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I buoni licei di provincia superano le scuole cittadine e dialogano con le imprese, con lo sguardo al futuro

Provincia vitale, quella italiana. Spesso, tutt’altro che provinciale. Animata, semmai, da guizzi di intraprendenze, sensibilità sociali e passioni culturali che testimoniano, per l’ennesima volta, quanto ricco sia lo spirito di comunità e quanto forte la voglia di cambiamento, resistenza, riscatto contro i pur sempre presenti rischi di degrado. La conferma arriva da due mondi diversi ma nel corso del tempo sempre più sensibili al dialogo: le imprese e la scuola. Diffuse, le imprese, “all’ombra dei campanili” e cioè nel territorio ampio delle città e dei borghi, dove producono “cose belle che piacciano al mondo” (la definizione è di Carlo Maria Cipolla, grande storico dell’economia). E cresciute, le scuole in provincia, per impegno culturale e qualità didattica, sino a contendere ai più famosi licei delle grandi città il primato dell’eccellenza formativa ma anche delle opportunità di buon inserimento nel mondo del lavoro.

Una conferma quanto mai significativa arriva dalle classifiche stilate da Eduscopio, nella decima edizione della mappa interattiva delle scuole superiori italiane redatta dalla Fondazione Agnelli (tutti i dati sono su www.eduscopio.it). La miglior scuola d’Italia è il liceo scientifico delle scienze applicate “Nervi-Ferrari” di Morbegno, in provincia di Sondrio (vincitore per il secondo anno consecutivo). E anche nelle aree metropolitane, per fare degli esempi, i più famosi licei classici di Milano sono stati superati da un liceo di Cinisello Balsamo, il “Casiraghi”, che sorpassa i prestigiosi “Berchet” e “Parini”, mentre a Torino l’Istituto “Edoardo Agnelli” dei Padri Salesiani arriva prima del tradizionalmente autorevole “Galileo Ferraris”. “Classifica dei licei. La provincia supera le scuole di città”, titola il “Corriere della Sera” (22 novembre). “Anche quest’anno il liceo top è in provincia”, scrive “la Repubblica”.

E’ una classifica particolare, quanto mai interessante, quella di Eduscopio (“La Stampa”, 22 novembre): viene redatta analizzando i dati di 1 milione 326mila diplomati di 7.850 scuole in tutta Italia, negli anni scolastici dal 2017 al 2020, calcolandone gli esiti universitari (esami sostenuti e media dei voti) e le posizioni lavorative (tasso di occupazione e coerenza tra studi e lavoro) a un anno dal diploma. Si indagano, insomma, le relazioni tra qualità della formazione e mercato professionale. E si forniscono alle famiglie indicazioni utili per la scelta delle scuole in cui iscrivere i figli, indipendentemente dalla fama degli istituti, dalle voci tradizionali, dai pareri correnti di amici e parenti.

Il ritratto, tracciato con criteri di scientificità, dice che, nonostante limiti e crisi, la scuola italiana ha una sua qualità, da valorizzare e rafforzare. E che parecchie delle strutture formative migliori sono quelle che negli anni hanno saputo sfruttare bene gli spazi di autonomia per lavorare sulla formazione interdisciplinare, sull’innovazione di metodi didattici e contenuti e sulle evoluzioni culturali.

Una conferma arriva dai giudizi dei docenti del liceo “Casiraghi” di Cinisello, detentore del primato a Milano, 1.200 studenti tra liceo classico, scientifico e linguistico, all’interno di un grande polo scolastico di 5mila studenti nell’area del nord milanese, un tempo periferia industriale di grandi complessi produttivi: “Superando gli stereotipi delle periferie come spazi deficitari, pur nella consapevolezza dei problemi che ci sono, qui ho incontrato umanità e dignità. E il classico, per i nostri  è frutto di una scelta personale, senza pressioni da parte delle famiglie o senza il voler frequentare una scuola solo perché blasonata”, sostiene il preside Delio Pistolesi (“Corriere della Sera”, 23 novembre).

I punti di forza? Il laboratorio di fisica moderna, guidato da insegnanti formati al Cern di Ginevra. E l’istituto sempre aperto, nel pomeriggio, per incontri, sperimentazioni, corsi divario tipo (fotografia, teatro, letteratura, etc.).

Cultura politecnica, insomma, in dialogo tra conoscenze umanistiche e scientifiche. Proprio la dimensione adatta a un’epoca di rapida e profonda evoluzione dei saperi.

Classifiche a parte, questi sono temi che ricorrono anche nel progetto di un liceo appena nato, a Monza, capoluogo della Brianza industriale, a cura di Assolombarda in collaborazione con il Collegio Villoresi: un liceo “Steam” (l’acronimo inglese che indica science, technology, engineering, arts e mathematics), fondato cioè su sintesi originali tra materie scientifiche e arte, letteratura, storia e filosofia. Un corso in quattro anni e non in cinque. Parte larga degli insegnamenti in inglese, con laboratori organizzati secondo i criteri didattici anglosassoni. E ore dedicate alle “performing arts” (teatro, musica e danza) e alle nuove culture digitali.  “Qui si sviluppano le competenze più richieste dalle aziende lombarde”, sostiene la preside Laura Andreoni. E se è vero che la scuola deve formare innanzitutto alla cultura critica, a “imparare a imparare” e allo spirito di comunità responsabile e inclusiva, è altrettanto vero che la  sperimentazione didattica ha bisogno di spazio, opportunità, risorse. E proprio da questo punto di vista il dialogo tra scuola, mondo dell’economia e impresa, con i suoi valori di competitività e inclusività, può offrire opportunità interessanti, un più contemporaneo “sguardo al futuro”.

(foto Getty Images)

Provincia vitale, quella italiana. Spesso, tutt’altro che provinciale. Animata, semmai, da guizzi di intraprendenze, sensibilità sociali e passioni culturali che testimoniano, per l’ennesima volta, quanto ricco sia lo spirito di comunità e quanto forte la voglia di cambiamento, resistenza, riscatto contro i pur sempre presenti rischi di degrado. La conferma arriva da due mondi diversi ma nel corso del tempo sempre più sensibili al dialogo: le imprese e la scuola. Diffuse, le imprese, “all’ombra dei campanili” e cioè nel territorio ampio delle città e dei borghi, dove producono “cose belle che piacciano al mondo” (la definizione è di Carlo Maria Cipolla, grande storico dell’economia). E cresciute, le scuole in provincia, per impegno culturale e qualità didattica, sino a contendere ai più famosi licei delle grandi città il primato dell’eccellenza formativa ma anche delle opportunità di buon inserimento nel mondo del lavoro.

Una conferma quanto mai significativa arriva dalle classifiche stilate da Eduscopio, nella decima edizione della mappa interattiva delle scuole superiori italiane redatta dalla Fondazione Agnelli (tutti i dati sono su www.eduscopio.it). La miglior scuola d’Italia è il liceo scientifico delle scienze applicate “Nervi-Ferrari” di Morbegno, in provincia di Sondrio (vincitore per il secondo anno consecutivo). E anche nelle aree metropolitane, per fare degli esempi, i più famosi licei classici di Milano sono stati superati da un liceo di Cinisello Balsamo, il “Casiraghi”, che sorpassa i prestigiosi “Berchet” e “Parini”, mentre a Torino l’Istituto “Edoardo Agnelli” dei Padri Salesiani arriva prima del tradizionalmente autorevole “Galileo Ferraris”. “Classifica dei licei. La provincia supera le scuole di città”, titola il “Corriere della Sera” (22 novembre). “Anche quest’anno il liceo top è in provincia”, scrive “la Repubblica”.

E’ una classifica particolare, quanto mai interessante, quella di Eduscopio (“La Stampa”, 22 novembre): viene redatta analizzando i dati di 1 milione 326mila diplomati di 7.850 scuole in tutta Italia, negli anni scolastici dal 2017 al 2020, calcolandone gli esiti universitari (esami sostenuti e media dei voti) e le posizioni lavorative (tasso di occupazione e coerenza tra studi e lavoro) a un anno dal diploma. Si indagano, insomma, le relazioni tra qualità della formazione e mercato professionale. E si forniscono alle famiglie indicazioni utili per la scelta delle scuole in cui iscrivere i figli, indipendentemente dalla fama degli istituti, dalle voci tradizionali, dai pareri correnti di amici e parenti.

Il ritratto, tracciato con criteri di scientificità, dice che, nonostante limiti e crisi, la scuola italiana ha una sua qualità, da valorizzare e rafforzare. E che parecchie delle strutture formative migliori sono quelle che negli anni hanno saputo sfruttare bene gli spazi di autonomia per lavorare sulla formazione interdisciplinare, sull’innovazione di metodi didattici e contenuti e sulle evoluzioni culturali.

Una conferma arriva dai giudizi dei docenti del liceo “Casiraghi” di Cinisello, detentore del primato a Milano, 1.200 studenti tra liceo classico, scientifico e linguistico, all’interno di un grande polo scolastico di 5mila studenti nell’area del nord milanese, un tempo periferia industriale di grandi complessi produttivi: “Superando gli stereotipi delle periferie come spazi deficitari, pur nella consapevolezza dei problemi che ci sono, qui ho incontrato umanità e dignità. E il classico, per i nostri  è frutto di una scelta personale, senza pressioni da parte delle famiglie o senza il voler frequentare una scuola solo perché blasonata”, sostiene il preside Delio Pistolesi (“Corriere della Sera”, 23 novembre).

I punti di forza? Il laboratorio di fisica moderna, guidato da insegnanti formati al Cern di Ginevra. E l’istituto sempre aperto, nel pomeriggio, per incontri, sperimentazioni, corsi divario tipo (fotografia, teatro, letteratura, etc.).

Cultura politecnica, insomma, in dialogo tra conoscenze umanistiche e scientifiche. Proprio la dimensione adatta a un’epoca di rapida e profonda evoluzione dei saperi.

Classifiche a parte, questi sono temi che ricorrono anche nel progetto di un liceo appena nato, a Monza, capoluogo della Brianza industriale, a cura di Assolombarda in collaborazione con il Collegio Villoresi: un liceo “Steam” (l’acronimo inglese che indica science, technology, engineering, arts e mathematics), fondato cioè su sintesi originali tra materie scientifiche e arte, letteratura, storia e filosofia. Un corso in quattro anni e non in cinque. Parte larga degli insegnamenti in inglese, con laboratori organizzati secondo i criteri didattici anglosassoni. E ore dedicate alle “performing arts” (teatro, musica e danza) e alle nuove culture digitali.  “Qui si sviluppano le competenze più richieste dalle aziende lombarde”, sostiene la preside Laura Andreoni. E se è vero che la scuola deve formare innanzitutto alla cultura critica, a “imparare a imparare” e allo spirito di comunità responsabile e inclusiva, è altrettanto vero che la  sperimentazione didattica ha bisogno di spazio, opportunità, risorse. E proprio da questo punto di vista il dialogo tra scuola, mondo dell’economia e impresa, con i suoi valori di competitività e inclusività, può offrire opportunità interessanti, un più contemporaneo “sguardo al futuro”.

(foto Getty Images)

Il Cosmo: la prossima frontiera.
Torna nel 2024 il corso Cinema & Storia

Giunto alla sua dodicesima edizione, riparte a febbraio 2024 Cinema & Storia, il corso di formazione e aggiornamento gratuito per i docenti delle scuole secondarie, promosso da Fondazione Pirelli e Fondazione ISEC in collaborazione con il Cinema Beltrade di Milano.

Il cosmo: la prossima frontiera è il titolo della nuova proposta che, articolata in sei appuntamenti online, indagherà il tema dello spazio cosmico: luogo dell’altrove, millenaria fonte di ispirazione per i viaggiatori più arditi, realtà oggi più prossima e a portata di mano.

Tanti gli interrogativi a cui rispondere. In che modo lo spazio è entrato nei calcoli geo-politici e strategici delle grandi potenze mondiali? Quale influenza ha avuto il lancio di satelliti artificiali nei processi di globalizzazione e nella nascita di quell’infosfera nella quale siamo immersi? In quali forme e con quali linguaggi lo spazio è entrato nel mondo della creazione letteraria plasmando l’immaginario di generazioni? È possibile intrecciare la storia delle lotte delle donne con quella della conquista dello spazio? Infine, qual è il ruolo dell’industria aerospaziale italiana in questo processo?

Alle cinque lezioni storiche si affiancherà una selezione di film curata dal Cinema Beltrade e un laboratorio sui linguaggi cinematografici per supportare gli insegnanti nell’utilizzo del testo filmico in classe.

Le lezioni si terranno dalle ore 16 alle ore 18, nelle seguenti date:

Lunedì 19 febbraio
Lunedì 26 febbraio
Lunedì 4 marzo
Lunedì 11 marzo
Lunedì 18 marzo
Martedì 26 marzo

L’iscrizione, gratuita e obbligatoria, sarà possibile a partire dall’8 gennaio scrivendo a didattica2@fondazioneisec.it.
Il corso è a numero chiuso e le iscrizioni saranno accettate in ordine di arrivo.
Gli incontri si terranno in diretta sulla piattaforma Microsoft Teams.

Per il programma dettagliato della nuova edizione clicca qui

Giunto alla sua dodicesima edizione, riparte a febbraio 2024 Cinema & Storia, il corso di formazione e aggiornamento gratuito per i docenti delle scuole secondarie, promosso da Fondazione Pirelli e Fondazione ISEC in collaborazione con il Cinema Beltrade di Milano.

Il cosmo: la prossima frontiera è il titolo della nuova proposta che, articolata in sei appuntamenti online, indagherà il tema dello spazio cosmico: luogo dell’altrove, millenaria fonte di ispirazione per i viaggiatori più arditi, realtà oggi più prossima e a portata di mano.

Tanti gli interrogativi a cui rispondere. In che modo lo spazio è entrato nei calcoli geo-politici e strategici delle grandi potenze mondiali? Quale influenza ha avuto il lancio di satelliti artificiali nei processi di globalizzazione e nella nascita di quell’infosfera nella quale siamo immersi? In quali forme e con quali linguaggi lo spazio è entrato nel mondo della creazione letteraria plasmando l’immaginario di generazioni? È possibile intrecciare la storia delle lotte delle donne con quella della conquista dello spazio? Infine, qual è il ruolo dell’industria aerospaziale italiana in questo processo?

Alle cinque lezioni storiche si affiancherà una selezione di film curata dal Cinema Beltrade e un laboratorio sui linguaggi cinematografici per supportare gli insegnanti nell’utilizzo del testo filmico in classe.

Le lezioni si terranno dalle ore 16 alle ore 18, nelle seguenti date:

Lunedì 19 febbraio
Lunedì 26 febbraio
Lunedì 4 marzo
Lunedì 11 marzo
Lunedì 18 marzo
Martedì 26 marzo

L’iscrizione, gratuita e obbligatoria, sarà possibile a partire dall’8 gennaio scrivendo a didattica2@fondazioneisec.it.
Il corso è a numero chiuso e le iscrizioni saranno accettate in ordine di arrivo.
Gli incontri si terranno in diretta sulla piattaforma Microsoft Teams.

Per il programma dettagliato della nuova edizione clicca qui

IA, attenzione all’umanità

Il delicato equilibrio tra tecnologie, ruolo e tutela della persona

Intelligenza Artificiale come ultima frontiera dell’innovazione e della tecnologia. Per le imprese come per tutti noi. Orizzonte da guardare, tuttavia, con grande attenzione. Senza perdere di vista le persone. Anche nelle organizzazioni della produzione.

E’ quanto cerca di fare – riuscendoci -, la raccolta di studi “Algoritmi, sicurezza ed etica dell’innovazione : la persona al centro della transizione digitale” di Alessandro Alonsi e  Fabio Pompei da poco data alle stampe.

Il ragionamento dei due autori – che uniscono capacità narrativa e preparazione tecnica -, prende le mosse da una constatazione: “Sempre più spesso i cittadini non sono in grado di controllare ciò che accade intorno a loro, immersi e sovraccaricati da sollecitazioni artificiose. Anche l’attività informatica, che appare fondamentale e rappresenta un formidabile aiuto nella gestione della vita quotidiana, se non opportunamente indirizzata, può intimorire le persone o minacciare le infrastrutture di comunicazione e la sicurezza dei dispositivi”. Da qui il passo verso l’IA che, se non utilizzata in modo etico, “può – viene spiegato -, fomentare le disuguaglianze sociali, aumentare le discriminazioni e mettere a rischio la democrazia, con conseguenti ripercussioni sui diritti della persona e sulla sua salute”.

Il ragionamento che segue a queste considerazioni di base, si dipana lungo un percorso a più tappe. Si inizia quindi dal tema della “sicurezza della società nel nuovo mondo online” per passare poi ad approfondire una serie di punti: i dati online, le difficoltà dei giovani di fronte al web, i problemi collegati ai fatti passati e alla memoria, la sicurezza del metaverso. Alonsi e Pompei non trascurano però nemmeno il “lato buono” della tecnologia che pur presenta notevoli esempi.

Libro da leggere con attenzione quello che hanno scritto Alonsi e Pompei, libro che contiene un messaggio solo in apparenza scontato: non tutto nella vita può essere ridotto a un semplice codice, ed è quanto mai necessario comprendere gli azzardi e le limitazioni delle innovazioni, sbloccandone il potenziale attraverso una gestione accorta e consapevole. Scrivo i due autori: “L’astinenza digitale non rappresenta (…) oggi un’opzione realistica. (…) Una nuova realtà fisica, metafisica e virtuale ci avvolge, ci cambia, trasforma percezioni, linguaggio e modi di vedere la realtà. Sta a noi rimanere con i piedi ben saldi sulla terra, nonostante il fatto che le nostre teste saranno sempre più immerse nel cloud”. Una condizione che vale anche per le organizzazioni della produzione e sociali, oltre che per i singoli individui.

Algoritmi, sicurezza ed etica dell’innovazione : la persona al centro della transizione digitale

Alessandro Alonsi, Fabio Pompei

Tab Edizione, 2023

Il delicato equilibrio tra tecnologie, ruolo e tutela della persona

Intelligenza Artificiale come ultima frontiera dell’innovazione e della tecnologia. Per le imprese come per tutti noi. Orizzonte da guardare, tuttavia, con grande attenzione. Senza perdere di vista le persone. Anche nelle organizzazioni della produzione.

E’ quanto cerca di fare – riuscendoci -, la raccolta di studi “Algoritmi, sicurezza ed etica dell’innovazione : la persona al centro della transizione digitale” di Alessandro Alonsi e  Fabio Pompei da poco data alle stampe.

Il ragionamento dei due autori – che uniscono capacità narrativa e preparazione tecnica -, prende le mosse da una constatazione: “Sempre più spesso i cittadini non sono in grado di controllare ciò che accade intorno a loro, immersi e sovraccaricati da sollecitazioni artificiose. Anche l’attività informatica, che appare fondamentale e rappresenta un formidabile aiuto nella gestione della vita quotidiana, se non opportunamente indirizzata, può intimorire le persone o minacciare le infrastrutture di comunicazione e la sicurezza dei dispositivi”. Da qui il passo verso l’IA che, se non utilizzata in modo etico, “può – viene spiegato -, fomentare le disuguaglianze sociali, aumentare le discriminazioni e mettere a rischio la democrazia, con conseguenti ripercussioni sui diritti della persona e sulla sua salute”.

Il ragionamento che segue a queste considerazioni di base, si dipana lungo un percorso a più tappe. Si inizia quindi dal tema della “sicurezza della società nel nuovo mondo online” per passare poi ad approfondire una serie di punti: i dati online, le difficoltà dei giovani di fronte al web, i problemi collegati ai fatti passati e alla memoria, la sicurezza del metaverso. Alonsi e Pompei non trascurano però nemmeno il “lato buono” della tecnologia che pur presenta notevoli esempi.

Libro da leggere con attenzione quello che hanno scritto Alonsi e Pompei, libro che contiene un messaggio solo in apparenza scontato: non tutto nella vita può essere ridotto a un semplice codice, ed è quanto mai necessario comprendere gli azzardi e le limitazioni delle innovazioni, sbloccandone il potenziale attraverso una gestione accorta e consapevole. Scrivo i due autori: “L’astinenza digitale non rappresenta (…) oggi un’opzione realistica. (…) Una nuova realtà fisica, metafisica e virtuale ci avvolge, ci cambia, trasforma percezioni, linguaggio e modi di vedere la realtà. Sta a noi rimanere con i piedi ben saldi sulla terra, nonostante il fatto che le nostre teste saranno sempre più immerse nel cloud”. Una condizione che vale anche per le organizzazioni della produzione e sociali, oltre che per i singoli individui.

Algoritmi, sicurezza ed etica dell’innovazione : la persona al centro della transizione digitale

Alessandro Alonsi, Fabio Pompei

Tab Edizione, 2023

Conflitti di classe generazionale

In un libro una analisi non convenzionale delle relazioni (complesse) tra generazioni diverse

 

Contrapposizione tra classi sociali. Vecchio modello della struttura sociale e produttiva, seppur ancora valido per molti aspetti, al quale si affianca (non si sostituisce) un altro modello di contrapposizione: quello tra classi generazionali. Classi che si portano dietro visioni diverse del vivere, del lavorare, del produrre, dello stare insieme, concezioni del mondo differenti, culture spesso lontane anni luce le une dalle altre. Anche nel modo di intendere gli obiettivi della vita. E come raggiungerli.

E’ attorno a questi nodi (perché in questo caso i nodi sono davvero tanti) che ragiona Beniamino Pagliaro – giornalista e attento osservatore della realtà -, con il suo “Boomers contro millennials. Sette bugie sul futuro e come iniziare a cambiare”. Una sorta di viaggio, o meglio di corsa a perdifiato, lungo le contraddizioni e i conflitti nei rapporti tra generazioni diverse. Una relazione fatta di illusioni e bugie (come suggerisce il sottotitolo del libro), di prospettive mancate e di altre mai colte, di fantasie economiche e di realtà difficili.

La narrazione prende in considerazione sette luoghi comuni diffusi tra le generazioni. Sette bugie. Da “studia tanto e tutto andrà bene” a “se lavori come si deve presto avrai i soldi per comprare casa”, da “la politica si occuperà dei giovani” a “ormai facciamo sempre così, è troppo tardi per cambiare”. Pagliaro racconta i problemi che le generazioni recenti si sono trovate ad affrontare, dai contratti meno tutelati a pensioni fantasma e quantomai ipotetiche, sempre con la certezza di trovarsi poi, per la prima volta in più di un secolo, più poveri dei propri genitori. L’autore con leggerezza affronta così alcuni dei grandi temi dell’oggi. C’è infatti più di un motivo se i cosiddetti giovani – concetto applicato con disinvoltura e che comprende, oramai, due generazioni e mezzo – fanno più fatica ad affermarsi nel mondo del lavoro, mettono su famiglia più tardi, non comprano più casa e vivono una preoccupazione crescente, quasi un’ossessione, nei confronti dell’emergenza climatica.

Beniamino Pagliaro non si limita però a “denunciare” una situazione ormai arrivata ad un punto critico. Nel libro, infatti, viene proposta l’apertura di un fronte di dialogo: perché l’interazione tra la classe dirigente attuale, appartenente alla generazione dei Baby boomers, e quella futura, rappresentata dai Millennials, non può più essere ridotta a una dimensione di eterno conflitto. Non si deve più parlare di colpe, bisogna piuttosto trovare, una volta per tutte, non un capro espiatorio ma soluzioni a problemi urgenti e attuali. Compito irto di difficoltà, che non può certo essere risolto solo da un giornalista che, tuttavia, contribuisce e non poco a risolverlo parlando in modo chiaro e comprensibile.

Il libro di Beniamino Pagliaro è un racconto sul recente passato, sul presente e soprattutto sul futuro, un racconto che serve per iniziare a sconfiggere luoghi comuni e sanare abitudini malsane e radicate nella nostra cultura. Si tratta di un libro bello, da leggere e discutere. Magari anche con l’autore.

Boomers contro millennials. Sette bugie sul futuro e come iniziare a cambiare

Beniamino Pagliaro

HarperCollins, 2023

In un libro una analisi non convenzionale delle relazioni (complesse) tra generazioni diverse

 

Contrapposizione tra classi sociali. Vecchio modello della struttura sociale e produttiva, seppur ancora valido per molti aspetti, al quale si affianca (non si sostituisce) un altro modello di contrapposizione: quello tra classi generazionali. Classi che si portano dietro visioni diverse del vivere, del lavorare, del produrre, dello stare insieme, concezioni del mondo differenti, culture spesso lontane anni luce le une dalle altre. Anche nel modo di intendere gli obiettivi della vita. E come raggiungerli.

E’ attorno a questi nodi (perché in questo caso i nodi sono davvero tanti) che ragiona Beniamino Pagliaro – giornalista e attento osservatore della realtà -, con il suo “Boomers contro millennials. Sette bugie sul futuro e come iniziare a cambiare”. Una sorta di viaggio, o meglio di corsa a perdifiato, lungo le contraddizioni e i conflitti nei rapporti tra generazioni diverse. Una relazione fatta di illusioni e bugie (come suggerisce il sottotitolo del libro), di prospettive mancate e di altre mai colte, di fantasie economiche e di realtà difficili.

La narrazione prende in considerazione sette luoghi comuni diffusi tra le generazioni. Sette bugie. Da “studia tanto e tutto andrà bene” a “se lavori come si deve presto avrai i soldi per comprare casa”, da “la politica si occuperà dei giovani” a “ormai facciamo sempre così, è troppo tardi per cambiare”. Pagliaro racconta i problemi che le generazioni recenti si sono trovate ad affrontare, dai contratti meno tutelati a pensioni fantasma e quantomai ipotetiche, sempre con la certezza di trovarsi poi, per la prima volta in più di un secolo, più poveri dei propri genitori. L’autore con leggerezza affronta così alcuni dei grandi temi dell’oggi. C’è infatti più di un motivo se i cosiddetti giovani – concetto applicato con disinvoltura e che comprende, oramai, due generazioni e mezzo – fanno più fatica ad affermarsi nel mondo del lavoro, mettono su famiglia più tardi, non comprano più casa e vivono una preoccupazione crescente, quasi un’ossessione, nei confronti dell’emergenza climatica.

Beniamino Pagliaro non si limita però a “denunciare” una situazione ormai arrivata ad un punto critico. Nel libro, infatti, viene proposta l’apertura di un fronte di dialogo: perché l’interazione tra la classe dirigente attuale, appartenente alla generazione dei Baby boomers, e quella futura, rappresentata dai Millennials, non può più essere ridotta a una dimensione di eterno conflitto. Non si deve più parlare di colpe, bisogna piuttosto trovare, una volta per tutte, non un capro espiatorio ma soluzioni a problemi urgenti e attuali. Compito irto di difficoltà, che non può certo essere risolto solo da un giornalista che, tuttavia, contribuisce e non poco a risolverlo parlando in modo chiaro e comprensibile.

Il libro di Beniamino Pagliaro è un racconto sul recente passato, sul presente e soprattutto sul futuro, un racconto che serve per iniziare a sconfiggere luoghi comuni e sanare abitudini malsane e radicate nella nostra cultura. Si tratta di un libro bello, da leggere e discutere. Magari anche con l’autore.

Boomers contro millennials. Sette bugie sul futuro e come iniziare a cambiare

Beniamino Pagliaro

HarperCollins, 2023

Una legge per valorizzare i musei d’impresa e legare la memoria allo sviluppo sostenibile

Una legge per valorizzare i musei d’impresa e gli archivi storici, sostenerne le attività e stimolarne la creazione di nuovi, da parte delle imprese. Ne discute il Consiglio della Regione Lombardia, dove la Commissione Attività Produttive ha già approvato il progetto e l’Aula dovrà discuterne probabilmente entro la fine di novembre. Si prevedono regole di riconoscimento e risorse finanziarie da destinare ai musei dei Marchi Storici e attività in collaborazione con fondazioni, scuole, istituzioni locali e associazioni. “La storia della Lombardia moderna e contemporanea è soprattutto una storia di industria e di progresso, nel passaggio da una società agricola e artigianale a una società basata sull’impresa. Un processo che ha avuto profonde conseguenze, con mutamenti sociali, economici e paesaggistici e che oggi possiamo documentare”, sostiene Silvia Scurati, consigliera regionale (Lega) e relatrice del progetto di legge. Musei e archivi storici d’impresa ne sono strumenti essenziali. In Lombardia ce ne sono 64, il 40% di quelli esistenti a livello nazionale. E dei 140 iscritti e sostenitori istituzionali di Museimpresa, 48 sono, appunto, lombardi.

La legge della Regione Lombardia, se approvata, potrebbe costituire un buon paradigma di riferimento anche per altri Consigli Regionali, in territori ricchi di imprese, attività industriali, servizi economicamente rilevanti. E sollecitare finalmente anche una legislazione favorevole a livello nazionale. Come sollecita da tempo, appunto, Museimpresa, insistendo per esempio sull’estensione dell’Art Bonus anche agli investimenti privati, su vantaggi fiscali, cioè, per chi apre e gestisce musei d’impresa e archivi storici, tutelando la memoria e i valori del “saper fare” italiano, che merita un migliore “far sapere”, la costruzione di un nuovo racconto dell’intraprendenza che sa costruire valore economico grazie alla leva dei valori sociali, culturali, ambientali.

E’ una spinta importante per la competitività delle nostre imprese, per il loro successo internazionale, senza cadere nelle trappole di sovranismi e protezionismi, in tempi in cui la forza del marchio affonda le sue radici anche in quella che viene definita come stakeholder economy (l’attenzione ai valori e agli interessi di dipendenti, fornitori, consumatori, comunità di riferimento sui territori). E che viene sostenuta pure dal dialogo in corso tra Museimpresa e l’Associazione dei Marchi storici.

Museimpresa, nata più di vent’anni fa per iniziativa di Assolombarda e Confindustria, riunisce  grandi imprese (Leonardo, Ferrovie dello Stato, Poste, Assicurazioni Generali, Unipol, Banca Intesa, Pirelli, Dalmine, Bracco, Campari, Fiera Milano, etc.) ma anche medie aziende di successo (le “multinazionali tascabili” attive sui mercati globali e le “grandi firme” del design) e piccole e dinamiche realtà diffuse sul territorio.

Alla base dell’impegno dell’Associazione, c’è la convinzione, oramai consolidata, che le imprese sono comunità di persone, legate da un progetto innovativo dell’imprenditore e da una condivisione di valori: creatività, amore per il lavoro bene fatto, passione per la ricerca, impegno per il cambiamento positivo, cura sincera per la sostenibilità ambientale e sociale. La cultura ideale del nuovo “umanesimo industriale”.

L’obiettivo è tutelare e soprattutto valorizzare la memoria della capacità degli italiani di “produrre cose belle che piacciono al mondo”, per usare il paradigma d’un grande storico europeo dell’economia, Carlo Maria Cipolla. Perché nel corso della nostra storia siamo stati capaci di collegare la bellezza, la qualità, la misura e l’efficienza. Fare impresa, infatti, significa essere in grado di tenere insieme dimensioni culturali diverse nella convinzione che non esista una cultura umanistica e una scientifica, ma che esista un sapere di conoscenza e un sapere di trasformazione, che sono i saperi dell’impresa.

Le aziende, le fabbriche, le società di servizi finanziari, commerciali e culturali i cui musei e archivi sono iscritti a Museimpresa, sono infatti luoghi fisici e mentali dove il passato e il futuro s’incontrano e in cui la cultura d’impresa è, come abbiamo detto, un asset fondamentale della competitività. In sintesi: l’archivio e il museo d’impresa sono memoria fertile e dunque chiave di intervento sulla contemporaneità. Strumenti per “l’avvenire della memoria”.

Il patrimonio che custodiscono è costituito da oggetti, documenti, fotografie, film, bozzetti di pubblicità, disegni tecnici, ma anche bilanci e contratti e libretti di lavoro che raccontano la dimensione sia tecnica sia soprattutto umana del lavorare, con le diverse  testimonianze dei rapporti e dei conflitti, l’evoluzione stessa dei legami tra imprenditori, dirigenti, tecnici, quadri e maestranze operaie. Un vero e proprio capitale sociale che di ogni impresa definisce storia e identità. Il ritratto mobile di una straordinaria umanità, in un orizzonte condiviso di economia circolare e civile.

Un capitale sociale da fare crescere. E conoscere, anche con un robusto dialogo a livello istituzionale. Il progetto di legge della Regione Lombardia ne è un buon esempio virtuoso.

Maturano, intanto, nuove iniziative. Come la collaborazione tra Museimpresa e Google Arts and Culture (annunciato oggi a Milano), per inserire una raccolta di oltre 2.000 immagini e video di parecchi associati nei cataloghi Google, attore protagonista delle più sofisticate tecnologie digitali e arricchire così gli strumenti di qualità, accessibili gratis da tutti e da dovunque, a disposizione di chi concepisce il turismo come un sistema di valori culturali e ambientali e apprezza la conoscenza storica nella sua dimensione più ampia.

Sostiene Museimpresa: “La partnership rappresenta un ulteriore strumento per rendere la cultura d’impresa accessibile a tutti, in qualsiasi parte del mondo, in ogni momento e con qualunque device, consentendo contemporaneamente anche la sua conservazione per le generazioni future”. Un utile contributo a una cultura d’impresa essenziale per qualificare anche i progetti di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale, di cui l’Italia ha bisogno di continuare a essere protagonista.

Una legge per valorizzare i musei d’impresa e gli archivi storici, sostenerne le attività e stimolarne la creazione di nuovi, da parte delle imprese. Ne discute il Consiglio della Regione Lombardia, dove la Commissione Attività Produttive ha già approvato il progetto e l’Aula dovrà discuterne probabilmente entro la fine di novembre. Si prevedono regole di riconoscimento e risorse finanziarie da destinare ai musei dei Marchi Storici e attività in collaborazione con fondazioni, scuole, istituzioni locali e associazioni. “La storia della Lombardia moderna e contemporanea è soprattutto una storia di industria e di progresso, nel passaggio da una società agricola e artigianale a una società basata sull’impresa. Un processo che ha avuto profonde conseguenze, con mutamenti sociali, economici e paesaggistici e che oggi possiamo documentare”, sostiene Silvia Scurati, consigliera regionale (Lega) e relatrice del progetto di legge. Musei e archivi storici d’impresa ne sono strumenti essenziali. In Lombardia ce ne sono 64, il 40% di quelli esistenti a livello nazionale. E dei 140 iscritti e sostenitori istituzionali di Museimpresa, 48 sono, appunto, lombardi.

La legge della Regione Lombardia, se approvata, potrebbe costituire un buon paradigma di riferimento anche per altri Consigli Regionali, in territori ricchi di imprese, attività industriali, servizi economicamente rilevanti. E sollecitare finalmente anche una legislazione favorevole a livello nazionale. Come sollecita da tempo, appunto, Museimpresa, insistendo per esempio sull’estensione dell’Art Bonus anche agli investimenti privati, su vantaggi fiscali, cioè, per chi apre e gestisce musei d’impresa e archivi storici, tutelando la memoria e i valori del “saper fare” italiano, che merita un migliore “far sapere”, la costruzione di un nuovo racconto dell’intraprendenza che sa costruire valore economico grazie alla leva dei valori sociali, culturali, ambientali.

E’ una spinta importante per la competitività delle nostre imprese, per il loro successo internazionale, senza cadere nelle trappole di sovranismi e protezionismi, in tempi in cui la forza del marchio affonda le sue radici anche in quella che viene definita come stakeholder economy (l’attenzione ai valori e agli interessi di dipendenti, fornitori, consumatori, comunità di riferimento sui territori). E che viene sostenuta pure dal dialogo in corso tra Museimpresa e l’Associazione dei Marchi storici.

Museimpresa, nata più di vent’anni fa per iniziativa di Assolombarda e Confindustria, riunisce  grandi imprese (Leonardo, Ferrovie dello Stato, Poste, Assicurazioni Generali, Unipol, Banca Intesa, Pirelli, Dalmine, Bracco, Campari, Fiera Milano, etc.) ma anche medie aziende di successo (le “multinazionali tascabili” attive sui mercati globali e le “grandi firme” del design) e piccole e dinamiche realtà diffuse sul territorio.

Alla base dell’impegno dell’Associazione, c’è la convinzione, oramai consolidata, che le imprese sono comunità di persone, legate da un progetto innovativo dell’imprenditore e da una condivisione di valori: creatività, amore per il lavoro bene fatto, passione per la ricerca, impegno per il cambiamento positivo, cura sincera per la sostenibilità ambientale e sociale. La cultura ideale del nuovo “umanesimo industriale”.

L’obiettivo è tutelare e soprattutto valorizzare la memoria della capacità degli italiani di “produrre cose belle che piacciono al mondo”, per usare il paradigma d’un grande storico europeo dell’economia, Carlo Maria Cipolla. Perché nel corso della nostra storia siamo stati capaci di collegare la bellezza, la qualità, la misura e l’efficienza. Fare impresa, infatti, significa essere in grado di tenere insieme dimensioni culturali diverse nella convinzione che non esista una cultura umanistica e una scientifica, ma che esista un sapere di conoscenza e un sapere di trasformazione, che sono i saperi dell’impresa.

Le aziende, le fabbriche, le società di servizi finanziari, commerciali e culturali i cui musei e archivi sono iscritti a Museimpresa, sono infatti luoghi fisici e mentali dove il passato e il futuro s’incontrano e in cui la cultura d’impresa è, come abbiamo detto, un asset fondamentale della competitività. In sintesi: l’archivio e il museo d’impresa sono memoria fertile e dunque chiave di intervento sulla contemporaneità. Strumenti per “l’avvenire della memoria”.

Il patrimonio che custodiscono è costituito da oggetti, documenti, fotografie, film, bozzetti di pubblicità, disegni tecnici, ma anche bilanci e contratti e libretti di lavoro che raccontano la dimensione sia tecnica sia soprattutto umana del lavorare, con le diverse  testimonianze dei rapporti e dei conflitti, l’evoluzione stessa dei legami tra imprenditori, dirigenti, tecnici, quadri e maestranze operaie. Un vero e proprio capitale sociale che di ogni impresa definisce storia e identità. Il ritratto mobile di una straordinaria umanità, in un orizzonte condiviso di economia circolare e civile.

Un capitale sociale da fare crescere. E conoscere, anche con un robusto dialogo a livello istituzionale. Il progetto di legge della Regione Lombardia ne è un buon esempio virtuoso.

Maturano, intanto, nuove iniziative. Come la collaborazione tra Museimpresa e Google Arts and Culture (annunciato oggi a Milano), per inserire una raccolta di oltre 2.000 immagini e video di parecchi associati nei cataloghi Google, attore protagonista delle più sofisticate tecnologie digitali e arricchire così gli strumenti di qualità, accessibili gratis da tutti e da dovunque, a disposizione di chi concepisce il turismo come un sistema di valori culturali e ambientali e apprezza la conoscenza storica nella sua dimensione più ampia.

Sostiene Museimpresa: “La partnership rappresenta un ulteriore strumento per rendere la cultura d’impresa accessibile a tutti, in qualsiasi parte del mondo, in ogni momento e con qualunque device, consentendo contemporaneamente anche la sua conservazione per le generazioni future”. Un utile contributo a una cultura d’impresa essenziale per qualificare anche i progetti di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale, di cui l’Italia ha bisogno di continuare a essere protagonista.

Pirelli in Romania,
laboratorio d’eccellenza

Produzione di alto livello e attenzione all’ambiente così come alle persone. Forte presenza sul territorio e tecnologia. Il racconto di Pirelli in Romania inizia con un impianto per la produzione di cinghie trapezoidali e continua con uno dei più importanti e moderni stabilimenti al mondo nella produzione di pneumatici. “Nuovo impianto Pirelli per la Romania”: è questo il titolo con cui l’house organ “Fatti e Notizie”, n. 5 del 1974, dà conto del progetto di creazione di una nuova sede Pirelli a Brașov, in funzione alla fine del 1975, per costituire “il nucleo della moderna industria della gomma in Romania”. Una sorta di passo precursore di quanto avverrà dopo: una più vasta operazione di espansione verso Est delle attività del gruppo.

Il 26 ottobre 2006 è invece la data storica della presenza di Pirelli in Romania. Quel giorno, infatti, viene inaugurato lo stabilimento di Slatina, la fabbrica più moderna in assoluto a livello mondiale, con la sola eccezione di quelle robotizzate MIRS, sempre di Pirelli.  La sede di Pirelli a Slatina occupa 500.000 metri quadrati ed è destinata a produrre 4,5 milioni di pneumatici ad alte prestazioni all’anno. Tutto seguendo la filosofia di Pirelli: grande efficienza ma anche grande attenzione alle persone, che saranno integrate “nel contesto e nella cultura di una delle più avanzate realtà industriali e tecnologiche del settore”. Presenza strategica quella di Pirelli in Romania, e a Slatina in particolare. Tanto che, nel 2011, alla presenza del Capo del Governo viene inaugurata l’estensione dello stabilimento. Un’ulteriore implementazione, poi, viene realizzata tra il 2013 e il 2017. Ancora “Fatti e Notizie”, nel 2013, spiega come la fabbrica occupi circa 3.500 persone, che passeranno a 4.000 nel 2017.

Ma cos’è la Romania per Pirelli? Una piattaforma produttiva e logistica ma anche un “laboratorio” dove sperimentare soluzioni produttive nuove. Basti pensare che, sul progetto dello stabilimento di Slatina, sono stati poi costruiti quelli in Messico e in Indonesia. Banco di prova di soluzioni tecnologiche nuove, quindi, Slatina è anche il cuore pulsante di Pirelli in uno dei mercati più importanti tanto che, accanto alla produzione, negli anni vengono sviluppate altre attività industriali come una piattaforma di servizi logistici, informatici e commerciali a sostegno dell’espansione verso i Paesi dell’Est. E non solo questo.

Nei primi due decenni del XXI secolo, infatti, alla presenza industriale in Romania Pirelli affianca diversi progetti di ricerca congiunti con le Università di Bucarest e di Craiova, ma anche l’impegno in numerose attività sociali e culturali. Tra queste, il progetto di diffusione della cultura italiana a Slatina, il sostegno alla collaborazione tra l’Ospedale Niguarda di Milano e quello di Slatina e un’iniziativa con l’FC Internazionale Milano: l’Inter Campus, dedicato ai bambini della città. Senza dimenticare l’ambiente: un tema affrontato sotto molteplici punti di vista. Accanto alla cura verso le ricadute ambientali dell’intero ciclo produttivo, Pirelli a Slatina condivide anche numerose iniziative rivolte alla comunità locale. È il caso di “Fii orasul reciclarii”, concorso che premia la migliore “città del riciclo” della Romania, iniziativa sostenuta anche da Pirelli che ogni anno promuove progetti di formazione dei cittadini sul tema della raccolta differenziata dei rifiuti.

Negli anni, così, la presenza di Pirelli in Romania diventa eccellenza produttiva, modello di quella cultura d’impresa e del lavoro che la P Lunga diffonde in tutto il mondo.

Produzione di alto livello e attenzione all’ambiente così come alle persone. Forte presenza sul territorio e tecnologia. Il racconto di Pirelli in Romania inizia con un impianto per la produzione di cinghie trapezoidali e continua con uno dei più importanti e moderni stabilimenti al mondo nella produzione di pneumatici. “Nuovo impianto Pirelli per la Romania”: è questo il titolo con cui l’house organ “Fatti e Notizie”, n. 5 del 1974, dà conto del progetto di creazione di una nuova sede Pirelli a Brașov, in funzione alla fine del 1975, per costituire “il nucleo della moderna industria della gomma in Romania”. Una sorta di passo precursore di quanto avverrà dopo: una più vasta operazione di espansione verso Est delle attività del gruppo.

Il 26 ottobre 2006 è invece la data storica della presenza di Pirelli in Romania. Quel giorno, infatti, viene inaugurato lo stabilimento di Slatina, la fabbrica più moderna in assoluto a livello mondiale, con la sola eccezione di quelle robotizzate MIRS, sempre di Pirelli.  La sede di Pirelli a Slatina occupa 500.000 metri quadrati ed è destinata a produrre 4,5 milioni di pneumatici ad alte prestazioni all’anno. Tutto seguendo la filosofia di Pirelli: grande efficienza ma anche grande attenzione alle persone, che saranno integrate “nel contesto e nella cultura di una delle più avanzate realtà industriali e tecnologiche del settore”. Presenza strategica quella di Pirelli in Romania, e a Slatina in particolare. Tanto che, nel 2011, alla presenza del Capo del Governo viene inaugurata l’estensione dello stabilimento. Un’ulteriore implementazione, poi, viene realizzata tra il 2013 e il 2017. Ancora “Fatti e Notizie”, nel 2013, spiega come la fabbrica occupi circa 3.500 persone, che passeranno a 4.000 nel 2017.

Ma cos’è la Romania per Pirelli? Una piattaforma produttiva e logistica ma anche un “laboratorio” dove sperimentare soluzioni produttive nuove. Basti pensare che, sul progetto dello stabilimento di Slatina, sono stati poi costruiti quelli in Messico e in Indonesia. Banco di prova di soluzioni tecnologiche nuove, quindi, Slatina è anche il cuore pulsante di Pirelli in uno dei mercati più importanti tanto che, accanto alla produzione, negli anni vengono sviluppate altre attività industriali come una piattaforma di servizi logistici, informatici e commerciali a sostegno dell’espansione verso i Paesi dell’Est. E non solo questo.

Nei primi due decenni del XXI secolo, infatti, alla presenza industriale in Romania Pirelli affianca diversi progetti di ricerca congiunti con le Università di Bucarest e di Craiova, ma anche l’impegno in numerose attività sociali e culturali. Tra queste, il progetto di diffusione della cultura italiana a Slatina, il sostegno alla collaborazione tra l’Ospedale Niguarda di Milano e quello di Slatina e un’iniziativa con l’FC Internazionale Milano: l’Inter Campus, dedicato ai bambini della città. Senza dimenticare l’ambiente: un tema affrontato sotto molteplici punti di vista. Accanto alla cura verso le ricadute ambientali dell’intero ciclo produttivo, Pirelli a Slatina condivide anche numerose iniziative rivolte alla comunità locale. È il caso di “Fii orasul reciclarii”, concorso che premia la migliore “città del riciclo” della Romania, iniziativa sostenuta anche da Pirelli che ogni anno promuove progetti di formazione dei cittadini sul tema della raccolta differenziata dei rifiuti.

Negli anni, così, la presenza di Pirelli in Romania diventa eccellenza produttiva, modello di quella cultura d’impresa e del lavoro che la P Lunga diffonde in tutto il mondo.

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Una storia del lavoro per capire meglio tutti noi

In un libro il racconto di una parte importante delle vicende del Paese dall’Unità ad oggi

 

Cultura d’impresa, cultura del lavoro, cultura del produrre a tutto tondo. A ben vedere, impresa e lavoro appaiono essere – e sono sempre state -, due facce della stessa medaglia. Visione di un futuro produttivo e capacità di raggiungerlo, ricerca del benessere e della produttività: traguardi da conquistare con un impegno che non può mai essere di una sola persona. Impresa, poi, come luogo nel quale la dialettica e confronto sono continui, spesso accesi. E’ anche attorno a questi concetti che può crescere una consapevolezza nuova del produrre. Partendo dalla storia per capire meglio il presente. Ed è per questo che è utile leggere”Storia del lavoro nell’Italia contemporanea” di Stefano Gallo (primo ricercatore del CNR e docente di storia delle immigrazioni) e Fabrizio Loreto (docente di storia del lavoro) pubblicato da poco.

L’idea alla base del libro è semplice e unisce l’impresa e il lavoro con l’evoluzione sociale del Paese: se l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro è necessario ricostruire l’evoluzione del lavoro in oltre 150 anni di storia nazionale anche pre repubblicana per comprendere davvero cosa sia questo nostro paese e come è cambiato.

Il libro racconta la progressiva riduzione del settore agricolo, i processi di industrializzazione prima e di deindustrializzazione poi e l’affermarsi di una società terziarizzata; fasi viste come tre grandi momenti economici periodizzanti di questa vicenda. Una narrazione costruita facendo “parlare” gli attori diversi che nel tempo si sono alternati alla ribalta: l’associazionismo popolare, il sindacalismo e la politica, i conflitti impresa-lavoro e le relazioni industriali, lo sviluppo del diritto del lavoro e del welfare state, così come le specificità del lavoro femminile.

Scorrendo le poco più di 400 pagine – che tra l’altro si leggono agevolmente -, si passa così dall’analisi del lavoro nella prima Italia postunitaria per arrivare ai primi decenni del Novecento e alla Grande Guerra, la narrazione affronta poi il lavoro nell’Italia fascista fino al secondo conflitto mondiale per arrivare quindi alle difficoltà del dopoguerra e poi al boom. Chiude il libro l’approfondimento delle vicende degli ultimi trent’anni di storia italiana.

Dal libro di Gallo e Loreto emerge la storia politica, economica, sociale e culturale di una Italia che è cresciuta in maniera inquieta e a diverse velocità tra campagne e fabbriche, cantieri e uffici, commerci e trasporti, grandi aziende fordiste e piccole e medie imprese, lavoro pubblico e privato. Un libro tutto da leggere e al quale ritornare.

Storia del lavoro nell’Italia contemporanea

Stefano Gallo, Fabrizio Loreto

il Mulino, 2023

In un libro il racconto di una parte importante delle vicende del Paese dall’Unità ad oggi

 

Cultura d’impresa, cultura del lavoro, cultura del produrre a tutto tondo. A ben vedere, impresa e lavoro appaiono essere – e sono sempre state -, due facce della stessa medaglia. Visione di un futuro produttivo e capacità di raggiungerlo, ricerca del benessere e della produttività: traguardi da conquistare con un impegno che non può mai essere di una sola persona. Impresa, poi, come luogo nel quale la dialettica e confronto sono continui, spesso accesi. E’ anche attorno a questi concetti che può crescere una consapevolezza nuova del produrre. Partendo dalla storia per capire meglio il presente. Ed è per questo che è utile leggere”Storia del lavoro nell’Italia contemporanea” di Stefano Gallo (primo ricercatore del CNR e docente di storia delle immigrazioni) e Fabrizio Loreto (docente di storia del lavoro) pubblicato da poco.

L’idea alla base del libro è semplice e unisce l’impresa e il lavoro con l’evoluzione sociale del Paese: se l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro è necessario ricostruire l’evoluzione del lavoro in oltre 150 anni di storia nazionale anche pre repubblicana per comprendere davvero cosa sia questo nostro paese e come è cambiato.

Il libro racconta la progressiva riduzione del settore agricolo, i processi di industrializzazione prima e di deindustrializzazione poi e l’affermarsi di una società terziarizzata; fasi viste come tre grandi momenti economici periodizzanti di questa vicenda. Una narrazione costruita facendo “parlare” gli attori diversi che nel tempo si sono alternati alla ribalta: l’associazionismo popolare, il sindacalismo e la politica, i conflitti impresa-lavoro e le relazioni industriali, lo sviluppo del diritto del lavoro e del welfare state, così come le specificità del lavoro femminile.

Scorrendo le poco più di 400 pagine – che tra l’altro si leggono agevolmente -, si passa così dall’analisi del lavoro nella prima Italia postunitaria per arrivare ai primi decenni del Novecento e alla Grande Guerra, la narrazione affronta poi il lavoro nell’Italia fascista fino al secondo conflitto mondiale per arrivare quindi alle difficoltà del dopoguerra e poi al boom. Chiude il libro l’approfondimento delle vicende degli ultimi trent’anni di storia italiana.

Dal libro di Gallo e Loreto emerge la storia politica, economica, sociale e culturale di una Italia che è cresciuta in maniera inquieta e a diverse velocità tra campagne e fabbriche, cantieri e uffici, commerci e trasporti, grandi aziende fordiste e piccole e medie imprese, lavoro pubblico e privato. Un libro tutto da leggere e al quale ritornare.

Storia del lavoro nell’Italia contemporanea

Stefano Gallo, Fabrizio Loreto

il Mulino, 2023

L’Italia al lavoro, ieri e oggi

Raccolti in volume 23 saggi su una delle manifestazioni più importanti del XX secolo sul Made in Italy

 

L’Italia che produce esempio nel mondo. Oggi come ieri, ma oggi anche sulla base dell’eredità lasciata da ieri. Qualcosa che lascia il segno. E che va studiata a fondo. E’ quanto cercano di fare 23 ricerche ospitate in “Italia al lavoro. Un lifestyle da esportazione” raccolta curata da Paola Cordera e Chiara Faggella appena pubblicata.

La serie di ricerche prende spunto dall’esposizione itinerante Italy at Work: Her Renaissance in Design Today (1950-1953) che ha contribuito, nel secondo dopoguerra, alla costruzione della retorica e alla fortuna del Made in Italy. Ventitré saggi – come si è detto -, di studiosi afferenti a sedici istituti e università italiane e straniere che costruiscono la trama di un racconto polifonico e multidisciplinare: dalla storia dell’arte e dell’architettura alle arti decorative e al design, dall’industria, alla moda e alla museologia. L’insieme di studi – attraverso la rilettura della bibliografia di riferimento e sulla base di documentazione archivistica inedita – cerca di restituire la complessità dello scenario in cui si svolse la mostra, la sua organizzazione, gli attori, gli interessi economici e politici, gli stili e i riferimenti culturali che portarono al buon esito di un’iniziativa, e ai suoi esiti successivi, che aveva l’obiettivo di presentare la ripresa dell’Italia sul palcoscenico del mondo.

La serie di ricerche, parte quindi dall’analisi dello sforzo produttivo per creare “nuovi prodotti per una clientela internazionale”, tocca quindi le attività di promozione e narrazione della capacità produttiva nazionale, passa per una serie di approfondimenti su artisti, produttori e designer italiani oltre che per il ruolo delle donne nella creatività e nella produzione per arrivare a collegare quanto accade in quegli anni con quanto accade oggi.

Italy at Work è stato, per le curatrici, un vero laboratorio per la modernità, un’officina di progetti e realizzazioni che ha portato dal concetto di italianità a quello di Made in Italy del quale ancora oggi il Paese fruisce.

L’Italia al lavoro. Un lifestyle da esportazione

Paola Cordera, Chiara Faggella (a cura di)

Bologna University Press, 2023

Raccolti in volume 23 saggi su una delle manifestazioni più importanti del XX secolo sul Made in Italy

 

L’Italia che produce esempio nel mondo. Oggi come ieri, ma oggi anche sulla base dell’eredità lasciata da ieri. Qualcosa che lascia il segno. E che va studiata a fondo. E’ quanto cercano di fare 23 ricerche ospitate in “Italia al lavoro. Un lifestyle da esportazione” raccolta curata da Paola Cordera e Chiara Faggella appena pubblicata.

La serie di ricerche prende spunto dall’esposizione itinerante Italy at Work: Her Renaissance in Design Today (1950-1953) che ha contribuito, nel secondo dopoguerra, alla costruzione della retorica e alla fortuna del Made in Italy. Ventitré saggi – come si è detto -, di studiosi afferenti a sedici istituti e università italiane e straniere che costruiscono la trama di un racconto polifonico e multidisciplinare: dalla storia dell’arte e dell’architettura alle arti decorative e al design, dall’industria, alla moda e alla museologia. L’insieme di studi – attraverso la rilettura della bibliografia di riferimento e sulla base di documentazione archivistica inedita – cerca di restituire la complessità dello scenario in cui si svolse la mostra, la sua organizzazione, gli attori, gli interessi economici e politici, gli stili e i riferimenti culturali che portarono al buon esito di un’iniziativa, e ai suoi esiti successivi, che aveva l’obiettivo di presentare la ripresa dell’Italia sul palcoscenico del mondo.

La serie di ricerche, parte quindi dall’analisi dello sforzo produttivo per creare “nuovi prodotti per una clientela internazionale”, tocca quindi le attività di promozione e narrazione della capacità produttiva nazionale, passa per una serie di approfondimenti su artisti, produttori e designer italiani oltre che per il ruolo delle donne nella creatività e nella produzione per arrivare a collegare quanto accade in quegli anni con quanto accade oggi.

Italy at Work è stato, per le curatrici, un vero laboratorio per la modernità, un’officina di progetti e realizzazioni che ha portato dal concetto di italianità a quello di Made in Italy del quale ancora oggi il Paese fruisce.

L’Italia al lavoro. Un lifestyle da esportazione

Paola Cordera, Chiara Faggella (a cura di)

Bologna University Press, 2023

Torino è Capitale della cultura d’impresa 2024 per rilanciare industria e conoscenza del futuro

La cultura fa bene alla vita e allo sviluppo delle città. Ed è quanto mai utile alle imprese, come cardine di nuova e migliore competitività. La conferma sta nell’iniziativa lanciata alcuni anni fa da Confindustria per la nomina annuale di una “Capitale della cultura d’impresa”. Nel 2024 toccherà a Torino, dopo le esperienze fatte da Genova, Alba, dal triangolo Padova-Treviso-Venezia e da Pavia. La nomina, annunciata la scorsa settimana al Forum della Piccola Industria di Confindustria a Pavia, premia un dossier che fin dal titolo, “Torino. Spazio al futuro”, indica il senso del progetto: una idea forte di valorizzazione delle attività imprenditoriali in un territorio che è stato sì cardine storico dell’industria italiana, attorno alla centralità dell’automobile ma che da tempo ha preso atto della modifica degli assetti produttivi legati ai nuovi orizzonti dell’ex Fiat, adesso Stellantis e ha deciso di puntare su altre dimensioni industriali (vedremo meglio tra poco).

L’automotive continua a essere importante, certo, ma senza più il primato produttivo e culturale (anche se è fondamentale che a Torino, oltre a un’attività di produzione, resti uno polo di ingegneria, di progettazione). Una metropoli in cambiamento, insomma. Senza nostalgie né retrogusto amaro da “amarcord”.

Il programma di Torino prevede una serie di iniziative lungo 24 percorsi, con un occhio di particolare attenzione alle nuove generazioni e con il coinvolgimento di altre città, italiane ed europee. A cominciare, in Piemonte, da Biella (la manifattura tessile di qualità) e da Ivrea, dov’era maturata un’esperienza importante nella storia dell’industria italiana, quella della Olivetti, la cui eredità economica, sociale e culturale segna ancora il dibattito italiano (la conferma più recente sta nelle pagine di “Adriano Olivetti. Un italiano del Novecento”, di Paolo Bricco, edito da Rizzoli).

C’è un’altra dimensione importante, su cui si insiste: il rapporto da rinsaldare con Milano e con Genova, per un vero e proprio rilancio del Nord Ovest industriale, come piattaforma produttiva di respiro europeo, anche in relazione con la Motor Valley emiliana e le filiere manifatturiere del Nord Est. Un disegno ambizioso di valorizzazione dell’attitudine industriale innovativa di tutto il Paese.

Giorgio Marsiaj, presidente dell’Unione Industriali torinese, sostiene che “la nostra sfida è quella di contribuire a un ridisegno della città, con l’obiettivo di individuare soluzioni sostenibili in termini ambientali, economici e sociali, con una logica inclusiva e di attenzione alle comunità locali”. Tra gli obiettivi c’è “l’attrattività, sia in termini di investimenti, sia e soprattutto verso le nuove generazioni: portare giovani talenti a Torino è la migliore soluzione per contrastare il declino demografico e nutrire il nostro sistema economico e imprenditoriale di stimoli e proposte innovative”.

A Torino, oltre alla vocazione manifatturiera, viene riconosciuta infatti una sempre più evidente “propensione all’innovazione, affrontando l’ennesimo passaggio cruciale della nostra storia: dalla monocultura automobilistica a un articolato mix di attività, dall’aerospazio all’intelligenza artificiale, dall’alimentare al turismo e allo sport”. Settori che – insiste Marsiaj – sono fonte di nuove energie, forse diverse da quelle del passato, “ma con lo stesso Dna: una solida cultura industriale unita all’amore per le cose fatte bene. Senza dimenticare quella proiezione internazionale che fa di quest’area un laboratorio della globalizzazione, in virtù della presenza di grandi multinazionali unita alla naturale predisposizione all’export delle nostre imprese”.

Nel corso delle iniziative, legate anche ad appuntamenti tradizionali, come il Salone del Libro e il Salone del Gusto, sarà evidente il confronto con tutti gli aspetti di una vera e propria “cultura politecnica”, fondata cioè sulle sintesi originali tra conoscenze scientifiche e tecnologiche e saperi umanistici, tra qualità e funzionalità, tra consapevolezza dell’importanza della memoria del “saper fare” e attitudine all’innovazione, sia di processo che di prodotto.

Il rapporto tra l’impresa e i territori di radicamento rafforza una speciale sensibilità per tutte le dimensioni della sostenibilità, ambientale e sociale. E si traduce anche in una forte tendenza alla qualità non solo delle produzioni, ma anche dei luoghi del produrre e del lavorare, della cosiddetta “fabbrica bella” e cioè ben progettata, innovativa, luminosa, accogliente, sicura e, appunto, sostenibile. Il Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese progettato da Renzo Piano, impianti high tech in uno stabilimento circondato da quattrocento alberi di ciliegio, ne è testimonianza esemplare.

Manifattura di qualità. Mani che pensano e innovano, intelligenza produttiva al servizio del miglioramento della qualità della vita in generale.

D’altronde il segno distintivo di una buona impresa sta in una strategia ampia, che lega la cultura ai processi produttivi, il racconto industriale ai prodotti e al produrre. Ricordando la lezione di Libertino Faussone, il montatore di gru protagonista de “La chiave a stella” di Primo Levi, elogio poetico della migliore meccanica, edito negli anni 70 da Einaudi, un’altra eccellenza torinese di valore europeo. E con un’attenzione continua alle relazioni tra manifattura, servizi, creatività e ricerca scientifica, tra evoluzione della tecnologia e racconto degli artisti: gli scrittori, i poeti, gli architetti, i registi e i fotografi, i più famosi illustratori pubblicitari e i designer. Una civiltà delle immagini e delle parole, delle persone e delle macchine.

Sono proprio questi, d’altronde, gli elementi che ritroviamo nei materiali degli archivi delle aziende italiane e di cui anche Torino offre testimonianze esemplari. Come conferma anche Museimpresa, l’Associazione degli Archivi e dei Musei d’Impresa, adesso forte di circa 140 iscritti e sostenitori istituzionali (dei quali 14 sono ben radicati a Torino e in Piemonte).

Alla base, c’è la convinzione, oramai consolidata, che le aziende, le fabbriche, le società di servizi finanziari, commerciali e culturali siano luoghi fisici e mentali dove il passato e il futuro s’incontrano e in cui la cultura d’impresa è un asset fondamentale della competitività.

La cultura d’impresa, infatti, è Cultura con la C maiuscola. Sollecita il superamento del tradizionale schema di una endiadi, “impresa e cultura” come dialogo tra dimensioni differenti, tra il fare e il rappresentare, il produrre e il raccontare, tra la meccanica e la filosofia o la poesia. Per insistere, invece, su una radicale modifica dell’andamento della frase, abituandosi a dire “impresa è cultura”. Fare impresa, infatti, significa fare cultura e non c’è impresa che non abbia tra i propri motori scelte culturali chiare, secondo i paradigmi di cui abbiamo parlato e di cui proprio le imprese italiane, a cominciare dalle manifatture, sono originali protagoniste.

Cultura sono, appunto, la scienza e la tecnologia, la messa a punto di nuovi materiali, l’evoluzione dei contratti di lavoro che investono fattori culturali fondamentali come i rapporti di potere e le funzioni di controllo, le dialettiche personali, i salari e il welfare aziendale. Cultura sono i linguaggi del marketing e della comunicazione. Cultura i processi di governance secondo cui si articolano i rapporti tra l’impresa, gli azionisti, i manager, i dipendenti e tutto il vasto mondo degli stakeholder. Cultura sono i bilanci, strumenti di progettazione e resa dei conti. E cultura gli scambi su mercati aperti e ben regolati.

Cultura, ancora, le scelte di sostegno mecenatistico di un’impresa ai processi creativi e artistici di chi raffigura e costruisce l’immaginario personale e sociale generale (l’esperienza di “Consulta” per la valorizzazione dei beni artistici e culturali di Torino ne è conferma essenziale).

La cultura d’impresa, insomma, è un racconto corale e polifonico, un gioco d’orchestra. In elaborazione continua.

Questa cultura d’impresa è una cultura di sintesi, tra il senso della bellezza, la téchne (il saper fare delle buone fabbriche) e la qualità dei prodotti e dei sistemi di produzione. Si confronta con la ricerca e la formazione del Politecnico e dell’Università. E testimonia come la società intraprendente innerva ancora la crescita delle fabbriche (il Lingotto ne è paradigma), delle banche e delle assicurazioni, stimola la creatività delle case editrici e degli istituti di ricerca e formazione e, nel tempo, dà vigore all’industria della comunicazione, tra cinema, radio e Tv, con attenzione d’avanguardia per le tecnologie e non solo per i contenuti.

Cultura, ancora, è la chimica del premio Nobel Giulio Natta, che innova l’industria italiana con incidenze mondiali e le esperienze sia chimiche che letterarie di Primo Levi alla Sava di Settimo Torinese (rileggere le pagine de “Il sistema periodico”, pubblicate da Einaudi nel 1975, per averne un illuminante esempio).

In primo piano, c’è anche la cultura della Olivetti di Adriano di cui abbiamo detto, segnata dalla ricerca d’avanguardia tra bellezza e qualità, design e tecnologia, valorizzazione della sapienza antica del territorio e acquisizione delle più stimolanti novità high-tech internazionali. Ma anche l’“umanesimo industriale” di Pirelli, con le avanguardie dell’applicazione della gomma. E quella di una lunga serie di altre imprese industriali e finanziarie che, appunto sulla qualità e l’estetica originale, sul rapporto con il design e l’arte contemporanea, continuano a fondare la propria capacità di successo e a dominare così le nicchie a maggior valore aggiunto sui mercati del mondo.

Le attività di Torino “Capitale della cultura d’impresa 2024” permetteranno di conoscere meglio questi elementi, rendendo così più esplicità, vivibile, contemporanea l’originale civiltà del lavoro e della creatività, che costituisce la trama fitta e varia della storia imprenditoriale torinese. E dunque, naturalmente, italiana.

(foto: Getty Images)

La cultura fa bene alla vita e allo sviluppo delle città. Ed è quanto mai utile alle imprese, come cardine di nuova e migliore competitività. La conferma sta nell’iniziativa lanciata alcuni anni fa da Confindustria per la nomina annuale di una “Capitale della cultura d’impresa”. Nel 2024 toccherà a Torino, dopo le esperienze fatte da Genova, Alba, dal triangolo Padova-Treviso-Venezia e da Pavia. La nomina, annunciata la scorsa settimana al Forum della Piccola Industria di Confindustria a Pavia, premia un dossier che fin dal titolo, “Torino. Spazio al futuro”, indica il senso del progetto: una idea forte di valorizzazione delle attività imprenditoriali in un territorio che è stato sì cardine storico dell’industria italiana, attorno alla centralità dell’automobile ma che da tempo ha preso atto della modifica degli assetti produttivi legati ai nuovi orizzonti dell’ex Fiat, adesso Stellantis e ha deciso di puntare su altre dimensioni industriali (vedremo meglio tra poco).

L’automotive continua a essere importante, certo, ma senza più il primato produttivo e culturale (anche se è fondamentale che a Torino, oltre a un’attività di produzione, resti uno polo di ingegneria, di progettazione). Una metropoli in cambiamento, insomma. Senza nostalgie né retrogusto amaro da “amarcord”.

Il programma di Torino prevede una serie di iniziative lungo 24 percorsi, con un occhio di particolare attenzione alle nuove generazioni e con il coinvolgimento di altre città, italiane ed europee. A cominciare, in Piemonte, da Biella (la manifattura tessile di qualità) e da Ivrea, dov’era maturata un’esperienza importante nella storia dell’industria italiana, quella della Olivetti, la cui eredità economica, sociale e culturale segna ancora il dibattito italiano (la conferma più recente sta nelle pagine di “Adriano Olivetti. Un italiano del Novecento”, di Paolo Bricco, edito da Rizzoli).

C’è un’altra dimensione importante, su cui si insiste: il rapporto da rinsaldare con Milano e con Genova, per un vero e proprio rilancio del Nord Ovest industriale, come piattaforma produttiva di respiro europeo, anche in relazione con la Motor Valley emiliana e le filiere manifatturiere del Nord Est. Un disegno ambizioso di valorizzazione dell’attitudine industriale innovativa di tutto il Paese.

Giorgio Marsiaj, presidente dell’Unione Industriali torinese, sostiene che “la nostra sfida è quella di contribuire a un ridisegno della città, con l’obiettivo di individuare soluzioni sostenibili in termini ambientali, economici e sociali, con una logica inclusiva e di attenzione alle comunità locali”. Tra gli obiettivi c’è “l’attrattività, sia in termini di investimenti, sia e soprattutto verso le nuove generazioni: portare giovani talenti a Torino è la migliore soluzione per contrastare il declino demografico e nutrire il nostro sistema economico e imprenditoriale di stimoli e proposte innovative”.

A Torino, oltre alla vocazione manifatturiera, viene riconosciuta infatti una sempre più evidente “propensione all’innovazione, affrontando l’ennesimo passaggio cruciale della nostra storia: dalla monocultura automobilistica a un articolato mix di attività, dall’aerospazio all’intelligenza artificiale, dall’alimentare al turismo e allo sport”. Settori che – insiste Marsiaj – sono fonte di nuove energie, forse diverse da quelle del passato, “ma con lo stesso Dna: una solida cultura industriale unita all’amore per le cose fatte bene. Senza dimenticare quella proiezione internazionale che fa di quest’area un laboratorio della globalizzazione, in virtù della presenza di grandi multinazionali unita alla naturale predisposizione all’export delle nostre imprese”.

Nel corso delle iniziative, legate anche ad appuntamenti tradizionali, come il Salone del Libro e il Salone del Gusto, sarà evidente il confronto con tutti gli aspetti di una vera e propria “cultura politecnica”, fondata cioè sulle sintesi originali tra conoscenze scientifiche e tecnologiche e saperi umanistici, tra qualità e funzionalità, tra consapevolezza dell’importanza della memoria del “saper fare” e attitudine all’innovazione, sia di processo che di prodotto.

Il rapporto tra l’impresa e i territori di radicamento rafforza una speciale sensibilità per tutte le dimensioni della sostenibilità, ambientale e sociale. E si traduce anche in una forte tendenza alla qualità non solo delle produzioni, ma anche dei luoghi del produrre e del lavorare, della cosiddetta “fabbrica bella” e cioè ben progettata, innovativa, luminosa, accogliente, sicura e, appunto, sostenibile. Il Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese progettato da Renzo Piano, impianti high tech in uno stabilimento circondato da quattrocento alberi di ciliegio, ne è testimonianza esemplare.

Manifattura di qualità. Mani che pensano e innovano, intelligenza produttiva al servizio del miglioramento della qualità della vita in generale.

D’altronde il segno distintivo di una buona impresa sta in una strategia ampia, che lega la cultura ai processi produttivi, il racconto industriale ai prodotti e al produrre. Ricordando la lezione di Libertino Faussone, il montatore di gru protagonista de “La chiave a stella” di Primo Levi, elogio poetico della migliore meccanica, edito negli anni 70 da Einaudi, un’altra eccellenza torinese di valore europeo. E con un’attenzione continua alle relazioni tra manifattura, servizi, creatività e ricerca scientifica, tra evoluzione della tecnologia e racconto degli artisti: gli scrittori, i poeti, gli architetti, i registi e i fotografi, i più famosi illustratori pubblicitari e i designer. Una civiltà delle immagini e delle parole, delle persone e delle macchine.

Sono proprio questi, d’altronde, gli elementi che ritroviamo nei materiali degli archivi delle aziende italiane e di cui anche Torino offre testimonianze esemplari. Come conferma anche Museimpresa, l’Associazione degli Archivi e dei Musei d’Impresa, adesso forte di circa 140 iscritti e sostenitori istituzionali (dei quali 14 sono ben radicati a Torino e in Piemonte).

Alla base, c’è la convinzione, oramai consolidata, che le aziende, le fabbriche, le società di servizi finanziari, commerciali e culturali siano luoghi fisici e mentali dove il passato e il futuro s’incontrano e in cui la cultura d’impresa è un asset fondamentale della competitività.

La cultura d’impresa, infatti, è Cultura con la C maiuscola. Sollecita il superamento del tradizionale schema di una endiadi, “impresa e cultura” come dialogo tra dimensioni differenti, tra il fare e il rappresentare, il produrre e il raccontare, tra la meccanica e la filosofia o la poesia. Per insistere, invece, su una radicale modifica dell’andamento della frase, abituandosi a dire “impresa è cultura”. Fare impresa, infatti, significa fare cultura e non c’è impresa che non abbia tra i propri motori scelte culturali chiare, secondo i paradigmi di cui abbiamo parlato e di cui proprio le imprese italiane, a cominciare dalle manifatture, sono originali protagoniste.

Cultura sono, appunto, la scienza e la tecnologia, la messa a punto di nuovi materiali, l’evoluzione dei contratti di lavoro che investono fattori culturali fondamentali come i rapporti di potere e le funzioni di controllo, le dialettiche personali, i salari e il welfare aziendale. Cultura sono i linguaggi del marketing e della comunicazione. Cultura i processi di governance secondo cui si articolano i rapporti tra l’impresa, gli azionisti, i manager, i dipendenti e tutto il vasto mondo degli stakeholder. Cultura sono i bilanci, strumenti di progettazione e resa dei conti. E cultura gli scambi su mercati aperti e ben regolati.

Cultura, ancora, le scelte di sostegno mecenatistico di un’impresa ai processi creativi e artistici di chi raffigura e costruisce l’immaginario personale e sociale generale (l’esperienza di “Consulta” per la valorizzazione dei beni artistici e culturali di Torino ne è conferma essenziale).

La cultura d’impresa, insomma, è un racconto corale e polifonico, un gioco d’orchestra. In elaborazione continua.

Questa cultura d’impresa è una cultura di sintesi, tra il senso della bellezza, la téchne (il saper fare delle buone fabbriche) e la qualità dei prodotti e dei sistemi di produzione. Si confronta con la ricerca e la formazione del Politecnico e dell’Università. E testimonia come la società intraprendente innerva ancora la crescita delle fabbriche (il Lingotto ne è paradigma), delle banche e delle assicurazioni, stimola la creatività delle case editrici e degli istituti di ricerca e formazione e, nel tempo, dà vigore all’industria della comunicazione, tra cinema, radio e Tv, con attenzione d’avanguardia per le tecnologie e non solo per i contenuti.

Cultura, ancora, è la chimica del premio Nobel Giulio Natta, che innova l’industria italiana con incidenze mondiali e le esperienze sia chimiche che letterarie di Primo Levi alla Sava di Settimo Torinese (rileggere le pagine de “Il sistema periodico”, pubblicate da Einaudi nel 1975, per averne un illuminante esempio).

In primo piano, c’è anche la cultura della Olivetti di Adriano di cui abbiamo detto, segnata dalla ricerca d’avanguardia tra bellezza e qualità, design e tecnologia, valorizzazione della sapienza antica del territorio e acquisizione delle più stimolanti novità high-tech internazionali. Ma anche l’“umanesimo industriale” di Pirelli, con le avanguardie dell’applicazione della gomma. E quella di una lunga serie di altre imprese industriali e finanziarie che, appunto sulla qualità e l’estetica originale, sul rapporto con il design e l’arte contemporanea, continuano a fondare la propria capacità di successo e a dominare così le nicchie a maggior valore aggiunto sui mercati del mondo.

Le attività di Torino “Capitale della cultura d’impresa 2024” permetteranno di conoscere meglio questi elementi, rendendo così più esplicità, vivibile, contemporanea l’originale civiltà del lavoro e della creatività, che costituisce la trama fitta e varia della storia imprenditoriale torinese. E dunque, naturalmente, italiana.

(foto: Getty Images)

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