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Ecco i finalisti della 3^ edizione del Campiello Junior

Venerdì 10 novembre 2023, presso l’Auditorium HQ Pirelli, si è svolta la Cerimonia di Selezione delle Terne Finaliste del Campiello Junior 2023.

Tra gli oltre cento libri presentati, la Giuria di Selezione ha scelto i seguenti finalisti per la categoria 7-10 anni: “Un bambino, una gatta e un cane”, di Angelo Petrosino, Einaudi Ragazzi; “Il lungo inverno di Ugo Singer”, di Elisa Ruotolo, Bompiani e “Il grande discorso di Cocco Tartaglia” di Fabrizio Silei, Emme Edizioni.

Mentre per la categoria 11-14 anni sono stati selezionati: “Fuori è quasi buio” di Alice Keller, edito da Risma, “Storia del pirata col mal di denti e del drago senza fuoco” di Andrea Molesini, HarperCollins e “La notte più bella” di Daniela Palumbo, edito da Il Battello a Vapore.

Adesso i 240 ragazzi della Giuria dei Lettori verranno chiamati a leggere i tre libri relativi alla loro fascia d’età e a scegliere il loro preferito, per contribuire a decretare il vincitore che verrà annunciato venerdì 22 marzo 2024 in località che verrà comunicata nei prossimi mesi.

Per conoscere tutte le iniziative del Campiello Junior continuate a seguirci sul sito www.fondazionepirelli.org e sui nostri canali social.

Venerdì 10 novembre 2023, presso l’Auditorium HQ Pirelli, si è svolta la Cerimonia di Selezione delle Terne Finaliste del Campiello Junior 2023.

Tra gli oltre cento libri presentati, la Giuria di Selezione ha scelto i seguenti finalisti per la categoria 7-10 anni: “Un bambino, una gatta e un cane”, di Angelo Petrosino, Einaudi Ragazzi; “Il lungo inverno di Ugo Singer”, di Elisa Ruotolo, Bompiani e “Il grande discorso di Cocco Tartaglia” di Fabrizio Silei, Emme Edizioni.

Mentre per la categoria 11-14 anni sono stati selezionati: “Fuori è quasi buio” di Alice Keller, edito da Risma, “Storia del pirata col mal di denti e del drago senza fuoco” di Andrea Molesini, HarperCollins e “La notte più bella” di Daniela Palumbo, edito da Il Battello a Vapore.

Adesso i 240 ragazzi della Giuria dei Lettori verranno chiamati a leggere i tre libri relativi alla loro fascia d’età e a scegliere il loro preferito, per contribuire a decretare il vincitore che verrà annunciato venerdì 22 marzo 2024 in località che verrà comunicata nei prossimi mesi.

Per conoscere tutte le iniziative del Campiello Junior continuate a seguirci sul sito www.fondazionepirelli.org e sui nostri canali social.

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“L’Umana impresa” sul podio dei Corporate Heritage Awards 2023

Questa mattina al Centro Congressi di Confindustria di Roma si è svolta la cerimonia di premiazione dei Corporate Heritage Awards 2023, giunti alla terza edizione. Il riconoscimento è promosso da Leaving Footprints, spinoff accademico dell’Università Parthenope con l’Università del Sannio, specializzato nella consulenza nell’ambito dell’heritage marketing. L’obiettivo del premio è quello di mettere in luce le storie delle imprese alle quali è legato lo sviluppo del nostro Paese, e di raccontarle per contribuire ad alimentare e sviluppare la cultura imprenditoriale.

Ad aggiudicarsi il riconoscimento nella categoria “Narrazione attraverso eventi” è stato lo spettacolo “L’umana impresa. La fabbrica degli attori”, progetto di formazione teatrale curato dall’Associazione Pier Lombardo in collaborazione con Fondazione Pirelli. Sei giovani attori selezionati fra i neodiplomati delle accademie d’arte drammatica di Milano, partendo da un lavoro di ricerca tra i documenti dell’Archivio Storico Pirelli e nei laboratori di Ricerca e Sviluppo dell’azienda negli Headquarters di Milano Bicocca, hanno raccontato il significato della parola impresa attraverso una performance teatrale inedita.

Lo spettacolo, con la regia di Stefano De Luca, ha messo in scena la storia di Pirelli tra memoria, presente e futuro. Un’indagine in forma teatrale che ha preso le mosse dalla riflessione su termini comuni alla cultura di impresa e all’attività artistica – visione, identità, trasformazione, ricerca, per considerare la capacità umana di creare manufatti e storie – fino a indagare il rapporto tra uomo e macchina. Attraverso la forza comunicativa del teatro e l’utilizzo di dialoghi, monologhi, scene corali e video, gli attori, sul palcoscenico del Teatro Franco Parenti il 28 marzo e il 3 aprile 2023, hanno interpretato il mondo delle innovazioni scientifiche, delle tecniche di produzione, delle relazioni tra le persone, della sostenibilità e dell’economia, consolidando il loro talento di creatori di storie. Prodotti immateriali la cui finalità è da sempre quella di attribuire significati e valori a tutto ciò che ci circonda, alle esperienze vissute, a quello che ancora ci aspetta.

Questa mattina al Centro Congressi di Confindustria di Roma si è svolta la cerimonia di premiazione dei Corporate Heritage Awards 2023, giunti alla terza edizione. Il riconoscimento è promosso da Leaving Footprints, spinoff accademico dell’Università Parthenope con l’Università del Sannio, specializzato nella consulenza nell’ambito dell’heritage marketing. L’obiettivo del premio è quello di mettere in luce le storie delle imprese alle quali è legato lo sviluppo del nostro Paese, e di raccontarle per contribuire ad alimentare e sviluppare la cultura imprenditoriale.

Ad aggiudicarsi il riconoscimento nella categoria “Narrazione attraverso eventi” è stato lo spettacolo “L’umana impresa. La fabbrica degli attori”, progetto di formazione teatrale curato dall’Associazione Pier Lombardo in collaborazione con Fondazione Pirelli. Sei giovani attori selezionati fra i neodiplomati delle accademie d’arte drammatica di Milano, partendo da un lavoro di ricerca tra i documenti dell’Archivio Storico Pirelli e nei laboratori di Ricerca e Sviluppo dell’azienda negli Headquarters di Milano Bicocca, hanno raccontato il significato della parola impresa attraverso una performance teatrale inedita.

Lo spettacolo, con la regia di Stefano De Luca, ha messo in scena la storia di Pirelli tra memoria, presente e futuro. Un’indagine in forma teatrale che ha preso le mosse dalla riflessione su termini comuni alla cultura di impresa e all’attività artistica – visione, identità, trasformazione, ricerca, per considerare la capacità umana di creare manufatti e storie – fino a indagare il rapporto tra uomo e macchina. Attraverso la forza comunicativa del teatro e l’utilizzo di dialoghi, monologhi, scene corali e video, gli attori, sul palcoscenico del Teatro Franco Parenti il 28 marzo e il 3 aprile 2023, hanno interpretato il mondo delle innovazioni scientifiche, delle tecniche di produzione, delle relazioni tra le persone, della sostenibilità e dell’economia, consolidando il loro talento di creatori di storie. Prodotti immateriali la cui finalità è da sempre quella di attribuire significati e valori a tutto ciò che ci circonda, alle esperienze vissute, a quello che ancora ci aspetta.

Parità di genere ed ESG, come e perché

Una tesi discussa all’Università di Padova sintetizza efficacemente le relazioni tra due elementi importanti della moderna gestione d’impresa

Parità di genere nelle imprese e indice ESG (Environment, Social e Governance), binomio importante, che deve essere compreso a fondo, e applicato. Percorso non facile, soprattutto per le imprese piccole e medie. E’ attorno a questi argomenti che ha ragionato Maura Massara con la sua tesi discussa presso l’Università di Padova Dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali.

“Parità di genere e sostenibilità sociale: il contributo dell’indice ‘Environment Social and Governance’” è una sintesi delle relazioni che esistono tra un aspetto importante della gestione aziendale – il raggiungimento di condizioni adeguate di parità di genere -, e le indicazioni che vengono fornite dall’indice ESG visto come sintesi di una serie di condizioni ormai imprescindibili per la buona impresa.

Chiave di partenza è quindi la “S” di ESG e cioè il tema della sostenibilità sociale, con focus particolare – appunto – sulla parità di genere.

La ricerca di Massara ha una struttura semplice. Prima di tutto viene messo a fuoco l’indice ESG analizzato nelle tre voci fondamentali che lo compongono. Poi viene analizzata più da vicino la “parità di genere nella sostenibilità sociale”. Infine viene illustrato il caso di un progetto start up nato nel 2022 con l’obiettivo di aiutare le piccole e medie imprese a stare al passo con il contesto che si sta creando intorno al tema ESG, in modo che l’indice non sia penalizzante per nessuna azienda con particolare attenzione proprio alla parità di genere. Ne emerge il profila di un aspetto particolare di quella cultura d’impresa che deve sempre di più diffondersi in ogni categoria di organizzazione della produzione.

Scrive Maura Massara nelle sue conclusioni: “La promozione della sostenibilità sociale, inclusa la parità di genere, non è più semplicemente un atto altruistico, ma è diventata una strategia aziendale vantaggiosa”. La tesi di Massara che dimostra questa affermazione è una buona sintesi di un tema complesso e in evoluzione.

Parità di genere e sostenibilità sociale: il contributo dell’indice “Environment Social and Governance”

Massara Maura

Tesi, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali

Laurea in Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Diritti Umani, 2023

Una tesi discussa all’Università di Padova sintetizza efficacemente le relazioni tra due elementi importanti della moderna gestione d’impresa

Parità di genere nelle imprese e indice ESG (Environment, Social e Governance), binomio importante, che deve essere compreso a fondo, e applicato. Percorso non facile, soprattutto per le imprese piccole e medie. E’ attorno a questi argomenti che ha ragionato Maura Massara con la sua tesi discussa presso l’Università di Padova Dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali.

“Parità di genere e sostenibilità sociale: il contributo dell’indice ‘Environment Social and Governance’” è una sintesi delle relazioni che esistono tra un aspetto importante della gestione aziendale – il raggiungimento di condizioni adeguate di parità di genere -, e le indicazioni che vengono fornite dall’indice ESG visto come sintesi di una serie di condizioni ormai imprescindibili per la buona impresa.

Chiave di partenza è quindi la “S” di ESG e cioè il tema della sostenibilità sociale, con focus particolare – appunto – sulla parità di genere.

La ricerca di Massara ha una struttura semplice. Prima di tutto viene messo a fuoco l’indice ESG analizzato nelle tre voci fondamentali che lo compongono. Poi viene analizzata più da vicino la “parità di genere nella sostenibilità sociale”. Infine viene illustrato il caso di un progetto start up nato nel 2022 con l’obiettivo di aiutare le piccole e medie imprese a stare al passo con il contesto che si sta creando intorno al tema ESG, in modo che l’indice non sia penalizzante per nessuna azienda con particolare attenzione proprio alla parità di genere. Ne emerge il profila di un aspetto particolare di quella cultura d’impresa che deve sempre di più diffondersi in ogni categoria di organizzazione della produzione.

Scrive Maura Massara nelle sue conclusioni: “La promozione della sostenibilità sociale, inclusa la parità di genere, non è più semplicemente un atto altruistico, ma è diventata una strategia aziendale vantaggiosa”. La tesi di Massara che dimostra questa affermazione è una buona sintesi di un tema complesso e in evoluzione.

Parità di genere e sostenibilità sociale: il contributo dell’indice “Environment Social and Governance”

Massara Maura

Tesi, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali

Laurea in Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Diritti Umani, 2023

Quale progresso?

In un libro appena pubblicato la storia delle relazioni tra tecnologia e prosperità, base per capire il presente e prepararsi al futuro

 

 Conciliare il potere della tecnologia con lo sviluppo e il progresso equilibrati. Con il benessere per tutti come traguardo da raggiungere. Sempre. Obiettivi ineludibili ma, non per questo, scontati. Punti d’arrivo che dovrebbero essere patrimonio di una cultura del vivere sociale e della produzione che metta al centro l’uomo a tutto tondo, e tutta l’umanità. Per capire come fare è necessario comprendere anche come si è fatto fino ad oggi: leggere “Potere e progresso. La nostra lotta millenaria per la tecnologia e la prosperità”, scritto a quattro mani da Daron Acemoglu e Simon Johnson (entrambi insegnanti al MIT di Boston), aiuta – e molto -, chi legge in questo compito.

Il libro  appena pubblicato in Italia cerca di rispondere ad una domanda: che cosa è davvero il progresso? Da questo interrogativo ne derivano molti altri accompagnati da altrettante risposte che collegano il passato al presente. I due autori scrivono del cambiamento tecnologico – che si tratti dei miglioramenti agricoli nel Medioevo, della Rivoluzione industriale o dell’odierna intelligenza artificiale – visto come il principale motore della prosperità, qualcosa da cui avremmo tratto solo vantaggi, ma che in realtà ha agito in modi diversi a seconda di chi avesse il potere su di esso. Acemoglu e Johnson sfatano il mito del tecnottimismo moderno (ma tutto sommato del tecnottimismo di qualsiasi epoca). È vero: ce la passiamo enormemente meglio dei nostri antenati, ma gli ultimi mille anni hanno visto la diffusione di invenzioni che non hanno affatto portato al benessere collettivo. Ma quindi che fare? Secondo i due economisti serve una visione nuova e più inclusiva della tecnologia, qualcosa che potrà emergere solo se i sistemi sociali e produttivi prendono coscienza della necessità di fare in modo che le innovazioni siano al servizio di tutti. Nelle conclusioni dello vasto racconto sulla storia e sull’attualità del progresso e della tecnologia, Acemoglu e Johnson descrivono quindi gli ambiti sui quali agire: il riorientamento generale del progresso tecnologico, la riconfigurazione delle tecnologie digitali, il riesame delle relazioni sociali ma anche l’azione istituzionale e politica necessarie per mettere a punto gli strumenti concreti per intervenire. Il traguardo finale dichiarato è, come si diceva all’inizio, uno solo: assicurare che la tecnologia crei nuovi posti di lavoro e nuove opportunità, anziché emarginare la maggior parte delle persone. Utile e quasi un libro nel libro il saggio bibliografico posto al termine del testo.

Come ogni libro che espone non solo fatti ma anche idee, anche l’ultima fatica letteraria di Acemoglu e Johnson può contenere passaggi sui quali non essere d’accordo, ma le circa 600 pagine  sulla “lotta millenaria per la tecnologia e la prosperità” sono certamente da leggere con grande attenzione.

Potere e progresso. La nostra lotta millenaria per la tecnologia e la prosperità

Daron Acemoglu, Simon Johnson

il Saggiatore, 2023

In un libro appena pubblicato la storia delle relazioni tra tecnologia e prosperità, base per capire il presente e prepararsi al futuro

 

 Conciliare il potere della tecnologia con lo sviluppo e il progresso equilibrati. Con il benessere per tutti come traguardo da raggiungere. Sempre. Obiettivi ineludibili ma, non per questo, scontati. Punti d’arrivo che dovrebbero essere patrimonio di una cultura del vivere sociale e della produzione che metta al centro l’uomo a tutto tondo, e tutta l’umanità. Per capire come fare è necessario comprendere anche come si è fatto fino ad oggi: leggere “Potere e progresso. La nostra lotta millenaria per la tecnologia e la prosperità”, scritto a quattro mani da Daron Acemoglu e Simon Johnson (entrambi insegnanti al MIT di Boston), aiuta – e molto -, chi legge in questo compito.

Il libro  appena pubblicato in Italia cerca di rispondere ad una domanda: che cosa è davvero il progresso? Da questo interrogativo ne derivano molti altri accompagnati da altrettante risposte che collegano il passato al presente. I due autori scrivono del cambiamento tecnologico – che si tratti dei miglioramenti agricoli nel Medioevo, della Rivoluzione industriale o dell’odierna intelligenza artificiale – visto come il principale motore della prosperità, qualcosa da cui avremmo tratto solo vantaggi, ma che in realtà ha agito in modi diversi a seconda di chi avesse il potere su di esso. Acemoglu e Johnson sfatano il mito del tecnottimismo moderno (ma tutto sommato del tecnottimismo di qualsiasi epoca). È vero: ce la passiamo enormemente meglio dei nostri antenati, ma gli ultimi mille anni hanno visto la diffusione di invenzioni che non hanno affatto portato al benessere collettivo. Ma quindi che fare? Secondo i due economisti serve una visione nuova e più inclusiva della tecnologia, qualcosa che potrà emergere solo se i sistemi sociali e produttivi prendono coscienza della necessità di fare in modo che le innovazioni siano al servizio di tutti. Nelle conclusioni dello vasto racconto sulla storia e sull’attualità del progresso e della tecnologia, Acemoglu e Johnson descrivono quindi gli ambiti sui quali agire: il riorientamento generale del progresso tecnologico, la riconfigurazione delle tecnologie digitali, il riesame delle relazioni sociali ma anche l’azione istituzionale e politica necessarie per mettere a punto gli strumenti concreti per intervenire. Il traguardo finale dichiarato è, come si diceva all’inizio, uno solo: assicurare che la tecnologia crei nuovi posti di lavoro e nuove opportunità, anziché emarginare la maggior parte delle persone. Utile e quasi un libro nel libro il saggio bibliografico posto al termine del testo.

Come ogni libro che espone non solo fatti ma anche idee, anche l’ultima fatica letteraria di Acemoglu e Johnson può contenere passaggi sui quali non essere d’accordo, ma le circa 600 pagine  sulla “lotta millenaria per la tecnologia e la prosperità” sono certamente da leggere con grande attenzione.

Potere e progresso. La nostra lotta millenaria per la tecnologia e la prosperità

Daron Acemoglu, Simon Johnson

il Saggiatore, 2023

I pericoli della crescita piatta e del declino europeo: servono nuove scelte di politica fiscale e industriale  

Ed eccola qua, la “crescita zero” per l’economia italiana. La documenta l’Istat, nel terzo trimestre di quest’anno. Con effetti di trascinamento anche sul quarto trimestre e sull’anno prossimo, quando la crescita del Pil dell’1% o addirittura 1,2% prevista dal governo somiglia proprio un miraggio e sembrano invece più realistiche le previsioni di chi parla di uno 0,5%, come fa il Centro Studi Confindustria. Niente recessione, per ora (nell’area Ue, ne soffre solo la Germania, che però è il nostro principale partner commerciale e anche il Paese cui fanno capo molte delle catene di subfornitura delle imprese italiane). Ma i timori di rallentamento e dunque di nuovi e maggiori squilibri per il rapporto tra debito pubblico e Pil sono quanto mai fondati.

Non c’è però alcuna ricaduta negativa, statisticamente, sull’occupazione. I posti di lavoro, sempre secondo l’Istat, sono aumentati, nel settembre ‘23, di 42mila unità rispetto al mese precedente. E, guardando al confronto anno su anno, si registra un incremento di 512mila posti di lavoro, la stragrande maggioranza dei quali (443mila) posti fissi. “Tanto lavoro, poco Pil”, sintetizza Dario Di Vico su “Il Foglio” (4 novembre), parlando di “produttività ferma ma occupazione in crescita” e cercandone la spiegazione o in una “resilienza” delle imprese che non si liberano di mano d’opera aspettando una ripresa che si stima vicina (l’inflazione si riduce, i tassi smetteranno di crescere e ripartiranno gli investimenti) o, a essere pessimisti, in un aumento dei lavori a bassi costo e bassi salari, come succede in tempi di crisi.

Il tempo, e le nuove statistiche, ci diranno quali tendenze prevarranno nel prossimo futuro. Resta fermo, comunque, un dato: le imprese continuano a non trovare persone da assumere (l’ultimo allarme arriva dalle fabbriche meccaniche del Nord Est; “la Repubblica”, 28 ottobre) mentre i baby boomers (i figli degli anni Cinquanta e Sessanta) se ne vanno in pensione al ritmo di mezzo milione all’anno e, secondo Prometeia, “le forze di rincalzo siano nell’ordine di 400mila persone all’anno, da qui al 2030, con un buco, dunque, di 100mila unità di difficile rimpiazzo” (“la Repubblica”, 3 novembre).

Eppure, nonostante tutto, la nave Italia va, con un lungo e ostinato sforzo delle imprese manifatturiere che, anche in tempi difficili, producono, innovano, investono, affrontano la difficile twin transition ambientale e digitale e continuano a esportare e a conquistare nuovi spazi nelle nicchie a maggior valore aggiunto dei mercati internazionali (lo abbiamo documentato e spiegato nel blog della scorsa settimana).

Le imprese, però, non possono fare tutto da sole. Hanno bisogno di scelte politiche, sia nazionali che europee, sapienti e coerenti con le strategie di lungo periodo dell’attuale fase di sviluppo della “economia della conoscenza”. E invece si ritrovano con una finanziaria che “destina appena l’8% alle imprese” e non sostiene gli investimenti, come ripete da tempo Confindustria. E con una Ue che non ha messo in campo adeguate politiche comuni per fronteggiare sia l’Ira (Inflation and Reduction Act) degli Usa sia i giganteschi investimenti della Cina per sostenere le proprie imprese high tech.

Ecco il punto di riflessione essenziale, per evitare i rischi di declino. Come muoversi? Per capire meglio, sono utili le considerazioni di Marco Buti e Marcello Messori, un grand commis di Bruxelles a lungo capo di Gabinetto del Commissario Ue Paolo Gentiloni e un economista di spessore europeo, affidate a una serie di articoli su “Il Sole24Ore” (14 e 22 settembre) su “Le strade che l’Italia deve percorrere per rilanciarsi” e su “Un modello produttivo per accompagnare la Ue nel futuro”.

Sostengono Buti e Messori che “il rischio di stagflazione non è stato scongiurato” e spiegano che proprio un modello produttivo dominato dalla Germania e fondato, tra l’altro, sull’export di prodotti manifatturieri frutto di tecnologie solide ma mature, su piccole imprese poco innovative, su dipendenze da fonti energetiche concentrate e poco sicure (l’invasione russa dell’Ucraina ha reso drammatico un fenomeno già evidente da tempo), su servizi high tech non sufficientemente competitivi rende difficile “l’effettivo integrazione del mercato unico europeo che, pure, rappresenta uno punto di forza dell’area”.

Ci sono “ritardi europei nel digitale e nell’intelligenza artificiale rispetto a Usa e Cina” e “nuovi rischi di divergenza all’interno della Ue”, accentuati proprio dalla “relativa debolezza dell’economia tedesca che si ripercuote sui paesi più integrati nella sua catena del valore (Olanda e Italia)”.

L’economia europea, “senza un cambio di passo, sarebbe condannata a ruoli marginali e a un progressivo indebolimento del proprio modello sociale”. Il quadro è aggravato da “una demografia stagnante”. E dunque “il benessere europeo può essere salvaguardato solo se la Ue saprà costruire un modello produttivo più competitivo”.

Come? “Gli ingredienti sono noti, perché alla base dell’iniziativa adottata in risposta allo shock pandemico: Next Generation Eu. Si tratta della tripla transizione ‘verde’, digitale e sociale”. Risorse comuni europee per la sostenibilità vissuta come fattore competitivo, per il potenziamento dell’economia della conoscenza, per la formazione e la ricerca.

Una “strada impervia”, è vero. Ma indispensabile. Da percorrere “rafforzando la capacità fiscale europea e raccordandola a un’allocazione efficiente delle risorse, pubbliche e private, dei singoli Stati membri”.

Più Europa integrata, dunque, pensando anche alle questioni della sicurezza in tutti i loro aspetti, ai fondi comuni Ue per l’energia e le materie prime strategiche.

Tutto il contrario dei neo-nazionalismi e dell’idea di usare l’Europa come un bancomat per singoli vantaggi dei vari paesi, sottovalutando vincoli, obblighi, valori comuni.

E l’Italia? Sostengono Buti e Messori che è nel nostro massimo interesse “superare l’attuale stallo istituzionale sulla governance economica della Ue”, contribuendo a approvare “nuove regole fiscali che, in conformità alla proposta della Commissione dell’aprile scorso, calibrino gli aggiustamenti nazionali di bilancio in base alle specificità dei singoli Paesi, nel rispetto della crescita macroeconomica e della sostenibilità fiscale”. Regole indispensabili, appunto, per un’Italia che, dato l’altissimo debito pubblico, ha pochissimo spazio di manovra per usare la leva della spesa pubblica per investimenti produttivi e stimoli alle imprese. Anche una rapida approvazione del Mes, finalmente, rientra in questo quadro positivo.

Secondo punto: “Fare sì che i detentori privati della consistente ricchezza finanziaria del Paese sottoscrivano non solo strumenti liquidi ma anche attività per il finanziamento delle produzioni”. Con stimoli fiscali adeguati. E dunque con una ben diversa idea del fisco, che non premi gli evasori (con condoni comunque rivestiti) o i ceti protetti corporativamente da licenze e concessioni a basso costo ma agevoli chi investe e produce.

Terzo punto: l’utilizzo puntuale e corretto delle grandi risorse messe a disposizione dal Pnrr, il vero “sostegno fiscale” alla crescita. Insomma, “solo percorrendo tali strade, l’Italia non rimarrà intrappolata in politiche fiscali pro-cicliche e potrà contribuire a quel modello imprenditore per la decarbonizzazione dell’industria” invocato, a metà settembre, dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen nel suo discorso sullo stato dell’Unione europea. Europa, sviluppo sostenibile ed economia civile, appunto. Una strada adatta all’Italia.

(immagine Getty Images)

Ed eccola qua, la “crescita zero” per l’economia italiana. La documenta l’Istat, nel terzo trimestre di quest’anno. Con effetti di trascinamento anche sul quarto trimestre e sull’anno prossimo, quando la crescita del Pil dell’1% o addirittura 1,2% prevista dal governo somiglia proprio un miraggio e sembrano invece più realistiche le previsioni di chi parla di uno 0,5%, come fa il Centro Studi Confindustria. Niente recessione, per ora (nell’area Ue, ne soffre solo la Germania, che però è il nostro principale partner commerciale e anche il Paese cui fanno capo molte delle catene di subfornitura delle imprese italiane). Ma i timori di rallentamento e dunque di nuovi e maggiori squilibri per il rapporto tra debito pubblico e Pil sono quanto mai fondati.

Non c’è però alcuna ricaduta negativa, statisticamente, sull’occupazione. I posti di lavoro, sempre secondo l’Istat, sono aumentati, nel settembre ‘23, di 42mila unità rispetto al mese precedente. E, guardando al confronto anno su anno, si registra un incremento di 512mila posti di lavoro, la stragrande maggioranza dei quali (443mila) posti fissi. “Tanto lavoro, poco Pil”, sintetizza Dario Di Vico su “Il Foglio” (4 novembre), parlando di “produttività ferma ma occupazione in crescita” e cercandone la spiegazione o in una “resilienza” delle imprese che non si liberano di mano d’opera aspettando una ripresa che si stima vicina (l’inflazione si riduce, i tassi smetteranno di crescere e ripartiranno gli investimenti) o, a essere pessimisti, in un aumento dei lavori a bassi costo e bassi salari, come succede in tempi di crisi.

Il tempo, e le nuove statistiche, ci diranno quali tendenze prevarranno nel prossimo futuro. Resta fermo, comunque, un dato: le imprese continuano a non trovare persone da assumere (l’ultimo allarme arriva dalle fabbriche meccaniche del Nord Est; “la Repubblica”, 28 ottobre) mentre i baby boomers (i figli degli anni Cinquanta e Sessanta) se ne vanno in pensione al ritmo di mezzo milione all’anno e, secondo Prometeia, “le forze di rincalzo siano nell’ordine di 400mila persone all’anno, da qui al 2030, con un buco, dunque, di 100mila unità di difficile rimpiazzo” (“la Repubblica”, 3 novembre).

Eppure, nonostante tutto, la nave Italia va, con un lungo e ostinato sforzo delle imprese manifatturiere che, anche in tempi difficili, producono, innovano, investono, affrontano la difficile twin transition ambientale e digitale e continuano a esportare e a conquistare nuovi spazi nelle nicchie a maggior valore aggiunto dei mercati internazionali (lo abbiamo documentato e spiegato nel blog della scorsa settimana).

Le imprese, però, non possono fare tutto da sole. Hanno bisogno di scelte politiche, sia nazionali che europee, sapienti e coerenti con le strategie di lungo periodo dell’attuale fase di sviluppo della “economia della conoscenza”. E invece si ritrovano con una finanziaria che “destina appena l’8% alle imprese” e non sostiene gli investimenti, come ripete da tempo Confindustria. E con una Ue che non ha messo in campo adeguate politiche comuni per fronteggiare sia l’Ira (Inflation and Reduction Act) degli Usa sia i giganteschi investimenti della Cina per sostenere le proprie imprese high tech.

Ecco il punto di riflessione essenziale, per evitare i rischi di declino. Come muoversi? Per capire meglio, sono utili le considerazioni di Marco Buti e Marcello Messori, un grand commis di Bruxelles a lungo capo di Gabinetto del Commissario Ue Paolo Gentiloni e un economista di spessore europeo, affidate a una serie di articoli su “Il Sole24Ore” (14 e 22 settembre) su “Le strade che l’Italia deve percorrere per rilanciarsi” e su “Un modello produttivo per accompagnare la Ue nel futuro”.

Sostengono Buti e Messori che “il rischio di stagflazione non è stato scongiurato” e spiegano che proprio un modello produttivo dominato dalla Germania e fondato, tra l’altro, sull’export di prodotti manifatturieri frutto di tecnologie solide ma mature, su piccole imprese poco innovative, su dipendenze da fonti energetiche concentrate e poco sicure (l’invasione russa dell’Ucraina ha reso drammatico un fenomeno già evidente da tempo), su servizi high tech non sufficientemente competitivi rende difficile “l’effettivo integrazione del mercato unico europeo che, pure, rappresenta uno punto di forza dell’area”.

Ci sono “ritardi europei nel digitale e nell’intelligenza artificiale rispetto a Usa e Cina” e “nuovi rischi di divergenza all’interno della Ue”, accentuati proprio dalla “relativa debolezza dell’economia tedesca che si ripercuote sui paesi più integrati nella sua catena del valore (Olanda e Italia)”.

L’economia europea, “senza un cambio di passo, sarebbe condannata a ruoli marginali e a un progressivo indebolimento del proprio modello sociale”. Il quadro è aggravato da “una demografia stagnante”. E dunque “il benessere europeo può essere salvaguardato solo se la Ue saprà costruire un modello produttivo più competitivo”.

Come? “Gli ingredienti sono noti, perché alla base dell’iniziativa adottata in risposta allo shock pandemico: Next Generation Eu. Si tratta della tripla transizione ‘verde’, digitale e sociale”. Risorse comuni europee per la sostenibilità vissuta come fattore competitivo, per il potenziamento dell’economia della conoscenza, per la formazione e la ricerca.

Una “strada impervia”, è vero. Ma indispensabile. Da percorrere “rafforzando la capacità fiscale europea e raccordandola a un’allocazione efficiente delle risorse, pubbliche e private, dei singoli Stati membri”.

Più Europa integrata, dunque, pensando anche alle questioni della sicurezza in tutti i loro aspetti, ai fondi comuni Ue per l’energia e le materie prime strategiche.

Tutto il contrario dei neo-nazionalismi e dell’idea di usare l’Europa come un bancomat per singoli vantaggi dei vari paesi, sottovalutando vincoli, obblighi, valori comuni.

E l’Italia? Sostengono Buti e Messori che è nel nostro massimo interesse “superare l’attuale stallo istituzionale sulla governance economica della Ue”, contribuendo a approvare “nuove regole fiscali che, in conformità alla proposta della Commissione dell’aprile scorso, calibrino gli aggiustamenti nazionali di bilancio in base alle specificità dei singoli Paesi, nel rispetto della crescita macroeconomica e della sostenibilità fiscale”. Regole indispensabili, appunto, per un’Italia che, dato l’altissimo debito pubblico, ha pochissimo spazio di manovra per usare la leva della spesa pubblica per investimenti produttivi e stimoli alle imprese. Anche una rapida approvazione del Mes, finalmente, rientra in questo quadro positivo.

Secondo punto: “Fare sì che i detentori privati della consistente ricchezza finanziaria del Paese sottoscrivano non solo strumenti liquidi ma anche attività per il finanziamento delle produzioni”. Con stimoli fiscali adeguati. E dunque con una ben diversa idea del fisco, che non premi gli evasori (con condoni comunque rivestiti) o i ceti protetti corporativamente da licenze e concessioni a basso costo ma agevoli chi investe e produce.

Terzo punto: l’utilizzo puntuale e corretto delle grandi risorse messe a disposizione dal Pnrr, il vero “sostegno fiscale” alla crescita. Insomma, “solo percorrendo tali strade, l’Italia non rimarrà intrappolata in politiche fiscali pro-cicliche e potrà contribuire a quel modello imprenditore per la decarbonizzazione dell’industria” invocato, a metà settembre, dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen nel suo discorso sullo stato dell’Unione europea. Europa, sviluppo sostenibile ed economia civile, appunto. Una strada adatta all’Italia.

(immagine Getty Images)

“Ritratto di un pionere”
di Ernesto Ferrero

Riproponiamo un estratto del saggio di Ernesto Ferrero pubblicato all’interno del libro “Una storia al futuro“, in ricordo di uno dei più grandi intellettuali del nostro tempo.

Aveva scelto la neonata industria della gomma elastica, o più precisamente del caoutchouc, in italiano caucciù, che mandava il suono allegro di uno schiocco infantile. Era il nome del nuovo mirabolante ritrovato che prometteva un numero notevole di applicazioni e in Italia mancavano le manifatture dedicate. Era (sarebbe diventato) elastico, resistente, impermeabile, isolante. Ancora studente, Pirelli era rimasto colpito dal racconto di un ingegnere francese, che per conto delle Ferrovie Italiane era stato incaricato del ricupero dell’Affondatore, un ariete corazzato della Marina danneggiato durante la battaglia di Lissa e inabissato nella baia di Ancona. Aveva ricordato che mancavano i tubi di gomma per le pompe di sollevamento dello scafo. Introvabili in Italia, occorreva importarli dalla Francia. Il racconto era rimasto nelle memorie familiari come una specie di leggenda di fondazione. La scelta di dedicarsi all’industria della gomma non era stata netta e definitiva sin dall’inizio. Il neoingegnere si riservava di studiare quel che andava maturando nella nascente industria, ma il suo maestro Colombo, profondo conoscitore del comparto manifatturiero, lo aveva convinto a scartare il tessile, già troppo affollato, per puntare a un settore nuovo e in forte sviluppo, malgrado le difficoltà da risolvere.

di Ernesto Ferrero

Riproponiamo un estratto del saggio di Ernesto Ferrero pubblicato all’interno del libro “Una storia al futuro“, in ricordo di uno dei più grandi intellettuali del nostro tempo.

Aveva scelto la neonata industria della gomma elastica, o più precisamente del caoutchouc, in italiano caucciù, che mandava il suono allegro di uno schiocco infantile. Era il nome del nuovo mirabolante ritrovato che prometteva un numero notevole di applicazioni e in Italia mancavano le manifatture dedicate. Era (sarebbe diventato) elastico, resistente, impermeabile, isolante. Ancora studente, Pirelli era rimasto colpito dal racconto di un ingegnere francese, che per conto delle Ferrovie Italiane era stato incaricato del ricupero dell’Affondatore, un ariete corazzato della Marina danneggiato durante la battaglia di Lissa e inabissato nella baia di Ancona. Aveva ricordato che mancavano i tubi di gomma per le pompe di sollevamento dello scafo. Introvabili in Italia, occorreva importarli dalla Francia. Il racconto era rimasto nelle memorie familiari come una specie di leggenda di fondazione. La scelta di dedicarsi all’industria della gomma non era stata netta e definitiva sin dall’inizio. Il neoingegnere si riservava di studiare quel che andava maturando nella nascente industria, ma il suo maestro Colombo, profondo conoscitore del comparto manifatturiero, lo aveva convinto a scartare il tessile, già troppo affollato, per puntare a un settore nuovo e in forte sviluppo, malgrado le difficoltà da risolvere.

di Ernesto Ferrero

La forza della calma. Anche in economia

Un libro ripercorre le vicende di Bonaldo Stringher e ne ripropone l’insegnamento per affrontare le complessità di oggi

 

La costruzione del futuro ha le fondamenta nella storia, oltre che nel presente. Indicazione che vale anche per le imprese, così come per tutti i componenti del sistema sociale. Indicazione che costituisce elemento importante anche di quella cultura a tutto tondo (del produrre e non solo) che costituisce il bagaglio ideale per affrontare le complessità attuali. E’ questo il messaggio che si coglie leggendo “Bonaldo Stringher. Serenità, calma e fermezza. Una storia economica d’Italia”, libro di Giuseppe De Lucia Lumeno pubblicato qualche tempo fa ma ancora attualissimo (soprattutto in tempi complessi come questi).

Stringher è stato il primo Direttore generale e il primo Governatore della Banca d’Italia ad inizio del XX° secolo, uno dei protagonisti indiscussi della vita economica, istituzionale e sociale nella costruzione dell’Italia unita ma, soprattutto, un gran conoscitore dei valori e dell’esperienza europea della cooperazione oltre che il fondatore del sistema delle banche popolari e del territorio in Italia. Economista, banchiere e cooperatore, un moderno al servizio della costruzione di un sistema sociale e della produzione che fosse davvero utile allo sviluppo, Stringher è ricordato per essere riuscito a percorrere con bravura e attenzione numerosi difficili passaggi della vita economica e politica dell’Italia appena costituita sempre con un’idea ben chiara: “L’uomo non dev’essere considerato dalla scienza economica come un semplice fattore della produzione, bensì come il grande soggetto d’ogni funzione economica”.

Delle diverse tappe, De Lucia Lumeno fornisce un resoconto chiaro, non privo di particolari di economia e di economia monetaria ma in grado di delineare il clima dell’epoca, le difficoltà, le prospettive, le tensioni. Un’epoca attraversata da Stringher con la forza di alcuni principi e metodi di lavoro come la fiducia nell’osservazione della realtà, l’assenza di dogmatismi, l’essere convinto della forza del pragmatismo, la consapevolezza del valore della cooperazione intesa come confronto costruttivo di idee nel rispetto reciproco e per la ricerca del bene comune.

Un moderno, si è detto, lo Stringher che nel libro viene raccontato; un moderno che può fornire ancora oggi indicazioni importanti per comprendere la realtà e agire al meglio. Bella la prefazione di Ignazio Visco che, nelle sue righe finali, riesce ad unire saldamente il racconto della vita di Stringher con quanto accade oggi: “(…) ogni epoca ancorché dipendente dalle eredità della storia, presenta le sue sfide. Quelle di oggi certamente non sono minori di quelle degli anni del «grande Governatore» e, come allora, vanno affrontate con determinazione e consapevolezza, con pazienza, e, per dirla con le parole che lo stesso Stringher rivolse nella sua lettera alle filiali della Banca nel momento più difficile per l’Italia in guerra, con «un tono elevato di serenità, di calma, e di fermezza», come ricorda il titolo di questo volume”.

Bonaldo Stringher. Serenità, calma e fermezza. Una storia economica d’Italia

Giuseppe De Lucia Lumeno

Guerini, 2023

Un libro ripercorre le vicende di Bonaldo Stringher e ne ripropone l’insegnamento per affrontare le complessità di oggi

 

La costruzione del futuro ha le fondamenta nella storia, oltre che nel presente. Indicazione che vale anche per le imprese, così come per tutti i componenti del sistema sociale. Indicazione che costituisce elemento importante anche di quella cultura a tutto tondo (del produrre e non solo) che costituisce il bagaglio ideale per affrontare le complessità attuali. E’ questo il messaggio che si coglie leggendo “Bonaldo Stringher. Serenità, calma e fermezza. Una storia economica d’Italia”, libro di Giuseppe De Lucia Lumeno pubblicato qualche tempo fa ma ancora attualissimo (soprattutto in tempi complessi come questi).

Stringher è stato il primo Direttore generale e il primo Governatore della Banca d’Italia ad inizio del XX° secolo, uno dei protagonisti indiscussi della vita economica, istituzionale e sociale nella costruzione dell’Italia unita ma, soprattutto, un gran conoscitore dei valori e dell’esperienza europea della cooperazione oltre che il fondatore del sistema delle banche popolari e del territorio in Italia. Economista, banchiere e cooperatore, un moderno al servizio della costruzione di un sistema sociale e della produzione che fosse davvero utile allo sviluppo, Stringher è ricordato per essere riuscito a percorrere con bravura e attenzione numerosi difficili passaggi della vita economica e politica dell’Italia appena costituita sempre con un’idea ben chiara: “L’uomo non dev’essere considerato dalla scienza economica come un semplice fattore della produzione, bensì come il grande soggetto d’ogni funzione economica”.

Delle diverse tappe, De Lucia Lumeno fornisce un resoconto chiaro, non privo di particolari di economia e di economia monetaria ma in grado di delineare il clima dell’epoca, le difficoltà, le prospettive, le tensioni. Un’epoca attraversata da Stringher con la forza di alcuni principi e metodi di lavoro come la fiducia nell’osservazione della realtà, l’assenza di dogmatismi, l’essere convinto della forza del pragmatismo, la consapevolezza del valore della cooperazione intesa come confronto costruttivo di idee nel rispetto reciproco e per la ricerca del bene comune.

Un moderno, si è detto, lo Stringher che nel libro viene raccontato; un moderno che può fornire ancora oggi indicazioni importanti per comprendere la realtà e agire al meglio. Bella la prefazione di Ignazio Visco che, nelle sue righe finali, riesce ad unire saldamente il racconto della vita di Stringher con quanto accade oggi: “(…) ogni epoca ancorché dipendente dalle eredità della storia, presenta le sue sfide. Quelle di oggi certamente non sono minori di quelle degli anni del «grande Governatore» e, come allora, vanno affrontate con determinazione e consapevolezza, con pazienza, e, per dirla con le parole che lo stesso Stringher rivolse nella sua lettera alle filiali della Banca nel momento più difficile per l’Italia in guerra, con «un tono elevato di serenità, di calma, e di fermezza», come ricorda il titolo di questo volume”.

Bonaldo Stringher. Serenità, calma e fermezza. Una storia economica d’Italia

Giuseppe De Lucia Lumeno

Guerini, 2023

Misurare l’impresa per conoscerla meglio

In una tesi discussa all’Università di Genova la sintesi dello stato delle aziende italiane dal punto di vista dimensionale

 

Misurare per conoscere meglio e quindi decidere con maggiore accortezza. Versione “matematica” del “conoscere per deliberare” saggia sintesi del buongoverno di Luigi Einaudi (che in realtà scrisse: “Prima conoscere, poi discutere, poi deliberare”). Indicazione valida ancora oggi, in un’epoca di informazione aumentata ma non per questo più chiara ed esaustiva; indicazione che per il sistema della produzione e delle imprese vale come precetto di buona gestione. Con tutto quello che ne consegue in termini di capacità di raccogliere informazioni, ragionarle e decidere di conseguenza.

Misurare, dunque, anche le stesse realtà aziendali. Per trarne indicazioni sugli effetti del loro agire e sulle politiche gestionali più opportune. E’ su questi temi che ha ragionato Matteo Spinosa con il suo lavoro di ricerca trasformato in “Dimensione delle imprese Italiane. Misure ed implicazioni”, tesi discussa presso l’Università di Genova Dipartimento di economia.

Spinosa nella prima parte si preoccupa, scrive, “di ricercare definizioni e parametri identificati da vari istituti nonché dalla letteratura ai fini di stabilire la dimensione d’impresa”. Successivamente la tesi rivolge l’attenzione “su alcune teorie che suggeriscono alcune delle possibili determinanti dimensionali per poi trattare le implicazioni dimensionali con particolare attenzione alla crescita, all’innovazione nonché all’accesso al credito”. Nella seconda parte, la teoria viene applicata al caso italiano, sia con un esame interno che con un confronto europeo.

Spinosa nelle sue conclusioni spiega: “I risultati dello studio hanno rilevato una depressione economica nel mezzogiorno dell’Italia, tanto in termini di numero di imprese, quanto in termini di dimensione media. Infine, tramite il confronto europeo si rende più evidente il nanismo nazionale per cui l’Italia presenta distribuzioni occupazionali simili a paesi come Slovacchia, Slovenia, Lituania, Bulgaria e Grecia, purtroppo ben lontana dai paesi con i quali dovrebbe essere paragonabile, Germania e Francia in particolare”.

La ricerca di Matteo Spinosa ha il merito di mettere a disposizione, in uno spazio contenuto e con un linguaggio chiaro, una base di analisi dati utile per, come si diceva all’inizio, conoscere meglio la realtà per agire con più efficacia.

Dimensione delle imprese Italiane. Misure ed implicazioni

Matteo Spinosa

Tesi, Università degli studi di Genova, Scuola di scienze sociali, Dipartimento di economia, Corso di laurea in Management, 2023

In una tesi discussa all’Università di Genova la sintesi dello stato delle aziende italiane dal punto di vista dimensionale

 

Misurare per conoscere meglio e quindi decidere con maggiore accortezza. Versione “matematica” del “conoscere per deliberare” saggia sintesi del buongoverno di Luigi Einaudi (che in realtà scrisse: “Prima conoscere, poi discutere, poi deliberare”). Indicazione valida ancora oggi, in un’epoca di informazione aumentata ma non per questo più chiara ed esaustiva; indicazione che per il sistema della produzione e delle imprese vale come precetto di buona gestione. Con tutto quello che ne consegue in termini di capacità di raccogliere informazioni, ragionarle e decidere di conseguenza.

Misurare, dunque, anche le stesse realtà aziendali. Per trarne indicazioni sugli effetti del loro agire e sulle politiche gestionali più opportune. E’ su questi temi che ha ragionato Matteo Spinosa con il suo lavoro di ricerca trasformato in “Dimensione delle imprese Italiane. Misure ed implicazioni”, tesi discussa presso l’Università di Genova Dipartimento di economia.

Spinosa nella prima parte si preoccupa, scrive, “di ricercare definizioni e parametri identificati da vari istituti nonché dalla letteratura ai fini di stabilire la dimensione d’impresa”. Successivamente la tesi rivolge l’attenzione “su alcune teorie che suggeriscono alcune delle possibili determinanti dimensionali per poi trattare le implicazioni dimensionali con particolare attenzione alla crescita, all’innovazione nonché all’accesso al credito”. Nella seconda parte, la teoria viene applicata al caso italiano, sia con un esame interno che con un confronto europeo.

Spinosa nelle sue conclusioni spiega: “I risultati dello studio hanno rilevato una depressione economica nel mezzogiorno dell’Italia, tanto in termini di numero di imprese, quanto in termini di dimensione media. Infine, tramite il confronto europeo si rende più evidente il nanismo nazionale per cui l’Italia presenta distribuzioni occupazionali simili a paesi come Slovacchia, Slovenia, Lituania, Bulgaria e Grecia, purtroppo ben lontana dai paesi con i quali dovrebbe essere paragonabile, Germania e Francia in particolare”.

La ricerca di Matteo Spinosa ha il merito di mettere a disposizione, in uno spazio contenuto e con un linguaggio chiaro, una base di analisi dati utile per, come si diceva all’inizio, conoscere meglio la realtà per agire con più efficacia.

Dimensione delle imprese Italiane. Misure ed implicazioni

Matteo Spinosa

Tesi, Università degli studi di Genova, Scuola di scienze sociali, Dipartimento di economia, Corso di laurea in Management, 2023

L’Italia è in crisi ma non è condannata al declino, ascoltando Bartali, De Rita e chi conosce l’industria

L’economia italiana torna a crescere appena dello “zero virgola”, con un decimale via via sempre più piccolo, tra lo 0,7% di quest’anno e lo 0,5% previsto per il 2024. E ci si ritrova mestamente nella condizione piatta e stagnante degli ultimi vent’anni, in coda a tutti i principali paesi europei, dopo le impetuose stagioni del rimbalzo post Covid e della ripresa (8,3% nel ‘21 e 3,7% nel ‘22). Cadono i consumi delle famiglie e gli investimenti, diminuiscono le scorte nei magazzini delle imprese e le loro esportazioni, calano i prestiti bancari e la produzione industriale. Il futuro è inquietante.
I dati diffusi sabato dal Centro Studi Confindustria, nel rapporto intitolato “L’Italia torna alla bassa crescita?” (“Il Sole24Ore”, 29 ottobre) conferma le tendenze già evidenziate dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Ue e dai principali osservatori internazionali. Quel punto interrogativo nel titolo, però, può avere una doppia valenza: di preoccupazione, se la situazione economica dovesse ancora subire gli effetti delle tensioni e delle incertezze attuali, ma anche di possibilità che quella bassa crescita possa essere interrotta e modificata in meglio, se arrivassero scelte di politica economica, fiscale e industriale in grado di invertire il ciclo negativo.

Il futuro della nostra economia, del lavoro e dei redditi, insomma, non è definito. Il declino non è inevitabile. C’è spazio per un periodo migliore. Naturalmente se…
Partiamo degli elementi negativi già noti: la crisi generale della iperglobalizzazione che aveva segnato tutto il corso del passaggio del Novecento al nuovo millennio, con squilibri e disuguaglianze inaccettabili, le tensioni geo-politiche di un mondo multipolare segnato dai conflitti tra Usa e Cina e dalle spinte sconvolgenti di nuovi e potenti attori internazionali (a cominciare dall’India in impetuosa crescita), la drammatica esplosione degli scontri armati, dall’invasione russa dell’Ucraina alla guerra in Medio Oriente) che hanno aggravato l’andamento già incerto dei commerci internazionali e stravolto gli assetti nel Mediterraneo, con ripercussioni sui temi della sicurezza e dell’energia.
L’Europa, che potrebbe giocare il ruolo fondamentale di riequilibrio e di indicazione positiva, anche per la forza di una storia che ha saputo legare in modo originale sviluppo economico e benessere diffuso, democrazia e giustizia sociale (Patrizio Banchi su “la Repubblica”, 11 settembre) e per il successo di una transizione politica e culturale verso politiche monetarie e fiscali comuni, non riesce ad esprimere un’autorevole voce unitaria.
Si aggiungono, ad appesantire un clima generale già negativo, l’andamento dell’inflazione e del costo del denaro, gli squilibri demografici ma anche le conseguenze di tensioni legate alla transizione tecnologica e a quella ambientale, con fenomeni di cui oggi paghiamo i costi sociali, in attesa (troppo lunga e incerta, purtroppo) di governarne l’evoluzione e goderne delle opportunità positive.

Viviamo, insomma, in un’età di drammatiche incertezze. E, giorno dopo giorno, il precipitare degli eventi stimola i pensieri più cupi. Il clima generale non è affatto in sintonia con i bisogni di crescita e sviluppo.
In Italia paghiamo prezzi particolari, che aggravano il quadro. Siamo un paese esportatore e la caduta degli scambi internazionali frena la nostra economia. La recessione in Germania (il nostro principale partner industriale e commerciale) si ripercuote su parecchi settori manifatturieri, a cominciare dall’automotive e dalla meccatronica (“Il grande malato tedesco zavorra il nostro Pil”, documenta Mario Deaglio, “La Stampa”, 13 settembre). Il debito pubblico crescente non consente di usare, come fanno gli Usa e la Germania, le leve fiscali e di spesa pubblica per stimolare gli investimenti e la ripresa. Le incapacità politiche e della pubblica amministrazione non hanno consentito sinora di costruire condizioni per usare bene le grandi risorse (237 miliardi tra prestiti e soldi a fondo perduto) messe a disposizione dal Pnrr (un ritratto interessante sta nelle pagine del libro “Pnrr. La grande abbuffata” di Tito Boeri e Roberto Perotti, appena pubblicato da Feltrinelli).

Il nostro declino è dunque segnato, inarrestabile? Tutto sbagliato, tutto da rifare? No. A quella battuta, comunque di successo, non credeva fino in fondo neanche il suo autore, Gino Bartali, grande campione, che mugugnava e criticava ma poi vinceva trionfalmente Tour di Francia e Giri d’Italia.
Una riflessione in controtendenza arriva da uno dei più acuti osservatori dell’economia e della società italiana, Giuseppe De Rita, presidente del Censis: “Economia reale, nessuno parla della parte di Paese che va, non si discute sulle componenti vitali del sistema” (“Corriere della Sera”, 25 ottobre). Si parte da un ricordo, di quegli anni Settanta in cui, dopo la guerra dello Yom Kippur, vinta da Israele contro una fortissima alleanza di paesi arabi, i prezzi dell’energia impazzirono, le economie occidentali entrarono in una durissima stagione di ristrutturazione, l’inflazione in Italia superò ampiamente la soglia delle due cifre, i conti pubblici ne risentirono duramente e tra tensioni sociali e terrorismo si visse nell’incubo degli “anni di piombo”. Nessuno lo notò, ma la nostra industria si era via via riorganizzata sui territori (anche in modo sommerso, “informale”) e aveva costruito nuove ragioni di competitività. Ce ne accorgemmo solo nei primi anni Ottanta, quando emerse una straordinaria liquidità finanziaria in cerca di collocazione e di buoni investimenti e l’Italia si ritrovò ricca e dinamica, tra distretti industriali innovativi e nuovi spregiudicati “capitani” e “cavalieri ”dell’industria, della finanza, della moda e della pubblicità.
E oggi? De Rita invita a guardare bene nelle pieghe della società italiana e, pur nella consapevolezza dei dati di crisi, a dare voce e spazio a chi lavora, innova, cresce, fa: “Per chi ancora gira l’Italia, la realtà dà segnali contrastanti ma non inerti: il motore milanese e lombardo batte bene i colpi, l’economia del Nord-Est sta superando la crisi di dipendenza dal declino della locomotiva tedesca, l’Emilia Romagna e una parte delle Marche sono piene di soggetti di eccellenza, il turismo toscano, umbro, laziale (romano), pugliese e siciliano ha mostrato una grande potenza di fuoco”.

Insomma, insiste De Rita, “sarebbe quanto mai utile riservare un po’ di attenzione a queste componenti vitali del sistema: per la tenuta della psicologia collettiva del Paese, di fronte a un inverno che si preannuncia difficile, sono più importanti di tante elucubrazioni di finanza pubblica”.
Chi conosce la realtà molto articolata e talvolta controversa e pur contraddittoria della manifattura italiana, non può che confermare il giudizio di De Rita, parlando di distretti e filiere produttive che si stanno riorganizzando con successo, di grandi e medi produttori di acciaio green fra Cremona e Brescia, di imprese che sanno usare bene la sostenibilità ambientale e sociale come leva robusta di competitività internazionale, di iniziative che rilanciano il Nord Ovest industriale con la collaborazione fertile delle associazioni imprenditoriali di Milano, Torino e Genova, di industrie che innovano prodotti e processi e fanno acquisizioni e alleanze all’estero. Di un dinamismo che non è ancora motore generale né sistema ma può continuare a resistere al declino e fare da base di sviluppo. Sintetizza Carlo Bonomi, presidente di Confindustria: “Lo scenario è complesso, ma l’industria è forte. L’Italia ce la può fare” (“Il Sole24Ore”, 5 ottobre).
Servirebbe una buona politica, sia italiana che europea, per rafforzare questo solido capitale sociale di intraprendenza e voglia positiva di cambiamento. Servirebbe una nuova e migliore cultura della responsabilità.

(foto Getty Images)

L’economia italiana torna a crescere appena dello “zero virgola”, con un decimale via via sempre più piccolo, tra lo 0,7% di quest’anno e lo 0,5% previsto per il 2024. E ci si ritrova mestamente nella condizione piatta e stagnante degli ultimi vent’anni, in coda a tutti i principali paesi europei, dopo le impetuose stagioni del rimbalzo post Covid e della ripresa (8,3% nel ‘21 e 3,7% nel ‘22). Cadono i consumi delle famiglie e gli investimenti, diminuiscono le scorte nei magazzini delle imprese e le loro esportazioni, calano i prestiti bancari e la produzione industriale. Il futuro è inquietante.
I dati diffusi sabato dal Centro Studi Confindustria, nel rapporto intitolato “L’Italia torna alla bassa crescita?” (“Il Sole24Ore”, 29 ottobre) conferma le tendenze già evidenziate dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Ue e dai principali osservatori internazionali. Quel punto interrogativo nel titolo, però, può avere una doppia valenza: di preoccupazione, se la situazione economica dovesse ancora subire gli effetti delle tensioni e delle incertezze attuali, ma anche di possibilità che quella bassa crescita possa essere interrotta e modificata in meglio, se arrivassero scelte di politica economica, fiscale e industriale in grado di invertire il ciclo negativo.

Il futuro della nostra economia, del lavoro e dei redditi, insomma, non è definito. Il declino non è inevitabile. C’è spazio per un periodo migliore. Naturalmente se…
Partiamo degli elementi negativi già noti: la crisi generale della iperglobalizzazione che aveva segnato tutto il corso del passaggio del Novecento al nuovo millennio, con squilibri e disuguaglianze inaccettabili, le tensioni geo-politiche di un mondo multipolare segnato dai conflitti tra Usa e Cina e dalle spinte sconvolgenti di nuovi e potenti attori internazionali (a cominciare dall’India in impetuosa crescita), la drammatica esplosione degli scontri armati, dall’invasione russa dell’Ucraina alla guerra in Medio Oriente) che hanno aggravato l’andamento già incerto dei commerci internazionali e stravolto gli assetti nel Mediterraneo, con ripercussioni sui temi della sicurezza e dell’energia.
L’Europa, che potrebbe giocare il ruolo fondamentale di riequilibrio e di indicazione positiva, anche per la forza di una storia che ha saputo legare in modo originale sviluppo economico e benessere diffuso, democrazia e giustizia sociale (Patrizio Banchi su “la Repubblica”, 11 settembre) e per il successo di una transizione politica e culturale verso politiche monetarie e fiscali comuni, non riesce ad esprimere un’autorevole voce unitaria.
Si aggiungono, ad appesantire un clima generale già negativo, l’andamento dell’inflazione e del costo del denaro, gli squilibri demografici ma anche le conseguenze di tensioni legate alla transizione tecnologica e a quella ambientale, con fenomeni di cui oggi paghiamo i costi sociali, in attesa (troppo lunga e incerta, purtroppo) di governarne l’evoluzione e goderne delle opportunità positive.

Viviamo, insomma, in un’età di drammatiche incertezze. E, giorno dopo giorno, il precipitare degli eventi stimola i pensieri più cupi. Il clima generale non è affatto in sintonia con i bisogni di crescita e sviluppo.
In Italia paghiamo prezzi particolari, che aggravano il quadro. Siamo un paese esportatore e la caduta degli scambi internazionali frena la nostra economia. La recessione in Germania (il nostro principale partner industriale e commerciale) si ripercuote su parecchi settori manifatturieri, a cominciare dall’automotive e dalla meccatronica (“Il grande malato tedesco zavorra il nostro Pil”, documenta Mario Deaglio, “La Stampa”, 13 settembre). Il debito pubblico crescente non consente di usare, come fanno gli Usa e la Germania, le leve fiscali e di spesa pubblica per stimolare gli investimenti e la ripresa. Le incapacità politiche e della pubblica amministrazione non hanno consentito sinora di costruire condizioni per usare bene le grandi risorse (237 miliardi tra prestiti e soldi a fondo perduto) messe a disposizione dal Pnrr (un ritratto interessante sta nelle pagine del libro “Pnrr. La grande abbuffata” di Tito Boeri e Roberto Perotti, appena pubblicato da Feltrinelli).

Il nostro declino è dunque segnato, inarrestabile? Tutto sbagliato, tutto da rifare? No. A quella battuta, comunque di successo, non credeva fino in fondo neanche il suo autore, Gino Bartali, grande campione, che mugugnava e criticava ma poi vinceva trionfalmente Tour di Francia e Giri d’Italia.
Una riflessione in controtendenza arriva da uno dei più acuti osservatori dell’economia e della società italiana, Giuseppe De Rita, presidente del Censis: “Economia reale, nessuno parla della parte di Paese che va, non si discute sulle componenti vitali del sistema” (“Corriere della Sera”, 25 ottobre). Si parte da un ricordo, di quegli anni Settanta in cui, dopo la guerra dello Yom Kippur, vinta da Israele contro una fortissima alleanza di paesi arabi, i prezzi dell’energia impazzirono, le economie occidentali entrarono in una durissima stagione di ristrutturazione, l’inflazione in Italia superò ampiamente la soglia delle due cifre, i conti pubblici ne risentirono duramente e tra tensioni sociali e terrorismo si visse nell’incubo degli “anni di piombo”. Nessuno lo notò, ma la nostra industria si era via via riorganizzata sui territori (anche in modo sommerso, “informale”) e aveva costruito nuove ragioni di competitività. Ce ne accorgemmo solo nei primi anni Ottanta, quando emerse una straordinaria liquidità finanziaria in cerca di collocazione e di buoni investimenti e l’Italia si ritrovò ricca e dinamica, tra distretti industriali innovativi e nuovi spregiudicati “capitani” e “cavalieri ”dell’industria, della finanza, della moda e della pubblicità.
E oggi? De Rita invita a guardare bene nelle pieghe della società italiana e, pur nella consapevolezza dei dati di crisi, a dare voce e spazio a chi lavora, innova, cresce, fa: “Per chi ancora gira l’Italia, la realtà dà segnali contrastanti ma non inerti: il motore milanese e lombardo batte bene i colpi, l’economia del Nord-Est sta superando la crisi di dipendenza dal declino della locomotiva tedesca, l’Emilia Romagna e una parte delle Marche sono piene di soggetti di eccellenza, il turismo toscano, umbro, laziale (romano), pugliese e siciliano ha mostrato una grande potenza di fuoco”.

Insomma, insiste De Rita, “sarebbe quanto mai utile riservare un po’ di attenzione a queste componenti vitali del sistema: per la tenuta della psicologia collettiva del Paese, di fronte a un inverno che si preannuncia difficile, sono più importanti di tante elucubrazioni di finanza pubblica”.
Chi conosce la realtà molto articolata e talvolta controversa e pur contraddittoria della manifattura italiana, non può che confermare il giudizio di De Rita, parlando di distretti e filiere produttive che si stanno riorganizzando con successo, di grandi e medi produttori di acciaio green fra Cremona e Brescia, di imprese che sanno usare bene la sostenibilità ambientale e sociale come leva robusta di competitività internazionale, di iniziative che rilanciano il Nord Ovest industriale con la collaborazione fertile delle associazioni imprenditoriali di Milano, Torino e Genova, di industrie che innovano prodotti e processi e fanno acquisizioni e alleanze all’estero. Di un dinamismo che non è ancora motore generale né sistema ma può continuare a resistere al declino e fare da base di sviluppo. Sintetizza Carlo Bonomi, presidente di Confindustria: “Lo scenario è complesso, ma l’industria è forte. L’Italia ce la può fare” (“Il Sole24Ore”, 5 ottobre).
Servirebbe una buona politica, sia italiana che europea, per rafforzare questo solido capitale sociale di intraprendenza e voglia positiva di cambiamento. Servirebbe una nuova e migliore cultura della responsabilità.

(foto Getty Images)

“Parole in viaggio”:
al via l’edizione 2023 dell’evento dedicato ai giovani lettori

Leggere è un viaggio. Tra le pagine di un romanzo o i versi di una poesia si possono ritrovare le nostre emozioni ed esperienze, scoprire luoghi, persone e storie incredibili, vivere mille avventure e nutrire la nostra mente. La scuola gioca un ruolo essenziale per accendere e coltivare la passione per i libri fin dalla giovane età. Ma come nasce un racconto?

Per dare risposta a questa domanda, giovedì 23 novembre 2023 alle ore 11.00 presso l’Auditorium Pirelli HQ Fondazione Pirelli organizza un incontro dedicato alle ragazze e ai ragazzi delle scuole secondarie di primo grado che potranno scoprire come trovare l’ispirazione, sviluppare le idee e far prendere vita ai personaggi creati dalla propria fantasia, cimentandosi in giochi sulle loro abitudini da lettori.
Fondamentale sarà il dialogo con Nicola Cinquetti e Davide Rigiani, vincitori del Premio Campiello Junior 2023. E insieme ad Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli, Alessandra Tedesco, giornalista di Radio 24, e Pino Boero, nuovo Presidente di Giuria del Campiello Junior, si approfondirà il ruolo formativo della letteratura in tutte le sue declinazioni.

L’ingresso è gratuito e su prenotazione fino a esaurimento posti, scrivendo a scuole@fondazionepirelli.org.

Nell’ambito della promozione della lettura tra le giovani generazioni, prosegue per il terzo anno consecutivo il Campiello Junior, premio nato dalla collaborazione tra Fondazione Il Campiello e Fondazione Pirelli.
Fondazione Pirelli Educational ha inoltre ideato due laboratori didattici per i giovani lettori: alle scuole primarie è dedicato “Poesie elastiche”, mentre “Nota e annota” si rivolge agli studenti delle scuole secondarie di primo grado.

Leggere è un viaggio. Tra le pagine di un romanzo o i versi di una poesia si possono ritrovare le nostre emozioni ed esperienze, scoprire luoghi, persone e storie incredibili, vivere mille avventure e nutrire la nostra mente. La scuola gioca un ruolo essenziale per accendere e coltivare la passione per i libri fin dalla giovane età. Ma come nasce un racconto?

Per dare risposta a questa domanda, giovedì 23 novembre 2023 alle ore 11.00 presso l’Auditorium Pirelli HQ Fondazione Pirelli organizza un incontro dedicato alle ragazze e ai ragazzi delle scuole secondarie di primo grado che potranno scoprire come trovare l’ispirazione, sviluppare le idee e far prendere vita ai personaggi creati dalla propria fantasia, cimentandosi in giochi sulle loro abitudini da lettori.
Fondamentale sarà il dialogo con Nicola Cinquetti e Davide Rigiani, vincitori del Premio Campiello Junior 2023. E insieme ad Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli, Alessandra Tedesco, giornalista di Radio 24, e Pino Boero, nuovo Presidente di Giuria del Campiello Junior, si approfondirà il ruolo formativo della letteratura in tutte le sue declinazioni.

L’ingresso è gratuito e su prenotazione fino a esaurimento posti, scrivendo a scuole@fondazionepirelli.org.

Nell’ambito della promozione della lettura tra le giovani generazioni, prosegue per il terzo anno consecutivo il Campiello Junior, premio nato dalla collaborazione tra Fondazione Il Campiello e Fondazione Pirelli.
Fondazione Pirelli Educational ha inoltre ideato due laboratori didattici per i giovani lettori: alle scuole primarie è dedicato “Poesie elastiche”, mentre “Nota e annota” si rivolge agli studenti delle scuole secondarie di primo grado.

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