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Migliora il giudizio internazionale sulle università italiane e la “cultura politecnica” rafforza economia e vita civile

Le migliori università italiane crescono nelle classifiche internazionali, per la didattica, la ricerca, i master. E confermano come, nella stagione dell’economia della conoscenza, così densa di cambiamenti radicali, la cultura e l’istruzione del nostro Paese possano essere leve formidabili di sviluppo, di inclusione sociale, di rafforzamento della coscienza civile e, naturalmente, anche di competitività.
L’ultima notizia di grande rilievo viene dalla classifica del “Financial Times” sui cento migliori master in management al mondo nel ‘23. Al primo posto c’è Hec Paris, seguita dalla svizzera University of St. Gallen e dalla London Business School. All’ottavo posto, ecco la Sda Bocconi, che migliora parecchie posizioni rispetto al ‘22 (era ventesima) ed è alla pari con la spagnola Esade. E la seconda delle italiane, in questo elenco dei “Top 100 Masters in Management programs” è la Luiss di Roma, con uno straordinario balzo in avanti che la porta al 30° posto, migliorando moltissimo i ranking precedenti (era 53° nel ‘22 e 90° nel ‘19). La terza delle italiane in classifica è la Scuola di Management del Politecnico di Milano, al 70° posto (anche qui con un miglioramento rispetto all’anno precedente, di sette posizioni).

In altre classifiche internazionali, posizioni di prestigio sono occupate dalla Sapienza di Roma (prima delle italiane nell’ “Academic Ranking of World Universities” della Shanghai Ranking Consultancy: ai primi tre posti ci sono Harvard, Stanford e Mit di Boston, l’università romana è tra le prime 150, seguita a distanza dalle università di Milano, Padova, Pisa, Bologna e e Federico II di Napoli), dalla Cattolica e dalla Bicocca di Milano, dal Politecnico di Torino, etc. Secondo QS World Ranking, invece, la prima delle italiane è il Politecnico di Milano (123° posto al mondo, con un miglioramento di 16 posizioni), seguita dalla Sapienza.
Fermiamoci un momento alla scalata più evidente nel ranking del “Financial Times”, quello della Luiss (l’università di Confindustria): “Ci siamo distinti non solo per il miglioramento della didattica e della ricerca, ma anche nei parametri che riguardano l’internazionalizzazione, l’innovazione, l’interdisciplinarità, il supporto alle carriere degli alunni e l’attenzione alla sostenibilità”, sostiene il Rettore Andrea Prencipe. Aggiungendo che il 96% dei laureati trova un posto di lavoro entro un anno dal conseguimento del titolo universitario.

Ecco il punto su cui riflettere: il sistema universitario rafforza il suo peso nella formazione del capitale sociale e culturale italiano. Restano evidenti, naturalmente, tutte le criticità ben note, dagli insufficienti investimenti pubblici nell’istruzione (il 4,1% del Pil, contro il 4,8% della media Ue) alle carenze di fondi per la ricerca (appena l’1,5% del Pil, metà dei quali stanziati da privati, mentre la Germania investe il triplo e le indicazioni Ue parlano di oltre il 2%), dall’edilizia (comprese le gravi carenze degli alloggi per gli studenti) alle dotazioni tecniche-scientifiche dei centri di ricerca, dal provincialismo di alcune sedi al clientelismo di vecchi e nuovi baronati (per averne idea, con un sapido romanzo, vale la pena leggere “La ricreazione è finita” di Dario Ferrari, edito da Sellerio, una delle migliori opere di questa stagione letteraria). Ma, nonostante tutto, la nostra università migliora. E può avere un ruolo sempre più determinante sullo sviluppo, nella stagione in cui la cosiddetta twin transition, ambientale e digitale, chiede nuove conoscenze e migliori competenze non solo per tutti i processi economici e produttivi, ma anche per la vivibilità delle città, per la salute, per la stessa qualità della convivenza civile e politica. Ben sapendo che c’è un nesso molto stretto tra conoscenza e libertà, formazione critica e cittadinanza responsabile, economia di mercato, welfare e democrazia. Sapere, insomma, non vuol dire solo benessere, ma anche e soprattutto libertà.
Fermandoci sul terreno economico, sappiamo bene che l’impetuosa ripresa economica post Covid, la migliore nell’area europea, è fondata appunto sulle relazioni positive tra università e imprese in chiave di innovazione, trasferimento tecnologico, conquiste di nuovi spazi nelle nicchie a maggior valore aggiunto dei mercati internazionali.

Abbiamo, come sistema Italia, un punto di forza su cui fare leva: la straordinaria capacità di sintesi tra le conoscenze umanistiche e quelle scientifiche, tra il senso della bellezza e l’originale flessibilità nell’impiego delle nuove tecnologie, tra la consapevolezza storica critica delle nostre radici e un sofisticato gusto per l’invenzione del futuro. Tra la creatività e il rigore dei metodi e contenuti. E’ la “cultura politecnica”, il nostro nuovo “umanesimo” negli anni Duemila, che decliniamo in “umanesimo digitale” o, pensando alla qualità competitiva delle nostre manifatture d’eccellenza, in “umanesimo industriale”. E che oggi può aiutarci a dare un contributo fondamentale all’umanizzazione dei processi determinati dall’espansione dell’Intelligenza Artificiale.

Competenze multidisciplinari e integrate. Formazione culturale che supera il tradizionale schematismo delle “due culture” e guarda a un insieme dialettico di saperi che rinnova e ripropone lo spirito di quella straordinaria stagione della storia che è stato il Rinascimento, così ricco di artisti-scienziati il cui insegnamento ha ancora sapore di attualità
L’apprezzamento dei manager italiani, forti d’una formazione multidisciplinare, sui mercati del lavoro globali conferma la rilevanza di questa tendenza.
Le indicazioni del Pnrr, da attuare presto e bene, guardano proprio all’istruzione come cardine di ulteriore sviluppo, non solo in termini di Pil ma soprattutto, in termini di Bes, l’indice che misura il “benessere equo e sostenibile”.
Abbiamo, è vero, pochi laureati, circa 200mila all’anno, appena il 20% della popolazione tra i 25 e i 64 anni, rispetto a più del 40% in Francia e Spagna, al 31% in Germania e al 33,4% della media Ue. E in una condizione di vero e proprio “inverno demografico” (nel ‘22 sono nati appena 392mila bambini e l’indice di fertilità è tra i più bassi al mondo), è facile prevedere che nell’arco dei prossimi vent’anni avremo un vero e proprio crollo nelle frequentazioni scolastiche e nelle lauree. Anche perché, già adesso, un gran numero di giovani laureati abbandona l’Italia in cerca di migliori condizioni di vita e di lavoro (i loro stipendi sono tra i più bassi rispetto ai competitor internazionali). I dati ISTAT documentano che nel ‘21 il 40% dei giovani emigrati aveva una laurea e comunque, dal 2012 al 2022, sono stati 337mila i laureati che hanno lasciato il nostro paese.

E’ un fenomeno grave, che incide sullo sviluppo economico, ma anche sulla tenuta del tessuto sociale e politico. Un fenomeno da affrontare e correggere.
Come? Al di là delle indispensabili scelte demografiche di lungo periodo, proprio guardando alle università si possono ricavare alcune indicazioni.
La stragrande maggioranza degli studenti dei nostri studenti sono italiani. E le università competono per attrarre a sé i migliori. Ma è una competizione su un piccolo mercato interno, peraltro sempre più asfittico, non solo a causa della decrescita demografica, ma anche per l’aumento del numero dei ragazzi che scelgono di andare a fare l’università all’estero (molti di quelli che si laureano qui, come abbiamo appena visto, poi vanno via).
Vale la pena, allora, fare leva proprio sul miglioramento di qualità delle nostre università e dei nostri master, di cui abbiamo parlato, per allargare il mercato di riferimento. All’area del Mediterraneo, innanzitutto. E a tutti quei paesi (l’Africa può essere considerata in primo piano) che possono mandare le loro ragazze e i loro ragazzi a studiare da noi. La nostra “cultura politecnica” e il “genio italiano” creativo, adattativo, flessibile, sono dimensioni specifiche su cui puntare.
Corsi di respiro internazionale, dunque. Tenuti in lingue internazionali. Con una robusta modernizzazione di didattica, ricerca, infrastrutture. E con uno sguardo accogliente aperto al mondo, com’è d’altronde abitudine delle accoglienti culture mediterranee.

Ponti, non muri. Dialoghi critici e inclusivi. Attenzione culturale. E cura per un’identità non radicata in pregiudizi razziali e culturali, ma forte delle capacità di confronto. Come la nostra stessa storia culturale e civile insegna.
Anche grazie a questo spirito, i nostri ranking internazionali sull’università possono continuare a migliorare e dare all’Italia quella centralità, tra Europa e Mediterraneo, su cui costruire il nostro migliore futuro.

(foto Getty Images)

Le migliori università italiane crescono nelle classifiche internazionali, per la didattica, la ricerca, i master. E confermano come, nella stagione dell’economia della conoscenza, così densa di cambiamenti radicali, la cultura e l’istruzione del nostro Paese possano essere leve formidabili di sviluppo, di inclusione sociale, di rafforzamento della coscienza civile e, naturalmente, anche di competitività.
L’ultima notizia di grande rilievo viene dalla classifica del “Financial Times” sui cento migliori master in management al mondo nel ‘23. Al primo posto c’è Hec Paris, seguita dalla svizzera University of St. Gallen e dalla London Business School. All’ottavo posto, ecco la Sda Bocconi, che migliora parecchie posizioni rispetto al ‘22 (era ventesima) ed è alla pari con la spagnola Esade. E la seconda delle italiane, in questo elenco dei “Top 100 Masters in Management programs” è la Luiss di Roma, con uno straordinario balzo in avanti che la porta al 30° posto, migliorando moltissimo i ranking precedenti (era 53° nel ‘22 e 90° nel ‘19). La terza delle italiane in classifica è la Scuola di Management del Politecnico di Milano, al 70° posto (anche qui con un miglioramento rispetto all’anno precedente, di sette posizioni).

In altre classifiche internazionali, posizioni di prestigio sono occupate dalla Sapienza di Roma (prima delle italiane nell’ “Academic Ranking of World Universities” della Shanghai Ranking Consultancy: ai primi tre posti ci sono Harvard, Stanford e Mit di Boston, l’università romana è tra le prime 150, seguita a distanza dalle università di Milano, Padova, Pisa, Bologna e e Federico II di Napoli), dalla Cattolica e dalla Bicocca di Milano, dal Politecnico di Torino, etc. Secondo QS World Ranking, invece, la prima delle italiane è il Politecnico di Milano (123° posto al mondo, con un miglioramento di 16 posizioni), seguita dalla Sapienza.
Fermiamoci un momento alla scalata più evidente nel ranking del “Financial Times”, quello della Luiss (l’università di Confindustria): “Ci siamo distinti non solo per il miglioramento della didattica e della ricerca, ma anche nei parametri che riguardano l’internazionalizzazione, l’innovazione, l’interdisciplinarità, il supporto alle carriere degli alunni e l’attenzione alla sostenibilità”, sostiene il Rettore Andrea Prencipe. Aggiungendo che il 96% dei laureati trova un posto di lavoro entro un anno dal conseguimento del titolo universitario.

Ecco il punto su cui riflettere: il sistema universitario rafforza il suo peso nella formazione del capitale sociale e culturale italiano. Restano evidenti, naturalmente, tutte le criticità ben note, dagli insufficienti investimenti pubblici nell’istruzione (il 4,1% del Pil, contro il 4,8% della media Ue) alle carenze di fondi per la ricerca (appena l’1,5% del Pil, metà dei quali stanziati da privati, mentre la Germania investe il triplo e le indicazioni Ue parlano di oltre il 2%), dall’edilizia (comprese le gravi carenze degli alloggi per gli studenti) alle dotazioni tecniche-scientifiche dei centri di ricerca, dal provincialismo di alcune sedi al clientelismo di vecchi e nuovi baronati (per averne idea, con un sapido romanzo, vale la pena leggere “La ricreazione è finita” di Dario Ferrari, edito da Sellerio, una delle migliori opere di questa stagione letteraria). Ma, nonostante tutto, la nostra università migliora. E può avere un ruolo sempre più determinante sullo sviluppo, nella stagione in cui la cosiddetta twin transition, ambientale e digitale, chiede nuove conoscenze e migliori competenze non solo per tutti i processi economici e produttivi, ma anche per la vivibilità delle città, per la salute, per la stessa qualità della convivenza civile e politica. Ben sapendo che c’è un nesso molto stretto tra conoscenza e libertà, formazione critica e cittadinanza responsabile, economia di mercato, welfare e democrazia. Sapere, insomma, non vuol dire solo benessere, ma anche e soprattutto libertà.
Fermandoci sul terreno economico, sappiamo bene che l’impetuosa ripresa economica post Covid, la migliore nell’area europea, è fondata appunto sulle relazioni positive tra università e imprese in chiave di innovazione, trasferimento tecnologico, conquiste di nuovi spazi nelle nicchie a maggior valore aggiunto dei mercati internazionali.

Abbiamo, come sistema Italia, un punto di forza su cui fare leva: la straordinaria capacità di sintesi tra le conoscenze umanistiche e quelle scientifiche, tra il senso della bellezza e l’originale flessibilità nell’impiego delle nuove tecnologie, tra la consapevolezza storica critica delle nostre radici e un sofisticato gusto per l’invenzione del futuro. Tra la creatività e il rigore dei metodi e contenuti. E’ la “cultura politecnica”, il nostro nuovo “umanesimo” negli anni Duemila, che decliniamo in “umanesimo digitale” o, pensando alla qualità competitiva delle nostre manifatture d’eccellenza, in “umanesimo industriale”. E che oggi può aiutarci a dare un contributo fondamentale all’umanizzazione dei processi determinati dall’espansione dell’Intelligenza Artificiale.

Competenze multidisciplinari e integrate. Formazione culturale che supera il tradizionale schematismo delle “due culture” e guarda a un insieme dialettico di saperi che rinnova e ripropone lo spirito di quella straordinaria stagione della storia che è stato il Rinascimento, così ricco di artisti-scienziati il cui insegnamento ha ancora sapore di attualità
L’apprezzamento dei manager italiani, forti d’una formazione multidisciplinare, sui mercati del lavoro globali conferma la rilevanza di questa tendenza.
Le indicazioni del Pnrr, da attuare presto e bene, guardano proprio all’istruzione come cardine di ulteriore sviluppo, non solo in termini di Pil ma soprattutto, in termini di Bes, l’indice che misura il “benessere equo e sostenibile”.
Abbiamo, è vero, pochi laureati, circa 200mila all’anno, appena il 20% della popolazione tra i 25 e i 64 anni, rispetto a più del 40% in Francia e Spagna, al 31% in Germania e al 33,4% della media Ue. E in una condizione di vero e proprio “inverno demografico” (nel ‘22 sono nati appena 392mila bambini e l’indice di fertilità è tra i più bassi al mondo), è facile prevedere che nell’arco dei prossimi vent’anni avremo un vero e proprio crollo nelle frequentazioni scolastiche e nelle lauree. Anche perché, già adesso, un gran numero di giovani laureati abbandona l’Italia in cerca di migliori condizioni di vita e di lavoro (i loro stipendi sono tra i più bassi rispetto ai competitor internazionali). I dati ISTAT documentano che nel ‘21 il 40% dei giovani emigrati aveva una laurea e comunque, dal 2012 al 2022, sono stati 337mila i laureati che hanno lasciato il nostro paese.

E’ un fenomeno grave, che incide sullo sviluppo economico, ma anche sulla tenuta del tessuto sociale e politico. Un fenomeno da affrontare e correggere.
Come? Al di là delle indispensabili scelte demografiche di lungo periodo, proprio guardando alle università si possono ricavare alcune indicazioni.
La stragrande maggioranza degli studenti dei nostri studenti sono italiani. E le università competono per attrarre a sé i migliori. Ma è una competizione su un piccolo mercato interno, peraltro sempre più asfittico, non solo a causa della decrescita demografica, ma anche per l’aumento del numero dei ragazzi che scelgono di andare a fare l’università all’estero (molti di quelli che si laureano qui, come abbiamo appena visto, poi vanno via).
Vale la pena, allora, fare leva proprio sul miglioramento di qualità delle nostre università e dei nostri master, di cui abbiamo parlato, per allargare il mercato di riferimento. All’area del Mediterraneo, innanzitutto. E a tutti quei paesi (l’Africa può essere considerata in primo piano) che possono mandare le loro ragazze e i loro ragazzi a studiare da noi. La nostra “cultura politecnica” e il “genio italiano” creativo, adattativo, flessibile, sono dimensioni specifiche su cui puntare.
Corsi di respiro internazionale, dunque. Tenuti in lingue internazionali. Con una robusta modernizzazione di didattica, ricerca, infrastrutture. E con uno sguardo accogliente aperto al mondo, com’è d’altronde abitudine delle accoglienti culture mediterranee.

Ponti, non muri. Dialoghi critici e inclusivi. Attenzione culturale. E cura per un’identità non radicata in pregiudizi razziali e culturali, ma forte delle capacità di confronto. Come la nostra stessa storia culturale e civile insegna.
Anche grazie a questo spirito, i nostri ranking internazionali sull’università possono continuare a migliorare e dare all’Italia quella centralità, tra Europa e Mediterraneo, su cui costruire il nostro migliore futuro.

(foto Getty Images)

Sostenibili e competitivi

L’approfondimento delle relazioni tra attenzione all’ambiente e alle persone ed efficienza della produzione in una ricerca appena pubblicata

Essere “sostenibili” per essere più competitivi. Affermazione ormai quasi scontata, eppure, in molte situazioni aziendali, da mettere ancora in pratica per davvero. È anche un problema di informazione e cultura, che necessita di più di un approfondimento. Da questo punto di vista, è però utile leggere “La sostenibilità come valore aggiunto aziendale” contributo di Chiara Prisco apparso recentemente.

L’indagine di Prisco riguarda gli aspetti che fanno della sostenibilità un elemento di valore aggiunto e di competitività per l’impresa. Il cuore del ragionamento è di fatto uno solo: condurre chi legge lungo un percorso importante dalle definizioni alla consapevolezza che proprio l’essere “sostenibili” porta ad accrescere il valore dell’impresa, la sua efficienza e e competitività.

Prisco parte, come si è detto, dalle definizioni per passare poi a considerare la finanza (e quindi la possibilità di investire) come “motore della transizione sostenibile”. Per avvalorare il ragionamento, l’autrice fa una serie di esempi: quello di Banca Etica, del portale Infinityhub dedicato all’energia e delle società ESCo ma più in generale quelli delle cosiddette imprese ibride.

Tecnologia e organizzazione, dunque, stanno alla base della sostenibilità d’impresa come elemento competitivo della stessa, ma anche finanza e cultura del produrre con attenzione non solo all’ambiente ma anche alle persone. È un ragionamento complesso quello che Prisco conduce, che prova tenere insieme istanze produttive, paradigmi organizzativi e suggestioni ambientali e sociali. Scrivendo del grande periodo storico, economico e sociale nel quale viviamo – l’Antropocene -, Chiara Prisco precisa: “È fondamentale tenere presente che il termine non fa riferimento solamente all’impatto sull’ambiente, ma anche alle modificazioni e alle alterazioni dei rapporti e alle interazioni tra le persone, prodotte dalla crescente industrializzazione”.

La sostenibilità come valore aggiunto aziendale

Chiara Prisco, Academy Infinityhub

in “Persone, Energie, Futuro. Infinityhub: la guida interstellare per una nuova dimensione dell’energia”, a cura di Massimiliano Braghin, I libri di Ca’ Foscari 22, 2023

L’approfondimento delle relazioni tra attenzione all’ambiente e alle persone ed efficienza della produzione in una ricerca appena pubblicata

Essere “sostenibili” per essere più competitivi. Affermazione ormai quasi scontata, eppure, in molte situazioni aziendali, da mettere ancora in pratica per davvero. È anche un problema di informazione e cultura, che necessita di più di un approfondimento. Da questo punto di vista, è però utile leggere “La sostenibilità come valore aggiunto aziendale” contributo di Chiara Prisco apparso recentemente.

L’indagine di Prisco riguarda gli aspetti che fanno della sostenibilità un elemento di valore aggiunto e di competitività per l’impresa. Il cuore del ragionamento è di fatto uno solo: condurre chi legge lungo un percorso importante dalle definizioni alla consapevolezza che proprio l’essere “sostenibili” porta ad accrescere il valore dell’impresa, la sua efficienza e e competitività.

Prisco parte, come si è detto, dalle definizioni per passare poi a considerare la finanza (e quindi la possibilità di investire) come “motore della transizione sostenibile”. Per avvalorare il ragionamento, l’autrice fa una serie di esempi: quello di Banca Etica, del portale Infinityhub dedicato all’energia e delle società ESCo ma più in generale quelli delle cosiddette imprese ibride.

Tecnologia e organizzazione, dunque, stanno alla base della sostenibilità d’impresa come elemento competitivo della stessa, ma anche finanza e cultura del produrre con attenzione non solo all’ambiente ma anche alle persone. È un ragionamento complesso quello che Prisco conduce, che prova tenere insieme istanze produttive, paradigmi organizzativi e suggestioni ambientali e sociali. Scrivendo del grande periodo storico, economico e sociale nel quale viviamo – l’Antropocene -, Chiara Prisco precisa: “È fondamentale tenere presente che il termine non fa riferimento solamente all’impatto sull’ambiente, ma anche alle modificazioni e alle alterazioni dei rapporti e alle interazioni tra le persone, prodotte dalla crescente industrializzazione”.

La sostenibilità come valore aggiunto aziendale

Chiara Prisco, Academy Infinityhub

in “Persone, Energie, Futuro. Infinityhub: la guida interstellare per una nuova dimensione dell’energia”, a cura di Massimiliano Braghin, I libri di Ca’ Foscari 22, 2023

Fondazione Pirelli e il mondo delle corse al Festival dell’Innovazione e della Scienza

Giovedì 12 ottobre, ore 11 – Biblioteca Archimede, Settimo Torinese

Dopo il traguardo della X edizione nel 2022, torna anche quest’anno il Festival dell’Innovazione e della Scienza, organizzato dal Comune di Settimo Torinese in collaborazione con la Fondazione ECM e aperto alle scuole di ogni ordine e grado del territorio con l’obiettivo di fare divulgazione scientifica in modo semplice e coinvolgente. La città, da anni impegnata a promuovere l’innovazione e la sostenibilità e legata a Pirelli per la presenza del Polo Industriale più tecnologicamente avanzato del Gruppo, ospiterà dall’8 al 15 ottobre 2023 un ricco programma di workshop, laboratori, conferenze, mostre, visite guidate e spettacoli teatrali pensati per aiutare i giovani a comprendere il mondo che li circonda e ad affrontare le sfide del futuro.
L’XI edizione della manifestazione, anche quest’anno supportata da Pirelli, è dedicata al tema del linguaggio nelle sue molteplici declinazioni: dai social media alle nuove tecnologie, dall’intelligenza artificiale alle neuroscienze, passando per arte, musica, sport e molto altro.

Nell’ambito dell’impegno a favore della ricerca e della didattica, Fondazione Pirelli parteciperà giovedì 12 ottobre 2023 alle ore 11 con un incontro dedicato alle scuole di II grado dal titolo “Il mondo delle corse dalla A alla Z. Si ripercorreranno 150 anni di passione, innovazione, successi e gioco di squadra durante i quali Pirelli ha messo alla prova i suoi pneumatici sulle piste più complesse per sviluppare nuove tecnologie e prodotti all’avanguardia, sostenibili e sicuri. Saranno le parole, tra nuovi termini tecnici e vocaboli antichi, a guidare in un percorso alla scoperta delle più appassionanti gare su strada e circuito e, grazie a quiz e alla visione di fotografie e video custoditi nell’Archivio Storico aziendale, a conoscere aneddoti e curiosità dei pneumatici più performanti: dagli Pneus Pirelli per il raid internazionale da Pechino a Parigi del 1907 alle prime “derapate” dei rally, dal Cinturato Extraordinario di Juan Emanuel Fangio ai grip e alle mescole dei nuovi pneumatici di Formula 1.
Per prenotare clicca qui.

La partecipazione al festival si inserisce all’interno dell’offerta di Fondazione Pirelli Educational che dal 2013 propone percorsi volti a promuovere anche tra i più giovani l’importanza della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico, valori su cui si basa la cultura d’impresa di Pirelli fin dalla sua costituzione. Per saperne di più sul programma didattico 2023/2024 clicca qui.

Con l’intervento del Senior Vice President Cultura e Direttore della Fondazione Pirelli, Antonio Calabrò, Pirelli sarà inoltre presente sabato 14 ottobre alla conferenza dal titolo “La fabbrica ‘intelligente’ quanto sarà davvero ‘artificiale’?”, una riflessione sulla connessione tra i linguaggi della scienza, quelli della produzione e le nuove frontiere aperte dall’Intelligenza Artificiale e le possibili conseguenze sul lavoro, sul mondo delle fabbriche, sulla formazione, sulla conoscenza.

Per maggiori informazioni e per consultare il programma completo della manifestazione visita il sito www.festivaldellinnovazione.settimo-torinese.it

Giovedì 12 ottobre, ore 11 – Biblioteca Archimede, Settimo Torinese

Dopo il traguardo della X edizione nel 2022, torna anche quest’anno il Festival dell’Innovazione e della Scienza, organizzato dal Comune di Settimo Torinese in collaborazione con la Fondazione ECM e aperto alle scuole di ogni ordine e grado del territorio con l’obiettivo di fare divulgazione scientifica in modo semplice e coinvolgente. La città, da anni impegnata a promuovere l’innovazione e la sostenibilità e legata a Pirelli per la presenza del Polo Industriale più tecnologicamente avanzato del Gruppo, ospiterà dall’8 al 15 ottobre 2023 un ricco programma di workshop, laboratori, conferenze, mostre, visite guidate e spettacoli teatrali pensati per aiutare i giovani a comprendere il mondo che li circonda e ad affrontare le sfide del futuro.
L’XI edizione della manifestazione, anche quest’anno supportata da Pirelli, è dedicata al tema del linguaggio nelle sue molteplici declinazioni: dai social media alle nuove tecnologie, dall’intelligenza artificiale alle neuroscienze, passando per arte, musica, sport e molto altro.

Nell’ambito dell’impegno a favore della ricerca e della didattica, Fondazione Pirelli parteciperà giovedì 12 ottobre 2023 alle ore 11 con un incontro dedicato alle scuole di II grado dal titolo “Il mondo delle corse dalla A alla Z. Si ripercorreranno 150 anni di passione, innovazione, successi e gioco di squadra durante i quali Pirelli ha messo alla prova i suoi pneumatici sulle piste più complesse per sviluppare nuove tecnologie e prodotti all’avanguardia, sostenibili e sicuri. Saranno le parole, tra nuovi termini tecnici e vocaboli antichi, a guidare in un percorso alla scoperta delle più appassionanti gare su strada e circuito e, grazie a quiz e alla visione di fotografie e video custoditi nell’Archivio Storico aziendale, a conoscere aneddoti e curiosità dei pneumatici più performanti: dagli Pneus Pirelli per il raid internazionale da Pechino a Parigi del 1907 alle prime “derapate” dei rally, dal Cinturato Extraordinario di Juan Emanuel Fangio ai grip e alle mescole dei nuovi pneumatici di Formula 1.
Per prenotare clicca qui.

La partecipazione al festival si inserisce all’interno dell’offerta di Fondazione Pirelli Educational che dal 2013 propone percorsi volti a promuovere anche tra i più giovani l’importanza della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico, valori su cui si basa la cultura d’impresa di Pirelli fin dalla sua costituzione. Per saperne di più sul programma didattico 2023/2024 clicca qui.

Con l’intervento del Senior Vice President Cultura e Direttore della Fondazione Pirelli, Antonio Calabrò, Pirelli sarà inoltre presente sabato 14 ottobre alla conferenza dal titolo “La fabbrica ‘intelligente’ quanto sarà davvero ‘artificiale’?”, una riflessione sulla connessione tra i linguaggi della scienza, quelli della produzione e le nuove frontiere aperte dall’Intelligenza Artificiale e le possibili conseguenze sul lavoro, sul mondo delle fabbriche, sulla formazione, sulla conoscenza.

Per maggiori informazioni e per consultare il programma completo della manifestazione visita il sito www.festivaldellinnovazione.settimo-torinese.it

Sostenibilità responsabile d’impresa

Discussa all’Università di Genova una tesi che approfondisce le relazioni forti tra CSR ed ESG

Responsabili e sostenibili. Doppio compito – e non da oggi -, per le imprese a tutto tondo, quelle, cioè, che accanto al profitto pongono anche un loro ruolo importante dal punto di vista sociale, ambientale e territoriale. Accade così sempre più spesso che, accanto all’impegno della responsabilità sociale d’impresa, debba essere posto anche quello dell’attenzione ai risvolti ambientali dell’agire produttivo.

È attorno a questi due temi che ragiona Francesca Pitis con la sua tesi “Integrare la sostenibilità nella strategia d’impresa” discussa presso l’Università di Genova nell’ambito del corso di laurea in scienze politiche, relazioni internazionali e diritti umani.

Pitis spiega nelle prime pagine della sua indagine che il connubio (virtuoso) tra obiettivi di bilancio e obiettivi altri da quelli economici e di efficienza costituisce ormai un tutt’uno imprescindibile. Da qui il percorso di lavoro scandito in tre passi successivi. Prima di tutto la messa a fuoco dei concetti e quindi di quello di responsabilità sociale d’impresa e di tutte le implicazioni che ne seguono. Poi l’approfondimento degli strumenti della responsabilità sociale vista in modo ampio che arrivi a toccare anche gli aspetti relativi alla sostenibilità dell’agire aziendale. Infine, l’attenzione sui fattori ESG, considerati in qualche modo come l’evoluzione del concetto e dei metodi della corporate social responsability.

Nelle sue conclusioni, Francesca Pitis avverte, correttamente, non solo delle convergenze tra i diversi strumenti individuati, ma anche delle divergenze in termini concettuali e applicativi. Ciò nonostante, CSR ed ESG non si escludono a vicenda ma, anzi, in qualche modo, si potenziano nel loro compito di analisi e di intervento sulla realtà d’impresa lungo un percorso di sviluppo delle organizzazioni della produzione che da economico e tecnico diventa sempre di più anche culturale.

Integrare la sostenibilità nella strategia d’impresa

Francesca Pitis

Tesi, Università degli studi di Padova, Dipartimento di scienze politiche, giuridiche e studi internazionali, Corso di laurea in scienze politiche, relazioni internazionali, diritti umani, 2023

Discussa all’Università di Genova una tesi che approfondisce le relazioni forti tra CSR ed ESG

Responsabili e sostenibili. Doppio compito – e non da oggi -, per le imprese a tutto tondo, quelle, cioè, che accanto al profitto pongono anche un loro ruolo importante dal punto di vista sociale, ambientale e territoriale. Accade così sempre più spesso che, accanto all’impegno della responsabilità sociale d’impresa, debba essere posto anche quello dell’attenzione ai risvolti ambientali dell’agire produttivo.

È attorno a questi due temi che ragiona Francesca Pitis con la sua tesi “Integrare la sostenibilità nella strategia d’impresa” discussa presso l’Università di Genova nell’ambito del corso di laurea in scienze politiche, relazioni internazionali e diritti umani.

Pitis spiega nelle prime pagine della sua indagine che il connubio (virtuoso) tra obiettivi di bilancio e obiettivi altri da quelli economici e di efficienza costituisce ormai un tutt’uno imprescindibile. Da qui il percorso di lavoro scandito in tre passi successivi. Prima di tutto la messa a fuoco dei concetti e quindi di quello di responsabilità sociale d’impresa e di tutte le implicazioni che ne seguono. Poi l’approfondimento degli strumenti della responsabilità sociale vista in modo ampio che arrivi a toccare anche gli aspetti relativi alla sostenibilità dell’agire aziendale. Infine, l’attenzione sui fattori ESG, considerati in qualche modo come l’evoluzione del concetto e dei metodi della corporate social responsability.

Nelle sue conclusioni, Francesca Pitis avverte, correttamente, non solo delle convergenze tra i diversi strumenti individuati, ma anche delle divergenze in termini concettuali e applicativi. Ciò nonostante, CSR ed ESG non si escludono a vicenda ma, anzi, in qualche modo, si potenziano nel loro compito di analisi e di intervento sulla realtà d’impresa lungo un percorso di sviluppo delle organizzazioni della produzione che da economico e tecnico diventa sempre di più anche culturale.

Integrare la sostenibilità nella strategia d’impresa

Francesca Pitis

Tesi, Università degli studi di Padova, Dipartimento di scienze politiche, giuridiche e studi internazionali, Corso di laurea in scienze politiche, relazioni internazionali, diritti umani, 2023

Cultura organizzativa

In un libro delineata la strada per riorganizzare il sistema produttivo e amministrativo del Paese

Ripartire dall’organizzazione. E dall’efficienza, quindi, ma anche da una cultura del produrre spesso diversa da quella più diffusa nel Paese. Traguardo a lungo termine, che può essere raggiunto anche sulla scorta di buone guide di percorso. Come è, ad esempio, il libro di Federico Butera.

“Disegnare l’Italia. Progetti e politiche per organizzazioni e lavori di qualità”, appena pubblicato, parte da una considerazione: alla radice della debolezza del sistema economico e sociale italiano vi è una non riconosciuta questione organizzativa. Detto in altri termini, l’Italia è Paese delle organizzazioni e dei lavori fortemente ineguali. Da un lato, sta un repertorio di forme nuove di organizzazione, lavoro e stili di gestione eccellenti; dall’altro, è un insieme di realtà inefficaci, inefficienti, non sostenibili, regolate da prassi e culture organizzative orami sorpassate.

La proposta di Butera è quella di “ridisegnare” l’Italia (da qui il titolo del libro) sulla base dell’idea di una progettazione e di uno sviluppo di organizzazioni e lavori di qualità, grazie a tecnologie digitali abilitanti e politiche industriali e cantieri partecipati che impegnino le persone. Tutto con un’attenzione particolare all’ambiente e alla buona digitalizzazione delle procedure, ma anche alla qualità della vita, ad una maggiore prosperità e soprattutto alla creazione di una società più democratica.

Dopo una sintesi dell’Italia “società di organizzazioni ineguali”, l’autore considera quindi l’obiettivo da raggiungere partendo dalle organizzazioni fondate sul lavoro per poi passare a delineare un’impresa e una pubblica amministrazione del futuro e quindi arrivare ad approfondire gli strumenti che servono per raggiungere lo scopo: l’attenzione alle reti ed ai sistemi di relazione, l’applicazione di nuovi metodi di lavoro, la reale creazione di lavori e lavoratori di qualità, la consapevolezza della profonda rilevanza culturale del cambiamento organizzativo.

Scrive l’autore nell’ambito delle conclusioni del libro: “Non basta trovare nuovi modi di organizzare, occorre sviluppare nuove idee di struttura tecnica e sociale”.

Disegnare l’Italia. Progetti e politiche per organizzazioni e lavori di qualità

Federico Butera

Egea, 2023

In un libro delineata la strada per riorganizzare il sistema produttivo e amministrativo del Paese

Ripartire dall’organizzazione. E dall’efficienza, quindi, ma anche da una cultura del produrre spesso diversa da quella più diffusa nel Paese. Traguardo a lungo termine, che può essere raggiunto anche sulla scorta di buone guide di percorso. Come è, ad esempio, il libro di Federico Butera.

“Disegnare l’Italia. Progetti e politiche per organizzazioni e lavori di qualità”, appena pubblicato, parte da una considerazione: alla radice della debolezza del sistema economico e sociale italiano vi è una non riconosciuta questione organizzativa. Detto in altri termini, l’Italia è Paese delle organizzazioni e dei lavori fortemente ineguali. Da un lato, sta un repertorio di forme nuove di organizzazione, lavoro e stili di gestione eccellenti; dall’altro, è un insieme di realtà inefficaci, inefficienti, non sostenibili, regolate da prassi e culture organizzative orami sorpassate.

La proposta di Butera è quella di “ridisegnare” l’Italia (da qui il titolo del libro) sulla base dell’idea di una progettazione e di uno sviluppo di organizzazioni e lavori di qualità, grazie a tecnologie digitali abilitanti e politiche industriali e cantieri partecipati che impegnino le persone. Tutto con un’attenzione particolare all’ambiente e alla buona digitalizzazione delle procedure, ma anche alla qualità della vita, ad una maggiore prosperità e soprattutto alla creazione di una società più democratica.

Dopo una sintesi dell’Italia “società di organizzazioni ineguali”, l’autore considera quindi l’obiettivo da raggiungere partendo dalle organizzazioni fondate sul lavoro per poi passare a delineare un’impresa e una pubblica amministrazione del futuro e quindi arrivare ad approfondire gli strumenti che servono per raggiungere lo scopo: l’attenzione alle reti ed ai sistemi di relazione, l’applicazione di nuovi metodi di lavoro, la reale creazione di lavori e lavoratori di qualità, la consapevolezza della profonda rilevanza culturale del cambiamento organizzativo.

Scrive l’autore nell’ambito delle conclusioni del libro: “Non basta trovare nuovi modi di organizzare, occorre sviluppare nuove idee di struttura tecnica e sociale”.

Disegnare l’Italia. Progetti e politiche per organizzazioni e lavori di qualità

Federico Butera

Egea, 2023

L’economia rallenta ma l’industria italiana resta solida. E ha bisogno di buona politica

L’autunno s’annuncia carico di incertezze, per la nostra economia. Gli ultimi dati Istat documentano una diminuzione del Pil dello 0,4% nel secondo trimestre e dunque un rallentamento della crescita, allo 0,7% per quest’anno (invece dello 0,8%) e all’1% per il ’24 (sotto gli obiettivi del Def dell’1,5% per il prossimo anno). Il governo, è vero, continua a tenere ferme le previsioni dell’1% per il ’23. Ma è possibile che una correzione arrivi nell’arco delle prossime settimane, durante l’elaborazione del Def (il Documento di economia e finanza). Perché il rallentamento? Debole domanda interna (anche a causa dell’alto livello dell’inflazione), contrazione dell’export, elevato costo del denaro, clima generale di incertezza che rallenta gli investimenti delle imprese. Tuti elementi che potrebbero continuare a pesare anche sui dati del terzo trimestre, che risentirà negativamente pure dell’andamento di una stagione turistica meno brillante delle aspettative.

Nessuno teme una recessione. “La recessione non ci sarà, nonostante tutto. Semmai una ricalibratura dei mercati e delle priorità”, sostiene Valter Caiumi, presidente di Confindustria Emilia, leader degli imprenditori di una delle zone più dinamiche del Paese (intervista di Dario Di Vico sul “Corriere Economia”, 4 settembre). Ma in molti pensano che il rallentamento continuerà. E al tradizionale Forum di European House di Cernobbio dei primi di settembre, tra imprenditori e banchieri, sono state frequenti le voci di preoccupazione.
Una riprova di questo diffuso stato d’animo è leggibile anche nei dati dell’Indice di Fiducia delle imprese, elaborato dall’Istat e sceso, ad agosto, a quota 106,8 dal precedente 108,9, ai minimi dal novembre ’22. Un arretramento pesante, dovuto, sostiene l’Istat, “al generale peggioramento in tutti i comparti economici indagati”, dalla manifattura ai servizi.
Scarsa fiducia, investimenti in frenata, consumi prudenti. Non si cresce.

A giocare negativamente sulle economie europee e internazionali e dunque anche sulla nostra, fortemente dipendente dall’export, contribuiscono la recessione in Germania (la nostra manifattura è fortemente legata ai mercati tedeschi, a cominciare dalle filiere dell’automotive) ma anche le difficoltà dell’economia cinese. Le turbolenze geopolitiche, aggravate dalla continuazione della guerra in Ucraina. Le scelte della Fed e della Bce sui tassi, per frenare l’inflazione. Le tensioni sui temi ambientali. E la più generale twin transition, ambientale e digitale, che sta sottoponendo a vere e proprie turbolente riorganizzazioni tutti i cicli di produzione, distribuzione e consumo. E per quanto positiva sia, in generale, la stagione del cambiamento, nell’immediato ne paghiamo i costi, economici e sociali, cercando di costruire tempi migliori.
In ogni caso, l’età delle incertezze non fa bene all’economia, almeno nel breve periodo.
Come stanno dunque le cose, in prospettiva?

Staccando lo sguardo dalla contingenza e provando a ragionare sui dati di fondo, proprio in tempi di preoccupazioni e timori, vale la pena ricordare che, al di là della congiuntura negativa o comunque non brillante, l’economia italiana, trainata dal settore industriale, nel corso della lunga stagione successiva alla Grande Crisi finanziaria del 2008, ha costruito solide basi di sviluppo. Su cui fare leva proprio adesso, per intravvedere la via d’uscita dal rallentamento e fare scelte d’investimento e crescita lungimiranti.
Che basi? Un radicale rinnovamento tecnologico, sia per i prodotti che per i meccanismi di produzione, grazie a robusti investimenti stimolati da ben costruiti stimoli fiscali. Una maggiore attenzione alla qualità. Uno sguardo ampio verso nuovi mercati internazionali, soprattutto nelle nicchie globali a maggior valore aggiunto. Un’originale capacità di definire nuovi processi capaci di tenere insieme manifattura, servizi e ricerca high tech, nel “cambio di paradigma” digitale dell’impresa data driven. E una responsabile attenzione alla sostenibilità, sia ambientale che sociale, considerata non come semplice elemento di comunicazione e di marketing, un furbo green washing ma come un vero e proprio asset di competitività, come una caratteristica essenziale che connoti il miglior made in Italy.

La parte tecnologicamente più avanzata dell’impresa italiana ha vissuto con profonda convinzione questa svolta (anche il cambio generazionale ha avuto un peso rilevante). E’ cresciuta. Ha fatto da capofiliera di sofisticate supply chain internazionali e oggi può giocare con successo la partita del re-shoring, del ritorno a produrre in Europa come grande piattaforma manifatturiera di qualità. Ha intessuto nuove e migliori relazioni con le università, per usare bene le leve della “economia della conoscenza” e dell’impiego degli strumenti offerti dall’Intelligenza Artificiale. E adesso può fare da motore di sviluppo di lungo periodo, in una serie di settori produttivi: meccanica e meccatronica, chimica e farmaceutica, life sciences e industria agro-alimentare, automotive e gomma, aerospazio e cantieristica, sistemi di trasporto ed edilizia, arredamento e tessile/abbigliamento.
Sono questi i punti di forza essenziali, in una rete integrata di relazioni. Sono le garanzie che, al di là dei momenti congiunturali di difficoltà, l’impresa italiana ha un futuro e può continuare a fare da motore della crescita del Paese.

Servono, però, scelte politiche, atti di governo, a livello nazionale ed europeo. Politiche industriali di respiro, ben diverse dalle tentazioni stataliste e protezioniste. Politiche fiscali mirate all’innovazione e non certo al premio di corporazioni elettoralmente influenti. Politica per la sicurezza, legata all’energia e alle forniture di materie prime strategiche. Un percorso ben definito per la conoscenza e la formazione di lungo periodo. E quelle riforme (pubblica amministrazione, giustizia, scuola, mercato del lavoro, etc.) di cui si parla da tempo, ma senza effetti concreti.

Il Pnrr è stato individuato come strumento, politico sia per gli investimenti che per le infrastrutture e le riforme. Non usarlo a pieno sarebbe un grave errore.
Per poter ragionare con senso di responsabilità sul futuro dell’economia italiana (e dunque su quello delle nuove generazioni), vale la pena tenere a mente la sintesi fatta da “Il Sole24Ore” per una lunga inchiesta sulle imprese innovative: “Il genio italiano esiste. Ma senza ricerca, manager e struttura finanziaria è destinato a fare poca strada”. Eccoli, i temi delle scelte politiche da fare.

(foto: Getty Images)

L’autunno s’annuncia carico di incertezze, per la nostra economia. Gli ultimi dati Istat documentano una diminuzione del Pil dello 0,4% nel secondo trimestre e dunque un rallentamento della crescita, allo 0,7% per quest’anno (invece dello 0,8%) e all’1% per il ’24 (sotto gli obiettivi del Def dell’1,5% per il prossimo anno). Il governo, è vero, continua a tenere ferme le previsioni dell’1% per il ’23. Ma è possibile che una correzione arrivi nell’arco delle prossime settimane, durante l’elaborazione del Def (il Documento di economia e finanza). Perché il rallentamento? Debole domanda interna (anche a causa dell’alto livello dell’inflazione), contrazione dell’export, elevato costo del denaro, clima generale di incertezza che rallenta gli investimenti delle imprese. Tuti elementi che potrebbero continuare a pesare anche sui dati del terzo trimestre, che risentirà negativamente pure dell’andamento di una stagione turistica meno brillante delle aspettative.

Nessuno teme una recessione. “La recessione non ci sarà, nonostante tutto. Semmai una ricalibratura dei mercati e delle priorità”, sostiene Valter Caiumi, presidente di Confindustria Emilia, leader degli imprenditori di una delle zone più dinamiche del Paese (intervista di Dario Di Vico sul “Corriere Economia”, 4 settembre). Ma in molti pensano che il rallentamento continuerà. E al tradizionale Forum di European House di Cernobbio dei primi di settembre, tra imprenditori e banchieri, sono state frequenti le voci di preoccupazione.
Una riprova di questo diffuso stato d’animo è leggibile anche nei dati dell’Indice di Fiducia delle imprese, elaborato dall’Istat e sceso, ad agosto, a quota 106,8 dal precedente 108,9, ai minimi dal novembre ’22. Un arretramento pesante, dovuto, sostiene l’Istat, “al generale peggioramento in tutti i comparti economici indagati”, dalla manifattura ai servizi.
Scarsa fiducia, investimenti in frenata, consumi prudenti. Non si cresce.

A giocare negativamente sulle economie europee e internazionali e dunque anche sulla nostra, fortemente dipendente dall’export, contribuiscono la recessione in Germania (la nostra manifattura è fortemente legata ai mercati tedeschi, a cominciare dalle filiere dell’automotive) ma anche le difficoltà dell’economia cinese. Le turbolenze geopolitiche, aggravate dalla continuazione della guerra in Ucraina. Le scelte della Fed e della Bce sui tassi, per frenare l’inflazione. Le tensioni sui temi ambientali. E la più generale twin transition, ambientale e digitale, che sta sottoponendo a vere e proprie turbolente riorganizzazioni tutti i cicli di produzione, distribuzione e consumo. E per quanto positiva sia, in generale, la stagione del cambiamento, nell’immediato ne paghiamo i costi, economici e sociali, cercando di costruire tempi migliori.
In ogni caso, l’età delle incertezze non fa bene all’economia, almeno nel breve periodo.
Come stanno dunque le cose, in prospettiva?

Staccando lo sguardo dalla contingenza e provando a ragionare sui dati di fondo, proprio in tempi di preoccupazioni e timori, vale la pena ricordare che, al di là della congiuntura negativa o comunque non brillante, l’economia italiana, trainata dal settore industriale, nel corso della lunga stagione successiva alla Grande Crisi finanziaria del 2008, ha costruito solide basi di sviluppo. Su cui fare leva proprio adesso, per intravvedere la via d’uscita dal rallentamento e fare scelte d’investimento e crescita lungimiranti.
Che basi? Un radicale rinnovamento tecnologico, sia per i prodotti che per i meccanismi di produzione, grazie a robusti investimenti stimolati da ben costruiti stimoli fiscali. Una maggiore attenzione alla qualità. Uno sguardo ampio verso nuovi mercati internazionali, soprattutto nelle nicchie globali a maggior valore aggiunto. Un’originale capacità di definire nuovi processi capaci di tenere insieme manifattura, servizi e ricerca high tech, nel “cambio di paradigma” digitale dell’impresa data driven. E una responsabile attenzione alla sostenibilità, sia ambientale che sociale, considerata non come semplice elemento di comunicazione e di marketing, un furbo green washing ma come un vero e proprio asset di competitività, come una caratteristica essenziale che connoti il miglior made in Italy.

La parte tecnologicamente più avanzata dell’impresa italiana ha vissuto con profonda convinzione questa svolta (anche il cambio generazionale ha avuto un peso rilevante). E’ cresciuta. Ha fatto da capofiliera di sofisticate supply chain internazionali e oggi può giocare con successo la partita del re-shoring, del ritorno a produrre in Europa come grande piattaforma manifatturiera di qualità. Ha intessuto nuove e migliori relazioni con le università, per usare bene le leve della “economia della conoscenza” e dell’impiego degli strumenti offerti dall’Intelligenza Artificiale. E adesso può fare da motore di sviluppo di lungo periodo, in una serie di settori produttivi: meccanica e meccatronica, chimica e farmaceutica, life sciences e industria agro-alimentare, automotive e gomma, aerospazio e cantieristica, sistemi di trasporto ed edilizia, arredamento e tessile/abbigliamento.
Sono questi i punti di forza essenziali, in una rete integrata di relazioni. Sono le garanzie che, al di là dei momenti congiunturali di difficoltà, l’impresa italiana ha un futuro e può continuare a fare da motore della crescita del Paese.

Servono, però, scelte politiche, atti di governo, a livello nazionale ed europeo. Politiche industriali di respiro, ben diverse dalle tentazioni stataliste e protezioniste. Politiche fiscali mirate all’innovazione e non certo al premio di corporazioni elettoralmente influenti. Politica per la sicurezza, legata all’energia e alle forniture di materie prime strategiche. Un percorso ben definito per la conoscenza e la formazione di lungo periodo. E quelle riforme (pubblica amministrazione, giustizia, scuola, mercato del lavoro, etc.) di cui si parla da tempo, ma senza effetti concreti.

Il Pnrr è stato individuato come strumento, politico sia per gli investimenti che per le infrastrutture e le riforme. Non usarlo a pieno sarebbe un grave errore.
Per poter ragionare con senso di responsabilità sul futuro dell’economia italiana (e dunque su quello delle nuove generazioni), vale la pena tenere a mente la sintesi fatta da “Il Sole24Ore” per una lunga inchiesta sulle imprese innovative: “Il genio italiano esiste. Ma senza ricerca, manager e struttura finanziaria è destinato a fare poca strada”. Eccoli, i temi delle scelte politiche da fare.

(foto: Getty Images)

Lo short movie “NOI SIAMO” in anteprima al festival “Visioni dal Mondo”

Verrà presentato in anteprima nell’ambito del festival “Visioni dal Mondo”, lo short film “NOI SIAMO”, un progetto di Fondazione Pirelli prodotto da Muse Factory of Projects e curato da Francesca Molteni, scritto e diretto da Mattia Colombo e Davide Fois. Il Festival Internazionale del Documentario, giunto alla IX edizione, fondato e prodotto da Francesco Bizzarri con la direzione artistica di Maurizio Nichetti, si svolgerà a Milano da giovedì 14 a domenica 17 settembre 2023.

Il cortometraggio, della durata di circa 7 minuti, è disponibile in lingua italiana e inglese e racconta attraverso il linguaggio cinematografico la cultura d’impresa della Pirelli, rappresentata come “palcoscenico delle arti e della tecnica”. Una narrazione per immagini ispirata a Vita di Galileo di Bertolt Brecht, che attraversa i diversi ambiti della cultura aziendale: il teatro, la musica, l’arte, la ricerca, l’innovazione, per sottolineare il binomio imprescindibile tra creatività artistica e scientifica che da sempre caratterizza l’identità della Pirelli.

I protagonisti del film si avvicendano in una rappresentazione corale, il cui il fil rouge è un fascio di luce circolare che illumina di volta in volta scene e scenari diversi, creando la suggestione di un’ambientazione teatrale anche in ambienti slegati dal contesto della performance artistica. Così, “l’occhio di bue” si posa su un attore, una violinista, sul modello in scala del Pirellone affidato alle cure di una modellista, così come su tecnici e ingegneri alle prese con studi, ricerche e test sui pneumatici. E la telecamera si muove dallo storico palcoscenico del Piccolo Teatro Grassi di Milano a “I sette palazzi celesti” dell’artista tedesco Ansel Kiefer, installazione permanente site-specific del Pirelli HangarBicocca; dai laboratori di Ricerca e Sviluppo all’Archivio Storico, un patrimonio di oltre 4 chilometri custodito dalla Fondazione Pirelli, nel cuore dell’Headquarters aziendale. Per ricordarci che “Noi siamo” impresa, memoria, e futuro.

Guarda il trailer qui

Dietro le quinte

“NOI SIAMO” – cortometraggio promosso da Fondazione Pirelli.
Note di Francesca Molteni, produttrice e direttrice artistica

Verrà presentato in anteprima nell’ambito del festival “Visioni dal Mondo”, lo short film “NOI SIAMO”, un progetto di Fondazione Pirelli prodotto da Muse Factory of Projects e curato da Francesca Molteni, scritto e diretto da Mattia Colombo e Davide Fois. Il Festival Internazionale del Documentario, giunto alla IX edizione, fondato e prodotto da Francesco Bizzarri con la direzione artistica di Maurizio Nichetti, si svolgerà a Milano da giovedì 14 a domenica 17 settembre 2023.

Il cortometraggio, della durata di circa 7 minuti, è disponibile in lingua italiana e inglese e racconta attraverso il linguaggio cinematografico la cultura d’impresa della Pirelli, rappresentata come “palcoscenico delle arti e della tecnica”. Una narrazione per immagini ispirata a Vita di Galileo di Bertolt Brecht, che attraversa i diversi ambiti della cultura aziendale: il teatro, la musica, l’arte, la ricerca, l’innovazione, per sottolineare il binomio imprescindibile tra creatività artistica e scientifica che da sempre caratterizza l’identità della Pirelli.

I protagonisti del film si avvicendano in una rappresentazione corale, il cui il fil rouge è un fascio di luce circolare che illumina di volta in volta scene e scenari diversi, creando la suggestione di un’ambientazione teatrale anche in ambienti slegati dal contesto della performance artistica. Così, “l’occhio di bue” si posa su un attore, una violinista, sul modello in scala del Pirellone affidato alle cure di una modellista, così come su tecnici e ingegneri alle prese con studi, ricerche e test sui pneumatici. E la telecamera si muove dallo storico palcoscenico del Piccolo Teatro Grassi di Milano a “I sette palazzi celesti” dell’artista tedesco Ansel Kiefer, installazione permanente site-specific del Pirelli HangarBicocca; dai laboratori di Ricerca e Sviluppo all’Archivio Storico, un patrimonio di oltre 4 chilometri custodito dalla Fondazione Pirelli, nel cuore dell’Headquarters aziendale. Per ricordarci che “Noi siamo” impresa, memoria, e futuro.

Guarda il trailer qui

Dietro le quinte

“NOI SIAMO” – cortometraggio promosso da Fondazione Pirelli.
Note di Francesca Molteni, produttrice e direttrice artistica

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Il nuovo programma didattico di Fondazione Pirelli è un viaggio tra parole, immagini e suoni del mondo Pirelli

Sarà un anno scolastico all’insegna di parole, immagini e suoni quello in partenza a settembre 2023. Lunedì 25 settembre 2023 alle ore 17.00 un incontro online permetterà ai docenti di conoscere i contenuti dei percorsi, le modalità di svolgimento e di iscrizione del nuovo programma didattico di Fondazione Pirelli. “A PARLAR D’IMPRESA… Viaggio tra parole, immagini e suoni del mondo Pirelli” è il titolo della proposta che accompagnerà gli studenti e le studentesse delle scuole primarie e secondarie a scoprire e approfondire la capacità dell’azienda di raccontare e farsi raccontare, tra saperi scientifici e sperimentazione artistica: oltre 150 anni di storia e attualità di Pirelli, dalla A alla Z.  Dall’evoluzione della comunicazione visiva alle voci dei grandi protagonisti della storia del design, dai valori della sostenibilità all’importanza e alla passione per la lettura.

Si prosegue con le testimonianze raccolte nei documenti conservati nel nostro Archivio Storico, le innovazioni tecnologiche dei pneumatici più recenti e i ritmi digitali del mondo della produzione e della robotica. Attraverso laboratori in presenza, webinar con podcast e piattaforme interattive, visite guidate alla Fondazione Pirelli, al Centro di Ricerca e Sviluppo dell’azienda e al quartiere di Milano Bicocca, si indagherà la cultura d’impresa di Pirelli, tra identità e trasformazione, relazione tra memoria, presente e futuro.

La presentazione del programma si concluderà con il virtual tour guidato del percorso espositivo “Pirelli. When History Builds The Future” e dell’Archivio Storico.

Martedì 3 ottobre 2023 i docenti avranno inoltre la possibilità di visitare in presenza la Fondazione Pirelli in un tour a loro dedicato, in partenza alle ore 17.00.

Per partecipare alla presentazione online del programma che si svolgerà su piattaforma Microsoft Teams clicca QUI.

Per iscriversi alla visita guidata in presenza clicca QUI.

Le iscrizioni sono aperte con prenotazione obbligatoria e fino a esaurimento posti.

Sarà un anno scolastico all’insegna di parole, immagini e suoni quello in partenza a settembre 2023. Lunedì 25 settembre 2023 alle ore 17.00 un incontro online permetterà ai docenti di conoscere i contenuti dei percorsi, le modalità di svolgimento e di iscrizione del nuovo programma didattico di Fondazione Pirelli. “A PARLAR D’IMPRESA… Viaggio tra parole, immagini e suoni del mondo Pirelli” è il titolo della proposta che accompagnerà gli studenti e le studentesse delle scuole primarie e secondarie a scoprire e approfondire la capacità dell’azienda di raccontare e farsi raccontare, tra saperi scientifici e sperimentazione artistica: oltre 150 anni di storia e attualità di Pirelli, dalla A alla Z.  Dall’evoluzione della comunicazione visiva alle voci dei grandi protagonisti della storia del design, dai valori della sostenibilità all’importanza e alla passione per la lettura.

Si prosegue con le testimonianze raccolte nei documenti conservati nel nostro Archivio Storico, le innovazioni tecnologiche dei pneumatici più recenti e i ritmi digitali del mondo della produzione e della robotica. Attraverso laboratori in presenza, webinar con podcast e piattaforme interattive, visite guidate alla Fondazione Pirelli, al Centro di Ricerca e Sviluppo dell’azienda e al quartiere di Milano Bicocca, si indagherà la cultura d’impresa di Pirelli, tra identità e trasformazione, relazione tra memoria, presente e futuro.

La presentazione del programma si concluderà con il virtual tour guidato del percorso espositivo “Pirelli. When History Builds The Future” e dell’Archivio Storico.

Martedì 3 ottobre 2023 i docenti avranno inoltre la possibilità di visitare in presenza la Fondazione Pirelli in un tour a loro dedicato, in partenza alle ore 17.00.

Per partecipare alla presentazione online del programma che si svolgerà su piattaforma Microsoft Teams clicca QUI.

Per iscriversi alla visita guidata in presenza clicca QUI.

Le iscrizioni sono aperte con prenotazione obbligatoria e fino a esaurimento posti.

Il futuro dell’economia industriale italiana, fra metropoli e grande provincia produttiva

Il futuro sarà delle metropoli e addirittura delle megalopoli? O non, piuttosto, degli antichi borghi di provincia, tra tesori d’arte e ambiente sereno? Delle cosiddette “città-Stato”, potenti, ricche, frenetiche, attraenti per talenti e innovazioni? O delle reti di città medie, forti di stimolanti connessioni tra industria, conoscenze, relazioni umane più attente alla diffusa qualità della vita? Le domande tornano, nel dibattito pubblico di fine estate, grazie anche a una sapida inchiesta di Paolo Coccorese del Corriere della Sera sul futuro di Torino verso il 2050 e dunque sui suoi rapporti innanzitutto con Milano ma anche con Genova o con Bologna, con i territori delle valli circostanti e con le altre provincie di un Piemonte in cerca di nuove identità e prospettive, dopo la fine della stagione del predominio della cultura industriale dell’auto Fiat.

Una spinta notevole alla riflessione viene da Carlo Ratti, solide radici torinesi (il suo studio italiano è proprio a Torino, in corso Quintino Sella, nell’antica villa del nonno) e vasta esperienza internazionale (insegna al Massachussets Institute of Technology di Boston e dirige il Mit Senseable City Lab Lab, per studiare l’impatto delle tecnologie digitali sull’architettura, il design e la pianificazione degli spazi urbani): “Il futuro di Torino è Milano, unica città globale italiana. Bisogna spingere verso una integrazione tra i due poli metropolitani”, sostiene, ragionando anche sul futuro post-industriale e sui legami con un altro sistema metropolitano d’eccellenza, Bologna. Nel dibattito intervengono urbanisti, sociologi, politici, personalità del mondo dell’impresa e della cultura. La discussione, comunque stimolante, resta aperta, fra tradizione e innovazione. E può essere ben ampliata ragionando su altri sistemi metropolitani, in altre aree italiane.

Vale la pena, dunque, approfittarne per approfondire alcuni nodi della “questione urbana”, cercando di evitare luoghi comuni e provincialismi, nostalgie da “bei tempi d’una volta” (parlando di Torino, viene naturalmente in mente l’ironia di Guido Gozzano sulle “piccole cose di pessimo gusto”) e velleità d’una futurologia para-turistica: le città italiane, per quando ricchissime di tesori d’arte e architettura, non potranno mai vivere solo di turismo e di eventi, figuriamoci poi se si inciampa nei fenomeni del cosiddetto overtourism (le folle ciabattanti ossessionate dai selfie che invadono Venezia e Firenze, Milano e Roma, Napoli e Torino…) e nell’effimero dei “grandi eventi” che consumano ambiente e nulla lasciano di solido nel lungo periodo.

A cosa guardare, dunque? Nel suo ultimo libro, “Urbanità/ Un viaggio in quattordici città per scoprire l’urbanistica”, Einaudi), Ratti sostiene che “l’universale urbano” è determinato dalla composizione di diversi frammenti. E indica come proprio la diversità sia una straordinaria forma di ricchezza. Diversità di culture, vocazioni, attitudini, radici storiche e propensioni al futuro.

Le relazioni urbane e metropolitane, nella necessaria riscrittura delle nuove mappe geo-economiche, vanno dunque definite guardando, per esempio, alle integrazioni in corso tra sistemi produttivi, nel senso ampio del termine. E tutto ciò è evidente nella mega-regione A1/ A4 che prende idealmente nome dalle autostrade che la attraversano e che va dal Piemonte al Nord Est, includendo Lombardia ed Emilia, la fitta rete delle filiere produttive per l’industria con solidi legami europei e internazionali (automotive, meccatronica e robotica, farmaceutica, chimica, gomma, aerospazio, cantieristica navale, agroalimentare, arredo, abbigliamento, etc.), ma anche delle attività finanziarie (Intesa San Paolo, Unicredit, Bpm, Generali e Unipol-Sai), delle università e dei centri di ricerca e formazione, della logistica e di una complessa serie di servizi high tech.

E’ una mappa economica di intrecci imprenditoriali, culturali e sociali, che hanno retto bene le crisi dell’inizio del nuovo millennio, hanno reagito e rispondono anche alle sfide poste dalla cosiddetta twin transition, ambientale e digitale e alle evoluzioni dell’impresa data driven, nella controversa stagione della rapidissima diffusione dell’Intelligenza Artificiale. Dando, così, un contributo essenziale alla crescita del Pil dell’Italia, la migliore nella Ue, dal ‘22 a oggi.

Un intreccio, ancora, in cui sottolineare le relazioni tra grandi e prestigiose università (gli atenei e i Politecnici di Torino e Milano) e università ricche di competenze formative e di ricerca diffuse nella dinamica provincia, dal Nord Ovest all’Emilia e al Nord Est. O i rapporti sociali e culturali, tra solidarietà e competitività, di cui le Fondazioni di origine bancaria, in relazione con le strutture e le associazioni del Terzo Settore, sono protagoniste di grande importanza.

Qual è la caratteristica di questa mappa? Mostrare la tenuta dei rapporti tra le aree metropolitane (Milano, Torino, Bologna, Genova, Venezia/Mestre/PadovaTreviso), le città medie e le province produttive, segnando anche quella che Aldo Bonomi, sociologo attento alle evoluzioni urbane, chiama “la metamorfosi della città medie”, tra “neo-municipalismo” e “capitalismo delle reti” e agevolando le tendenze di una crescita industriale che nel tempo reso rapido dalle nuove ragioni della competitività internazionale, conquista spazi e credibilità nel mondo.

Soggetti originali, come le imprese del Nord Est analizzate da Stefano Micelli, passate rapidamente dalla dimensione dell’artigianato di qualità alle integrazioni nelle supply chain internazionali e adesso ben attrezzate per avere ruoli di primo piano nel back shoring in corso, nel ritorno alle produzioni industriali in prossimità dei mercati di sbocchi, dei mercati nazionali ed europei, cioè. E soggetti socialmente responsabili, perché attenti alla sostenibilità ambientale e sociale considerata non come orpello o furbo vantaggio di comunicazione e marketing, ma come vero e proprio cambiamento produttivo e come asset di competitività (le analisi di Symbola e la presenza di parecchie imprese italiane al vertici degli indici internazionali di sostenibilità ne sono ben documentata conferma).

Quella di cui stiamo parlando, insomma, è la mappa di una condizione originale in Europa. E analizzarla attentamente può aiutare i decisori politici, nazionali e locali, nel definire la politica industriale e fiscale (come stimolo per progetti innovativi), le scelte dei servizi, gli investimenti in infrastrutture, etc. Scelte chiare e lungimiranti, nell’interesse del sistema Paese e delle nuove generazioni, ben diverse dunque dalle tentazioni di politiche corporative, populiste e protezioniste che trovano tanto spazio, purtroppo, nel discorso pubblico attuale.

Quale futuro, allora? “Bisogna allargare i territori, pensare in grande alle relazioni economiche, sociali e civili”, è il giudizio del sindaco di Milano Beppe Sala. Ecco, “allargare i territori”. E progettare futuri ambiziosi, fuori dalle ristrettezze localistiche e dalle illusioni della “decrescita felice”. E modulare, semmai, progetti che facciano leva sulle caratteristiche produttive e sociali che la mappa di cui stiamo parlando fa emergere bene.

Il progetto “MiToGeno” per il rilancio del Nord Ovest, promosso dall’Unione Industriali di Torino, Assolombarda e Confindustria Genova (ne abbiamo parlato anche nel blog dell’1 agosto) va proprio in questa direzione. Così come l’impegno del Centro Studi Grande Milano, attento a stabilire relazioni forti con i sindaci di Genova, Bergamo, Torino, Brescia e, in rapida prospettiva, con quelli delle città dell’Emilia e del Nord Est. Rinnovando così, anche con un potenziamento delle relazioni pubblico-privato, la lezione sapiente d’un grande storico come Carlo M. Cipolla, sull’attitudine positiva degli italiani “a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”.

(foto Getty Images)

Il futuro sarà delle metropoli e addirittura delle megalopoli? O non, piuttosto, degli antichi borghi di provincia, tra tesori d’arte e ambiente sereno? Delle cosiddette “città-Stato”, potenti, ricche, frenetiche, attraenti per talenti e innovazioni? O delle reti di città medie, forti di stimolanti connessioni tra industria, conoscenze, relazioni umane più attente alla diffusa qualità della vita? Le domande tornano, nel dibattito pubblico di fine estate, grazie anche a una sapida inchiesta di Paolo Coccorese del Corriere della Sera sul futuro di Torino verso il 2050 e dunque sui suoi rapporti innanzitutto con Milano ma anche con Genova o con Bologna, con i territori delle valli circostanti e con le altre provincie di un Piemonte in cerca di nuove identità e prospettive, dopo la fine della stagione del predominio della cultura industriale dell’auto Fiat.

Una spinta notevole alla riflessione viene da Carlo Ratti, solide radici torinesi (il suo studio italiano è proprio a Torino, in corso Quintino Sella, nell’antica villa del nonno) e vasta esperienza internazionale (insegna al Massachussets Institute of Technology di Boston e dirige il Mit Senseable City Lab Lab, per studiare l’impatto delle tecnologie digitali sull’architettura, il design e la pianificazione degli spazi urbani): “Il futuro di Torino è Milano, unica città globale italiana. Bisogna spingere verso una integrazione tra i due poli metropolitani”, sostiene, ragionando anche sul futuro post-industriale e sui legami con un altro sistema metropolitano d’eccellenza, Bologna. Nel dibattito intervengono urbanisti, sociologi, politici, personalità del mondo dell’impresa e della cultura. La discussione, comunque stimolante, resta aperta, fra tradizione e innovazione. E può essere ben ampliata ragionando su altri sistemi metropolitani, in altre aree italiane.

Vale la pena, dunque, approfittarne per approfondire alcuni nodi della “questione urbana”, cercando di evitare luoghi comuni e provincialismi, nostalgie da “bei tempi d’una volta” (parlando di Torino, viene naturalmente in mente l’ironia di Guido Gozzano sulle “piccole cose di pessimo gusto”) e velleità d’una futurologia para-turistica: le città italiane, per quando ricchissime di tesori d’arte e architettura, non potranno mai vivere solo di turismo e di eventi, figuriamoci poi se si inciampa nei fenomeni del cosiddetto overtourism (le folle ciabattanti ossessionate dai selfie che invadono Venezia e Firenze, Milano e Roma, Napoli e Torino…) e nell’effimero dei “grandi eventi” che consumano ambiente e nulla lasciano di solido nel lungo periodo.

A cosa guardare, dunque? Nel suo ultimo libro, “Urbanità/ Un viaggio in quattordici città per scoprire l’urbanistica”, Einaudi), Ratti sostiene che “l’universale urbano” è determinato dalla composizione di diversi frammenti. E indica come proprio la diversità sia una straordinaria forma di ricchezza. Diversità di culture, vocazioni, attitudini, radici storiche e propensioni al futuro.

Le relazioni urbane e metropolitane, nella necessaria riscrittura delle nuove mappe geo-economiche, vanno dunque definite guardando, per esempio, alle integrazioni in corso tra sistemi produttivi, nel senso ampio del termine. E tutto ciò è evidente nella mega-regione A1/ A4 che prende idealmente nome dalle autostrade che la attraversano e che va dal Piemonte al Nord Est, includendo Lombardia ed Emilia, la fitta rete delle filiere produttive per l’industria con solidi legami europei e internazionali (automotive, meccatronica e robotica, farmaceutica, chimica, gomma, aerospazio, cantieristica navale, agroalimentare, arredo, abbigliamento, etc.), ma anche delle attività finanziarie (Intesa San Paolo, Unicredit, Bpm, Generali e Unipol-Sai), delle università e dei centri di ricerca e formazione, della logistica e di una complessa serie di servizi high tech.

E’ una mappa economica di intrecci imprenditoriali, culturali e sociali, che hanno retto bene le crisi dell’inizio del nuovo millennio, hanno reagito e rispondono anche alle sfide poste dalla cosiddetta twin transition, ambientale e digitale e alle evoluzioni dell’impresa data driven, nella controversa stagione della rapidissima diffusione dell’Intelligenza Artificiale. Dando, così, un contributo essenziale alla crescita del Pil dell’Italia, la migliore nella Ue, dal ‘22 a oggi.

Un intreccio, ancora, in cui sottolineare le relazioni tra grandi e prestigiose università (gli atenei e i Politecnici di Torino e Milano) e università ricche di competenze formative e di ricerca diffuse nella dinamica provincia, dal Nord Ovest all’Emilia e al Nord Est. O i rapporti sociali e culturali, tra solidarietà e competitività, di cui le Fondazioni di origine bancaria, in relazione con le strutture e le associazioni del Terzo Settore, sono protagoniste di grande importanza.

Qual è la caratteristica di questa mappa? Mostrare la tenuta dei rapporti tra le aree metropolitane (Milano, Torino, Bologna, Genova, Venezia/Mestre/PadovaTreviso), le città medie e le province produttive, segnando anche quella che Aldo Bonomi, sociologo attento alle evoluzioni urbane, chiama “la metamorfosi della città medie”, tra “neo-municipalismo” e “capitalismo delle reti” e agevolando le tendenze di una crescita industriale che nel tempo reso rapido dalle nuove ragioni della competitività internazionale, conquista spazi e credibilità nel mondo.

Soggetti originali, come le imprese del Nord Est analizzate da Stefano Micelli, passate rapidamente dalla dimensione dell’artigianato di qualità alle integrazioni nelle supply chain internazionali e adesso ben attrezzate per avere ruoli di primo piano nel back shoring in corso, nel ritorno alle produzioni industriali in prossimità dei mercati di sbocchi, dei mercati nazionali ed europei, cioè. E soggetti socialmente responsabili, perché attenti alla sostenibilità ambientale e sociale considerata non come orpello o furbo vantaggio di comunicazione e marketing, ma come vero e proprio cambiamento produttivo e come asset di competitività (le analisi di Symbola e la presenza di parecchie imprese italiane al vertici degli indici internazionali di sostenibilità ne sono ben documentata conferma).

Quella di cui stiamo parlando, insomma, è la mappa di una condizione originale in Europa. E analizzarla attentamente può aiutare i decisori politici, nazionali e locali, nel definire la politica industriale e fiscale (come stimolo per progetti innovativi), le scelte dei servizi, gli investimenti in infrastrutture, etc. Scelte chiare e lungimiranti, nell’interesse del sistema Paese e delle nuove generazioni, ben diverse dunque dalle tentazioni di politiche corporative, populiste e protezioniste che trovano tanto spazio, purtroppo, nel discorso pubblico attuale.

Quale futuro, allora? “Bisogna allargare i territori, pensare in grande alle relazioni economiche, sociali e civili”, è il giudizio del sindaco di Milano Beppe Sala. Ecco, “allargare i territori”. E progettare futuri ambiziosi, fuori dalle ristrettezze localistiche e dalle illusioni della “decrescita felice”. E modulare, semmai, progetti che facciano leva sulle caratteristiche produttive e sociali che la mappa di cui stiamo parlando fa emergere bene.

Il progetto “MiToGeno” per il rilancio del Nord Ovest, promosso dall’Unione Industriali di Torino, Assolombarda e Confindustria Genova (ne abbiamo parlato anche nel blog dell’1 agosto) va proprio in questa direzione. Così come l’impegno del Centro Studi Grande Milano, attento a stabilire relazioni forti con i sindaci di Genova, Bergamo, Torino, Brescia e, in rapida prospettiva, con quelli delle città dell’Emilia e del Nord Est. Rinnovando così, anche con un potenziamento delle relazioni pubblico-privato, la lezione sapiente d’un grande storico come Carlo M. Cipolla, sull’attitudine positiva degli italiani “a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”.

(foto Getty Images)

Quale “buon lavoro”

Educare bene all’impegno e alla condivisione dei compiti nelle organizzazioni della produzione come leva di benessere e competitività

 

Dimettersi. Smettere di lavorare (almeno in determinati ambiti). Fenomeno in crescita e sempre più diffuso quello delle Great Resignation (“grandi dimissioni”), che pone questioni nuove da affrontare. Anche in termini di cultura d’impresa e del lavoro. E’ attorno a questo tema che ragiona Fabrizio d’Aniello con il suo contributo “Giovani e cultura pedagogica del lavoro” apparso recentemente nel bollettino della Sipeges (Società italiana di pedagogia generale e sociale).

L’autore parte da una constatazione: il fenomeno delle “grandi dimissioni” ha evidenziato vari tratti di un malessere lavorativo diffuso, che va compreso e affrontato e che interessa da vicino anche la pedagogia del lavoro. Perché l’andar via dagli ambiti lavorativi comporta anche un riesame dell’educazione al lavoro che va rivista, discussa e resa più attuale. Partendo dai giovani.

Educare al lavoro e soprattutto al buon lavoro, dunque, come primo obiettivo. Passaggio cruciale che d’Aniello giustifica con la constatazione della mancanza di cura delle relazioni umane che si coglie essere indubbiamente il preminente fattore problematico di molte situazioni e che delinea la necessità di svelare e “denunciare”, oltre che all’occorrenza superare, la focalizzazione neoliberista sull’individualizzazione della prestazione e sulla competitività prestazionale. Troppa competitività, troppo stress, troppa disumanizzazione delle relazioni, starebbero, in altri termini, alla base delle Great Resignation.

Ma quindi che fare? L’articolo di d’Aniello ha l’obiettivo di promuovere una cultura pedagogica del lavoro, fondata su relazioni educativamente significative, a partire dai giovani, nonché a fornire indicazioni formative utili ad affrontare le criticità del presente. Ed è proprio dai giovani che occorre partire, secondo l’autore che illustra le relazioni (virtuose) tra le nuove leve lavorative future, la scuola e la pedagogia del lavoro per passare poi ad affrontare l’esame delle criticità delle attuali condizioni di lavoro e quindi delineare percorsi di pedagogia più efficace.

L’analisi di Fabrizio d’Aniello non solo aiuta a comprendere meglio un fenomeno sempre più diffuso, ma serve a migliorare per davvero il livello di conoscenze su quel “buon lavoro” che occorre ampliare e diffondere. Educare bene all’impegno e alla condivisione dei compiti nelle organizzazioni della produzione, diventa così, leva di benessere e competitività.

Giovani e cultura pedagogica del lavoro

Fabrizio d’Aniello (Università degli Studi di Macerata)

Cultura pedagogica e scenari educativi, 1(1), 94-99, giugno 2023

Educare bene all’impegno e alla condivisione dei compiti nelle organizzazioni della produzione come leva di benessere e competitività

 

Dimettersi. Smettere di lavorare (almeno in determinati ambiti). Fenomeno in crescita e sempre più diffuso quello delle Great Resignation (“grandi dimissioni”), che pone questioni nuove da affrontare. Anche in termini di cultura d’impresa e del lavoro. E’ attorno a questo tema che ragiona Fabrizio d’Aniello con il suo contributo “Giovani e cultura pedagogica del lavoro” apparso recentemente nel bollettino della Sipeges (Società italiana di pedagogia generale e sociale).

L’autore parte da una constatazione: il fenomeno delle “grandi dimissioni” ha evidenziato vari tratti di un malessere lavorativo diffuso, che va compreso e affrontato e che interessa da vicino anche la pedagogia del lavoro. Perché l’andar via dagli ambiti lavorativi comporta anche un riesame dell’educazione al lavoro che va rivista, discussa e resa più attuale. Partendo dai giovani.

Educare al lavoro e soprattutto al buon lavoro, dunque, come primo obiettivo. Passaggio cruciale che d’Aniello giustifica con la constatazione della mancanza di cura delle relazioni umane che si coglie essere indubbiamente il preminente fattore problematico di molte situazioni e che delinea la necessità di svelare e “denunciare”, oltre che all’occorrenza superare, la focalizzazione neoliberista sull’individualizzazione della prestazione e sulla competitività prestazionale. Troppa competitività, troppo stress, troppa disumanizzazione delle relazioni, starebbero, in altri termini, alla base delle Great Resignation.

Ma quindi che fare? L’articolo di d’Aniello ha l’obiettivo di promuovere una cultura pedagogica del lavoro, fondata su relazioni educativamente significative, a partire dai giovani, nonché a fornire indicazioni formative utili ad affrontare le criticità del presente. Ed è proprio dai giovani che occorre partire, secondo l’autore che illustra le relazioni (virtuose) tra le nuove leve lavorative future, la scuola e la pedagogia del lavoro per passare poi ad affrontare l’esame delle criticità delle attuali condizioni di lavoro e quindi delineare percorsi di pedagogia più efficace.

L’analisi di Fabrizio d’Aniello non solo aiuta a comprendere meglio un fenomeno sempre più diffuso, ma serve a migliorare per davvero il livello di conoscenze su quel “buon lavoro” che occorre ampliare e diffondere. Educare bene all’impegno e alla condivisione dei compiti nelle organizzazioni della produzione, diventa così, leva di benessere e competitività.

Giovani e cultura pedagogica del lavoro

Fabrizio d’Aniello (Università degli Studi di Macerata)

Cultura pedagogica e scenari educativi, 1(1), 94-99, giugno 2023

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