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Fondazione Pirelli per Archivi Aperti 2025: un laboratorio didattico di storia e creatività per raccontare la Milano del Dopoguerra

In occasione della XI edizione di Archivi Aperti, la rassegna promossa da Rete Fotografia per la valorizzazione del patrimonio fotografico, la Fondazione Pirelli organizza per il 23 ottobre 2025 un laboratorio didattico rivolto agli studenti delle scuole secondarie di II grado. Questa iniziativa aderisce alla proposta tematica dell’edizione 2025 “Fotografia resistente: il ruolo delle immagini nella narrazione storica”. Attraverso un convegno nazionale, visite guidate, incontri e laboratori per la cittadinanza e per le scuole, si esplorerà come la fotografia sia un potente strumento nel processo di costruzione, ricostruzione e sedimentazione della memoria.

Il laboratorio offre un percorso di approfondimento storico e visivo, mettendo in dialogo le fotografie d’archivio con altre fonti documentali. Gli studenti saranno guidati in un viaggio simbolico dentro una grande fabbrica del Secondo Dopoguerra, per osservare e interpretare le trasformazioni del mondo industriale: i ruoli, i volti, le dinamiche del lavoro. Allo stesso tempo, potranno “muoversi” idealmente tra le strade di una città – Milano – che in quegli anni vive profondi mutamenti, animata da una forte spinta verso la modernità e il progresso.

La Fondazione Pirelli custodisce un patrimonio fotografico che raccoglie migliaia di immagini dall’Ottocento a oggi e documenta, non solo l’evoluzione di una grande azienda, ma anche i profondi mutamenti sociali, economici e culturali dell’Italia, in particolare nel periodo cruciale dell’immediato Dopoguerra, della ricostruzione e del boom economico. Le fotografie conservate testimoniano le trasformazioni del Paese attraverso scene di vita quotidiana, luoghi di lavoro, infrastrutture in costruzione e paesaggi urbani in mutamento. Dalle fabbriche agli edifici civili, dai volti degli operai e delle operaie alle macchine in funzione, dai movimenti sulle strade con biciclette e automobili alle insegne pubblicitarie.

Partendo dalle immagini dell’archivio e ispirandosi alla sceneggiatura “Questa è la nostra città” – soggetto per un film dedicato al 75° anniversario e commissionato nel 1947 dalla Pirelli ad Alberto Moravia e Roberto Rossellini – gli studenti saranno coinvolti nell’ideazione e nella scrittura di una scena originale ambientata nella Milano del Dopoguerra. Un esercizio creativo che, intrecciando fonti visive e letterarie, darà forma a una narrazione inedita capace di raccontare, con occhi nuovi, la vita in fabbrica nel tempo della ricostruzione.

Le scuole interessate a partecipare possono scrivere a scuole@fondazionepirelli.org

In occasione della XI edizione di Archivi Aperti, la rassegna promossa da Rete Fotografia per la valorizzazione del patrimonio fotografico, la Fondazione Pirelli organizza per il 23 ottobre 2025 un laboratorio didattico rivolto agli studenti delle scuole secondarie di II grado. Questa iniziativa aderisce alla proposta tematica dell’edizione 2025 “Fotografia resistente: il ruolo delle immagini nella narrazione storica”. Attraverso un convegno nazionale, visite guidate, incontri e laboratori per la cittadinanza e per le scuole, si esplorerà come la fotografia sia un potente strumento nel processo di costruzione, ricostruzione e sedimentazione della memoria.

Il laboratorio offre un percorso di approfondimento storico e visivo, mettendo in dialogo le fotografie d’archivio con altre fonti documentali. Gli studenti saranno guidati in un viaggio simbolico dentro una grande fabbrica del Secondo Dopoguerra, per osservare e interpretare le trasformazioni del mondo industriale: i ruoli, i volti, le dinamiche del lavoro. Allo stesso tempo, potranno “muoversi” idealmente tra le strade di una città – Milano – che in quegli anni vive profondi mutamenti, animata da una forte spinta verso la modernità e il progresso.

La Fondazione Pirelli custodisce un patrimonio fotografico che raccoglie migliaia di immagini dall’Ottocento a oggi e documenta, non solo l’evoluzione di una grande azienda, ma anche i profondi mutamenti sociali, economici e culturali dell’Italia, in particolare nel periodo cruciale dell’immediato Dopoguerra, della ricostruzione e del boom economico. Le fotografie conservate testimoniano le trasformazioni del Paese attraverso scene di vita quotidiana, luoghi di lavoro, infrastrutture in costruzione e paesaggi urbani in mutamento. Dalle fabbriche agli edifici civili, dai volti degli operai e delle operaie alle macchine in funzione, dai movimenti sulle strade con biciclette e automobili alle insegne pubblicitarie.

Partendo dalle immagini dell’archivio e ispirandosi alla sceneggiatura “Questa è la nostra città” – soggetto per un film dedicato al 75° anniversario e commissionato nel 1947 dalla Pirelli ad Alberto Moravia e Roberto Rossellini – gli studenti saranno coinvolti nell’ideazione e nella scrittura di una scena originale ambientata nella Milano del Dopoguerra. Un esercizio creativo che, intrecciando fonti visive e letterarie, darà forma a una narrazione inedita capace di raccontare, con occhi nuovi, la vita in fabbrica nel tempo della ricostruzione.

Le scuole interessate a partecipare possono scrivere a scuole@fondazionepirelli.org

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Etica come elemento imprescindibile dell’economia

Un intervento del Presidente di ABI sintetizza lucidamente alcuni principi cardine da seguire

 

Etica ed economia come due parti di uno stesso ragionamento. E come elementi di cui tenere conto anche nelle imprese. Per una cultura del produrre che sia attenta, ad un tempo, sia al profitto che alla modalità con cui questo si ottiene. Su questi temi ha ragionato recentemente Antonio Patuelli, Presidente di Associazione Bancaria Italiana (ABI) in un suo intervento. “Etica ed Economia” è una lucida sintesi dei principi che dovrebbero sorreggere ogni buona impresa, così come, d’altra parte, guidare ogni attore di un sistema economico moderno.

Profitto non opposto alla morale, dunque. Patuelli spiega come “la dimensione morale dell’economia e della finanza consente di cogliere come finalità inscindibili l’efficienza economica e la promozione di sviluppo solidale e sostenibile”. Una “base” che sostiene l’economia e la finanza nell’essere “fonti di creazione di ricchezze non fini a sé stesse, ma mezzi, strumenti per l’incremento dello sviluppo, del progresso, dei più alti gradi di civilizzazione”. Non solo principi, tuttavia. Patuelli, infatti, prosegue sottolineando che “in economia e finanza tutto ciò che è moralmente corretto, è finalizzato allo sviluppo globale e solidale della persona e della società che si può realizzare solo in una economia di mercato con sensibilità sociali, dove l’iniziativa privata goda di uno spazio ampio costituzionalmente garantito, con regole di mercato libero, concorrenziale e vigilato da Autorità indipendenti”.

Poi l’impresa, l’organizzazione della produzione per eccellenza. Il Presidente di ABI riprende la “Centesimus annus” e sottolinea: “L’impresa non può essere considerata solo come una società di capitali; essa è al tempo stesso una comunità di persone”. E quindi come sia doveroso valutare il benessere “con criteri più ampi del Pil, tenendo conto anche di altri parametri quali la sicurezza, la salute, la crescita del ‘capitale umano’, la qualità della vita sociale e del lavoro”.

E accanto all’impresa, il “precetto” per eccellenza dell’oggi: la sostenibilità vista come “alternativa all’attualismo, a tutto ciò che non valuta le conseguenze prospettiche. Sostenibilità – sottolinea Patuelli – è visione lunga e alternativa alle scelte basate anche sulla sondaggistica che analizza principalmente le conseguenze dei fenomeni”. Tutto da leggere l’intervento del Presidente dell’Associazione Bancaria Italiana.

Etica ed Economia

Antonio Patuelli

Associazione Bancaria Italiana – Università LINK, 24 settembre 2025

Un intervento del Presidente di ABI sintetizza lucidamente alcuni principi cardine da seguire

 

Etica ed economia come due parti di uno stesso ragionamento. E come elementi di cui tenere conto anche nelle imprese. Per una cultura del produrre che sia attenta, ad un tempo, sia al profitto che alla modalità con cui questo si ottiene. Su questi temi ha ragionato recentemente Antonio Patuelli, Presidente di Associazione Bancaria Italiana (ABI) in un suo intervento. “Etica ed Economia” è una lucida sintesi dei principi che dovrebbero sorreggere ogni buona impresa, così come, d’altra parte, guidare ogni attore di un sistema economico moderno.

Profitto non opposto alla morale, dunque. Patuelli spiega come “la dimensione morale dell’economia e della finanza consente di cogliere come finalità inscindibili l’efficienza economica e la promozione di sviluppo solidale e sostenibile”. Una “base” che sostiene l’economia e la finanza nell’essere “fonti di creazione di ricchezze non fini a sé stesse, ma mezzi, strumenti per l’incremento dello sviluppo, del progresso, dei più alti gradi di civilizzazione”. Non solo principi, tuttavia. Patuelli, infatti, prosegue sottolineando che “in economia e finanza tutto ciò che è moralmente corretto, è finalizzato allo sviluppo globale e solidale della persona e della società che si può realizzare solo in una economia di mercato con sensibilità sociali, dove l’iniziativa privata goda di uno spazio ampio costituzionalmente garantito, con regole di mercato libero, concorrenziale e vigilato da Autorità indipendenti”.

Poi l’impresa, l’organizzazione della produzione per eccellenza. Il Presidente di ABI riprende la “Centesimus annus” e sottolinea: “L’impresa non può essere considerata solo come una società di capitali; essa è al tempo stesso una comunità di persone”. E quindi come sia doveroso valutare il benessere “con criteri più ampi del Pil, tenendo conto anche di altri parametri quali la sicurezza, la salute, la crescita del ‘capitale umano’, la qualità della vita sociale e del lavoro”.

E accanto all’impresa, il “precetto” per eccellenza dell’oggi: la sostenibilità vista come “alternativa all’attualismo, a tutto ciò che non valuta le conseguenze prospettiche. Sostenibilità – sottolinea Patuelli – è visione lunga e alternativa alle scelte basate anche sulla sondaggistica che analizza principalmente le conseguenze dei fenomeni”. Tutto da leggere l’intervento del Presidente dell’Associazione Bancaria Italiana.

Etica ed Economia

Antonio Patuelli

Associazione Bancaria Italiana – Università LINK, 24 settembre 2025

A scuola da Alessandro Magno

Un libro dedicato alla figura del condottiero, delinea un metodo di gestione delle organizzazioni che parte dalla storia e arriva alla modernità

 

Imparare dagli antichi per essere più moderni. L’indicazione vale, spesso, un po’ per tutto e tutti, ma anche per la gestione avveduta d’impresa. Non, si badi bene, un ritorno al passato senza attenzione, ma il recupero di esperienze e metodi che in qualche possono essere utili e attuali anche oggi. E’ quanto hanno fatto Gianfranco Di Pietro e Andrea Lipparini (filosofo il primo ed esperto di strategia d’impresa il secondo), con il loro “Il coraggio e la visione. Alessandro Magno e la leadership generativa”, libro appena pubblicato sull’esperienza, come lo stesso titolo sintetizza, di Alessandro Magno.

I due autori partono da un interrogativo. Che cosa può insegnare Alessandro Magno ai leader di oggi? L’ovvia risposta affermativa deve però essere declinata in modo attento. Da un lato, infatti, c’è l’esempio fatto di coraggio, carisma, abilità strategiche e una straordinaria capacità di spingere gli altri a compiere imprese memorabili. Dall’altro, tuttavia, c’è, ad un certo punto della vicenda, l’incrinarsi del successo, la consapevolezza delle difficoltà e la capacità di fermarsi (e tornare indietro per non perdere tutto). Il libro racconta tutto questo ed effettua una trasposizione dell’esperienza di Alessandro Magno ad oggi.

Dopo una prima parte dedicata ai tratti generali dell’essere leader (e con un esempio reale indicato nella Ferrari ai tempi di Enzo Ferrari), il libro si sposta sul racconto della vicenda di Alessandro Magno vista dal punto di vista storico che da quello gestionale. Tutto, infine, trova sintesi in un ultimo capitolo – “Leader delle nostre brame. Tracce di leadership generativa” – che in nove passi delinea la figura e il contenuto di un nuovo modo di essere leader ispirato, appunto, da quanto vissuto da Alessandro Magno.

Letto con gli occhi all’oggi, il libro di Di Pietro e di Lipparini cerca di offrire spunti pratici a chi oggi guida le organizzazioni. Cerca cioè di rispondere a domande su come si costruisce fiducia, si alimenta il consenso, si tiene accesa una visione comune nei momenti di trasformazione profonda. E evidenzia anche gli errori più comuni: la leadership che mette al centro l’eroe e non la causa collettiva, la mancanza di riconoscimento in un ideale sentito da tutti. Il vero “andare oltre”, anche per chi gestisce un’impresa, fanno capire i due autori, sta nel saper riconoscere i propri limiti non per accettarli, ma per superarli.

Il coraggio e la visione. Alessandro Magno e la leadership generativa

Gianfranco Di Pietro, Andrea Lipparini

il Mulino, 2025

Un libro dedicato alla figura del condottiero, delinea un metodo di gestione delle organizzazioni che parte dalla storia e arriva alla modernità

 

Imparare dagli antichi per essere più moderni. L’indicazione vale, spesso, un po’ per tutto e tutti, ma anche per la gestione avveduta d’impresa. Non, si badi bene, un ritorno al passato senza attenzione, ma il recupero di esperienze e metodi che in qualche possono essere utili e attuali anche oggi. E’ quanto hanno fatto Gianfranco Di Pietro e Andrea Lipparini (filosofo il primo ed esperto di strategia d’impresa il secondo), con il loro “Il coraggio e la visione. Alessandro Magno e la leadership generativa”, libro appena pubblicato sull’esperienza, come lo stesso titolo sintetizza, di Alessandro Magno.

I due autori partono da un interrogativo. Che cosa può insegnare Alessandro Magno ai leader di oggi? L’ovvia risposta affermativa deve però essere declinata in modo attento. Da un lato, infatti, c’è l’esempio fatto di coraggio, carisma, abilità strategiche e una straordinaria capacità di spingere gli altri a compiere imprese memorabili. Dall’altro, tuttavia, c’è, ad un certo punto della vicenda, l’incrinarsi del successo, la consapevolezza delle difficoltà e la capacità di fermarsi (e tornare indietro per non perdere tutto). Il libro racconta tutto questo ed effettua una trasposizione dell’esperienza di Alessandro Magno ad oggi.

Dopo una prima parte dedicata ai tratti generali dell’essere leader (e con un esempio reale indicato nella Ferrari ai tempi di Enzo Ferrari), il libro si sposta sul racconto della vicenda di Alessandro Magno vista dal punto di vista storico che da quello gestionale. Tutto, infine, trova sintesi in un ultimo capitolo – “Leader delle nostre brame. Tracce di leadership generativa” – che in nove passi delinea la figura e il contenuto di un nuovo modo di essere leader ispirato, appunto, da quanto vissuto da Alessandro Magno.

Letto con gli occhi all’oggi, il libro di Di Pietro e di Lipparini cerca di offrire spunti pratici a chi oggi guida le organizzazioni. Cerca cioè di rispondere a domande su come si costruisce fiducia, si alimenta il consenso, si tiene accesa una visione comune nei momenti di trasformazione profonda. E evidenzia anche gli errori più comuni: la leadership che mette al centro l’eroe e non la causa collettiva, la mancanza di riconoscimento in un ideale sentito da tutti. Il vero “andare oltre”, anche per chi gestisce un’impresa, fanno capire i due autori, sta nel saper riconoscere i propri limiti non per accettarli, ma per superarli.

Il coraggio e la visione. Alessandro Magno e la leadership generativa

Gianfranco Di Pietro, Andrea Lipparini

il Mulino, 2025

L’Europa ha bisogno di investire sulla sicurezza ma anche di rileggere Mann, Unamuno e Balzac

Questa Europa così fragile, schiacciata tra gli Usa di Trump che la umiliano, la Russia di Putin che la tiene sotto minaccia di guerra e la Cina di XI JinPing che la lusinga come partner commerciale ma di serie B… Questa Europa così carica di cultura e tradizioni eppur incerta e smarrita sull’attualità dei suoi valori… Questa Europa, che ha nutrito un vocabolario di parole solenni ma troppo spesso parla con la lingua di legno di una mediocre burocrazia… Come fare rivivere questa Europa che si dispera e non sa più fare sognare?

È necessario tornare alle radici. E, forti della memoria, ripensare l’attualità della nostra democrazia e progettarne un migliore, più solido futuro. Con il coraggio e l’accortezza di chi si muove e ingaggia battaglie, politiche e culturali, anche in partibus infidelium.

Avevano poco più di trent’anni, Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni e poco più di quaranta Ernesto Rossi quando, nella durezza del confino su un’isola, nella stagione più buia del dominio violento del fascismo e del nazismo sull’Europa, scrissero quel “Manifesto di Ventotene” che avrebbe fatto da cardine della rinascita europea. Ed era appena finita la Seconda Guerra Mondiale, con il suo carico di orrori, quando Thomas Mann diede alle stampe “Moniti all’Europa”, un’antologia di saggi politici e civili in cui provava a ricostruire il senso di una civiltà che aveva il dovere di ispirare una nuova e migliore stagione di convivenza e democrazia.

Ecco, proprio in questo nostro tempo così incerto e drammatico, mentre camminiamo sull’orlo di un precipizio, lungo lo stretto e scivoloso crinale che separa la pace dalla guerra (ha ragione il presidente della Repubblica Sergio Mattarella quando evoca, come pericolo da evitare, lo spettro del 1914) bisogna ritornare alle fondamenta del nostro essere “Europa nonostante tutto”, rileggere buoni libri come quel “Manifesto” e le pagine di Mann e pronunciare “parole che fanno vivere” (l’ispirazione di Paul Eluard, nel 1944; ne abbiamo parlato nel blog dell’8 settembre).

Parole come queste: “Vincerete perché avete forza bruta in abbondanza, ma non convincerete. Per convincere bisogna persuadere e per persuadere avreste bisogno di qualcosa che vi manca: ragione e diritto nella lotta”. Le aveva pronunciate Miguel de Unamuno, filosofo e scrittore, rettore dell’università di Salamanca, nel 1936, davanti a una platea ostile di falangisti, i seguaci di estrema destra del generale Francisco Franco, oramai quasi vincitore della guerra civile spagnola.

L’Europa oggi è convincente? Persuade innanzitutto i suoi cittadini sull’importanza e la necessità di difendere e rilanciare i suoi valori, di fronte alle insidie dei suoi potenti e prepotenti avversari?

La frattura dell’idea forte di “Occidente” e di “democrazia”, con il nuovo corso di governo alla Casa Bianca, incrina profondamente il senso di fiducia sulla solidità e le prospettive di un’alleanza che ha segnato, anche sulla comunanza dei valori di democrazia e libertà e sulla sintonia degli interessi, tutto il corso della storia contemporanea, dal 1945 a oggi. E i sistemi autoritari e le “democrazie illiberali” trovano facili consensi (grazie anche alle capacità di inquinamento dei social media e alla disinformazione come atto di “guerra ibrida”) in settori crescenti delle opinioni pubbliche europee, nell’illusione delle scorciatoie facili e irresponsabili. Una situazione difficile, pericolosa. “Trump divide, Putin minaccia: la doppia trappola per l’Europa”, sintetizza La Stampa (23 settembre).

La crisi ha purtroppo radici profonde. Oramai da tempo, siamo di fronte a “La democrazia stanca”, come recita il titolo di un interessante libro di Michael J. Sandel, Feltrinelli. Sandel insegna Teoria del governo ad Harvard. E sostiene che viviamo “un pericoloso momento politico” anche per gli errori fatti proprio dalle democrazie occidentali nello sposare acriticamente “una globalizzazione guidata dalla finanza” e carica di conseguenze negative per lavoratori e ceti medi e cioè per i gruppi sociali e culturali che della democrazia liberale sono assi portanti. Non tutto, però, è perduto: “Per dare nuova vita alla democrazia dobbiamo riconfigurare l’economia e dare potere ai cittadini come protagonisti di una vita pubblica condivisa”.

Una economia “giusta”, ma anche circolare, sostenibile, coesiva, capace di coniugare produttività e inclusione sociale, competitività e solidarietà (torna d’attualità la lezione di John M. Keynes e dei suoi più recenti studiosi e rielaboratori: in Italia Federico Caffè, il maestro universitario di Mario Draghi, che oggi auspica un’Europa non rinunciataria e marginale ma “protagonista” della storia). Una economia “civile”, riprendendo in mano anche le indicazioni di chi, nella stagione più fertile e lungimirante dell’Illuminismo, da Napoli (Antonio Genovesi, teorico appunto dell’economia civile) a Milano (il “buon governo” analizzato e proposto dai fratelli Verri) aveva provato a indicare originali sintesi di riforme politiche e sviluppo economico.

Ecco, l’Illuminismo: uno dei frutti migliori della grande cultura europea, una straordinaria e attualissima lezione di civiltà. Da non dimenticare. Come ammonisce il cardinale di Torino Roberto Repole: “Oggi l’Europa conosce una certa secolarizzazione spirituale, ma ha tradito anche l’Illuminismo nella sua intuizione di fondo: che la libertà comporti l’assunzione di una responsabilità etica” (La Stampa, 24 settembre). Insiste Repole: “Abbiamo dato per scontate le acquisizioni del Novecento: la pace, il welfare, la salute. Abbiamo tramandato la memoria delle guerre ma non abbiamo più sentito il bisogno di riflettere sulle radici della pace che nasceva dalla coscienza etica delle generazioni che ci hanno preceduto. Rischiamo di perdere quello che abbiamo perché non abbiamo fatto manutenzione, non abbiamo considerato che la pace e il benessere non sono definitivi. Sono un processo dinamico”.

Gli illuministi ne erano consapevoli. Il primato della ragione. E la sua possibile crisi. Cui dare risposte. Lo sapeva bene pure Leonardo Sciascia, il nostro scrittore contemporaneo più sensibile alla loro lezione, aggiornata ai tempi: “A futura memoria”, era il titolo del suo ultimo libro (Bompiani, 1989), sintesi dei doveri della letteratura come lavoro creativo e responsabilità civile. Aggiungendo, però, come monito: “Se la memoria ha un futuro”.

L’illuminismo è la cultura di ieri che si riflette sull’oggi. E oggi, guardando al futuro, cosa è necessario che dica l’Europa?

Siamo l’unico territorio, nel mondo, ancora capace di tenere insieme, in una straordinaria e originale sintesi, la democrazia liberale, l’economia di mercato e il welfare e cioè le libertà, l’innovazione economica e sociale e la solidarietà. Un complesso sistema di valori forti, una sofisticata pratica di governo e di convivenza civica tra diversità. Ed è qui che bisogna insistere, anche con riforme coraggiose, sia istituzionali (la fine dell’unanimità per le decisioni dei 27 paesi della Ue, una tendenza comunque già in corso) sia politiche: gli investimenti comuni e la spesa pubblica efficiente ed efficace sui temi della sicurezza, dello sviluppo sostenibile, della conoscenza.

Fare rapidamente e bene. E anche far sapere, rendere gli europei consapevoli delle scelte da fare (e delle conseguenze) e memori dei valori di riferimento.

Ricostruire un convincente, persuasivo racconto dei valori, della forza e della necessità dell’Europa. Come democrazia. Paradigma di sviluppo equilibrato. Destino. Persuadere, appunto, come diceva Unamuno e come i migliori politici europei (dai “padri fondatori” a Kohl, Delors e Mitterrand) hanno fatto sino a ieri. E rilanciare culture e regole, come altra strada rispetto al primato della forza che nega civiltà e relazioni ispirate allo Stato di diritto.

Come? Ecco un altro punto di riflessione sulla crisi: la lingua dell’Europa. Certo non quella burocratica, fredda, distante e complicata di verbosi trattati e astrusi regolamenti. Né quella prolissa, formale e gelida di una Costituzione Ue (approvata dal Parlamento europeo nel 2004 ma mai entrata in vigore perché non ratificata da alcuni Stati membri) che conta 448 articoli, un’enormità, anche a confronto con i 139 articoli (più 18 articoli di “disposizioni transitorie e finali”) della Costituzione italiana, i 146 della Costituzione tedesca e gli 89 (più un Preambolo) della Costituzione francese.

La lingua della letteratura e dell’arte, semmai. Come spiega Antonio Spadaro su la Repubblica (24 settembre): “L’Europa è un grande romanzo. Al di là dei trattati, che non bastano, serve viverla come una narrazione epica, seguendo Mann e Musil, Balzac e Flaubert, Cervantes e, nell’attualità, Javier Cercas” e tutti gli altri, romanzieri e poeti, filosofi e storici, che ne hanno rappresentato, nel corso del tempo, controversie e legami. Perché “raccontarla così, come un romanzo, significa anche attraversarne i conflitti e farceli vivere, non negarli. Abitare le contraddizioni, non eluderle. Ricordare le ferite, non occultarle e dunque cominciare a farle guarire. Non cancellare lo scontro, ma attraversarlo”.

L’Europa come vita e destino, consapevolezza di radici e di visione di futuro, appunto. Non come territorio cui imporre un pensiero autoritario, troppo violento e infinitamente povero, rispetto alla ricca complessità della nostra storia, che merita di avere un domani.

Una dimensione così, declinata in coraggiose scelte politiche e in fermezza nel confrontarsi con il nostro alleato necessario, gli Usa e nel fare fronte efficacemente alle pressioni di chi detesta l’Europa e la sua ricchezza, non solo economica ma soprattutto spirituale, culturale e morale, può provare a far riappassionare all’Europa non solo i suoi cittadini ma anche e soprattutto le nuove generazioni.

Un’Europa in cui avere fiducia. Rafforzando quella che comunque già c’è. Come conferma lo European Sentiment Compass del 2025, elaborato in collaborazione con lo European Council on Foreign Relations e citato da due studiosi europei, Andre Wilkens e Pawel Zerka su Il Foglio (26 settembre). Il sentimento europeo – sostiene lo studio – si è rafforzato, plasmato dalla pandemia (l’Europa ha affrontato la crisi e il dopo crisi con spirito di collaborazione per i vaccini e le risposte sanitarie e con intelligenza economica e progettuale, con i finanziamenti Next Generation Europe) e poi dalla solidarietà concreta e attiva con l’Ucraina aggredita dalla Russia. E la fiducia nella Ue è al massimo dal 2007: “In quasi tutti gli Stati membri la maggioranza dei cittadini si sente legata all’Europa, si identifica come cittadino dell’Ue ed è ottimista sul futuro dell’Unione. E sempre più persone vedono l’Europa non solo come un progetto economico ma come una comunità di sicurezza e di destino comune”.

A leggere le cronache dei media e i resoconti delle posizioni politiche diffuse, non sembra proprio così. È necessario indagare e capire meglio. Ma di sicuro, sulla costruzione o ricostruzione o rafforzamento della fiducia bisogna muoversi con decisione. La sfida è politica, soprattutto oggi sul tema della sicurezza. Ma anche e soprattutto culturale, etica, civile. E su questi terreni l’Europa ha ancora buone carte da giocare.

(Photo Getty Images)

Questa Europa così fragile, schiacciata tra gli Usa di Trump che la umiliano, la Russia di Putin che la tiene sotto minaccia di guerra e la Cina di XI JinPing che la lusinga come partner commerciale ma di serie B… Questa Europa così carica di cultura e tradizioni eppur incerta e smarrita sull’attualità dei suoi valori… Questa Europa, che ha nutrito un vocabolario di parole solenni ma troppo spesso parla con la lingua di legno di una mediocre burocrazia… Come fare rivivere questa Europa che si dispera e non sa più fare sognare?

È necessario tornare alle radici. E, forti della memoria, ripensare l’attualità della nostra democrazia e progettarne un migliore, più solido futuro. Con il coraggio e l’accortezza di chi si muove e ingaggia battaglie, politiche e culturali, anche in partibus infidelium.

Avevano poco più di trent’anni, Altiero Spinelli ed Eugenio Colorni e poco più di quaranta Ernesto Rossi quando, nella durezza del confino su un’isola, nella stagione più buia del dominio violento del fascismo e del nazismo sull’Europa, scrissero quel “Manifesto di Ventotene” che avrebbe fatto da cardine della rinascita europea. Ed era appena finita la Seconda Guerra Mondiale, con il suo carico di orrori, quando Thomas Mann diede alle stampe “Moniti all’Europa”, un’antologia di saggi politici e civili in cui provava a ricostruire il senso di una civiltà che aveva il dovere di ispirare una nuova e migliore stagione di convivenza e democrazia.

Ecco, proprio in questo nostro tempo così incerto e drammatico, mentre camminiamo sull’orlo di un precipizio, lungo lo stretto e scivoloso crinale che separa la pace dalla guerra (ha ragione il presidente della Repubblica Sergio Mattarella quando evoca, come pericolo da evitare, lo spettro del 1914) bisogna ritornare alle fondamenta del nostro essere “Europa nonostante tutto”, rileggere buoni libri come quel “Manifesto” e le pagine di Mann e pronunciare “parole che fanno vivere” (l’ispirazione di Paul Eluard, nel 1944; ne abbiamo parlato nel blog dell’8 settembre).

Parole come queste: “Vincerete perché avete forza bruta in abbondanza, ma non convincerete. Per convincere bisogna persuadere e per persuadere avreste bisogno di qualcosa che vi manca: ragione e diritto nella lotta”. Le aveva pronunciate Miguel de Unamuno, filosofo e scrittore, rettore dell’università di Salamanca, nel 1936, davanti a una platea ostile di falangisti, i seguaci di estrema destra del generale Francisco Franco, oramai quasi vincitore della guerra civile spagnola.

L’Europa oggi è convincente? Persuade innanzitutto i suoi cittadini sull’importanza e la necessità di difendere e rilanciare i suoi valori, di fronte alle insidie dei suoi potenti e prepotenti avversari?

La frattura dell’idea forte di “Occidente” e di “democrazia”, con il nuovo corso di governo alla Casa Bianca, incrina profondamente il senso di fiducia sulla solidità e le prospettive di un’alleanza che ha segnato, anche sulla comunanza dei valori di democrazia e libertà e sulla sintonia degli interessi, tutto il corso della storia contemporanea, dal 1945 a oggi. E i sistemi autoritari e le “democrazie illiberali” trovano facili consensi (grazie anche alle capacità di inquinamento dei social media e alla disinformazione come atto di “guerra ibrida”) in settori crescenti delle opinioni pubbliche europee, nell’illusione delle scorciatoie facili e irresponsabili. Una situazione difficile, pericolosa. “Trump divide, Putin minaccia: la doppia trappola per l’Europa”, sintetizza La Stampa (23 settembre).

La crisi ha purtroppo radici profonde. Oramai da tempo, siamo di fronte a “La democrazia stanca”, come recita il titolo di un interessante libro di Michael J. Sandel, Feltrinelli. Sandel insegna Teoria del governo ad Harvard. E sostiene che viviamo “un pericoloso momento politico” anche per gli errori fatti proprio dalle democrazie occidentali nello sposare acriticamente “una globalizzazione guidata dalla finanza” e carica di conseguenze negative per lavoratori e ceti medi e cioè per i gruppi sociali e culturali che della democrazia liberale sono assi portanti. Non tutto, però, è perduto: “Per dare nuova vita alla democrazia dobbiamo riconfigurare l’economia e dare potere ai cittadini come protagonisti di una vita pubblica condivisa”.

Una economia “giusta”, ma anche circolare, sostenibile, coesiva, capace di coniugare produttività e inclusione sociale, competitività e solidarietà (torna d’attualità la lezione di John M. Keynes e dei suoi più recenti studiosi e rielaboratori: in Italia Federico Caffè, il maestro universitario di Mario Draghi, che oggi auspica un’Europa non rinunciataria e marginale ma “protagonista” della storia). Una economia “civile”, riprendendo in mano anche le indicazioni di chi, nella stagione più fertile e lungimirante dell’Illuminismo, da Napoli (Antonio Genovesi, teorico appunto dell’economia civile) a Milano (il “buon governo” analizzato e proposto dai fratelli Verri) aveva provato a indicare originali sintesi di riforme politiche e sviluppo economico.

Ecco, l’Illuminismo: uno dei frutti migliori della grande cultura europea, una straordinaria e attualissima lezione di civiltà. Da non dimenticare. Come ammonisce il cardinale di Torino Roberto Repole: “Oggi l’Europa conosce una certa secolarizzazione spirituale, ma ha tradito anche l’Illuminismo nella sua intuizione di fondo: che la libertà comporti l’assunzione di una responsabilità etica” (La Stampa, 24 settembre). Insiste Repole: “Abbiamo dato per scontate le acquisizioni del Novecento: la pace, il welfare, la salute. Abbiamo tramandato la memoria delle guerre ma non abbiamo più sentito il bisogno di riflettere sulle radici della pace che nasceva dalla coscienza etica delle generazioni che ci hanno preceduto. Rischiamo di perdere quello che abbiamo perché non abbiamo fatto manutenzione, non abbiamo considerato che la pace e il benessere non sono definitivi. Sono un processo dinamico”.

Gli illuministi ne erano consapevoli. Il primato della ragione. E la sua possibile crisi. Cui dare risposte. Lo sapeva bene pure Leonardo Sciascia, il nostro scrittore contemporaneo più sensibile alla loro lezione, aggiornata ai tempi: “A futura memoria”, era il titolo del suo ultimo libro (Bompiani, 1989), sintesi dei doveri della letteratura come lavoro creativo e responsabilità civile. Aggiungendo, però, come monito: “Se la memoria ha un futuro”.

L’illuminismo è la cultura di ieri che si riflette sull’oggi. E oggi, guardando al futuro, cosa è necessario che dica l’Europa?

Siamo l’unico territorio, nel mondo, ancora capace di tenere insieme, in una straordinaria e originale sintesi, la democrazia liberale, l’economia di mercato e il welfare e cioè le libertà, l’innovazione economica e sociale e la solidarietà. Un complesso sistema di valori forti, una sofisticata pratica di governo e di convivenza civica tra diversità. Ed è qui che bisogna insistere, anche con riforme coraggiose, sia istituzionali (la fine dell’unanimità per le decisioni dei 27 paesi della Ue, una tendenza comunque già in corso) sia politiche: gli investimenti comuni e la spesa pubblica efficiente ed efficace sui temi della sicurezza, dello sviluppo sostenibile, della conoscenza.

Fare rapidamente e bene. E anche far sapere, rendere gli europei consapevoli delle scelte da fare (e delle conseguenze) e memori dei valori di riferimento.

Ricostruire un convincente, persuasivo racconto dei valori, della forza e della necessità dell’Europa. Come democrazia. Paradigma di sviluppo equilibrato. Destino. Persuadere, appunto, come diceva Unamuno e come i migliori politici europei (dai “padri fondatori” a Kohl, Delors e Mitterrand) hanno fatto sino a ieri. E rilanciare culture e regole, come altra strada rispetto al primato della forza che nega civiltà e relazioni ispirate allo Stato di diritto.

Come? Ecco un altro punto di riflessione sulla crisi: la lingua dell’Europa. Certo non quella burocratica, fredda, distante e complicata di verbosi trattati e astrusi regolamenti. Né quella prolissa, formale e gelida di una Costituzione Ue (approvata dal Parlamento europeo nel 2004 ma mai entrata in vigore perché non ratificata da alcuni Stati membri) che conta 448 articoli, un’enormità, anche a confronto con i 139 articoli (più 18 articoli di “disposizioni transitorie e finali”) della Costituzione italiana, i 146 della Costituzione tedesca e gli 89 (più un Preambolo) della Costituzione francese.

La lingua della letteratura e dell’arte, semmai. Come spiega Antonio Spadaro su la Repubblica (24 settembre): “L’Europa è un grande romanzo. Al di là dei trattati, che non bastano, serve viverla come una narrazione epica, seguendo Mann e Musil, Balzac e Flaubert, Cervantes e, nell’attualità, Javier Cercas” e tutti gli altri, romanzieri e poeti, filosofi e storici, che ne hanno rappresentato, nel corso del tempo, controversie e legami. Perché “raccontarla così, come un romanzo, significa anche attraversarne i conflitti e farceli vivere, non negarli. Abitare le contraddizioni, non eluderle. Ricordare le ferite, non occultarle e dunque cominciare a farle guarire. Non cancellare lo scontro, ma attraversarlo”.

L’Europa come vita e destino, consapevolezza di radici e di visione di futuro, appunto. Non come territorio cui imporre un pensiero autoritario, troppo violento e infinitamente povero, rispetto alla ricca complessità della nostra storia, che merita di avere un domani.

Una dimensione così, declinata in coraggiose scelte politiche e in fermezza nel confrontarsi con il nostro alleato necessario, gli Usa e nel fare fronte efficacemente alle pressioni di chi detesta l’Europa e la sua ricchezza, non solo economica ma soprattutto spirituale, culturale e morale, può provare a far riappassionare all’Europa non solo i suoi cittadini ma anche e soprattutto le nuove generazioni.

Un’Europa in cui avere fiducia. Rafforzando quella che comunque già c’è. Come conferma lo European Sentiment Compass del 2025, elaborato in collaborazione con lo European Council on Foreign Relations e citato da due studiosi europei, Andre Wilkens e Pawel Zerka su Il Foglio (26 settembre). Il sentimento europeo – sostiene lo studio – si è rafforzato, plasmato dalla pandemia (l’Europa ha affrontato la crisi e il dopo crisi con spirito di collaborazione per i vaccini e le risposte sanitarie e con intelligenza economica e progettuale, con i finanziamenti Next Generation Europe) e poi dalla solidarietà concreta e attiva con l’Ucraina aggredita dalla Russia. E la fiducia nella Ue è al massimo dal 2007: “In quasi tutti gli Stati membri la maggioranza dei cittadini si sente legata all’Europa, si identifica come cittadino dell’Ue ed è ottimista sul futuro dell’Unione. E sempre più persone vedono l’Europa non solo come un progetto economico ma come una comunità di sicurezza e di destino comune”.

A leggere le cronache dei media e i resoconti delle posizioni politiche diffuse, non sembra proprio così. È necessario indagare e capire meglio. Ma di sicuro, sulla costruzione o ricostruzione o rafforzamento della fiducia bisogna muoversi con decisione. La sfida è politica, soprattutto oggi sul tema della sicurezza. Ma anche e soprattutto culturale, etica, civile. E su questi terreni l’Europa ha ancora buone carte da giocare.

(Photo Getty Images)

Pirelli e il made in Italy a Venezia: M9 – Museo del 900 ospita i grandi brand di “Identitalia”

“Identitalia – The Iconic Italian brands”, l’esposizione dedicata ai grandi marchi italiani a cura del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, approda a Venezia. È stata inaugurata il 26 settembre 2025 presso la FONDAZIONE M9 – MUSEO DEL 900 di Venezia Mestre, la riedizione della mostra allestita nel 2024 presso Palazzo Piacentini a Roma in occasione dei 140 anni dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi.

Pirelli è stata nuovamente chiamata a contribuire all’iniziativa con una selezione di documenti, oggetti, fotografie e materiali audiovisivi che ripercorrono passato e presente dell’impresa. Le evoluzioni del logo, dalle prime versioni di fine Ottocento all’iconica P lunga; il mondo delle corse, documentato attraverso le fotografie dei successi sportivi su due e quattro ruote, dall’avventura della Pechino-Parigi alle piste della Formula 1, passando per le fabbriche e i laboratori di Ricerca e Sviluppo. E ancora: la comunicazione visiva nelle campagne pubblicitarie, dalle visioni futuriste degli anni Trenta all’immaginario dei designer internazionali negli anni del boom, fino all’indimenticabile scatto di Annie Leibovitz, che nel 1994 immortala Carl Lewis sui tacchi a spillo, primo testimonial olimpico per il celebre claim “Power is Nothing without Control”.

In mostra ci sarà anche il Calendario Pirelli 2007 firmato dal duo olandese Inez van Lamsweerde e Vinoodh Matadin, con una modella d’eccezione in copertina: Sophia Loren, diva e divina in bianco e nero.

Consolidando il legame con il MIMIT, l’esposizione conferma il ruolo dell’azienda tra i grandi brand simbolo del Made in Italy: una “P lunga” che, partendo da Milano oltre un secolo e mezzo fa, è oggi riconosciuta in tutto il mondo.

“Identitalia – The Iconic Italian brands”, l’esposizione dedicata ai grandi marchi italiani a cura del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, approda a Venezia. È stata inaugurata il 26 settembre 2025 presso la FONDAZIONE M9 – MUSEO DEL 900 di Venezia Mestre, la riedizione della mostra allestita nel 2024 presso Palazzo Piacentini a Roma in occasione dei 140 anni dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi.

Pirelli è stata nuovamente chiamata a contribuire all’iniziativa con una selezione di documenti, oggetti, fotografie e materiali audiovisivi che ripercorrono passato e presente dell’impresa. Le evoluzioni del logo, dalle prime versioni di fine Ottocento all’iconica P lunga; il mondo delle corse, documentato attraverso le fotografie dei successi sportivi su due e quattro ruote, dall’avventura della Pechino-Parigi alle piste della Formula 1, passando per le fabbriche e i laboratori di Ricerca e Sviluppo. E ancora: la comunicazione visiva nelle campagne pubblicitarie, dalle visioni futuriste degli anni Trenta all’immaginario dei designer internazionali negli anni del boom, fino all’indimenticabile scatto di Annie Leibovitz, che nel 1994 immortala Carl Lewis sui tacchi a spillo, primo testimonial olimpico per il celebre claim “Power is Nothing without Control”.

In mostra ci sarà anche il Calendario Pirelli 2007 firmato dal duo olandese Inez van Lamsweerde e Vinoodh Matadin, con una modella d’eccezione in copertina: Sophia Loren, diva e divina in bianco e nero.

Consolidando il legame con il MIMIT, l’esposizione conferma il ruolo dell’azienda tra i grandi brand simbolo del Made in Italy: una “P lunga” che, partendo da Milano oltre un secolo e mezzo fa, è oggi riconosciuta in tutto il mondo.

Pordenonelegge, “il miracolo di una città che si fa libro” grazie al legame tra l’industria e la cultura

Pescatori di idee e di parole. Per farne ingredienti di sapide conversazioni. E di civili relazioni. Vengono in mente pensieri leggeri e curiosi, guardando i manifesti di quest’anno di Pordenonelegge, il festival dei buoni libri e degli incontri colti e civili: c’è un amo che, invece che un pesce, solleva il lembo d’una pagina gialla e svela il lembo azzurro e stellato della bandiera europea. E su tutto, lo slogan esemplare: “amoleggere”, per dare senso alla “Festa del libro e della libertà”.

Giallo è il colore simbolo di un’iniziativa, Pordenonelegge, arrivata alla sua 26° edizione che, a metà settembre, è oramai tappa obbligata per scrittori e lettori, personalità della cultura e giovani che arrivano da tutta Italia e anche dall’estero per ascoltare, leggere, discutere, cercare di capire, fare i conti insomma con quel mondo dei racconti e delle idee che in certi momenti sembra condannato al degrado e al declino e che invece, proprio qui, in queste strade d’un bellissimo centro storico e in queste piazze impavesate, appunto, di giallo, mostra non solo una robusta resilienza ma soprattutto un’inaspettata vitalità. Che adesso guarda a un altro ambizioso appuntamento: Pordenone come Capitale italiana della cultura nel 2027.

Quali sono le radici di questo fenomeno, industriale e culturale? E che prospettive è possibile leggere, da qui, per il futuro dell’Italia produttiva e cioè, tutto sommato, dell’Italia che nella sua storia trova una straordinaria forza propulsiva e nell’Europa il suo destino?
Appunto all’Europa è dedicata questa Festa del libro, nella piena consapevolezza dei suoi limiti ma anche della necessità di darle forza e sviluppo (gli imprenditori nordestini e qui friulani lo sanno bene per esperienza e cultura). Ed è dalla determinazione degli uomini e delle donne d’impresa che nasce la prima edizione, nel 2000 (cambio simbolico di secolo e di millennio, “Stiamo trasecolando”, avrebbe detto Enzo Sellerio che di libri e idee aveva profonda, ironica e critica conoscenza).
La volontà fondatrice è della Camera di Commercio, all’epoca presieduta da Augusto Antonucci. E le danno appoggio concreto le associazioni delle categorie imprenditoriali, a cominciare da Confindustria e continuando con Confcommercio, Coldiretti, Confcooperative e Confartigianato. Una festa del libro che ha radici nel mondo economico, nelle forze produttive. La politica locale e regionale poi seguirà.
Quest’anima imprenditoriale si rafforza nel corso del tempo. E da anni il suo esponente più dinamico è Michelangelo Agrusti, ex parlamentare Dc e imprenditore nel settore delle costruzioni navali, presidente di Confindustria Alto Adriatico (riunisce le imprese di Pordenone, Gorizia e Trieste) e della Fondazione Pordenonelegge. Industria e cultura, appunto, con una solida coscienza sociale e civile.

Le intenzioni sono chiare fin dall’inizio: attirare sulla città l’attenzione dei media, del mondo dell’editoria e del pubblico, valorizzando le ricchezze culturali, storiche e paesaggistiche di un’area sino ad allora nota soprattutto come territorio manifatturiero. E dunque “aiutare istituzioni, imprenditori, operatori economici e cittadini ad ampliare ed approfondire le proprie conoscenze, stimolando il confronto con intellettuali, editori, autori e personalità di rilevo nazionale e internazionale in campo letterario, artistico e culturale”. Nel tempo si cresce. E nel corso degli ultimi anni sono state registrate in media 120mila presenze annuali. Con un forte ritorno economico: per ogni euro pubblico investito ne ricadono sul territorio 10,24 (lo certifica una ricerca dell’Università Bocconi).
Sostiene Agrusti: “Amoleggere quest’anno è una dichiarazione di interesse per il proprio tempo e per la decodificazione della sua complessità: chi legge non solo si informa, ma sceglie di approfondire criticamente i temi, con la consapevolezza che deriva dalla conoscenza”. E “anche quest’anno si è ripetuto il miracolo della città che si fa libro”.

Pordenonelegge è, per questo, un festival concepito “sull’uscio della storia”,” un osservatorio attivo della realtà contemporanea”. La dedica speciale all’Europa “insiste sull’istituzione della quale tutti abbiamo grande bisogno, nel contesto storico e geopolitico che stiamo attraversando. E che, a sua volta, è chiamata a superare i rischi di un declino strutturale e le sfide della crisi esistenziale prospettata dal Rapporto Draghi”.
Europa, dunque, obbligata a rafforzare “il suo ruolo di riferimento dei valori costitutivi alla base dei Trattati: giustizia, democrazia, libertà, Stato di diritto, rispetto dei diritti umani. Principi che il terzo millennio mette in discussione a tante, troppe latitudini del pianeta”. L’apertura della Festa con un incontro con Shirin Ebadi, la scrittrice iraniana premio Nobel per la Pace e la chiusura con l’Inno alla Gioia di Beethoven ne sono le connotazioni essenziali.

Industria e cultura, dicevamo. Ma anche, più significativamente, industria che fa cultura. E, meglio ancora, “industria è cultura”, se cultura, oltre che letteratura e arte, teatro e musica, sono anche la scienza, le tecnologie, un brevetto industriale o di design, un nuovo prodotto high tech, un algoritmo dell’Intelligenza Artificiale, un contratto di lavoro innovativo delle relazioni sociali, un modo sostenibile di organizzare la logistica o le relazioni positive tra industria e ambiente.
La lezione sull’importanza della “cultura materiale”, cara agli storici francesi della scuola delle Annales, anche qui, in territorio friulano, trova significative conferme.
Era territorio contadino, nel dopoguerra. Povero ma operoso. Segnato dall’emigrazione verso le aree industriali forti, la Lombardia e il Piemonte dell’auto. Ma con un forte orgoglio delle radici. E, tra chi restava, con una cultura diffusa del lavoro, della cooperazione, dei valori del credito locale, della solidarietà. Negli anni del boom, la scoperta dell’industria, a cominciare da quella del “bianco” (elettrodomestici: Zanussi e poi Electrolux) e dalla metalmeccanica leggera, del legno e dell’arredamento, delle macchine tessili e delle ceramiche e poi, in tempi più recenti, della cantieristica navale e del suo sofisticato indotto produttivo.
Il racconto delle trasformazioni si può leggere in un libro snello e denso, “Laboratorio Pordenone”, di Giuseppe Lupo, storico dei rapporti tra letteratura e industria, recente vincitore del Premio letterario Friuli Venezia Giulia: “Il miracolo economico non si è concentrato solo a Milano o a Torino. Anzi sono state proprio le realtà ai margini a registrare il passaggio di civiltà in maniera meno traumatica rispetto alle metropoli, tant’è che a Pordenone l’antropologia della terra non è mai del tutto sparita. Su questa commistione tra industria e campagna, fra usanze vecchie di secoli e spregiudicatezza imprenditoriale, diciamo pure su una mistica del lavoro quasi calvinista, il Nord Est italiano ha fondato la sua fortuna economica contribuendo a formare la figura del metalmezzadro”.
Una figura diffusa, metà operaio metà contadino, frequente anche negli stabilimenti industriali del Mezzogiorno, da Melfi a Termini Imerese. Con alcune differenze: nelle imprese del Sud le stagioni dei raccolti (il grano, le ulive, l’uva…) coincidevano con picchi di assenteismo in fabbrica. Nel Nord Est, invece, con una compatibilità più virtuosa, con una somma di tempi di lavoro.
Scrive Lupo, infatti, che a Pordenone “il vecchio mondo ha continuato a resistere anche in presenza del nuovo, l’anima contadina, quella che parlava in dialetto e si sentiva radicata al territorio, non ha mai ceduto fino in fondo all’incedere della modernità, quasi opponesse una specie di nascosta resistenza (o di rivincita) al pericolo che essa, la modernità, rendesse ogni cosa omologabile, sia nella Pordenone in bianco e nero degli anni Sessanta, sia negli ultimi decenni, quando il bisogno di manodopera ha spinto Confindustria a inventarsi una strategia per regolamentare il trasferimento in città di singoli individui o di famiglie da inserire nel tessuto produttivo”.
Insiste Lupo: “In assenza di istituzioni culturali, è toccato alle aziende candidarsi a motore di sviluppo promuovendo iniziative che riguardano i libri, la lettura, l’arte, il cinema, il teatro. Così è nato il festival Pordenonelegge, uno degli appuntamenti dedicato ai libri più importanti dell’anno nel panorama italiano”. Perché? “Nessun benessere materiale può realizzarsi senza cultura e questa città declina in maniera particolare il rapporto tra azienda e territorio perfino in una fase delicata come il passaggio all’industria 4.0”.

La conferma viene dal Polo Tecnologico, progettato come un incubatore di nuove imprese, con sostegni legati alle competenze tecniche e alle risorse finanziarie, nella transizione digitale e ambientale, senza rigidità burocratiche e una solida idea della produttività. Esemplare anche la Lef e cioè la “Lean Experience Factory”, inaugurata nel 2011 alle porte di Pordenone (Agrusti ne è il presidente). Racconta Lupo: “È una sorta di fabbrica-scuola, sarebbe meglio definire centro di formazione esperienziale che insegna a ottimizzare i processi produttivi. Più che fabbrica modello, si tratta di un modellatore di fabbrica perché elabora (con gli interessati) il miglior modello produttivo di certi processi industriali. Un’officina pedagogica, insomma, a metà strada tra fabbrica del fare e fabbrica del pensare. Vale per la Lef, ma potrebbe funzionare per l’intero sistema Pordenone”.
Rieccola, dunque, la sintesi virtuosa “impresa è cultura”. Cultura del saper fare. E del fare sapere. Pordenonelegge, con la sua “Festa del libro e della libertà” ne è strumento fondamentale.

(foto: Cozzarin)

Pescatori di idee e di parole. Per farne ingredienti di sapide conversazioni. E di civili relazioni. Vengono in mente pensieri leggeri e curiosi, guardando i manifesti di quest’anno di Pordenonelegge, il festival dei buoni libri e degli incontri colti e civili: c’è un amo che, invece che un pesce, solleva il lembo d’una pagina gialla e svela il lembo azzurro e stellato della bandiera europea. E su tutto, lo slogan esemplare: “amoleggere”, per dare senso alla “Festa del libro e della libertà”.

Giallo è il colore simbolo di un’iniziativa, Pordenonelegge, arrivata alla sua 26° edizione che, a metà settembre, è oramai tappa obbligata per scrittori e lettori, personalità della cultura e giovani che arrivano da tutta Italia e anche dall’estero per ascoltare, leggere, discutere, cercare di capire, fare i conti insomma con quel mondo dei racconti e delle idee che in certi momenti sembra condannato al degrado e al declino e che invece, proprio qui, in queste strade d’un bellissimo centro storico e in queste piazze impavesate, appunto, di giallo, mostra non solo una robusta resilienza ma soprattutto un’inaspettata vitalità. Che adesso guarda a un altro ambizioso appuntamento: Pordenone come Capitale italiana della cultura nel 2027.

Quali sono le radici di questo fenomeno, industriale e culturale? E che prospettive è possibile leggere, da qui, per il futuro dell’Italia produttiva e cioè, tutto sommato, dell’Italia che nella sua storia trova una straordinaria forza propulsiva e nell’Europa il suo destino?
Appunto all’Europa è dedicata questa Festa del libro, nella piena consapevolezza dei suoi limiti ma anche della necessità di darle forza e sviluppo (gli imprenditori nordestini e qui friulani lo sanno bene per esperienza e cultura). Ed è dalla determinazione degli uomini e delle donne d’impresa che nasce la prima edizione, nel 2000 (cambio simbolico di secolo e di millennio, “Stiamo trasecolando”, avrebbe detto Enzo Sellerio che di libri e idee aveva profonda, ironica e critica conoscenza).
La volontà fondatrice è della Camera di Commercio, all’epoca presieduta da Augusto Antonucci. E le danno appoggio concreto le associazioni delle categorie imprenditoriali, a cominciare da Confindustria e continuando con Confcommercio, Coldiretti, Confcooperative e Confartigianato. Una festa del libro che ha radici nel mondo economico, nelle forze produttive. La politica locale e regionale poi seguirà.
Quest’anima imprenditoriale si rafforza nel corso del tempo. E da anni il suo esponente più dinamico è Michelangelo Agrusti, ex parlamentare Dc e imprenditore nel settore delle costruzioni navali, presidente di Confindustria Alto Adriatico (riunisce le imprese di Pordenone, Gorizia e Trieste) e della Fondazione Pordenonelegge. Industria e cultura, appunto, con una solida coscienza sociale e civile.

Le intenzioni sono chiare fin dall’inizio: attirare sulla città l’attenzione dei media, del mondo dell’editoria e del pubblico, valorizzando le ricchezze culturali, storiche e paesaggistiche di un’area sino ad allora nota soprattutto come territorio manifatturiero. E dunque “aiutare istituzioni, imprenditori, operatori economici e cittadini ad ampliare ed approfondire le proprie conoscenze, stimolando il confronto con intellettuali, editori, autori e personalità di rilevo nazionale e internazionale in campo letterario, artistico e culturale”. Nel tempo si cresce. E nel corso degli ultimi anni sono state registrate in media 120mila presenze annuali. Con un forte ritorno economico: per ogni euro pubblico investito ne ricadono sul territorio 10,24 (lo certifica una ricerca dell’Università Bocconi).
Sostiene Agrusti: “Amoleggere quest’anno è una dichiarazione di interesse per il proprio tempo e per la decodificazione della sua complessità: chi legge non solo si informa, ma sceglie di approfondire criticamente i temi, con la consapevolezza che deriva dalla conoscenza”. E “anche quest’anno si è ripetuto il miracolo della città che si fa libro”.

Pordenonelegge è, per questo, un festival concepito “sull’uscio della storia”,” un osservatorio attivo della realtà contemporanea”. La dedica speciale all’Europa “insiste sull’istituzione della quale tutti abbiamo grande bisogno, nel contesto storico e geopolitico che stiamo attraversando. E che, a sua volta, è chiamata a superare i rischi di un declino strutturale e le sfide della crisi esistenziale prospettata dal Rapporto Draghi”.
Europa, dunque, obbligata a rafforzare “il suo ruolo di riferimento dei valori costitutivi alla base dei Trattati: giustizia, democrazia, libertà, Stato di diritto, rispetto dei diritti umani. Principi che il terzo millennio mette in discussione a tante, troppe latitudini del pianeta”. L’apertura della Festa con un incontro con Shirin Ebadi, la scrittrice iraniana premio Nobel per la Pace e la chiusura con l’Inno alla Gioia di Beethoven ne sono le connotazioni essenziali.

Industria e cultura, dicevamo. Ma anche, più significativamente, industria che fa cultura. E, meglio ancora, “industria è cultura”, se cultura, oltre che letteratura e arte, teatro e musica, sono anche la scienza, le tecnologie, un brevetto industriale o di design, un nuovo prodotto high tech, un algoritmo dell’Intelligenza Artificiale, un contratto di lavoro innovativo delle relazioni sociali, un modo sostenibile di organizzare la logistica o le relazioni positive tra industria e ambiente.
La lezione sull’importanza della “cultura materiale”, cara agli storici francesi della scuola delle Annales, anche qui, in territorio friulano, trova significative conferme.
Era territorio contadino, nel dopoguerra. Povero ma operoso. Segnato dall’emigrazione verso le aree industriali forti, la Lombardia e il Piemonte dell’auto. Ma con un forte orgoglio delle radici. E, tra chi restava, con una cultura diffusa del lavoro, della cooperazione, dei valori del credito locale, della solidarietà. Negli anni del boom, la scoperta dell’industria, a cominciare da quella del “bianco” (elettrodomestici: Zanussi e poi Electrolux) e dalla metalmeccanica leggera, del legno e dell’arredamento, delle macchine tessili e delle ceramiche e poi, in tempi più recenti, della cantieristica navale e del suo sofisticato indotto produttivo.
Il racconto delle trasformazioni si può leggere in un libro snello e denso, “Laboratorio Pordenone”, di Giuseppe Lupo, storico dei rapporti tra letteratura e industria, recente vincitore del Premio letterario Friuli Venezia Giulia: “Il miracolo economico non si è concentrato solo a Milano o a Torino. Anzi sono state proprio le realtà ai margini a registrare il passaggio di civiltà in maniera meno traumatica rispetto alle metropoli, tant’è che a Pordenone l’antropologia della terra non è mai del tutto sparita. Su questa commistione tra industria e campagna, fra usanze vecchie di secoli e spregiudicatezza imprenditoriale, diciamo pure su una mistica del lavoro quasi calvinista, il Nord Est italiano ha fondato la sua fortuna economica contribuendo a formare la figura del metalmezzadro”.
Una figura diffusa, metà operaio metà contadino, frequente anche negli stabilimenti industriali del Mezzogiorno, da Melfi a Termini Imerese. Con alcune differenze: nelle imprese del Sud le stagioni dei raccolti (il grano, le ulive, l’uva…) coincidevano con picchi di assenteismo in fabbrica. Nel Nord Est, invece, con una compatibilità più virtuosa, con una somma di tempi di lavoro.
Scrive Lupo, infatti, che a Pordenone “il vecchio mondo ha continuato a resistere anche in presenza del nuovo, l’anima contadina, quella che parlava in dialetto e si sentiva radicata al territorio, non ha mai ceduto fino in fondo all’incedere della modernità, quasi opponesse una specie di nascosta resistenza (o di rivincita) al pericolo che essa, la modernità, rendesse ogni cosa omologabile, sia nella Pordenone in bianco e nero degli anni Sessanta, sia negli ultimi decenni, quando il bisogno di manodopera ha spinto Confindustria a inventarsi una strategia per regolamentare il trasferimento in città di singoli individui o di famiglie da inserire nel tessuto produttivo”.
Insiste Lupo: “In assenza di istituzioni culturali, è toccato alle aziende candidarsi a motore di sviluppo promuovendo iniziative che riguardano i libri, la lettura, l’arte, il cinema, il teatro. Così è nato il festival Pordenonelegge, uno degli appuntamenti dedicato ai libri più importanti dell’anno nel panorama italiano”. Perché? “Nessun benessere materiale può realizzarsi senza cultura e questa città declina in maniera particolare il rapporto tra azienda e territorio perfino in una fase delicata come il passaggio all’industria 4.0”.

La conferma viene dal Polo Tecnologico, progettato come un incubatore di nuove imprese, con sostegni legati alle competenze tecniche e alle risorse finanziarie, nella transizione digitale e ambientale, senza rigidità burocratiche e una solida idea della produttività. Esemplare anche la Lef e cioè la “Lean Experience Factory”, inaugurata nel 2011 alle porte di Pordenone (Agrusti ne è il presidente). Racconta Lupo: “È una sorta di fabbrica-scuola, sarebbe meglio definire centro di formazione esperienziale che insegna a ottimizzare i processi produttivi. Più che fabbrica modello, si tratta di un modellatore di fabbrica perché elabora (con gli interessati) il miglior modello produttivo di certi processi industriali. Un’officina pedagogica, insomma, a metà strada tra fabbrica del fare e fabbrica del pensare. Vale per la Lef, ma potrebbe funzionare per l’intero sistema Pordenone”.
Rieccola, dunque, la sintesi virtuosa “impresa è cultura”. Cultura del saper fare. E del fare sapere. Pordenonelegge, con la sua “Festa del libro e della libertà” ne è strumento fondamentale.

(foto: Cozzarin)

Luoghi, umanità e imprese

La geografia come strumento importante per capire l’evoluzione sociale ed economica

Il significato, la storia, il ruolo, la cultura del produrre di un’impresa dipendono non solo dalle persone che la animano ma anche dai luoghi in cui questa insiste. Geografia, quindi, come elemento importante anche per le imprese. Così come per tutte le altre manifestazioni umane. Anche oggi, al tempo della digitalizzazione e della smaterializzazione dei rapporti. Studiare la geografia da questo punto di vista, appare così essere un passo importante per la comprensione delle attività sociale ed economiche. È quanto prova a fare Marco Percoco con il suo “Il potere dei luoghi. La rivincita della geografia per capire la società” bel libro da poco dato alle stampe.

Percoco guarda alla geografia non solo come ad una mappa, ma come un intreccio complesso di relazioni economiche, sociali e umane che determinano lo sviluppo dei luoghi. Il libro esplora quindi come la geografia influenzi profondamente le traiettorie di crescita, dalle migrazioni all’espansione urbana, dalla salute all’ambiente. Percoco unisce, per spiegarsi, teoria e realtà attraverso quindi il racconto di storie e casi emblematici: dalla Val d’Agri alle comunità walser del Monte Rosa, dalla malaria che ha colpito Fausto Coppi alle migrazioni dal Sud al Nord Italia. L’autore dimostra come lo spazio non sia un mero contenitore, ma un elemento attivo che plasma le opportunità economiche e sociali.

Spazio geografico, quindi, ma anche spazio storico e sociale. La storia, è ancora il pensiero di Percoco, ci insegna che i divari territoriali non si riducono semplicemente spostando le persone, ma comprendendo le specificità locali. E anche in questo caso, per far capire meglio vengono usati casi reali: dal capitale sociale di comunità come Arcidosso alle conseguenze dello sfruttamento delle risorse estrattive, dall’impatto delle infrastrutture di trasporto alle dinamiche migratorie. Il libro di Marco Percoco finisce così per assumere i tratti di un viaggio che rivela come lo sviluppo dipenda dalla capacità di valorizzare le risorse di ogni territorio, siano esse umane, naturali o istituzionali. “Il potere dei luoghi” arriva però anche ad un altro traguardo: una lettura innovativa delle disuguaglianze contemporanee che porta a a guardare oltre i confini geografici per immaginare nuove strategie di crescita e di benessere per tutti. Importante, tra i molti, questo passaggio che chi legge incontra verso la fine del libro: “Gestire economicamente un territorio non significa più solo creare nuovi posti di lavoro con una politica industriale sperabilmente efficace. Una visione moderna deve accompagnarsi a una gestione strategica delle risorse attivabili, dal capitale umano a quello imprenditoriale e naturale”.

 

Il potere dei luoghi. La rivincita della geografia per capire la società

Marco Percoco

EGEA, 2025

 

La geografia come strumento importante per capire l’evoluzione sociale ed economica

Il significato, la storia, il ruolo, la cultura del produrre di un’impresa dipendono non solo dalle persone che la animano ma anche dai luoghi in cui questa insiste. Geografia, quindi, come elemento importante anche per le imprese. Così come per tutte le altre manifestazioni umane. Anche oggi, al tempo della digitalizzazione e della smaterializzazione dei rapporti. Studiare la geografia da questo punto di vista, appare così essere un passo importante per la comprensione delle attività sociale ed economiche. È quanto prova a fare Marco Percoco con il suo “Il potere dei luoghi. La rivincita della geografia per capire la società” bel libro da poco dato alle stampe.

Percoco guarda alla geografia non solo come ad una mappa, ma come un intreccio complesso di relazioni economiche, sociali e umane che determinano lo sviluppo dei luoghi. Il libro esplora quindi come la geografia influenzi profondamente le traiettorie di crescita, dalle migrazioni all’espansione urbana, dalla salute all’ambiente. Percoco unisce, per spiegarsi, teoria e realtà attraverso quindi il racconto di storie e casi emblematici: dalla Val d’Agri alle comunità walser del Monte Rosa, dalla malaria che ha colpito Fausto Coppi alle migrazioni dal Sud al Nord Italia. L’autore dimostra come lo spazio non sia un mero contenitore, ma un elemento attivo che plasma le opportunità economiche e sociali.

Spazio geografico, quindi, ma anche spazio storico e sociale. La storia, è ancora il pensiero di Percoco, ci insegna che i divari territoriali non si riducono semplicemente spostando le persone, ma comprendendo le specificità locali. E anche in questo caso, per far capire meglio vengono usati casi reali: dal capitale sociale di comunità come Arcidosso alle conseguenze dello sfruttamento delle risorse estrattive, dall’impatto delle infrastrutture di trasporto alle dinamiche migratorie. Il libro di Marco Percoco finisce così per assumere i tratti di un viaggio che rivela come lo sviluppo dipenda dalla capacità di valorizzare le risorse di ogni territorio, siano esse umane, naturali o istituzionali. “Il potere dei luoghi” arriva però anche ad un altro traguardo: una lettura innovativa delle disuguaglianze contemporanee che porta a a guardare oltre i confini geografici per immaginare nuove strategie di crescita e di benessere per tutti. Importante, tra i molti, questo passaggio che chi legge incontra verso la fine del libro: “Gestire economicamente un territorio non significa più solo creare nuovi posti di lavoro con una politica industriale sperabilmente efficace. Una visione moderna deve accompagnarsi a una gestione strategica delle risorse attivabili, dal capitale umano a quello imprenditoriale e naturale”.

 

Il potere dei luoghi. La rivincita della geografia per capire la società

Marco Percoco

EGEA, 2025

 

Diplomazia d’impresa

In una Lectio magistralis la sintesi della capacità delle aziende di essere attori positivi dell’economia e della società

Le imprese possono essere soggetti importanti anche dal punto di vista delle relazioni politiche e del bene comune. Non solo conti a posto e qualità del prodotto, dunque, ma qualcosa di diverso e di più: un ruolo importante nell’ambito delle relazioni sociali, dei territori e più in generale politiche. Il tema è di grande importanza e necessita di essere ben compreso. Un passo verso questa direzione lo si può compiere leggendo la Lectio magistralis di Simone Bemporad tenuta lo scorso maggio presso l’Università di Trieste.

Bemporad lucidamente ha affrontato il tema dell’”impatto delle aziende sulle relazioni politiche e sul bene comune” partendo dalla sua esperienza di vita – giornalista e uomo d’azienda – che lo ha condotto negli anni a lavorare, come lui stesso dice, “in istituzioni e in imprese importanti, aziende che hanno sempre dimostrato una vocazione per l’innovazione e il futuro”. Obiettivo della Lectio è la dimostrazione di tre punti fermi nella visione di Bemporad del mondo, dell’economia e delle relazioni sociali e politiche. Prima di tutto il fatto che “considerare separate le traiettorie dell’interesse dell’impresa privata da quelle dell’interesse pubblico è una visione già superata dalla realtà e provare a dividerle non aiuterà a raggiungere né l’una né l’altra”. In secondo luogo che “il business svolge un ruolo di ponte tra luoghi lontanissimi tra di loro, con forze e mezzi di cui quasi nessun governo può disporre, e che la collaborazione dei governi e in particolare di una rete diplomatica altamente competente con le imprese sono determinanti per gestire i rapporti tra Paesi”. Infine, che “la comunicazione aziendale e l’advocacy sono elementi essenziali per le moderne economie interconnesse e anzi, parafrasando quanto scrisse Keynes a proposito delle teorie economiche, sono più potenti di ciò che comunemente si creda”.

Bemporad affronta l’argomento con grande chiarezza e porta chi ascolta (oppure legge) alla comprensione di realtà di rapporti che spesso non appaiono ai più e che invece possono essere determinanti per il futuro di interi sistemi sociale ed economici. E lo fa mettendo a frutto l’esperienza del giornalista che sa scrivere e quella del grande uomo d’impresa.  “Le aziende – scrive in uno dei passaggi cruciali Bemporad – possono contribuire a rendere più informate le decisioni della diplomazia e della politica condividendo la grande conoscenza generata dalla propria attività, dando quindi un punto di vista originale e innovativo”.

 

L’impatto delle aziende sulle relazioni politiche e sul bene comune. Lectio magistralis di Simone Bemporad

Simone Bemporad

Lectio Magistralis, Università degli Studi di Trieste, 30 maggio 2025, in occasione del conferimento della Laurea Honoris Causa

In una Lectio magistralis la sintesi della capacità delle aziende di essere attori positivi dell’economia e della società

Le imprese possono essere soggetti importanti anche dal punto di vista delle relazioni politiche e del bene comune. Non solo conti a posto e qualità del prodotto, dunque, ma qualcosa di diverso e di più: un ruolo importante nell’ambito delle relazioni sociali, dei territori e più in generale politiche. Il tema è di grande importanza e necessita di essere ben compreso. Un passo verso questa direzione lo si può compiere leggendo la Lectio magistralis di Simone Bemporad tenuta lo scorso maggio presso l’Università di Trieste.

Bemporad lucidamente ha affrontato il tema dell’”impatto delle aziende sulle relazioni politiche e sul bene comune” partendo dalla sua esperienza di vita – giornalista e uomo d’azienda – che lo ha condotto negli anni a lavorare, come lui stesso dice, “in istituzioni e in imprese importanti, aziende che hanno sempre dimostrato una vocazione per l’innovazione e il futuro”. Obiettivo della Lectio è la dimostrazione di tre punti fermi nella visione di Bemporad del mondo, dell’economia e delle relazioni sociali e politiche. Prima di tutto il fatto che “considerare separate le traiettorie dell’interesse dell’impresa privata da quelle dell’interesse pubblico è una visione già superata dalla realtà e provare a dividerle non aiuterà a raggiungere né l’una né l’altra”. In secondo luogo che “il business svolge un ruolo di ponte tra luoghi lontanissimi tra di loro, con forze e mezzi di cui quasi nessun governo può disporre, e che la collaborazione dei governi e in particolare di una rete diplomatica altamente competente con le imprese sono determinanti per gestire i rapporti tra Paesi”. Infine, che “la comunicazione aziendale e l’advocacy sono elementi essenziali per le moderne economie interconnesse e anzi, parafrasando quanto scrisse Keynes a proposito delle teorie economiche, sono più potenti di ciò che comunemente si creda”.

Bemporad affronta l’argomento con grande chiarezza e porta chi ascolta (oppure legge) alla comprensione di realtà di rapporti che spesso non appaiono ai più e che invece possono essere determinanti per il futuro di interi sistemi sociale ed economici. E lo fa mettendo a frutto l’esperienza del giornalista che sa scrivere e quella del grande uomo d’impresa.  “Le aziende – scrive in uno dei passaggi cruciali Bemporad – possono contribuire a rendere più informate le decisioni della diplomazia e della politica condividendo la grande conoscenza generata dalla propria attività, dando quindi un punto di vista originale e innovativo”.

 

L’impatto delle aziende sulle relazioni politiche e sul bene comune. Lectio magistralis di Simone Bemporad

Simone Bemporad

Lectio Magistralis, Università degli Studi di Trieste, 30 maggio 2025, in occasione del conferimento della Laurea Honoris Causa

Fondazione Pirelli al Festival dell’Innovazione e della Scienza: a scuola di sostenibilità tra impresa e tecnologia

Anche quest’anno Fondazione Pirelli partecipa al Festival dell’Innovazione e della Scienza di Settimo Torinese — giunto alla XIII edizione e dedicato al tema dell’Equilibrio — con una proposta didattica rivolta agli studenti delle scuole secondarie di II grado, per riflettere insieme sulle trasformazioni del mondo produttivo e sull’ambiente: innovazione, sostenibilità, responsabilità e conoscenza.

L’incontro, dal titolo “Per andare veloci bisogna sapere aspettare”, è in programma martedì 7 ottobre alle ore 11 presso la Biblioteca Archimede. A cura di Fondazione Pirelli, con il contributo della Direzione Sostenibilità di Pirelli, l’attività accompagna gli studenti in un percorso che racconta il ciclo produttivo dell’azienda: dallo studio e approvvigionamento delle materie prime fino alla produzione in fabbrica, passando per la progettazione e la sperimentazione di prototipi fisici e virtuali, inclusi quelli sviluppati per le competizioni di Formula 1.

Attraverso materiali d’archivio, immagini, video e momenti interattivi, l’iniziativa mette in luce come la sostenibilità sia integrata in ogni fase del processo industriale, con l’obiettivo di ridurre l’impatto ambientale e promuovere un uso più responsabile delle risorse. Il percorso stimola una riflessione attiva sul ruolo dell’industria nella conversione verso modelli di sviluppo più sostenibili e sull’equilibrio necessario tra innovazione, efficienza e tutela del pianeta.

Anche quest’anno Fondazione Pirelli partecipa al Festival dell’Innovazione e della Scienza di Settimo Torinese — giunto alla XIII edizione e dedicato al tema dell’Equilibrio — con una proposta didattica rivolta agli studenti delle scuole secondarie di II grado, per riflettere insieme sulle trasformazioni del mondo produttivo e sull’ambiente: innovazione, sostenibilità, responsabilità e conoscenza.

L’incontro, dal titolo “Per andare veloci bisogna sapere aspettare”, è in programma martedì 7 ottobre alle ore 11 presso la Biblioteca Archimede. A cura di Fondazione Pirelli, con il contributo della Direzione Sostenibilità di Pirelli, l’attività accompagna gli studenti in un percorso che racconta il ciclo produttivo dell’azienda: dallo studio e approvvigionamento delle materie prime fino alla produzione in fabbrica, passando per la progettazione e la sperimentazione di prototipi fisici e virtuali, inclusi quelli sviluppati per le competizioni di Formula 1.

Attraverso materiali d’archivio, immagini, video e momenti interattivi, l’iniziativa mette in luce come la sostenibilità sia integrata in ogni fase del processo industriale, con l’obiettivo di ridurre l’impatto ambientale e promuovere un uso più responsabile delle risorse. Il percorso stimola una riflessione attiva sul ruolo dell’industria nella conversione verso modelli di sviluppo più sostenibili e sull’equilibrio necessario tra innovazione, efficienza e tutela del pianeta.

Compassi d’Oro: i primati italiani nel design internazionale confermano vocazione e destino di grande paese industriale

Il punto di forza delle imprese italiane sta nella sintesi originale tra bellezza dei prodotti e sofisticata tecnologia, tra qualità e funzionalità, tra innovazione e sostenibilità ambientale e sociale. E proprio in questa stagione segnata da una competizione internazionale particolarmente dura e selettiva (aggravata dalle drammatiche tensioni geopolitiche che destabilizzano i mercati e dai dazi americani), la risposta del nostro mondo industriale alle crisi sta nella ricerca dell’eccellenza tecnica e nel rafforzamento dei valori etici ed estetici che ispirano la manifattura: il cosiddetto “bello e ben fatto” made in Italy.

La conferma della forza competitiva di un simile orientamento arriva dall’elenco dei venti vincitori dei Compassi d’Oro internazionali e dei destinatari delle trentacinque menzioni speciali, un elenco annunciato, all’inizio di settembre, dalla giuria presieduta da Maite Garcìa Sanchis, nel Padiglione Italia dell’Expo di Osaka, progettato da Mario Cucinella.
Il tema di quest’anno del premio, nato nel 1954 per iniziativa di Gio Ponti e promosso dall’Adi, l’Associazione del Design Industriale e adesso legato alle scadenze delle Esposizioni Internazionali, era “Designing Future Society for our Lives”. E tra i venti vincitori dei Compassi, dodici sono i prodotti di imprese italiane: Pirelli, Generali Italia, Kartell, Bonotto, Fratelli Guzzini e iGuzzini, Campagnolo, Caimi Brevetti, Martinelli Luce, Vimar, Vetreria Vistosi, Istituto Italiano di Tecnologia per il Centro Protesi dell’Inail). Segno, appunto, di un’eccellenza della cultura politecnica italiana (valori umanistici e conoscenze scientifiche) e di una capacità competitiva di respiro internazionale. La tenuta dell’export italiano (oltre 620 miliardi), nonostante le turbolenze che investono le relazioni commerciali globali, ne è esemplare testimonianza. Sono italiane anche la maggior parte delle imprese delle 35 menzioni (come Irinox, Poliform, Archivi Olivetti, Fondazione Rovati, Mandelli 1953, Smeg, Elica, EssilorLuxottica, Venini, etc.).

Cosa raccontano i prodotti premiati? Guardiamo meglio, cominciando con il pneumatico P Zero E, come eccellenza di “Design for the Mobility”, costruito con gran parte dei materiali naturali o riciclati, una sintesi innovativa tra qualità, prestazioni e sostenibilità: “Il primo pneumatico a ottenere un Compasso d’Oro, un prestigioso riconoscimento che celebra l’eccellenza progettuale di Pirelli e la portata innovativa di prodotti come il P Zero E, confermando il ruolo della ricerca e sviluppo come motore di progresso e sostenibilità, grazie anche all’impiego sempre più capillare di tecniche avanzate di intelligenza artificiale in tutte le fasi dello sviluppo”, commenta Piero Misani, Executive Vice President e Chief Technical Officer di Pirelli.
Ci sono poi una ruota da bicicletta, una serie di tessuti sostenibili per il fashion luxury e di tessuti fonoassorbenti per gli ambienti di lavoro, i sistemi di illuminazione e le lampade e poi ancora le sedute ergonomiche, i proiettori urbani, una piattaforma digitale di servizi, un esoscheletro modulare. Ne emerge la rappresentazione delle capacità delle imprese italiane di mettere sui mercati prodotti e servizi particolarmente innovativi, in grado di dare risposte originali ed efficaci ai bisogni del vivere, dell’abitare e del lavorare a misura di efficienza, benessere, qualità e di una migliore prospettiva di consumi che vada ben oltre il consumismo di massa e investa positivamente l’ambiente e le comunità sociali. Imprese, insomma, a misura degli Stakeholders Values, i valori e gli interessi delle persone e dei territori con cui l’industria entra in contatto e dal cui confronto ricava cultura e legittimazione sociale.
Qualità e sostenibilità, insomma, sono valori oramai incorporati nei sistemi produttivi e nei modelli di business dell’ “Italia che fa bene l’Italia”, per usare una sintesi cara a Symbola. E cioè veri e propri modi di fare impresa, conquistare migliori posizioni nelle nicchie a maggior valore aggiunto sui mercati, rafforzare il consenso di consumatori sofisticati ed esigenti. Sono anche connotazioni forti di una cultura d’impresa evoluta, che ha radici nella tradizione manifatturiera italiana e proiezioni verso un futuro più attento alla qualità della vita, del lavoro, dei costumi sociali.

Sostiene Luciano Galimberti, presidente dell’Adi: “Il design è vissuto come disciplina che attraversa le nostre vite, capace di superare i confini nazionali e affrontare le sfide globali con innovazione, qualità e attenzione alla sostenibilità”. L’Adi Design Museum, diretto da Andrea Cancellato, regista dell’”operazione Osaka”, ne offre testimonianze storiche esemplari (Kartell, Guzzini e Pirelli sono marchi ricorrenti), esempi di una tradizione di “cultura del progetto” e “cultura del prodotto” che ha saputo sfidare i tempi e continuamente si rinnova.
Nota Annachiara Sacchi sul Corriere della Sera (6 settembre): “Soluzioni per un’umanità più consapevole. Connessa e responsabile. Attenta all’economia circolare, ai progetti a basso impatto ambientale. E alle scelte che mettono il design a servizio della vita, immaginandolo come una sorta di esperanto, un linguaggio di valore universale che collega bisogni e visioni”.
Un design, insomma, come caratteristica profonda dell’Italia contemporanea, uno degli strumenti principali grazie al quale il Paese ha saputo riprendersi dopo la guerra, costruire il boom economico e diventare rapidamente una potenza industriale, tra le prime al mondo, ben presente sui mercati internazionali. Una caratteristica continuamente attuale e progettuale.
Mario Vattani, commissario del Padiglione Italia a Osaka, commenta: “È proprio questa idea di Italia che vogliamo promuovere: una nazione capace di unire cultura e industria, creatività e innovazione, tradizione e visione strategica”.

I Compassi d’Oro, in altri termini, confermano e rafforzano una scelta produttiva. E culturale. Secondo la sapiente lezione di Gio Ponti: “In Italia l’arte si è innamorata dell’industria. Ecco perché l’industria è un fatto culturale”. Un’indicazione strategica che ha, appunto, un nome semplice ed essenziale: design. E un aggettivo qualificante: sostenibile.
Una sostenibilità su cui insistere, nonostante i venti contrari che spirano anche all’interno dell’opinione pubblica di grandi paesi industriali, a cominciare dagli Usa. Superando rigidità normative e burocratiche (il Green Deal della Ue ne risente, con danni pesanti al sistema industriale europeo, come mostra per esempio la crisi del settore automotive). E mettendo in piedi, invece, strumenti validi di politica industriale comune che stimolino innovazione, investimenti, produttività, con una migliore “economia della conoscenza”. I Rapporti elaborati per conto della Commissione Ue da Mario Draghi ed Enrico Letta, già lo scorso anno, contengono indicazioni preziose. Vanno tirati fuori dai cassetti in cui sono stati riposti e trasformati rapidamente in scelte concrete, provvedimenti, decisioni di investimenti adeguate.

“L’Europa deve trovare forza nell’unione e nella valorizzazione delle competenze, nell’innovazione, di fronte alle tensioni dei dazi e della geopolitica, alle sfide digitali e ambientali”, consiglia Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia (IlSole24Ore, 8 settembre).

Per le imprese italiane, d’altronde, questo è un terreno in cui muoversi a proprio agio. Come documenta il settimo Rapporto Consob sulla “rendicontazione non finanziaria” presentato nei giorni scorsi e cioè su quelli che vengono comunemente definiti come bilanci di sostenibilità: nel ‘24 li hanno presentati 150 società presenti in Borsa su Euronext Milan e cioè il 72% delle quotate, che rappresentano il 97% della capitalizzazione di mercato: “Una dimostrazione di come le imprese italiane stiano incorporando la sostenibilità nella propria governance, nelle strategie di lungo periodo e perfino nei sistemi di incentivazione dei vertici aziendali” (ItaliaOggi, 8 settembre).
Serve una competitività più efficace e sostenibile, insomma. Non meno. Perché l’Italia possa continuare a essere un paese manifatturiero. Con un futuro industriale da cui dipendono anche la qualità e la solidità del nostro futuro, economico, ma anche sociale e civile.

Courtesy of Padiglione Italia

Il punto di forza delle imprese italiane sta nella sintesi originale tra bellezza dei prodotti e sofisticata tecnologia, tra qualità e funzionalità, tra innovazione e sostenibilità ambientale e sociale. E proprio in questa stagione segnata da una competizione internazionale particolarmente dura e selettiva (aggravata dalle drammatiche tensioni geopolitiche che destabilizzano i mercati e dai dazi americani), la risposta del nostro mondo industriale alle crisi sta nella ricerca dell’eccellenza tecnica e nel rafforzamento dei valori etici ed estetici che ispirano la manifattura: il cosiddetto “bello e ben fatto” made in Italy.

La conferma della forza competitiva di un simile orientamento arriva dall’elenco dei venti vincitori dei Compassi d’Oro internazionali e dei destinatari delle trentacinque menzioni speciali, un elenco annunciato, all’inizio di settembre, dalla giuria presieduta da Maite Garcìa Sanchis, nel Padiglione Italia dell’Expo di Osaka, progettato da Mario Cucinella.
Il tema di quest’anno del premio, nato nel 1954 per iniziativa di Gio Ponti e promosso dall’Adi, l’Associazione del Design Industriale e adesso legato alle scadenze delle Esposizioni Internazionali, era “Designing Future Society for our Lives”. E tra i venti vincitori dei Compassi, dodici sono i prodotti di imprese italiane: Pirelli, Generali Italia, Kartell, Bonotto, Fratelli Guzzini e iGuzzini, Campagnolo, Caimi Brevetti, Martinelli Luce, Vimar, Vetreria Vistosi, Istituto Italiano di Tecnologia per il Centro Protesi dell’Inail). Segno, appunto, di un’eccellenza della cultura politecnica italiana (valori umanistici e conoscenze scientifiche) e di una capacità competitiva di respiro internazionale. La tenuta dell’export italiano (oltre 620 miliardi), nonostante le turbolenze che investono le relazioni commerciali globali, ne è esemplare testimonianza. Sono italiane anche la maggior parte delle imprese delle 35 menzioni (come Irinox, Poliform, Archivi Olivetti, Fondazione Rovati, Mandelli 1953, Smeg, Elica, EssilorLuxottica, Venini, etc.).

Cosa raccontano i prodotti premiati? Guardiamo meglio, cominciando con il pneumatico P Zero E, come eccellenza di “Design for the Mobility”, costruito con gran parte dei materiali naturali o riciclati, una sintesi innovativa tra qualità, prestazioni e sostenibilità: “Il primo pneumatico a ottenere un Compasso d’Oro, un prestigioso riconoscimento che celebra l’eccellenza progettuale di Pirelli e la portata innovativa di prodotti come il P Zero E, confermando il ruolo della ricerca e sviluppo come motore di progresso e sostenibilità, grazie anche all’impiego sempre più capillare di tecniche avanzate di intelligenza artificiale in tutte le fasi dello sviluppo”, commenta Piero Misani, Executive Vice President e Chief Technical Officer di Pirelli.
Ci sono poi una ruota da bicicletta, una serie di tessuti sostenibili per il fashion luxury e di tessuti fonoassorbenti per gli ambienti di lavoro, i sistemi di illuminazione e le lampade e poi ancora le sedute ergonomiche, i proiettori urbani, una piattaforma digitale di servizi, un esoscheletro modulare. Ne emerge la rappresentazione delle capacità delle imprese italiane di mettere sui mercati prodotti e servizi particolarmente innovativi, in grado di dare risposte originali ed efficaci ai bisogni del vivere, dell’abitare e del lavorare a misura di efficienza, benessere, qualità e di una migliore prospettiva di consumi che vada ben oltre il consumismo di massa e investa positivamente l’ambiente e le comunità sociali. Imprese, insomma, a misura degli Stakeholders Values, i valori e gli interessi delle persone e dei territori con cui l’industria entra in contatto e dal cui confronto ricava cultura e legittimazione sociale.
Qualità e sostenibilità, insomma, sono valori oramai incorporati nei sistemi produttivi e nei modelli di business dell’ “Italia che fa bene l’Italia”, per usare una sintesi cara a Symbola. E cioè veri e propri modi di fare impresa, conquistare migliori posizioni nelle nicchie a maggior valore aggiunto sui mercati, rafforzare il consenso di consumatori sofisticati ed esigenti. Sono anche connotazioni forti di una cultura d’impresa evoluta, che ha radici nella tradizione manifatturiera italiana e proiezioni verso un futuro più attento alla qualità della vita, del lavoro, dei costumi sociali.

Sostiene Luciano Galimberti, presidente dell’Adi: “Il design è vissuto come disciplina che attraversa le nostre vite, capace di superare i confini nazionali e affrontare le sfide globali con innovazione, qualità e attenzione alla sostenibilità”. L’Adi Design Museum, diretto da Andrea Cancellato, regista dell’”operazione Osaka”, ne offre testimonianze storiche esemplari (Kartell, Guzzini e Pirelli sono marchi ricorrenti), esempi di una tradizione di “cultura del progetto” e “cultura del prodotto” che ha saputo sfidare i tempi e continuamente si rinnova.
Nota Annachiara Sacchi sul Corriere della Sera (6 settembre): “Soluzioni per un’umanità più consapevole. Connessa e responsabile. Attenta all’economia circolare, ai progetti a basso impatto ambientale. E alle scelte che mettono il design a servizio della vita, immaginandolo come una sorta di esperanto, un linguaggio di valore universale che collega bisogni e visioni”.
Un design, insomma, come caratteristica profonda dell’Italia contemporanea, uno degli strumenti principali grazie al quale il Paese ha saputo riprendersi dopo la guerra, costruire il boom economico e diventare rapidamente una potenza industriale, tra le prime al mondo, ben presente sui mercati internazionali. Una caratteristica continuamente attuale e progettuale.
Mario Vattani, commissario del Padiglione Italia a Osaka, commenta: “È proprio questa idea di Italia che vogliamo promuovere: una nazione capace di unire cultura e industria, creatività e innovazione, tradizione e visione strategica”.

I Compassi d’Oro, in altri termini, confermano e rafforzano una scelta produttiva. E culturale. Secondo la sapiente lezione di Gio Ponti: “In Italia l’arte si è innamorata dell’industria. Ecco perché l’industria è un fatto culturale”. Un’indicazione strategica che ha, appunto, un nome semplice ed essenziale: design. E un aggettivo qualificante: sostenibile.
Una sostenibilità su cui insistere, nonostante i venti contrari che spirano anche all’interno dell’opinione pubblica di grandi paesi industriali, a cominciare dagli Usa. Superando rigidità normative e burocratiche (il Green Deal della Ue ne risente, con danni pesanti al sistema industriale europeo, come mostra per esempio la crisi del settore automotive). E mettendo in piedi, invece, strumenti validi di politica industriale comune che stimolino innovazione, investimenti, produttività, con una migliore “economia della conoscenza”. I Rapporti elaborati per conto della Commissione Ue da Mario Draghi ed Enrico Letta, già lo scorso anno, contengono indicazioni preziose. Vanno tirati fuori dai cassetti in cui sono stati riposti e trasformati rapidamente in scelte concrete, provvedimenti, decisioni di investimenti adeguate.

“L’Europa deve trovare forza nell’unione e nella valorizzazione delle competenze, nell’innovazione, di fronte alle tensioni dei dazi e della geopolitica, alle sfide digitali e ambientali”, consiglia Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia (IlSole24Ore, 8 settembre).

Per le imprese italiane, d’altronde, questo è un terreno in cui muoversi a proprio agio. Come documenta il settimo Rapporto Consob sulla “rendicontazione non finanziaria” presentato nei giorni scorsi e cioè su quelli che vengono comunemente definiti come bilanci di sostenibilità: nel ‘24 li hanno presentati 150 società presenti in Borsa su Euronext Milan e cioè il 72% delle quotate, che rappresentano il 97% della capitalizzazione di mercato: “Una dimostrazione di come le imprese italiane stiano incorporando la sostenibilità nella propria governance, nelle strategie di lungo periodo e perfino nei sistemi di incentivazione dei vertici aziendali” (ItaliaOggi, 8 settembre).
Serve una competitività più efficace e sostenibile, insomma. Non meno. Perché l’Italia possa continuare a essere un paese manifatturiero. Con un futuro industriale da cui dipendono anche la qualità e la solidità del nostro futuro, economico, ma anche sociale e civile.

Courtesy of Padiglione Italia

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