da parte delle imprese proporre prodotti e servizi in linea con le nuove esigenze di questa figura”. E poi ancora: l’impresa “si è trovata di fronte a dei segnali di diversi consumi e per restare al passo con le richieste del mercato ha dovuto anch’essa evolversi”. Da tutto questo l’obiettivo del lavoro – capire come le imprese italiane hanno risposto a questi stimoli -, che viene raggiunto partendo dall’analisi delle nuove modalità di consumo, passando per un approfondimento dei cambiamenti a carico del cosiddetto “ciclo di vita del prodotto”, per arrivare ad affrontare i  concetti di green marketing  e di responsabilità sociale d’impresa e quindi l’impatto ambientale del Made in Italy.

Il lavoro poi prende in considerazione alcuni “casi” italiani come l’attività conciaria (con la Montebello), il design (Alisea), l’abbigliamento (Wrad Living), il settore agroalimentare (Barilla, Syngenta). Ma è un po’ tutto il lavoro ad essere costellato di esempi d’azienda, prima, per esempio, Trevisan discute anche dell’attività di Patagonia così come del sistema di smaltimento dei rifiuti di Modena.

Quanto scritto da Valentina Trevisan non si conclude solo con delle certezze (ed è questo certamente un suo merito). Viene così ammesso che il tema della cultura della sostenibilità in Italia è ancora diffuso in maniera controversa anche se viene sottolineato come la “responsabilità” sia “un elemento fondante i comportamenti aziendali e personali”.

Permeata da una grande fiducia nell’attività d’impresa e nel consumatore avveduto, la ricerca di Trevisan può forse non trovare tutti perfettamente d’accordo, ma è certamente una lettura da fare.

Il Made in Italy si tinge di “green” Comunicare la sostenibilità ambientale delle imprese italiane

Valentina Trevisan

Università degli Studi di Padova Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali “Marco Fanno” Corso di Laurea Magistrale in Strategie di Comunicazione, 2017

In una tesi presentata all’Università di Padova raccontati i legami fra aziende e tutela ambientale

Impresa e ambiente non sono incompatibili. Assunto ormai condiviso, quest’ultimo, anche se non sempre perfettamente realizzato. Così come è ancora meno applicato il proseguimento lungo il cammino che apre questa concezione del produrre: la maggiore attenzione all’ambiente può far crescere più di prima ogni impresa. E’ il delinearsi di una nuova è più complessa cultura d’impresa.

Esplorare ciò che sta dentro e attorno questi concetti è importante. Ed è ciò che ha fatto Valentina Trevisan con “Il Made in Italy si tinge di ‘green’ Comunicare la sostenibilità ambientale delle imprese italiane”, lavoro presentato nell’ambito del Corso di Laurea Magistrale in Strategie di Comunicazione del Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali “Marco Fanno” dell’Università degli Studi di Padova.

Si tratta di una ricerca che di fatto ragiona attorno al cambiamento culturale e di vita imposto dalla necessità di tutelare l’ambiente e quindi sulle conseguenze che questo ha portato nel rapporto fra imprese e mercati.

“Se la post-modernità si può dire essere caratterizzata da una nuova figura di consumatore – viene spiegato all’inizio del lavoro –, si è reso necessario da parte delle imprese proporre prodotti e servizi in linea con le nuove esigenze di questa figura”. E poi ancora: l’impresa “si è trovata di fronte a dei segnali di diversi consumi e per restare al passo con le richieste del mercato ha dovuto anch’essa evolversi”. Da tutto questo l’obiettivo del lavoro – capire come le imprese italiane hanno risposto a questi stimoli -, che viene raggiunto partendo dall’analisi delle nuove modalità di consumo, passando per un approfondimento dei cambiamenti a carico del cosiddetto “ciclo di vita del prodotto”, per arrivare ad affrontare i  concetti di green marketing  e di responsabilità sociale d’impresa e quindi l’impatto ambientale del Made in Italy.

Il lavoro poi prende in considerazione alcuni “casi” italiani come l’attività conciaria (con la Montebello), il design (Alisea), l’abbigliamento (Wrad Living), il settore agroalimentare (Barilla, Syngenta). Ma è un po’ tutto il lavoro ad essere costellato di esempi d’azienda, prima, per esempio, Trevisan discute anche dell’attività di Patagonia così come del sistema di smaltimento dei rifiuti di Modena.

Quanto scritto da Valentina Trevisan non si conclude solo con delle certezze (ed è questo certamente un suo merito). Viene così ammesso che il tema della cultura della sostenibilità in Italia è ancora diffuso in maniera controversa anche se viene sottolineato come la “responsabilità” sia “un elemento fondante i comportamenti aziendali e personali”.

Permeata da una grande fiducia nell’attività d’impresa e nel consumatore avveduto, la ricerca di Trevisan può forse non trovare tutti perfettamente d’accordo, ma è certamente una lettura da fare.

Il Made in Italy si tinge di “green” Comunicare la sostenibilità ambientale delle imprese italiane

Valentina Trevisan

Università degli Studi di Padova Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali “Marco Fanno” Corso di Laurea Magistrale in Strategie di Comunicazione, 2017

Economia in ripresa: dinamismo d’impresa e provincialismo della politica italiana

I banchieri centrali, riuniti come ogni anno a Jackson Hole, sono stati tutto sommato ottimisti. Insistono per promuovere un’economia globale dinamica (“Fostering a dynamic  global economy” è stato il titolo del loro incontro), muovendosi dunque contro i gretti protezionismi purtroppo alla ribalta anche negli Usa di Trump. E pensano che la crescita economica in corso possa ancora migliorare, nonostante le fragilità e le pesanti tensioni sugli scenari geopolitici. Mario Draghi, Bce, ribadisce il giudizio: la ripresa si sta rafforzando. Il giudizio dei banchieri si fonda naturalmente su fatti e dati. L’Ocse prevede che le maggiori economie del mondo, nel 2017, chiudano tutte in positivo, con una simultaneità che non si vedeva dal 2007, inizio della Grande Crisi. E il Fondo Monetario Internazionale stima una crescita mondiale del 3,5% quest’anno e ancora migliore nel 2018, contro il 3,2% del 2016. Il “Wall Street Journal” ne amplifica l’eco e spende parecchie righe sui risultati positivi dell’Europa mediterranea, comprese Spagna, Portogallo, Italia e la stessa Grecia, dopo anni d’affanno.

Tutto bene, dunque? La cautela è d’obbligo. Anche nell’Italia che per il 2017 prevede un aumento del Pil dell’1,5%, meglio delle stime precedenti ma pur sempre in coda al resto della Ue (media 2,2%).

A smorzare gli entusiasmi di cui si nutre una politica sempre più inquinata da propaganda provvede il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco: “La ripresa italiana è congiunturale e non strutturale”, ha detto la scorsa settimana parlando al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini. E perché lo diventi “occorre proseguire lungo la linea che è già in atto”, ovvero continuando con “le riforme” e “l’innovazione”, in grado “di fare crescere le imprese più in grado di competere a livello globale”. C’è un secondo punto di fragilità, da non sottovalutare: la ripresa economica si basa non solo sull’export ma anche sul miglioramento del mercato interno, ma produce pochi nuovi posti di lavoro. E’ insomma una “jobless recovery”. Le nuove generazioni soprattutto ne soffrono.

C’è una sfida politica, dunque, rafforzando il dinamismo produttivo e sociale dell’industria, nel cuore di una evoluzione verso “Industria 4.0” e la trasformazione “digital” delle nostre imprese (i provvedimenti fiscali del governo Gentiloni a sostegno di chi investe in macchinari, innovazione, ricerca, brevetti ma anche in formazione hi tech vanno giustamente in questa direzione). E una sfida economica per gli imprenditori: investire ancora, fare crescere le imprese, conquistare spazi sui mercati internazionali.

Sta nell’industria, il motore della ripresa italiana. Nella fabbrica. E nei servizi legati alla manifattura. E sono proprio gli incentivi sull’innovazione a fare da stimolo. Vanno bene l’industria dell’auto e, più in generale, tutto il comparto “automotive”. E il giro delle voci che durante l’agosto hanno riguardato Fca (dagli interessi di investitori cinesi alle ipotesi di alleanza con Volkswagen sui veicoli commerciali e agli altri accordi per le auto di nuova generazione) mostrano sia una intraprendenza particolarmente evidente sul piano industriale sia un’attrattività legata alla possibilità di esprimere sempre maggior valore. Ma i dati positivi riguardano un po’ tutta l’industria di qualità: la farmaceutica e la chimica, la gomma, la meccatronica, oltre che la tradizione del made in Italy (agro-alimentare, arredamento e abbigliamento). Lo conferma anche Mediobanca, nel Rapporto sulle principali 2065 imprese italiane grandi e medio-grandi: terzo anno di crescita in fabbrica, con un aumento del fatturato 2016 dell’1,9% (“Corriere della Sera”, 11 agosto). In ripresa pure gli investimenti: nel 2016 la manifattura li ha aumentati del 7,3%, il massimo dal 2010, mentre purtroppo quelli pubblici sono caduti del 26,9%.

Proprio il discorso sugli investimenti fa tornare il ragionamento sullo scenario politico italiano e sui suoi limiti.

Le imprese si muovono. E Confindustria, sullo stimolo di Assolombarda, riunirà il 2 ottobre a Milano i rappresentanti delle associazioni regionali per discutere di fondi europei, investimenti in innovazione e “Industria 4.0”, con l’idea di trovare su questi temi un’alleanza con le imprese di Germania e Francia. Ma, fatte eccezioni, il mondo politico non sembra all’altezza delle sfide economiche in corso. Il governo Gentiloni fa quel che può, con intelligenza e senso di responsabilità. Il dibattito tra i partiti e all’interno dei partiti riguarda altro: legge elettorale, alleanze, ruolo e destino dei leader. E polemiche sulla gestione dell’immigrazione, privilegiando gli slogan (soprattutto quelli a sfondo razzista) e non le scelte politiche. L’economia, anche in Europa, va avanti. La nostra politica, purtroppo, è personalistica e provinciale.

I banchieri centrali, riuniti come ogni anno a Jackson Hole, sono stati tutto sommato ottimisti. Insistono per promuovere un’economia globale dinamica (“Fostering a dynamic  global economy” è stato il titolo del loro incontro), muovendosi dunque contro i gretti protezionismi purtroppo alla ribalta anche negli Usa di Trump. E pensano che la crescita economica in corso possa ancora migliorare, nonostante le fragilità e le pesanti tensioni sugli scenari geopolitici. Mario Draghi, Bce, ribadisce il giudizio: la ripresa si sta rafforzando. Il giudizio dei banchieri si fonda naturalmente su fatti e dati. L’Ocse prevede che le maggiori economie del mondo, nel 2017, chiudano tutte in positivo, con una simultaneità che non si vedeva dal 2007, inizio della Grande Crisi. E il Fondo Monetario Internazionale stima una crescita mondiale del 3,5% quest’anno e ancora migliore nel 2018, contro il 3,2% del 2016. Il “Wall Street Journal” ne amplifica l’eco e spende parecchie righe sui risultati positivi dell’Europa mediterranea, comprese Spagna, Portogallo, Italia e la stessa Grecia, dopo anni d’affanno.

Tutto bene, dunque? La cautela è d’obbligo. Anche nell’Italia che per il 2017 prevede un aumento del Pil dell’1,5%, meglio delle stime precedenti ma pur sempre in coda al resto della Ue (media 2,2%).

A smorzare gli entusiasmi di cui si nutre una politica sempre più inquinata da propaganda provvede il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco: “La ripresa italiana è congiunturale e non strutturale”, ha detto la scorsa settimana parlando al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini. E perché lo diventi “occorre proseguire lungo la linea che è già in atto”, ovvero continuando con “le riforme” e “l’innovazione”, in grado “di fare crescere le imprese più in grado di competere a livello globale”. C’è un secondo punto di fragilità, da non sottovalutare: la ripresa economica si basa non solo sull’export ma anche sul miglioramento del mercato interno, ma produce pochi nuovi posti di lavoro. E’ insomma una “jobless recovery”. Le nuove generazioni soprattutto ne soffrono.

C’è una sfida politica, dunque, rafforzando il dinamismo produttivo e sociale dell’industria, nel cuore di una evoluzione verso “Industria 4.0” e la trasformazione “digital” delle nostre imprese (i provvedimenti fiscali del governo Gentiloni a sostegno di chi investe in macchinari, innovazione, ricerca, brevetti ma anche in formazione hi tech vanno giustamente in questa direzione). E una sfida economica per gli imprenditori: investire ancora, fare crescere le imprese, conquistare spazi sui mercati internazionali.

Sta nell’industria, il motore della ripresa italiana. Nella fabbrica. E nei servizi legati alla manifattura. E sono proprio gli incentivi sull’innovazione a fare da stimolo. Vanno bene l’industria dell’auto e, più in generale, tutto il comparto “automotive”. E il giro delle voci che durante l’agosto hanno riguardato Fca (dagli interessi di investitori cinesi alle ipotesi di alleanza con Volkswagen sui veicoli commerciali e agli altri accordi per le auto di nuova generazione) mostrano sia una intraprendenza particolarmente evidente sul piano industriale sia un’attrattività legata alla possibilità di esprimere sempre maggior valore. Ma i dati positivi riguardano un po’ tutta l’industria di qualità: la farmaceutica e la chimica, la gomma, la meccatronica, oltre che la tradizione del made in Italy (agro-alimentare, arredamento e abbigliamento). Lo conferma anche Mediobanca, nel Rapporto sulle principali 2065 imprese italiane grandi e medio-grandi: terzo anno di crescita in fabbrica, con un aumento del fatturato 2016 dell’1,9% (“Corriere della Sera”, 11 agosto). In ripresa pure gli investimenti: nel 2016 la manifattura li ha aumentati del 7,3%, il massimo dal 2010, mentre purtroppo quelli pubblici sono caduti del 26,9%.

Proprio il discorso sugli investimenti fa tornare il ragionamento sullo scenario politico italiano e sui suoi limiti.

Le imprese si muovono. E Confindustria, sullo stimolo di Assolombarda, riunirà il 2 ottobre a Milano i rappresentanti delle associazioni regionali per discutere di fondi europei, investimenti in innovazione e “Industria 4.0”, con l’idea di trovare su questi temi un’alleanza con le imprese di Germania e Francia. Ma, fatte eccezioni, il mondo politico non sembra all’altezza delle sfide economiche in corso. Il governo Gentiloni fa quel che può, con intelligenza e senso di responsabilità. Il dibattito tra i partiti e all’interno dei partiti riguarda altro: legge elettorale, alleanze, ruolo e destino dei leader. E polemiche sulla gestione dell’immigrazione, privilegiando gli slogan (soprattutto quelli a sfondo razzista) e non le scelte politiche. L’economia, anche in Europa, va avanti. La nostra politica, purtroppo, è personalistica e provinciale.

Pirelli e l’Orchestra da Camera Italiana del maestro Salvatore Accardo

“Unicità ed eccellenza, culto del suono e gioia di fare musica, una sfida appassionante con i giovani e per i giovani: queste caratteristiche identificano l’Orchestra da Camera Italiana”: sono  le parole del maestro Salvatore Accardo per definire l’orchestra d’archi fondata nel 1996 e composta dai migliori allievi ed ex allievi dell’Accademia W. Stauffer di Cremona. Tra gli obiettivi quello di continuare una tradizione italiana di eccellenza musicale e di avvicinarsi al pubblico modificando il tradizionale rapporto frontale esecutore/ascoltatore.

Il  rapporto tra Pirelli e il maestro Salvatore Accardo ha inizio nel 2012 quando i professori dell’Orchestra vengono ospitati nell’Auditorium Pirelli di Milano Bicocca per studiare e provare insieme un nuovo programma da proporre nella stagione concertistica di quell’anno: un’occasione per confermare il legame tra i luoghi del lavoro e quelli della musica come una delle espressioni di quell’umanesimo industriale che storicamente identifica Pirelli. Anche i dipendenti sono stati protagonisti partecipando con i propri familiari alle prove generali e, indirettamente, a questa interessante riflessione sul “suono”, sulla musica e sull’impegno nella sua esecuzione per ascoltare e capire dal vivo cosa vuol dire “fare un concerto”, costruire un’esecuzione, in cerca del massimo della qualità.

Questa opportunità è stata riproposta anche negli anni successivi e per i giovani di “Bambini in Bicocca”, l’attività di welfare aziendale per i figli dei dipendenti pensato per dare supporto alle famiglie nelle giornate di chiusura delle scuole,è stata data la possibilità di conoscere il maestro Accardo e i segreti della musica.

Quest’anno la voglia di ricerca per trovare nuove ed inedite armonie ha portato alla realizzazione un’opera in grado di restituire i suoni della fabbrica digitale, quella del Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese. Dai suoni e dai ritmi produttivi dei reparti, è nato “Il canto della Fabbrica”, composizione commissionata dalla Fondazione Pirelli al compositore e violista Francesco Fiore e appositamente pensata per il violino del maestro Salvatore Accardo. Sarà proprio l’Orchestra da Camera Italiana del maestro Accardo, guidata dal primo violino Laura Gorna, a eseguirne le prime assolute nell’ambito del Festival MITO SettembreMusica, con i due concerti dal titolo ‘La Fabbrica tra i Ciliegi’ proprio per richiamare quei ciliegi che fiancheggiano lo stabilimento Pirelli di Settimo che ha ispirato il compositore e che ospiterà una delle due serate in programma. Due, infatti, gli appuntamenti con ‘La Fabbrica tra i Ciliegi’ previsti nella programmazione del Festival, quest’anno dedicato al tema della Natura: il primo, a Milano, si terrà al Piccolo Teatro Studio Melato il 7 settembre. Il secondo, l’8 settembre, vedrà invece il ritorno della musica nel Polo Industriale di Settimo Torinese dopo il successo già registrato con i concerti del 2010, del 2011 e del 2014.

“Unicità ed eccellenza, culto del suono e gioia di fare musica, una sfida appassionante con i giovani e per i giovani: queste caratteristiche identificano l’Orchestra da Camera Italiana”: sono  le parole del maestro Salvatore Accardo per definire l’orchestra d’archi fondata nel 1996 e composta dai migliori allievi ed ex allievi dell’Accademia W. Stauffer di Cremona. Tra gli obiettivi quello di continuare una tradizione italiana di eccellenza musicale e di avvicinarsi al pubblico modificando il tradizionale rapporto frontale esecutore/ascoltatore.

Il  rapporto tra Pirelli e il maestro Salvatore Accardo ha inizio nel 2012 quando i professori dell’Orchestra vengono ospitati nell’Auditorium Pirelli di Milano Bicocca per studiare e provare insieme un nuovo programma da proporre nella stagione concertistica di quell’anno: un’occasione per confermare il legame tra i luoghi del lavoro e quelli della musica come una delle espressioni di quell’umanesimo industriale che storicamente identifica Pirelli. Anche i dipendenti sono stati protagonisti partecipando con i propri familiari alle prove generali e, indirettamente, a questa interessante riflessione sul “suono”, sulla musica e sull’impegno nella sua esecuzione per ascoltare e capire dal vivo cosa vuol dire “fare un concerto”, costruire un’esecuzione, in cerca del massimo della qualità.

Questa opportunità è stata riproposta anche negli anni successivi e per i giovani di “Bambini in Bicocca”, l’attività di welfare aziendale per i figli dei dipendenti pensato per dare supporto alle famiglie nelle giornate di chiusura delle scuole,è stata data la possibilità di conoscere il maestro Accardo e i segreti della musica.

Quest’anno la voglia di ricerca per trovare nuove ed inedite armonie ha portato alla realizzazione un’opera in grado di restituire i suoni della fabbrica digitale, quella del Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese. Dai suoni e dai ritmi produttivi dei reparti, è nato “Il canto della Fabbrica”, composizione commissionata dalla Fondazione Pirelli al compositore e violista Francesco Fiore e appositamente pensata per il violino del maestro Salvatore Accardo. Sarà proprio l’Orchestra da Camera Italiana del maestro Accardo, guidata dal primo violino Laura Gorna, a eseguirne le prime assolute nell’ambito del Festival MITO SettembreMusica, con i due concerti dal titolo ‘La Fabbrica tra i Ciliegi’ proprio per richiamare quei ciliegi che fiancheggiano lo stabilimento Pirelli di Settimo che ha ispirato il compositore e che ospiterà una delle due serate in programma. Due, infatti, gli appuntamenti con ‘La Fabbrica tra i Ciliegi’ previsti nella programmazione del Festival, quest’anno dedicato al tema della Natura: il primo, a Milano, si terrà al Piccolo Teatro Studio Melato il 7 settembre. Il secondo, l’8 settembre, vedrà invece il ritorno della musica nel Polo Industriale di Settimo Torinese dopo il successo già registrato con i concerti del 2010, del 2011 e del 2014.

Sviluppo: “vivere all’italiana” significa sostenere l’industria meccanica e manifatturiera “su misura”

Straordinari sarti meccanici. Sono questo, le migliori imprese italiane. E meccatronici, chimici, farmaceutici, della gomma e della plastica, oltre che naturalmente dell’agroalimentare, dell’arredo, dell’abbigliamento. Sarti, su misura. Bravi come nessun altro al mondo. A produrre una “brugola”, una vite speciale per sofisticatissime applicazioni nell’automotive o nell’aeronautica. Un giunto meccanico in materiali innovativi. Un tornio hi tech. Un robot. Ma anche un farmaco d’avanguardia. O un pneumatico hi tech. E un impianto di confezionamento che si evolve al passo con l’evoluzione delle tecnologie “digital” che connettono macchine produttive e “big data”. Sta qui, la forza competitiva internazionale della nostra industria. Ben oltre l’ovvio e noto “made in Italy” della bellezza, della moda, dei gioielli, del lusso.

Ne hanno avuto un ritratto stimolante i diplomatici italiani nel mondo, riuniti a Milano in Assolombarda al mattino e al Pirelli HangarBicocca nel pomeriggio di giovedì 27 luglio per la conclusione della XII Conferenza degli ambasciatori: la diplomazia come cardine della politica economica, la relazione stretta tra Farnesina e imprese come leva per la migliore competitività e lo sviluppo del Paese. #Vivereallitaliana, è stato l’hashtag di successo della conferenza. Documentato dall’Ipsos di Nando Pagnoncelli con una ricerca su quanto sia apprezzato nel mondo “the italian life style”.

Nel pomeriggio di quel giovedì, in cui le agenzie di stampa battevano la notizia che il presidente francese Macron “nazionalizzava” i cantieri navali Stx per bloccarne l’acquisizione da parte dell’italiana Fincantieri (miope nazionalismo destinato a fare i conti con molte difficoltà), è stata naturale una certa dose di patriottismo economico, tra politica e imprese, risuonata nel dibattito a Milano. A patto, però, d’andare oltre le emozioni e le polemiche e di avere sempre ben presenti tre cose.

La prima è che “l’italianità” delle imprese va al di là del semplice censimento della proprietà dei titoli azionari di maggioranza. La seconda è che le società italiane devono essere più lungimiranti nel fare acquisizioni internazionali (andando oltre il settore in cui siamo già molto dinamici, come quello del cibo e delle bevande) anche scontrandosi con radicati nazionalismi (e qui il ruolo della Farnesina e più in generale del governo è fondamentale). E la terza, essenziale, è che la sostanza migliore del “vivere all’italiana” non sta nelle pur eccellenti lasagne, nel vino o negli abiti fantasiosi e splendenti degli stilisti più creativi (benemeriti, comunque, Dolce & Gabbana che ai primi di luglio hanno radunato a Palermo una piccola folla di vip internazionali, costruendo uno spettacolo fantastico di lusso e bellezza). Ma sta soprattutto nel cuore meccanico. In quella “Industria 4.0” che i governi Renzi prima e Gentiloni adesso (con ruolo determinante del ministro dello Sviluppo Calenda) hanno deciso giustamente di stimolare, con leve di sostegno fiscale per chi investe e innova.

Rieccoci al valore dei sarti meccanici, meccatronici, farmaceutici, chimici… di cui dicevamo e di cui proprio il premier Gentiloni ha avuto esperienza diretta passando mezza giornata in giro per le fabbriche della Brianza, il 24 luglio, tra imprenditori, ingegneri, operai specializzati e vedendo da vicino cosa vuol dire innovazione e “digital manifacturing” in imprese della meccanica e dell’arredamento.

“Il tocco artigianale dell’Italia hi tech”, scrive Stefano Micelli (“IlSole24Ore”,27 luglio), notando come “il modello di manifattura su misura sia la cifra distintiva di quelle medie imprese che rappresentano, anche secondo i recenti dati dell’Ice, la componente più dinamica del nostro export”. Micelli cita le considerazioni in merito fatte durante il seminario estivo di Symbola da Alessandro Profumo, presidente di Leonardo Finmeccanica (una delle più grandi imprese italiane) sulla capacità di “personalizzare” l’offerta di aerei ed elicotteri dopo aver attentamente ascoltato le esigenze dei committenti (un’attitudine che né americani né tedeschi né francesi sanno esprimere). Analoghe le considerazioni di Sonia Bonfiglioli, capo d’una delle medie imprese metalmeccaniche più dinamiche, radici in Emilia e attività in tutto il mondo: anche lei parla di “manifattura su misura” e risposta ai clienti internazionali con “soluzioni tecnologiche all’avanguardia”.

Di certo, le migliori imprese italiane investono. E trainano la ripresa. Lo documenta in modo sempre originale Marco Fortis (“Il Foglio”, 26 e 29 luglio), scrivendo “contro la vulgata dell’Italia che investe poco o nulla” e notando che “nel triennio 2014-2016 le imprese italiane hanno aumentato i loro investimenti in macchinari, mezzi di trasporto e brevetti del 10,8%. Per un confronto, la Germania ha fatto invece più 9,7%. L’accelerazione dell’Italia è stata sensibile soprattutto nell’ultimo biennio: più 8,3% contro più 4,6% della Germania”.

La ripresa economica che s’intravvede netta (più 1,3% del Pil nel 2017, secondo governo, Fmi e Confindustria) è fortemente determinata dell’industria innovativa: macchine e apparecchi meccanici, metallurgia, chimica e farmaceutica. Insiste Fortis: “Nei tre mesi da marzo a maggio 2017 il fatturao dell’industria manifatturiera italiana è aumentato tendenzialmente del 6,4% rispetto allo scorso anno. La Germania, che sta vivendo anch’essa una fase di notevole espansione, segna un 5%”. Industria, appunto. Meglio, “Industra 4.0”, all’italiana. Innovativa, “digital”. Su misura. La forza delle medie imprese, delle “multinazionali tascabili”. “Vivere all’italiana”, come ama dire la Farnesina, è proprio questa dimensione. Da valorizzare, far capire, raccontare bene, sostenere all’estero.

Straordinari sarti meccanici. Sono questo, le migliori imprese italiane. E meccatronici, chimici, farmaceutici, della gomma e della plastica, oltre che naturalmente dell’agroalimentare, dell’arredo, dell’abbigliamento. Sarti, su misura. Bravi come nessun altro al mondo. A produrre una “brugola”, una vite speciale per sofisticatissime applicazioni nell’automotive o nell’aeronautica. Un giunto meccanico in materiali innovativi. Un tornio hi tech. Un robot. Ma anche un farmaco d’avanguardia. O un pneumatico hi tech. E un impianto di confezionamento che si evolve al passo con l’evoluzione delle tecnologie “digital” che connettono macchine produttive e “big data”. Sta qui, la forza competitiva internazionale della nostra industria. Ben oltre l’ovvio e noto “made in Italy” della bellezza, della moda, dei gioielli, del lusso.

Ne hanno avuto un ritratto stimolante i diplomatici italiani nel mondo, riuniti a Milano in Assolombarda al mattino e al Pirelli HangarBicocca nel pomeriggio di giovedì 27 luglio per la conclusione della XII Conferenza degli ambasciatori: la diplomazia come cardine della politica economica, la relazione stretta tra Farnesina e imprese come leva per la migliore competitività e lo sviluppo del Paese. #Vivereallitaliana, è stato l’hashtag di successo della conferenza. Documentato dall’Ipsos di Nando Pagnoncelli con una ricerca su quanto sia apprezzato nel mondo “the italian life style”.

Nel pomeriggio di quel giovedì, in cui le agenzie di stampa battevano la notizia che il presidente francese Macron “nazionalizzava” i cantieri navali Stx per bloccarne l’acquisizione da parte dell’italiana Fincantieri (miope nazionalismo destinato a fare i conti con molte difficoltà), è stata naturale una certa dose di patriottismo economico, tra politica e imprese, risuonata nel dibattito a Milano. A patto, però, d’andare oltre le emozioni e le polemiche e di avere sempre ben presenti tre cose.

La prima è che “l’italianità” delle imprese va al di là del semplice censimento della proprietà dei titoli azionari di maggioranza. La seconda è che le società italiane devono essere più lungimiranti nel fare acquisizioni internazionali (andando oltre il settore in cui siamo già molto dinamici, come quello del cibo e delle bevande) anche scontrandosi con radicati nazionalismi (e qui il ruolo della Farnesina e più in generale del governo è fondamentale). E la terza, essenziale, è che la sostanza migliore del “vivere all’italiana” non sta nelle pur eccellenti lasagne, nel vino o negli abiti fantasiosi e splendenti degli stilisti più creativi (benemeriti, comunque, Dolce & Gabbana che ai primi di luglio hanno radunato a Palermo una piccola folla di vip internazionali, costruendo uno spettacolo fantastico di lusso e bellezza). Ma sta soprattutto nel cuore meccanico. In quella “Industria 4.0” che i governi Renzi prima e Gentiloni adesso (con ruolo determinante del ministro dello Sviluppo Calenda) hanno deciso giustamente di stimolare, con leve di sostegno fiscale per chi investe e innova.

Rieccoci al valore dei sarti meccanici, meccatronici, farmaceutici, chimici… di cui dicevamo e di cui proprio il premier Gentiloni ha avuto esperienza diretta passando mezza giornata in giro per le fabbriche della Brianza, il 24 luglio, tra imprenditori, ingegneri, operai specializzati e vedendo da vicino cosa vuol dire innovazione e “digital manifacturing” in imprese della meccanica e dell’arredamento.

“Il tocco artigianale dell’Italia hi tech”, scrive Stefano Micelli (“IlSole24Ore”,27 luglio), notando come “il modello di manifattura su misura sia la cifra distintiva di quelle medie imprese che rappresentano, anche secondo i recenti dati dell’Ice, la componente più dinamica del nostro export”. Micelli cita le considerazioni in merito fatte durante il seminario estivo di Symbola da Alessandro Profumo, presidente di Leonardo Finmeccanica (una delle più grandi imprese italiane) sulla capacità di “personalizzare” l’offerta di aerei ed elicotteri dopo aver attentamente ascoltato le esigenze dei committenti (un’attitudine che né americani né tedeschi né francesi sanno esprimere). Analoghe le considerazioni di Sonia Bonfiglioli, capo d’una delle medie imprese metalmeccaniche più dinamiche, radici in Emilia e attività in tutto il mondo: anche lei parla di “manifattura su misura” e risposta ai clienti internazionali con “soluzioni tecnologiche all’avanguardia”.

Di certo, le migliori imprese italiane investono. E trainano la ripresa. Lo documenta in modo sempre originale Marco Fortis (“Il Foglio”, 26 e 29 luglio), scrivendo “contro la vulgata dell’Italia che investe poco o nulla” e notando che “nel triennio 2014-2016 le imprese italiane hanno aumentato i loro investimenti in macchinari, mezzi di trasporto e brevetti del 10,8%. Per un confronto, la Germania ha fatto invece più 9,7%. L’accelerazione dell’Italia è stata sensibile soprattutto nell’ultimo biennio: più 8,3% contro più 4,6% della Germania”.

La ripresa economica che s’intravvede netta (più 1,3% del Pil nel 2017, secondo governo, Fmi e Confindustria) è fortemente determinata dell’industria innovativa: macchine e apparecchi meccanici, metallurgia, chimica e farmaceutica. Insiste Fortis: “Nei tre mesi da marzo a maggio 2017 il fatturao dell’industria manifatturiera italiana è aumentato tendenzialmente del 6,4% rispetto allo scorso anno. La Germania, che sta vivendo anch’essa una fase di notevole espansione, segna un 5%”. Industria, appunto. Meglio, “Industra 4.0”, all’italiana. Innovativa, “digital”. Su misura. La forza delle medie imprese, delle “multinazionali tascabili”. “Vivere all’italiana”, come ama dire la Farnesina, è proprio questa dimensione. Da valorizzare, far capire, raccontare bene, sostenere all’estero.

Classici d’impresa

Ristampato uno dei libri fondamentali del management mondiale

Ogni impresa  funziona sulla base di principi di organizzazione e di gestione che devono essere ben conosciuti. Questione di metodo, ma anche di consapevolezza di regole e meccanismi che servono per arrivare in fondo al processo produttivo, a generare profitto e soprattutto benessere. Cultura d’impresa a tutto tondo. Contano molto alcune guide  che, più di altre, riescono a dare il senso del movimento e l’essenza della buona gestione. E’ il caso di “Le sfide di management del XXI secolo” scritto ormai qualche anno fa da Peter F. Drucker e appena ristampato.

Definito un classico, il libro lo è per davvero. Drucker parte dalla constatazione della fase di profondo cambiamento che il sistema occidentale dell’economia e della società sta attraversando. È una trasformazione che non è nata oggi e che certamente non si concluderà in breve tempo. Riguarda, nei paesi industrializzati, le sfide indotte dall’invecchiamento demografico o i problemi (e le opportunità) creati dalla crescita dell’istruzione e del desiderio di autorealizzazione dei knowledge workers (cioè dei lavoratori della conoscenza). L’intento, precisato dallo stesso autore, non è però quello di descrivere scenari futuribili, ma di fornire indicazioni di management. Un obiettivo che viene raggiunto con una scrittura piana e comprensibile, ricca di esempi, aneddoti e indicazioni concrete per affrontare e mettere in pratica il cambiamento (e cambiare il management).

Un classico da leggere quindi, tenendo anche conto che condensa un po’ tutta l’esperienza di Drucker come pioniere e massimo esperto di management. L’autore, infatti, dopo aver lavorato come economista in banche e società di assicurazione e come consulente di importanti società ed enti governativi, ha insegnato filosofia e politica al Bennington College e quindi management alla business school della New York University (dal 1950 in poi).

Il libro prende prima di tutto in considerazione i “nuovi paradigmi del management”  per passare poi ad analizzare le strategie necessarie di fronte ad una realtà notevolmente cambiata rispetto a prima. Si passa poi ad affrontare il cambiamento e quella che viene indicata come la “sfida delle informazioni”. In ultimo, viene approfondito il ruolo dei knowledge workers e quindi la necessità dei manager  di accrescere la capacità di autogestione per migliorare di riflesso la gestione delle organizzazioni e delle imprese.

La fatica letteraria di Drucker è un esempio di quei libri che vanno letti, poi lasciati decantare e poi riletti.

 

Le sfide di management del XXI secolo

Peter F. Drucker

Franco Angeli, 2017

Ristampato uno dei libri fondamentali del management mondiale

Ogni impresa  funziona sulla base di principi di organizzazione e di gestione che devono essere ben conosciuti. Questione di metodo, ma anche di consapevolezza di regole e meccanismi che servono per arrivare in fondo al processo produttivo, a generare profitto e soprattutto benessere. Cultura d’impresa a tutto tondo. Contano molto alcune guide  che, più di altre, riescono a dare il senso del movimento e l’essenza della buona gestione. E’ il caso di “Le sfide di management del XXI secolo” scritto ormai qualche anno fa da Peter F. Drucker e appena ristampato.

Definito un classico, il libro lo è per davvero. Drucker parte dalla constatazione della fase di profondo cambiamento che il sistema occidentale dell’economia e della società sta attraversando. È una trasformazione che non è nata oggi e che certamente non si concluderà in breve tempo. Riguarda, nei paesi industrializzati, le sfide indotte dall’invecchiamento demografico o i problemi (e le opportunità) creati dalla crescita dell’istruzione e del desiderio di autorealizzazione dei knowledge workers (cioè dei lavoratori della conoscenza). L’intento, precisato dallo stesso autore, non è però quello di descrivere scenari futuribili, ma di fornire indicazioni di management. Un obiettivo che viene raggiunto con una scrittura piana e comprensibile, ricca di esempi, aneddoti e indicazioni concrete per affrontare e mettere in pratica il cambiamento (e cambiare il management).

Un classico da leggere quindi, tenendo anche conto che condensa un po’ tutta l’esperienza di Drucker come pioniere e massimo esperto di management. L’autore, infatti, dopo aver lavorato come economista in banche e società di assicurazione e come consulente di importanti società ed enti governativi, ha insegnato filosofia e politica al Bennington College e quindi management alla business school della New York University (dal 1950 in poi).

Il libro prende prima di tutto in considerazione i “nuovi paradigmi del management”  per passare poi ad analizzare le strategie necessarie di fronte ad una realtà notevolmente cambiata rispetto a prima. Si passa poi ad affrontare il cambiamento e quella che viene indicata come la “sfida delle informazioni”. In ultimo, viene approfondito il ruolo dei knowledge workers e quindi la necessità dei manager  di accrescere la capacità di autogestione per migliorare di riflesso la gestione delle organizzazioni e delle imprese.

La fatica letteraria di Drucker è un esempio di quei libri che vanno letti, poi lasciati decantare e poi riletti.

 

Le sfide di management del XXI secolo

Peter F. Drucker

Franco Angeli, 2017

L’Italia è un grande paese industriale ma gli italiani non lo sanno o non lo dicono

“L’industria farmaceutica lombarda e italiana attraversa un periodo particolarmente felice. Dal 2010 tutte le sue grandezze crescono costantemente e, con 30 miliardi di euro di produzione, di cui oltre il 70% destinato all’esportazione, stiamo contendendo alla Germania il titolo di principale paese produttore d’Europa”. Sono parole di Paolo Gentiloni, presidente del Consiglio, a Milano lunedì 24 per insistere sull’opportunità di insediare nella metropoli la nuova sede dell’Ema, l’Agenzia per il farmaco della Ue, in uscita da Londra dopo Brexit (e per visitare alcune fabbriche milanesi e in Brianza, mangiando in mensa d’una impresa metalmeccanica con tecnici, operai e imprenditori). Milano, dunque, ottima capitale del farmaco: primati per ricerca, innovazione, qualità produttiva e relazioni feconde tra sistema industriale, centri d’eccellenza delle “life sciences”, università e poli della salute pubblici e privati. Sullo sfondo, ecco Human Technopole, sulle aree ex Expo, luogo in cui si incontreranno ricerca, conoscenza, imprese hi tech.

Fa bene, il governo Gentiloni, a sostenere la centralità di Milano, nella battaglia per la sede dell’Ema, dando così forza alle sollecitazioni concordi che arrivano da Regione, Comune di Milano, Assolombarda, università. Potrà esserci un successo, in una difficile trattativa a Bruxelles (numerose e forti, le altre città contendenti). O una sconfitta, in un sistema di compensazioni e mediazioni che rischia di non tenere conto della qualità dell’ambiente scientifico, culturale, imprenditoriale e sociale ma di dare spazio a valutazioni di più basso profilo politico-diplomatico. Di certo le parole di Gentiloni e i dati quantitativi e qualitativi su Milano, nel dossier sulla candidatura per l’Ema (sede di prestigio già indicata: il Grattacielo Pirelli, simbolo della migliore intraprendenza italiana) dicono che la città è cuore d’un sistema di imprese e cultura, scienza e innovazione, che è al livello del meglio dell’Europa. E che andrà comunque avanti, come “the place to be”, per studiare, fare impresa, produrre e partecipare ad attività culturali, godere d’una buona qualità della vita. Meglio, se ci sarà l’Ema. Ma attiva e dinamica, anche senza Ema.

Italia, dunque, grande paese industriale. Con punte straordinarie nella farmaceutica, ma anche nella chimica, nella meccanica e nella meccatronica, nella gomma, nei settori di tradizione del made in Italy (abbigliamento, arredamento, agro-alimentare). Il guaio, però, è che gli stessi italiani non lo sanno e non lo apprezzano come sarebbe necessario. E tracciano di se stessi e del Paese un ritratto parziale, tutto a tinte fosche. Ingiusto, scorretto, ingeneroso verso tutti quegli italiani che, nonostante tutto, intraprendono, lavorano, si danno da fare.

Siamo il secondo grande paese manifatturiero d’Europa, dopo la Germania. Ma non ce lo diciamo. Non lo raccontiamo a noi stessi. Non manifestiamo il necessario e fondato “orgoglio industriale”. Preferiamo, nella narrazione generale, fare prevalere il lamento e la denuncia per le tante cose che non vanno. Pensando sempre al peggio. Come in una famosa vignetta di Altan: “Peggio di così non possiamo andare”, dice un omino sconfortato. “Dai: ancora uno sforzo e ci riusciamo”, ribatte l’altro, con ribalda improntitudine. Il veleno del “sempre peggio” che Altan mette ironicamente in crisi.

L’Italia cresce, finalmente, anche se più lentamente del resto d’Europa e tra antico e nuovi limiti, economici e sociali. Ma nel discorso pubblico prevalgono le negatività. Lo testimonia Nando Pagnoncelli, attento e sofisticato analista dell’opinione pubblica, commentando per “InPiù” (testata on line di commenti puntuali e originali) una recente ricerca internazionale di Ipsos sullo stato dell’economia: “Solo il 15% degli italiani esprime un giudizio positivo collocando l’Italia al quartultimo posto nella graduatoria dei 25 paesi considerati dall’indagine. Siamo preceduti da Paesi come la Polonia, l’Ungheria, il Perù nei quali i fondamentali economici sono molto più arretrati dei nostri ma l’opinione pubblica è animata da uno spirito decisamente più positivo”.

Sempre Ipsos conferma che oltre il 70% degli italiani ignora che siamo il secondo paese manifatturiero d’Europa e tra costoro una parte non trascurabile non ci crede. Più passa il tempo e più aumenta la percentuale di coloro che pensano che per uscire dalla crisi ci vogliano ancora dai 5 ai 10 anni: oggi la pensa così un italiano su due. Sostiene Pagnoncelli: “I macro problemi che affliggono l’Italia ci sono tutti, dal debito pubblico alla produttività, dall’aumento delle famiglie che vivono in condizioni di povertà assoluta e relativa, alle dinamiche occupazionali e a quelle demografiche. Ma c’è un’Italia che funziona, nonostante tutto”.

Lo confermano anche i dati del report “L’Italia in 10 selfie” realizzato dalla Fondazione Symbola (sul sito www.Symbola.net).
I dati sulla ricerca Ipsos sulla situazione economica e la sua percezione sono stati presentati all’inizio di luglio proprio al seminario estivo di Symbola a Treia, nelle Marche terra di relazioni virtuose tra impresa, territorio, ambiente. E mostrano che all’immagine non positiva che caratterizza la nostra opinione pubblica fanno da contraltare i giudizi lusinghieri che gli stranieri esprimono nei confronti dell’Italia. Spiega Pagnoncelli: “Il nostro è un Paese molto conosciuto: si colloca al terzo posto nel ranking generale e al primo posto in quello rappresentato dai ceti elevati di ciascun paese. L’84% ne dà un giudizio molto o abbastanza positivo (91% tra i ceti elevati e 93% tra chi si è recato in Italia negli ultimi 5 anni)”.

Nel giudizio internazionale “l’Italia si colloca al primo posto per qualità della vita e per creatività e inventiva, al secondo posto per tolleranza, rispetto degli altri e dei diritti civili, al quarto per sviluppo sostenibile e attenzione all’ambiente. Siamo più arretrati in graduatoria quanto a sviluppo economico, innovazione e ricerca, stabilità politica”.

Il made in Italy “non è rappresentato solo dalla Ferrari o dalle griffe della moda, emergono molti altri settori come l’enogastronomia (peraltro non pochi sono consapevoli del rischio dell’italian sounding), il design, l’automotive, la meccanica, l’arredamento, il settore orafo. I molti brand italiani testati nella ricerca godono di un’immagine molto positiva. Uno straniero su tre ( il 46% tra i ceti elevati) mostra interesse per un canale televisivo in lingua inglese che parli dell’Italia. Infine Il 37% se dovesse vincere una vacanza premio sceglierebbe l’Italia (primo posto nel ranking), il 41% tra i ceti elevati”.

Nessuna propaganda. Ma un cauto e consapevole ottimismo realistico. “Nella ricerca – ricorda Pagnoncelli – non mancano notazioni critiche: siamo nella parte bassa della graduatoria quanto ad attrattività degli investimenti, e a metà classifica riguardo alla capacità di attrarre stranieri per ragioni di lavoro e di studio; e non brilliamo per infrastrutture e assetto normativo (giudicato complicato e talora incomprensibile), solo per fare qualche esempio. Siamo giudicati straordinari problem solvers ma carenti nella programmazione di medio-lungo periodo. Nel complesso emerge un’immagine decisamente positiva, anche se viziata da qualche stereotipo soprattutto nell’opinione pubblica generale, molto meno tra i ceti elevati e tra coloro che hanno contatti con il nostro Paese”.

Ma allora, perché in Italia il clima sociale è così negativo? Perché prevale il mugugno? Sostiene Pagnoncelli: “I motivi sono molteplici, dalla convinzione diffusa che il meglio sia alle nostra spalle e sia venuto meno l’ascensore sociale, nonostante i progressi scientifici e tecnologici senza precedenti, l’aumento della speranza di vita, il maggior benessere medio (sia pure in presenza di diseguaglianze crescenti); allo “strabismo” diffuso (“io me la cavo ma il paese va male” o viceversa); alla scomparsa del “futuro”, dall’agenda politica degli ultimi vent’anni. E, ancora, in un paese di tifosi, essere ottimisti e parlare bene dell’Italia (il cosiddetto “patriottismo dolce”) è visto come un atteggiamento di servilismo nei confronti del governante di turno. Spesso si mette sotto accusa il settore dell’informazione, troppo incline a rappresentare solo ciò che non va e a dare enfasi alle notizie negative. La mediazione sociale esercitata dei mass media sembra essere unidirezionale e la disintermediazione della rete fa il resto. In aggiunta, una gran parte dell’opinione pubblica è schizofrenica: reclama buone notizie e premia solo quelle cattive in termini di audience e readership”. Forse, conclude Pagnoncelli, “più che di una nuova narrazione del Paese c’è bisogno di una psicoterapia collettiva”. Ma anche, vale la pena aggiungere, di un impegno della classe dirigente più consapevole e responsabile, a fare bene le cose e a raccontarle compiutamente. Senza né retorica da propaganda né inclinazione al populismo negativo a tutti i costi.

“L’industria farmaceutica lombarda e italiana attraversa un periodo particolarmente felice. Dal 2010 tutte le sue grandezze crescono costantemente e, con 30 miliardi di euro di produzione, di cui oltre il 70% destinato all’esportazione, stiamo contendendo alla Germania il titolo di principale paese produttore d’Europa”. Sono parole di Paolo Gentiloni, presidente del Consiglio, a Milano lunedì 24 per insistere sull’opportunità di insediare nella metropoli la nuova sede dell’Ema, l’Agenzia per il farmaco della Ue, in uscita da Londra dopo Brexit (e per visitare alcune fabbriche milanesi e in Brianza, mangiando in mensa d’una impresa metalmeccanica con tecnici, operai e imprenditori). Milano, dunque, ottima capitale del farmaco: primati per ricerca, innovazione, qualità produttiva e relazioni feconde tra sistema industriale, centri d’eccellenza delle “life sciences”, università e poli della salute pubblici e privati. Sullo sfondo, ecco Human Technopole, sulle aree ex Expo, luogo in cui si incontreranno ricerca, conoscenza, imprese hi tech.

Fa bene, il governo Gentiloni, a sostenere la centralità di Milano, nella battaglia per la sede dell’Ema, dando così forza alle sollecitazioni concordi che arrivano da Regione, Comune di Milano, Assolombarda, università. Potrà esserci un successo, in una difficile trattativa a Bruxelles (numerose e forti, le altre città contendenti). O una sconfitta, in un sistema di compensazioni e mediazioni che rischia di non tenere conto della qualità dell’ambiente scientifico, culturale, imprenditoriale e sociale ma di dare spazio a valutazioni di più basso profilo politico-diplomatico. Di certo le parole di Gentiloni e i dati quantitativi e qualitativi su Milano, nel dossier sulla candidatura per l’Ema (sede di prestigio già indicata: il Grattacielo Pirelli, simbolo della migliore intraprendenza italiana) dicono che la città è cuore d’un sistema di imprese e cultura, scienza e innovazione, che è al livello del meglio dell’Europa. E che andrà comunque avanti, come “the place to be”, per studiare, fare impresa, produrre e partecipare ad attività culturali, godere d’una buona qualità della vita. Meglio, se ci sarà l’Ema. Ma attiva e dinamica, anche senza Ema.

Italia, dunque, grande paese industriale. Con punte straordinarie nella farmaceutica, ma anche nella chimica, nella meccanica e nella meccatronica, nella gomma, nei settori di tradizione del made in Italy (abbigliamento, arredamento, agro-alimentare). Il guaio, però, è che gli stessi italiani non lo sanno e non lo apprezzano come sarebbe necessario. E tracciano di se stessi e del Paese un ritratto parziale, tutto a tinte fosche. Ingiusto, scorretto, ingeneroso verso tutti quegli italiani che, nonostante tutto, intraprendono, lavorano, si danno da fare.

Siamo il secondo grande paese manifatturiero d’Europa, dopo la Germania. Ma non ce lo diciamo. Non lo raccontiamo a noi stessi. Non manifestiamo il necessario e fondato “orgoglio industriale”. Preferiamo, nella narrazione generale, fare prevalere il lamento e la denuncia per le tante cose che non vanno. Pensando sempre al peggio. Come in una famosa vignetta di Altan: “Peggio di così non possiamo andare”, dice un omino sconfortato. “Dai: ancora uno sforzo e ci riusciamo”, ribatte l’altro, con ribalda improntitudine. Il veleno del “sempre peggio” che Altan mette ironicamente in crisi.

L’Italia cresce, finalmente, anche se più lentamente del resto d’Europa e tra antico e nuovi limiti, economici e sociali. Ma nel discorso pubblico prevalgono le negatività. Lo testimonia Nando Pagnoncelli, attento e sofisticato analista dell’opinione pubblica, commentando per “InPiù” (testata on line di commenti puntuali e originali) una recente ricerca internazionale di Ipsos sullo stato dell’economia: “Solo il 15% degli italiani esprime un giudizio positivo collocando l’Italia al quartultimo posto nella graduatoria dei 25 paesi considerati dall’indagine. Siamo preceduti da Paesi come la Polonia, l’Ungheria, il Perù nei quali i fondamentali economici sono molto più arretrati dei nostri ma l’opinione pubblica è animata da uno spirito decisamente più positivo”.

Sempre Ipsos conferma che oltre il 70% degli italiani ignora che siamo il secondo paese manifatturiero d’Europa e tra costoro una parte non trascurabile non ci crede. Più passa il tempo e più aumenta la percentuale di coloro che pensano che per uscire dalla crisi ci vogliano ancora dai 5 ai 10 anni: oggi la pensa così un italiano su due. Sostiene Pagnoncelli: “I macro problemi che affliggono l’Italia ci sono tutti, dal debito pubblico alla produttività, dall’aumento delle famiglie che vivono in condizioni di povertà assoluta e relativa, alle dinamiche occupazionali e a quelle demografiche. Ma c’è un’Italia che funziona, nonostante tutto”.

Lo confermano anche i dati del report “L’Italia in 10 selfie” realizzato dalla Fondazione Symbola (sul sito www.Symbola.net).
I dati sulla ricerca Ipsos sulla situazione economica e la sua percezione sono stati presentati all’inizio di luglio proprio al seminario estivo di Symbola a Treia, nelle Marche terra di relazioni virtuose tra impresa, territorio, ambiente. E mostrano che all’immagine non positiva che caratterizza la nostra opinione pubblica fanno da contraltare i giudizi lusinghieri che gli stranieri esprimono nei confronti dell’Italia. Spiega Pagnoncelli: “Il nostro è un Paese molto conosciuto: si colloca al terzo posto nel ranking generale e al primo posto in quello rappresentato dai ceti elevati di ciascun paese. L’84% ne dà un giudizio molto o abbastanza positivo (91% tra i ceti elevati e 93% tra chi si è recato in Italia negli ultimi 5 anni)”.

Nel giudizio internazionale “l’Italia si colloca al primo posto per qualità della vita e per creatività e inventiva, al secondo posto per tolleranza, rispetto degli altri e dei diritti civili, al quarto per sviluppo sostenibile e attenzione all’ambiente. Siamo più arretrati in graduatoria quanto a sviluppo economico, innovazione e ricerca, stabilità politica”.

Il made in Italy “non è rappresentato solo dalla Ferrari o dalle griffe della moda, emergono molti altri settori come l’enogastronomia (peraltro non pochi sono consapevoli del rischio dell’italian sounding), il design, l’automotive, la meccanica, l’arredamento, il settore orafo. I molti brand italiani testati nella ricerca godono di un’immagine molto positiva. Uno straniero su tre ( il 46% tra i ceti elevati) mostra interesse per un canale televisivo in lingua inglese che parli dell’Italia. Infine Il 37% se dovesse vincere una vacanza premio sceglierebbe l’Italia (primo posto nel ranking), il 41% tra i ceti elevati”.

Nessuna propaganda. Ma un cauto e consapevole ottimismo realistico. “Nella ricerca – ricorda Pagnoncelli – non mancano notazioni critiche: siamo nella parte bassa della graduatoria quanto ad attrattività degli investimenti, e a metà classifica riguardo alla capacità di attrarre stranieri per ragioni di lavoro e di studio; e non brilliamo per infrastrutture e assetto normativo (giudicato complicato e talora incomprensibile), solo per fare qualche esempio. Siamo giudicati straordinari problem solvers ma carenti nella programmazione di medio-lungo periodo. Nel complesso emerge un’immagine decisamente positiva, anche se viziata da qualche stereotipo soprattutto nell’opinione pubblica generale, molto meno tra i ceti elevati e tra coloro che hanno contatti con il nostro Paese”.

Ma allora, perché in Italia il clima sociale è così negativo? Perché prevale il mugugno? Sostiene Pagnoncelli: “I motivi sono molteplici, dalla convinzione diffusa che il meglio sia alle nostra spalle e sia venuto meno l’ascensore sociale, nonostante i progressi scientifici e tecnologici senza precedenti, l’aumento della speranza di vita, il maggior benessere medio (sia pure in presenza di diseguaglianze crescenti); allo “strabismo” diffuso (“io me la cavo ma il paese va male” o viceversa); alla scomparsa del “futuro”, dall’agenda politica degli ultimi vent’anni. E, ancora, in un paese di tifosi, essere ottimisti e parlare bene dell’Italia (il cosiddetto “patriottismo dolce”) è visto come un atteggiamento di servilismo nei confronti del governante di turno. Spesso si mette sotto accusa il settore dell’informazione, troppo incline a rappresentare solo ciò che non va e a dare enfasi alle notizie negative. La mediazione sociale esercitata dei mass media sembra essere unidirezionale e la disintermediazione della rete fa il resto. In aggiunta, una gran parte dell’opinione pubblica è schizofrenica: reclama buone notizie e premia solo quelle cattive in termini di audience e readership”. Forse, conclude Pagnoncelli, “più che di una nuova narrazione del Paese c’è bisogno di una psicoterapia collettiva”. Ma anche, vale la pena aggiungere, di un impegno della classe dirigente più consapevole e responsabile, a fare bene le cose e a raccontarle compiutamente. Senza né retorica da propaganda né inclinazione al populismo negativo a tutti i costi.

Opportunità digitali d’impresa

La situazione delle imprese europee nei confronti delle nuove tecnologie, il ruolo delle istituzioni, l’importanza delle persone

In tempi di innovazione occorre stare al passo con l’innovazione. Con giudizio, certo. E accortezza. L’imprenditore deve restare tale, e quindi saper valutare, discernere fra ciò che di nuovo è davvero e ciò che invece è solo rivisitazione di cose già conosciute. Ma è un fatto: le imprese devono cambiare in continuazione nell’organizzazione, nel modo di approcciarsi al mercato, nell’immagine stessa che riescono a costruirsi.

The Opportunities and Challenges of Entrepreneurship in European Digital Economyscritto da Marina Coban e  Aurelia Tomsa e recentemente presentato nell’ambito del Fostering knowledge triangle in Moldova conference proceedings, è una buona fotografia della capacità delle imprese europee di affrontare le opportunità fornite dalla digitalizzazione dell’economia.

L ‘articolo presenta un’analisi comparativa delle imprese dell’Unione Europea che utilizzano le opportunità offerte dall’economia digitale nella loro attività (software di pianificazione delle risorse aziendali, fatture elettroniche, uso del web, ecc.). In fila, quindi, vengono poste le imprese di pressoché tutti i Paesi del Vecchio Continente attraverso una serie di rappresentazioni grafiche che ne forniscono per grandi temi la collocazione lungo una scala d’uso in percentuale.

Ma non si tratta solo di un’analisi sull’uso delle nuove tecnologie. Coban e Tomsa, infatti, affrontano anche alcune difficoltà che le imprese devono superare per arrivare ad un miglior uso degli strumenti digitali, problemi che a seconda dei Paesi sono fiscali, ma anche doganali e di trasporto. Vengono affrontate anche le differenze tra i Paesi dal punto di vista del quadro giuridico e della frammentazione del settore industriale.

Ne emerge una situazione complessa e variegata, con alcune sorprese e nella quale l’Italia non riesce a conquistare posizioni di rilievo. Soprattutto però, si delinea un quadro nel quale prepotentemente viene confermato il ruolo chiave delle scelte politiche di fondo per ampliare l’uso degli strumenti digitali, ma anche l’importanza della capacità delle persone di cogliere le soluzioni più efficaci dal punto di vista tecnologico e mettere così davvero al servizio dello sviluppo le nuove tecnologie. Una nuova cultura d’impresa prende forma.

The Opportunities and Challenges of Entrepreneurship in European Digital Economy

Marina Coban, Aurelia Tomsa (ASEM)

Fostering knowledge triangle in Moldova conference proceedings, 2017

La situazione delle imprese europee nei confronti delle nuove tecnologie, il ruolo delle istituzioni, l’importanza delle persone

In tempi di innovazione occorre stare al passo con l’innovazione. Con giudizio, certo. E accortezza. L’imprenditore deve restare tale, e quindi saper valutare, discernere fra ciò che di nuovo è davvero e ciò che invece è solo rivisitazione di cose già conosciute. Ma è un fatto: le imprese devono cambiare in continuazione nell’organizzazione, nel modo di approcciarsi al mercato, nell’immagine stessa che riescono a costruirsi.

The Opportunities and Challenges of Entrepreneurship in European Digital Economyscritto da Marina Coban e  Aurelia Tomsa e recentemente presentato nell’ambito del Fostering knowledge triangle in Moldova conference proceedings, è una buona fotografia della capacità delle imprese europee di affrontare le opportunità fornite dalla digitalizzazione dell’economia.

L ‘articolo presenta un’analisi comparativa delle imprese dell’Unione Europea che utilizzano le opportunità offerte dall’economia digitale nella loro attività (software di pianificazione delle risorse aziendali, fatture elettroniche, uso del web, ecc.). In fila, quindi, vengono poste le imprese di pressoché tutti i Paesi del Vecchio Continente attraverso una serie di rappresentazioni grafiche che ne forniscono per grandi temi la collocazione lungo una scala d’uso in percentuale.

Ma non si tratta solo di un’analisi sull’uso delle nuove tecnologie. Coban e Tomsa, infatti, affrontano anche alcune difficoltà che le imprese devono superare per arrivare ad un miglior uso degli strumenti digitali, problemi che a seconda dei Paesi sono fiscali, ma anche doganali e di trasporto. Vengono affrontate anche le differenze tra i Paesi dal punto di vista del quadro giuridico e della frammentazione del settore industriale.

Ne emerge una situazione complessa e variegata, con alcune sorprese e nella quale l’Italia non riesce a conquistare posizioni di rilievo. Soprattutto però, si delinea un quadro nel quale prepotentemente viene confermato il ruolo chiave delle scelte politiche di fondo per ampliare l’uso degli strumenti digitali, ma anche l’importanza della capacità delle persone di cogliere le soluzioni più efficaci dal punto di vista tecnologico e mettere così davvero al servizio dello sviluppo le nuove tecnologie. Una nuova cultura d’impresa prende forma.

The Opportunities and Challenges of Entrepreneurship in European Digital Economy

Marina Coban, Aurelia Tomsa (ASEM)

Fostering knowledge triangle in Moldova conference proceedings, 2017

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