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Arte d’impresa

Appena pubblicato un libro che mette in relazione la pubblicità con la letteratura, la musica, la danza, il cinema e altro ancora

 

Pubblicità: scienza, tecnica, strumento oppure arte? Certamente, espressione della cultura del tempo. Oltre che di una cultura d’impresa che si evolve, cambia, muta sulla base dell’immaginario collettivo del momento, del sentire imprenditoriale, di quell’attimo creativo che rende un’unica ogni organizzazione della produzione. Pubblicità che alcuni considerano scienza e altri arte. Ed è più vicino a quest’ultima interpretazione che si colloca “Pubblicità è arte. L’undicesima musa” libro curato da Emanuele Gabardi e appena pubblicato che guarda, appunto, alla pubblicità come al prodotto di un’arte particolare mettendola in collegamento con la letteratura, con la musica, la danza, il cinema. Una lettura da fare per chi voglia guardare a questa parte del fare impresa in un modo diverso dal solito. Tutto, tra l’altro, partendo da un parallelo originale tra pubblicità e le altre manifestazioni dell’agire umano.

Prendendo infatti come guida le muse classiche, il curatore del libro e gli autori guardano alla pubblicità che si accompagna a Clio nella sua storia. La stessa poi si affianca a Calliope, Erato e Euterpe nelle diverse forme di poesia – epica, amorosa e lirica – perché può ben essere una o più di loro. Quella stessa Calliope che è anche la musa dalla bella voce, che in pubblicità non si può certo parlare in modo sgradevole. Ma anche quell’Erato che ha il compito di far desiderare ciò che si pubblicizza, mentre Euterpe, spesso, asseconda lo scopo di suscitare il sorriso, per farsi ricordare piacevolmente. E, ancora, chi ha partecipato alla scrittura del libro vede considera la pubblicità quando si accompagna a una musica diventa Melpomene e Polimnia. E che diventa Talia, quando la commedia prende il sopravvento sulla narrazione; o Tersicore, se riesce a far danzare i pensieri del suo pubblico. Senza dire che la stessa pubblicità diventa Urania, la celeste, e cioè la musa dell’astronomia e della geometria, che in coppia con Clio accompagna le ispirazioni indispensabili alle realizzazioni non solo prospettiche di dipinti e sculture, ma anche degli oggetti di design pensati per luoghi pubblici e privati. Nel primo Novecento, infine, la decima musa è sbocciata con l’avvento del cinema, che con la pubblicità ha avuto un rapporto privilegiato fin dai suoi albori.

È sulla base di questo affascinante racconto che Gabardi sostiene che la pubblicità sia l’undicesima musa: un’idea sulla quale viene, appunto costruito il libro che racconta i rapporti reciproci e complementari della pubblicità con la storia, la letteratura, la musica, la danza, il cinema, l’arte e il design. Un libro che, viene spiegato nelle prime pagine, ha richiesto una “lunga gestazione” ma che vale la pena leggere con grande attenzione.

Pubblicità è arte. L’undicesima Musa

Emanuele Gabardi (a cura di)

Franco Angeli, 2022

Appena pubblicato un libro che mette in relazione la pubblicità con la letteratura, la musica, la danza, il cinema e altro ancora

 

Pubblicità: scienza, tecnica, strumento oppure arte? Certamente, espressione della cultura del tempo. Oltre che di una cultura d’impresa che si evolve, cambia, muta sulla base dell’immaginario collettivo del momento, del sentire imprenditoriale, di quell’attimo creativo che rende un’unica ogni organizzazione della produzione. Pubblicità che alcuni considerano scienza e altri arte. Ed è più vicino a quest’ultima interpretazione che si colloca “Pubblicità è arte. L’undicesima musa” libro curato da Emanuele Gabardi e appena pubblicato che guarda, appunto, alla pubblicità come al prodotto di un’arte particolare mettendola in collegamento con la letteratura, con la musica, la danza, il cinema. Una lettura da fare per chi voglia guardare a questa parte del fare impresa in un modo diverso dal solito. Tutto, tra l’altro, partendo da un parallelo originale tra pubblicità e le altre manifestazioni dell’agire umano.

Prendendo infatti come guida le muse classiche, il curatore del libro e gli autori guardano alla pubblicità che si accompagna a Clio nella sua storia. La stessa poi si affianca a Calliope, Erato e Euterpe nelle diverse forme di poesia – epica, amorosa e lirica – perché può ben essere una o più di loro. Quella stessa Calliope che è anche la musa dalla bella voce, che in pubblicità non si può certo parlare in modo sgradevole. Ma anche quell’Erato che ha il compito di far desiderare ciò che si pubblicizza, mentre Euterpe, spesso, asseconda lo scopo di suscitare il sorriso, per farsi ricordare piacevolmente. E, ancora, chi ha partecipato alla scrittura del libro vede considera la pubblicità quando si accompagna a una musica diventa Melpomene e Polimnia. E che diventa Talia, quando la commedia prende il sopravvento sulla narrazione; o Tersicore, se riesce a far danzare i pensieri del suo pubblico. Senza dire che la stessa pubblicità diventa Urania, la celeste, e cioè la musa dell’astronomia e della geometria, che in coppia con Clio accompagna le ispirazioni indispensabili alle realizzazioni non solo prospettiche di dipinti e sculture, ma anche degli oggetti di design pensati per luoghi pubblici e privati. Nel primo Novecento, infine, la decima musa è sbocciata con l’avvento del cinema, che con la pubblicità ha avuto un rapporto privilegiato fin dai suoi albori.

È sulla base di questo affascinante racconto che Gabardi sostiene che la pubblicità sia l’undicesima musa: un’idea sulla quale viene, appunto costruito il libro che racconta i rapporti reciproci e complementari della pubblicità con la storia, la letteratura, la musica, la danza, il cinema, l’arte e il design. Un libro che, viene spiegato nelle prime pagine, ha richiesto una “lunga gestazione” ma che vale la pena leggere con grande attenzione.

Pubblicità è arte. L’undicesima Musa

Emanuele Gabardi (a cura di)

Franco Angeli, 2022

La difficoltà di lavorare in modo diverso

Una ricerca appena pubblicata ragiona attorno alle piattaforme digitali di organizzazione del lavoro  viste anche nei loro aspetti sociali

Digitalizzazione della produzione. E del lavoro dietro di questa. Non solo un mero passaggio tecnologico, ma qualcosa di più complesso e profondo. Che va indagato per capirne meglio la portata e il futuro. Partendo dalla constatazione che qualsiasi tecnica ha, comunque e sempre, un fondamento sociale. E’ da questo nodo di concetti che Marco Marrone (ricercatore in sociologia economica e del lavoro presso l’università del Salento), inizia la sua ricerca.

“La piattaformizzazione dello spazio-tempo. Appunti per una teoria della relatività organizzativa”, apparso da qualche settimana in Labour and Law Issues, rappresenta il tentativo di ragionare sistematicamente dal punto di vista sociale sulle diverse modalità di organizzazione del lavoro che, nel tempo, si sono susseguite nelle imprese. Marrone inizia però non dal passato ma dall’oggi ragionando sulle innovazioni organizzative introdotte dalle piattaforme digitali e “agganciando” la loro analisi all’evoluzione storica dell’organizzazione del lavoro.

“Da questa prospettiva – scrive Marrone -, le piattaforme digitalizzate emergono non semplicemente come il risultato dei nuovi potenziali offerti dalle tecnologie digitali, ma come risultato di un processo sociale più articolato e dinamico”.

L’autore, quindi,  traccia le evoluzioni dei vari modelli organizzativi che hanno avuto luogo nella sfera industriale (dal fordismo al capitalismo di rete, all’ascesa delle piattaforme digitali), mettendo in evidenza come queste trasformazioni rispondano a logiche sociali e politiche tutte con lo stesso obiettivo: “Il controllo del lavoro”. Secondo Marrone, le piattaforme digitali appaiono così come “l’ultimo pezzo di queste trasformazioni, capaci di una rottura delle coordinate spazio/temporali” dei processi di produzione. In altri termini, per il ricercatore, oggi attraverso la digitalizzazione il lavoro risulta essere più controllabile anche se può essere dislocato in luoghi diversi da quelli tradizionali. Si delinea così una cultura del produrre radicalmente diversa dal passato che, tuttavia, non appare essere monolitica. “Le piattaforme – scrive infatti Marrone -, non sembrano essere le uniche proprietarie del loro destino”. Questa condizione si verifica sempre più spesso in termini di “mobilitazioni” dei lavoratori che rivendicano autonomie e diritti. Realtà che evidenziano quanto la digitalizzazione dell’organizzazione del lavoro sia sottoposta a cambiamenti sia nella sostanza che nelle regole. La cultura dell’organizzazione della produzione, quindi, continua ad essere quel risultato complesso di tecnica e umanità non esattamente determinabile e quindi assolutamente affascinante che caratterizza la vita delle imprese.

La piattaformizzazione dello spazio-tempo. Appunti per una teoria della relatività organizzativa

Marco Marrone Università del Salento Ricercatore in Sociologia economica e del Lavoro

Labour and Law Issues, vol. 8, n. 1, 2022

Una ricerca appena pubblicata ragiona attorno alle piattaforme digitali di organizzazione del lavoro  viste anche nei loro aspetti sociali

Digitalizzazione della produzione. E del lavoro dietro di questa. Non solo un mero passaggio tecnologico, ma qualcosa di più complesso e profondo. Che va indagato per capirne meglio la portata e il futuro. Partendo dalla constatazione che qualsiasi tecnica ha, comunque e sempre, un fondamento sociale. E’ da questo nodo di concetti che Marco Marrone (ricercatore in sociologia economica e del lavoro presso l’università del Salento), inizia la sua ricerca.

“La piattaformizzazione dello spazio-tempo. Appunti per una teoria della relatività organizzativa”, apparso da qualche settimana in Labour and Law Issues, rappresenta il tentativo di ragionare sistematicamente dal punto di vista sociale sulle diverse modalità di organizzazione del lavoro che, nel tempo, si sono susseguite nelle imprese. Marrone inizia però non dal passato ma dall’oggi ragionando sulle innovazioni organizzative introdotte dalle piattaforme digitali e “agganciando” la loro analisi all’evoluzione storica dell’organizzazione del lavoro.

“Da questa prospettiva – scrive Marrone -, le piattaforme digitalizzate emergono non semplicemente come il risultato dei nuovi potenziali offerti dalle tecnologie digitali, ma come risultato di un processo sociale più articolato e dinamico”.

L’autore, quindi,  traccia le evoluzioni dei vari modelli organizzativi che hanno avuto luogo nella sfera industriale (dal fordismo al capitalismo di rete, all’ascesa delle piattaforme digitali), mettendo in evidenza come queste trasformazioni rispondano a logiche sociali e politiche tutte con lo stesso obiettivo: “Il controllo del lavoro”. Secondo Marrone, le piattaforme digitali appaiono così come “l’ultimo pezzo di queste trasformazioni, capaci di una rottura delle coordinate spazio/temporali” dei processi di produzione. In altri termini, per il ricercatore, oggi attraverso la digitalizzazione il lavoro risulta essere più controllabile anche se può essere dislocato in luoghi diversi da quelli tradizionali. Si delinea così una cultura del produrre radicalmente diversa dal passato che, tuttavia, non appare essere monolitica. “Le piattaforme – scrive infatti Marrone -, non sembrano essere le uniche proprietarie del loro destino”. Questa condizione si verifica sempre più spesso in termini di “mobilitazioni” dei lavoratori che rivendicano autonomie e diritti. Realtà che evidenziano quanto la digitalizzazione dell’organizzazione del lavoro sia sottoposta a cambiamenti sia nella sostanza che nelle regole. La cultura dell’organizzazione della produzione, quindi, continua ad essere quel risultato complesso di tecnica e umanità non esattamente determinabile e quindi assolutamente affascinante che caratterizza la vita delle imprese.

La piattaformizzazione dello spazio-tempo. Appunti per una teoria della relatività organizzativa

Marco Marrone Università del Salento Ricercatore in Sociologia economica e del Lavoro

Labour and Law Issues, vol. 8, n. 1, 2022

Per evitare i guasti di un “Paese senza…” serve insistere sul buon governo Draghi

Un Paese senza”, aveva scritto Alberto Arbasino, nel 1980, per Garzanti, cercando di fare i conti con i difficili anni Settanta, tra violenza politica (le bombe neofasciste, il terrorismo delle Brigate Rosse) e crisi sociale, fratture della vita democratica (il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, per interrompere il dialogo Dc-Pci intenzionato a rinnovare profondamente la politica italiana) e smarrimenti culturali. Lo riscrisse dieci anni dopo, nel 1990, in condizioni di crisi aggravata, dopo la futilità di una stagione carica di promesse poi deluse (l’avvio della modernizzazione benestante) e l’emergere di nuove fratture (l’irrisolto declino della politica, l’esplosione del debito pubblico ai danni delle nuove generazioni). Un testo comunque lucido, critico, severo.

“Un Paese senza”, dunque. E cioè “Un Paese senza memoria/ Un Paese senza storia/ Un Paese senza passato/ Un Paese senza esperienza/ Un Paese senza grandezza/ Un Paese senza dignità/ Un Paese senza realtà/ Un Paese senza motivazioni/ Un Paese senza programmi/ Un Paese senza progetti/ Un Paese senza testa/ Un Paese senza gambe/ Un Paese senza conoscenze/ Un Paese senza senso/ Un Paese senza sapere/ Un Paese senza sapersi vedere/ Un Paese senza guardarsi/ Un Paese senza capirsi/ Un Paese senza avvenire?”.

Vale la pena, proprio in questi nostri giorni così difficili e controversi, rileggere quelle pagine di Arbasino, dense di sapida ironia e mirabile passione civile, per ragionare con consapevolezza di memoria e bisogno di fiducia nel futuro sul passaggio stretto che l’attualità politica ci costringe ad affrontare: le nubi di crisi sul governo Draghi, proprio mentre l’Italia, questo nostro comunque amato “Paese senza”, deve affrontare tensioni economiche e sociali ed emergenze climatiche, lampi di guerra nel cuore dell’Europa e una transizione energetica che ha implicazioni geopolitiche e complessità ambientali.

Le severe denunce civili sui limiti e le contraddizioni dell’identità italiana sono parte essenziale della nostra storia letteraria, da Dante a Machiavelli e Guicciardini, da Leopardi a Manzoni e Carducci, da D’Azeglio a Croce, da Gobetti a Gramsci. Eppure proprio quelle righe di Arbasino sul Paese “senza programmi”, “senza conoscenze”, “senza guardarsi”, “senza capirsi” fotografano con esattezza profetica il contesto di una certa presenza politica populista e sciatta che, “senza sapere”, si muove contro gli interessi e i valori generali degli italiani in nome di piccoli interessi di parte e di congrega, di volatili consensi, di miserie di potere.

Finiremo per ritrovarci “senza avvenire” proprio mentre l’Europa si prepara a ridiscutere le regole del Patto di stabilità, abbiamo preso l’impegno su 200 miliardi di fondi Ue da spendere bene per rinnovare e riformare il Paese e possiamo giocare un ruolo di primo piano nella ridefinizione degli equilibri geopolitici nel Mediterraneo e nel mondo? Il pericolo è grave.

La rottura della maggioranza che regge il governo Draghi, decisa dai Cinque Stelle capitanati da Conte ha determinato una drammatica torsione della situazione politica e portato il presidente del Consiglio all’annuncio delle dimissioni. Si vivono giorni carichi di preoccupazione. Il futuro immediato è quanto mai incerto.

Il Quirinale, punto di riferimento essenziale per tutti gli italiani che hanno a cuore il destino del Paese, lavora per la stabilità delle istituzioni e del Paese, perché prevalga il senso di responsabilità.

E proprio in momenti così duri, è necessario dare peso e spazio agli appelli che vengono da tutto il mondo economico, dagli oltre 1500 sindaci delle grandi e piccole città, dalla Chiesa, da parecchi rettori delle principali università, da una lunga fila di personalità della cultura e della società civile oltre che dalla Commissione UE di Bruxelles e dai governi nelle capitali dei paesi europei e negli Usa. Affinché il governo Draghi vada avanti si muove “il partito del Pil” (Confindustria in prima fila, con tutte le associazioni di territorio e di categoria). E un quotidiano battagliero come “Il Foglio” rispolvera in prima pagina, per la continuità di governo, quel “Whatever it takes” con cui Draghi, appunto, da presidente della BCE, salvò l’euro (e dunque la Ue e l’Italia appesantita dal debito pubblico).

“Ma è l’ora dei doveri”, ha titolato in prima pagina, domenica, “Avvenire”, il quotidiano della CEI, la Conferenza Episcopale Italiana. E in quel “Ma” c’è tutta la forza di una critica severa per chi cincischia in valutazioni partigiane, rancori personali, invidie, furbizie di propaganda, visioni politiche anguste. I “doveri” sono quelli dell’interesse generale. Cui il presidente della Repubblica Mattarella e il presidente del Consiglio Draghi hanno fatto e continuano, responsabilmente, a fare riferimento.

L’Italia e gli italiani, infatti, nonostante i limiti e i guasti del “Paese senza”, le inclinazioni clientelari e le scuse del “tengo famiglia”, sono migliori del ritratto negativo che, anche per loro complicità, ne viene comunemente fatto. E meritano un migliore racconto di se stessi. Hanno affrontato la pandemia con grande spirito di solidarietà e senso civico. Le imprese, già dopo la Grande Crisi finanziaria del 2008, hanno investito, innovato, esportato, creato lavoro e benessere, tanto da garantire anche un eccellente “rimbalzo” del Pil (il più forte in Europa) dopo i mesi durissimi del lock down. Il “capitale sociale” è positivo. E pure sui temi della sostenibilità, ambientale e sociale, il mondo economico si muove con maggiore impegno e migliore efficacia che nel resto dell’Europa (lo testimonia il documento di Symbola su “L’Italia in dieci selfie”, parlando di economia circolare, energia rinnovabile, qualità di prodotti e produzioni, relazioni virtuose tra imprese e territori). Con un’autorevole conferma proprio nelle parole del presidente Mattarella: “La nostra economia è più forte quando ha alle spalle una rete robusta di solidarietà, un sistema di imprese coscienti della propria funzione sociale, un retroterra di legalità, conoscenze diffuse, passioni civili”.

Oltre Arbasino, nelle riletture è necessario tornare con la memoria pure alle parole di Eugenio Scalfari, maestro laico di buona informazione come stimolo indispensabile per una politica di qualità: “Per fortuna, c’è anche un Paese che cresce e nonostante tutto è più robusto dei pesi che si porta sulle spalle”, aveva scritto nell’editoriale del primo numero de “la Repubblica”, il 14 gennaio del 1976. Una lezione che resta.

Un “Paese con”, potremmo dunque dire, seguendo Scalfari e capovolgendo in speranza la lucidità critica di Arbasino.

Ecco, proprio quest’Italia merita fiducia. Una strategia di progresso e sviluppo, senza avventure. Una storia declinata al futuro.

Un buon governo, dunque. “Whatever it takes”.

(photo by Massimo Di Vita/Archivio Massimo Di Vita/Mondadori Portfolio via Getty Images)

Un Paese senza”, aveva scritto Alberto Arbasino, nel 1980, per Garzanti, cercando di fare i conti con i difficili anni Settanta, tra violenza politica (le bombe neofasciste, il terrorismo delle Brigate Rosse) e crisi sociale, fratture della vita democratica (il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, per interrompere il dialogo Dc-Pci intenzionato a rinnovare profondamente la politica italiana) e smarrimenti culturali. Lo riscrisse dieci anni dopo, nel 1990, in condizioni di crisi aggravata, dopo la futilità di una stagione carica di promesse poi deluse (l’avvio della modernizzazione benestante) e l’emergere di nuove fratture (l’irrisolto declino della politica, l’esplosione del debito pubblico ai danni delle nuove generazioni). Un testo comunque lucido, critico, severo.

“Un Paese senza”, dunque. E cioè “Un Paese senza memoria/ Un Paese senza storia/ Un Paese senza passato/ Un Paese senza esperienza/ Un Paese senza grandezza/ Un Paese senza dignità/ Un Paese senza realtà/ Un Paese senza motivazioni/ Un Paese senza programmi/ Un Paese senza progetti/ Un Paese senza testa/ Un Paese senza gambe/ Un Paese senza conoscenze/ Un Paese senza senso/ Un Paese senza sapere/ Un Paese senza sapersi vedere/ Un Paese senza guardarsi/ Un Paese senza capirsi/ Un Paese senza avvenire?”.

Vale la pena, proprio in questi nostri giorni così difficili e controversi, rileggere quelle pagine di Arbasino, dense di sapida ironia e mirabile passione civile, per ragionare con consapevolezza di memoria e bisogno di fiducia nel futuro sul passaggio stretto che l’attualità politica ci costringe ad affrontare: le nubi di crisi sul governo Draghi, proprio mentre l’Italia, questo nostro comunque amato “Paese senza”, deve affrontare tensioni economiche e sociali ed emergenze climatiche, lampi di guerra nel cuore dell’Europa e una transizione energetica che ha implicazioni geopolitiche e complessità ambientali.

Le severe denunce civili sui limiti e le contraddizioni dell’identità italiana sono parte essenziale della nostra storia letteraria, da Dante a Machiavelli e Guicciardini, da Leopardi a Manzoni e Carducci, da D’Azeglio a Croce, da Gobetti a Gramsci. Eppure proprio quelle righe di Arbasino sul Paese “senza programmi”, “senza conoscenze”, “senza guardarsi”, “senza capirsi” fotografano con esattezza profetica il contesto di una certa presenza politica populista e sciatta che, “senza sapere”, si muove contro gli interessi e i valori generali degli italiani in nome di piccoli interessi di parte e di congrega, di volatili consensi, di miserie di potere.

Finiremo per ritrovarci “senza avvenire” proprio mentre l’Europa si prepara a ridiscutere le regole del Patto di stabilità, abbiamo preso l’impegno su 200 miliardi di fondi Ue da spendere bene per rinnovare e riformare il Paese e possiamo giocare un ruolo di primo piano nella ridefinizione degli equilibri geopolitici nel Mediterraneo e nel mondo? Il pericolo è grave.

La rottura della maggioranza che regge il governo Draghi, decisa dai Cinque Stelle capitanati da Conte ha determinato una drammatica torsione della situazione politica e portato il presidente del Consiglio all’annuncio delle dimissioni. Si vivono giorni carichi di preoccupazione. Il futuro immediato è quanto mai incerto.

Il Quirinale, punto di riferimento essenziale per tutti gli italiani che hanno a cuore il destino del Paese, lavora per la stabilità delle istituzioni e del Paese, perché prevalga il senso di responsabilità.

E proprio in momenti così duri, è necessario dare peso e spazio agli appelli che vengono da tutto il mondo economico, dagli oltre 1500 sindaci delle grandi e piccole città, dalla Chiesa, da parecchi rettori delle principali università, da una lunga fila di personalità della cultura e della società civile oltre che dalla Commissione UE di Bruxelles e dai governi nelle capitali dei paesi europei e negli Usa. Affinché il governo Draghi vada avanti si muove “il partito del Pil” (Confindustria in prima fila, con tutte le associazioni di territorio e di categoria). E un quotidiano battagliero come “Il Foglio” rispolvera in prima pagina, per la continuità di governo, quel “Whatever it takes” con cui Draghi, appunto, da presidente della BCE, salvò l’euro (e dunque la Ue e l’Italia appesantita dal debito pubblico).

“Ma è l’ora dei doveri”, ha titolato in prima pagina, domenica, “Avvenire”, il quotidiano della CEI, la Conferenza Episcopale Italiana. E in quel “Ma” c’è tutta la forza di una critica severa per chi cincischia in valutazioni partigiane, rancori personali, invidie, furbizie di propaganda, visioni politiche anguste. I “doveri” sono quelli dell’interesse generale. Cui il presidente della Repubblica Mattarella e il presidente del Consiglio Draghi hanno fatto e continuano, responsabilmente, a fare riferimento.

L’Italia e gli italiani, infatti, nonostante i limiti e i guasti del “Paese senza”, le inclinazioni clientelari e le scuse del “tengo famiglia”, sono migliori del ritratto negativo che, anche per loro complicità, ne viene comunemente fatto. E meritano un migliore racconto di se stessi. Hanno affrontato la pandemia con grande spirito di solidarietà e senso civico. Le imprese, già dopo la Grande Crisi finanziaria del 2008, hanno investito, innovato, esportato, creato lavoro e benessere, tanto da garantire anche un eccellente “rimbalzo” del Pil (il più forte in Europa) dopo i mesi durissimi del lock down. Il “capitale sociale” è positivo. E pure sui temi della sostenibilità, ambientale e sociale, il mondo economico si muove con maggiore impegno e migliore efficacia che nel resto dell’Europa (lo testimonia il documento di Symbola su “L’Italia in dieci selfie”, parlando di economia circolare, energia rinnovabile, qualità di prodotti e produzioni, relazioni virtuose tra imprese e territori). Con un’autorevole conferma proprio nelle parole del presidente Mattarella: “La nostra economia è più forte quando ha alle spalle una rete robusta di solidarietà, un sistema di imprese coscienti della propria funzione sociale, un retroterra di legalità, conoscenze diffuse, passioni civili”.

Oltre Arbasino, nelle riletture è necessario tornare con la memoria pure alle parole di Eugenio Scalfari, maestro laico di buona informazione come stimolo indispensabile per una politica di qualità: “Per fortuna, c’è anche un Paese che cresce e nonostante tutto è più robusto dei pesi che si porta sulle spalle”, aveva scritto nell’editoriale del primo numero de “la Repubblica”, il 14 gennaio del 1976. Una lezione che resta.

Un “Paese con”, potremmo dunque dire, seguendo Scalfari e capovolgendo in speranza la lucidità critica di Arbasino.

Ecco, proprio quest’Italia merita fiducia. Una strategia di progresso e sviluppo, senza avventure. Una storia declinata al futuro.

Un buon governo, dunque. “Whatever it takes”.

(photo by Massimo Di Vita/Archivio Massimo Di Vita/Mondadori Portfolio via Getty Images)

Linguaggio Noorda. Stile e creatività in Pirelli

«Quando arrivai in Italia gli industriali affidavano ancora la pubblicità a illustratori e pittori. Siamo stati tra coloro che hanno introdotto la grafica moderna, l’immagine coordinata aziendale, che è un misto di architettura d’interni aziendali, di design e di pubblicità».
Così Bob Noorda, classe 1927, olandese di origine, ricorda il suo arrivo a Milano all’inizio degli anni Cinquanta.

La sua formazione di stampo razionalista (i suoi professori provenivano dalla scuola Bauhaus) e la sua sperimentazione per soluzioni ordinate e strutturate, sono solo alcune delle premesse che diedero modo a Noorda di affermasi rapidamente. La Milano degli anni Cinquanta, nel pieno del suo fermento imprenditoriale è terreno fertile per grafici e designer, per poter impostare lavori pubblicitari con un forte approccio progettuale, per rendere la comunicazione di chiara lettura e imporre l’elemento grafico come segno riconoscibile. E lo fa, eliminando il superfluo: linee pulite e perfettamente in armonia con il contesto esprimono appieno quel concetto di “progetto coordinato” tanto caro alla comunità di grafici attiva in quel periodo.

Pirelli commissiona a Noorda una quantità ingente di lavori e lo nomina art director nel 1961: suo è il manifesto per il “Cinturato” del 1959 con la ruota che piega verso destra, sua la campagna pubblicitaria per il pneumatico “N+R” e quella per il pneumatico “Rolle”.

Noorda è capace di dilatare lo spazio e aprirsi al colore. Le linee diventano più elastiche e la forza del nero si attenua cedendo gradualmente all’utilizzo di sfumature di grigi: è una pubblicità “soffice” definita così per il modo che ha di generare sensazioni di leggerezza, come nel caso dell’annuncio pubblicitario per la “Palla dei campioni”. In altri, come nella pubblicità delle cinghie per trebbiatrici, l’elemento grafico si moltiplica creando dilatazioni spazio-temporali e conferendo all’immagine un’idea di movimento.

«Quando arrivai in Italia gli industriali affidavano ancora la pubblicità a illustratori e pittori. Siamo stati tra coloro che hanno introdotto la grafica moderna, l’immagine coordinata aziendale, che è un misto di architettura d’interni aziendali, di design e di pubblicità».
Così Bob Noorda, classe 1927, olandese di origine, ricorda il suo arrivo a Milano all’inizio degli anni Cinquanta.

La sua formazione di stampo razionalista (i suoi professori provenivano dalla scuola Bauhaus) e la sua sperimentazione per soluzioni ordinate e strutturate, sono solo alcune delle premesse che diedero modo a Noorda di affermasi rapidamente. La Milano degli anni Cinquanta, nel pieno del suo fermento imprenditoriale è terreno fertile per grafici e designer, per poter impostare lavori pubblicitari con un forte approccio progettuale, per rendere la comunicazione di chiara lettura e imporre l’elemento grafico come segno riconoscibile. E lo fa, eliminando il superfluo: linee pulite e perfettamente in armonia con il contesto esprimono appieno quel concetto di “progetto coordinato” tanto caro alla comunità di grafici attiva in quel periodo.

Pirelli commissiona a Noorda una quantità ingente di lavori e lo nomina art director nel 1961: suo è il manifesto per il “Cinturato” del 1959 con la ruota che piega verso destra, sua la campagna pubblicitaria per il pneumatico “N+R” e quella per il pneumatico “Rolle”.

Noorda è capace di dilatare lo spazio e aprirsi al colore. Le linee diventano più elastiche e la forza del nero si attenua cedendo gradualmente all’utilizzo di sfumature di grigi: è una pubblicità “soffice” definita così per il modo che ha di generare sensazioni di leggerezza, come nel caso dell’annuncio pubblicitario per la “Palla dei campioni”. In altri, come nella pubblicità delle cinghie per trebbiatrici, l’elemento grafico si moltiplica creando dilatazioni spazio-temporali e conferendo all’immagine un’idea di movimento.

Multimedia

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Colori d’impresa

Due libri dedicati al rapporto tra arte e Olivetti, raccontano lo spirito di un’impresa unica

Fabbrica anche come luogo di produzione di cultura. E di bellezza. Senza nascondere la fatica del lavoro e della manifattura, ma affiancando a questa, appunto, la ricerca del bello, del senso della fatica stessa. Ed è certamente Olivetti uno degli esempi più alti e importanti di questa cultura del produrre che si fa ogni giorno nuova, raccoglie dal passato e semina per il futuro. Ed è utile, quindi, apprendere quanto più possibile proprio dall’esperienza di Olivetti. Anche attraverso oggetti, immagini, testi, suggestioni di quelle che sono state la vita e lavoro di Adriano Olivetti e della sua azienda.
Ecco perché è interessante e importante leggere la serie di libri prodotti attorno all’idea di “Olivetti e la cultura dell’impresa responsabile” che l’amministrazione comunale di Ivrea ha voluto trasformare in una serie di mostre e pubblicazioni (un lavoro complesso e lungo reso possibile dalla collaborazione con l’Associazione Archivio Storico Olivetti, con Olivetti/TIM e con il Museo Civico P.A. Garda di Ivrea).
Tutto ruota attorno alle opere d’arte della raccolta Olivetti che tornano alla luce per il grande pubblico. Un patrimonio culturale di opere d’arte, documenti, filmati e fotografie che la società Olivetti ha commissionato e che afferma il valore della cultura come fattore di crescita della società, dalla fabbrica al territorio.
Il secondo libro (di sei), appena pubblicato, riguarda il rapporto di collaborazione tra la Olivetti e l’artista belga Folon, assunto come caso paradigmatico dei rapporti tra l’azienda e gli artisti contemporanei. Folon ha illustrato per Olivetti la prima agenda da tavolo del 1969, ben due libri strenna negli anni Settanta, un calendario, lavorando lungamente per l’azienda, nel campo della grafica, della e del design, realizzando opere grafiche, affiche, oggetti regalo, gadget, campagne pubblicitarie. Connubio importante quello tra l’impresa e l’artista, che proprio nel libro (e nella mostra di Ivrea) trova una perfetta sintesi fatta di colori, idee, innovazioni grafiche, provocazioni d’immagine.
Un libro, quello sul rapporto tra Olivetti e Folon, che arriva dopo un’altra pubblicazione sempre legata alla stessa iniziativa che, invece, ripropone le opere d’arte della Raccolta Olivetti: qualcosa che ha cercato di rendere concreta e reale l’idea di bellezza che nelle fabbriche e negli uffici deve sempre esserci.
Adriano Olivetti, viene spiegato nelle presentazioni dei volumi, pensava che la conoscenza, la bellezza, in una parola la «grazia», dovessero accompagnare i giorni e le ore di tutte le vite umane che gli scorrevano accanto e che incontrava in fabbrica e nel mondo. Olivetti, in altri termini, pensava di dover restituire in «grazia» ciò che gli era stato concesso in sorte. E a chi gli chiedeva quale fosse il contrario del peccato rispondeva senza esitazione che fosse non la «virtù» ma la «grazia». Pensava che generare bellezza fosse un dovere.
I due libri  della serie dedicata a Olivetti e alla cultura dell’impresa responsabile, raccontano perfettamente questa avventura umana e imprenditoriale.

Olivetti e la cultura dell’impresa responsabile. La Collezione Olivetti
Stefano Sertoli , Costanza Casali (a cura di)
Paola Mantovani, Marcella Turchetti (testi)
Allemandi, 2021

Olivetti e la cultura dell’impresa responsabile. Olivetti e l’arte: Jean-Michel Folon
Stefano Sertoli , Costanza Casali (a cura di)
Paola Mantovani, Marcella Turchetti (testi)
Allemandi, 2022

Due libri dedicati al rapporto tra arte e Olivetti, raccontano lo spirito di un’impresa unica

Fabbrica anche come luogo di produzione di cultura. E di bellezza. Senza nascondere la fatica del lavoro e della manifattura, ma affiancando a questa, appunto, la ricerca del bello, del senso della fatica stessa. Ed è certamente Olivetti uno degli esempi più alti e importanti di questa cultura del produrre che si fa ogni giorno nuova, raccoglie dal passato e semina per il futuro. Ed è utile, quindi, apprendere quanto più possibile proprio dall’esperienza di Olivetti. Anche attraverso oggetti, immagini, testi, suggestioni di quelle che sono state la vita e lavoro di Adriano Olivetti e della sua azienda.
Ecco perché è interessante e importante leggere la serie di libri prodotti attorno all’idea di “Olivetti e la cultura dell’impresa responsabile” che l’amministrazione comunale di Ivrea ha voluto trasformare in una serie di mostre e pubblicazioni (un lavoro complesso e lungo reso possibile dalla collaborazione con l’Associazione Archivio Storico Olivetti, con Olivetti/TIM e con il Museo Civico P.A. Garda di Ivrea).
Tutto ruota attorno alle opere d’arte della raccolta Olivetti che tornano alla luce per il grande pubblico. Un patrimonio culturale di opere d’arte, documenti, filmati e fotografie che la società Olivetti ha commissionato e che afferma il valore della cultura come fattore di crescita della società, dalla fabbrica al territorio.
Il secondo libro (di sei), appena pubblicato, riguarda il rapporto di collaborazione tra la Olivetti e l’artista belga Folon, assunto come caso paradigmatico dei rapporti tra l’azienda e gli artisti contemporanei. Folon ha illustrato per Olivetti la prima agenda da tavolo del 1969, ben due libri strenna negli anni Settanta, un calendario, lavorando lungamente per l’azienda, nel campo della grafica, della e del design, realizzando opere grafiche, affiche, oggetti regalo, gadget, campagne pubblicitarie. Connubio importante quello tra l’impresa e l’artista, che proprio nel libro (e nella mostra di Ivrea) trova una perfetta sintesi fatta di colori, idee, innovazioni grafiche, provocazioni d’immagine.
Un libro, quello sul rapporto tra Olivetti e Folon, che arriva dopo un’altra pubblicazione sempre legata alla stessa iniziativa che, invece, ripropone le opere d’arte della Raccolta Olivetti: qualcosa che ha cercato di rendere concreta e reale l’idea di bellezza che nelle fabbriche e negli uffici deve sempre esserci.
Adriano Olivetti, viene spiegato nelle presentazioni dei volumi, pensava che la conoscenza, la bellezza, in una parola la «grazia», dovessero accompagnare i giorni e le ore di tutte le vite umane che gli scorrevano accanto e che incontrava in fabbrica e nel mondo. Olivetti, in altri termini, pensava di dover restituire in «grazia» ciò che gli era stato concesso in sorte. E a chi gli chiedeva quale fosse il contrario del peccato rispondeva senza esitazione che fosse non la «virtù» ma la «grazia». Pensava che generare bellezza fosse un dovere.
I due libri  della serie dedicata a Olivetti e alla cultura dell’impresa responsabile, raccontano perfettamente questa avventura umana e imprenditoriale.

Olivetti e la cultura dell’impresa responsabile. La Collezione Olivetti
Stefano Sertoli , Costanza Casali (a cura di)
Paola Mantovani, Marcella Turchetti (testi)
Allemandi, 2021

Olivetti e la cultura dell’impresa responsabile. Olivetti e l’arte: Jean-Michel Folon
Stefano Sertoli , Costanza Casali (a cura di)
Paola Mantovani, Marcella Turchetti (testi)
Allemandi, 2022

Sfide globali per crescere meglio

In un intervento di Banca d’Italia la sintesi dei problemi da affrontare e delle strade da percorrere

 

Produrre e distribuire nell’ambito di uno scenario complesso è mutevole, nel quale, oltre ai vincoli economici consueti, occorre aver a che fare con gli effetti di cambiamenti di lungo periodo. È quanto accade oggi (e non solo per le imprese ma, di fatto, per ogni componente di buona parte delle società avanzate). Ed è attorno a questo nodo di problemi che ragiona Piero Cipollone, vicedirettore di Banca d’Italia, nel suo intervento “Transizione energetica, finanza e clima: sfide e opportunità”.

Cipollone inizia il suo ragionamento dal tema del cambiamento climatico e delle sue conseguenze sull’economia e non solo. Ed è dal cambiamento climatico che il vicedirettore di Banca d’Italia arriva ad esaminare le politiche economiche adottate e quindi il ruolo delle banche centrali e della finanza alle prese con il difficile equilibrio tra efficienza ed efficacia economica e risposte alle esigenze di compatibilità con l’ambiente.

L’intervento passa quindi ad esaminare le “sfide” che il sistema economico e sociale si trova a dover sostenere. Prima di tutto l’ampliamento degli strumenti della finanza sostenibile, poi quella dell’affidabilità dei dati e quindi la necessità di dare risposte in tempi brevi ad una serie impellente di problemi. Cipollone, poi, insiste sulla necessità di curare anche la consapevolezza della situazione nella quale imprese e società si trovano.

Alla base di tutto, spiega Cipollone, la necessità di sviluppare una “finanza verde” come espressione  matura di un modo diverso di intendere l’economia e la cultura del produrre. Scrive Cipollone nelle sue conclusioni: “La finanza verde è anche una sfida intellettuale, che  richiede  alle  istituzioni  finanziarie  di  aggiungere  alle  loro  competenze  tipiche nuove conoscenze e informazioni provenienti da altri campi scientifici”. Ed è proprio da questa apertura che deriva l’interesse di quanto espresso nell’indagine del vicedirettore di Banca d’Italia oltre che naturalmente del tema affrontato. È cioè una nuova cultura del produrre, dell’intendere le relazioni tra società e imprese e tra politica, economia e società quella che si delinea e che va accolta oltre che ragionata.

Transizione energetica, finanza e clima: sfide e opportunità

Piero Cipollone

Banca d’Italia, 21 giugno 2022

In un intervento di Banca d’Italia la sintesi dei problemi da affrontare e delle strade da percorrere

 

Produrre e distribuire nell’ambito di uno scenario complesso è mutevole, nel quale, oltre ai vincoli economici consueti, occorre aver a che fare con gli effetti di cambiamenti di lungo periodo. È quanto accade oggi (e non solo per le imprese ma, di fatto, per ogni componente di buona parte delle società avanzate). Ed è attorno a questo nodo di problemi che ragiona Piero Cipollone, vicedirettore di Banca d’Italia, nel suo intervento “Transizione energetica, finanza e clima: sfide e opportunità”.

Cipollone inizia il suo ragionamento dal tema del cambiamento climatico e delle sue conseguenze sull’economia e non solo. Ed è dal cambiamento climatico che il vicedirettore di Banca d’Italia arriva ad esaminare le politiche economiche adottate e quindi il ruolo delle banche centrali e della finanza alle prese con il difficile equilibrio tra efficienza ed efficacia economica e risposte alle esigenze di compatibilità con l’ambiente.

L’intervento passa quindi ad esaminare le “sfide” che il sistema economico e sociale si trova a dover sostenere. Prima di tutto l’ampliamento degli strumenti della finanza sostenibile, poi quella dell’affidabilità dei dati e quindi la necessità di dare risposte in tempi brevi ad una serie impellente di problemi. Cipollone, poi, insiste sulla necessità di curare anche la consapevolezza della situazione nella quale imprese e società si trovano.

Alla base di tutto, spiega Cipollone, la necessità di sviluppare una “finanza verde” come espressione  matura di un modo diverso di intendere l’economia e la cultura del produrre. Scrive Cipollone nelle sue conclusioni: “La finanza verde è anche una sfida intellettuale, che  richiede  alle  istituzioni  finanziarie  di  aggiungere  alle  loro  competenze  tipiche nuove conoscenze e informazioni provenienti da altri campi scientifici”. Ed è proprio da questa apertura che deriva l’interesse di quanto espresso nell’indagine del vicedirettore di Banca d’Italia oltre che naturalmente del tema affrontato. È cioè una nuova cultura del produrre, dell’intendere le relazioni tra società e imprese e tra politica, economia e società quella che si delinea e che va accolta oltre che ragionata.

Transizione energetica, finanza e clima: sfide e opportunità

Piero Cipollone

Banca d’Italia, 21 giugno 2022

Ecco perché fare cultura significa un buon libro e un’acciaieria green

“La cultura non è il superfluo, ma un elemento distintivo dell’identità italiana”. Sono parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo discorso di insediamento al Quirinale. E sono state ricordate e ripetute la settimana scorsa, a Torino, durante gli Stati Generali della Cultura organizzati da “Il Sole24Ore” per ragionare con personalità delle istituzioni, delle imprese, delle strutture culturali e dell’informazione, su come valorizzare il ricco patrimonio di conoscenze umanistiche e scientifiche del nostro Paese e farne leva di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale.

La nostra, infatti, è una identità complessa, aperta, dialettica, frutto originale di sintesi tra componenti differenti e spesso contrastanti. Mediterranea e mitteleuropea. Fortemente segnata dalle radici greche e latine e comunque sensibile alle influenze di altri mondi. Conflittuale e inclusiva. Sensibile alla storia ma anche incline all’innovazione. L’avvenire della memoria ne è un’attitudine specifica, nella speranza che la memoria abbia un futuro (secondo l’indimenticabile lezione di Leonardo Sciascia). La coniugazione tra senso della bellezza, creatività, operosità, intraprendenza e piacere per la qualità della vita è la sua connotazione fondamentale.

Sono temi forti, italiani ed europei, appunto. E sono per fortuna ricorrenti nel discorso pubblico (anche se purtroppo assai meno di quanto sarebbe necessario, nel contesto delle scelte politiche e di governo). Se ne è discusso, appunto, agli Stati Generali di Torino, ma anche a Treia, bellissimo borgo marchigiano, per il Seminario annuale di Symbola concentrato sui temi della sostenibilità e in parecchi dei festival dedicati ai libri e alla cultura che, come ogni estate, affollano le agende di molte città e località turistiche un po’ in tutta Italia.

Bellezza e cultura. Letteratura e scienza. Creatività artistica e conoscenze scientifiche. Consapevolezza delle radici (“Essere stati è condizione per essere”, ci ha insegnato Fernand Braudel, uno dei massimi storici del Novecento) e sguardo lungimirante verso il cambiamento. “Una storia al futuro”, appunto, come indica il titolo essenziale del libro curato dalla Fondazione Pirelli, pubblicato da Marsilio e dedicato a raccontare i 150 anni di vita di una grande multinazionale italiana e le sue prospettive per il tempo che verrà (con saggi e testimonianze, tra i tanti, di Ian McEwan, David Weinberger, Renzo Piano, Salvatore Accardo, Ernesto Ferrero, Monica Maggioni, Bruno Arpaia, Giuseppe Lupo, Maria Cristina Messa, Ferruccio Resta, Guido Saracco, etc.).

Ecco il punto: il ruolo dell’impresa come soggetto culturale, come attore creativo di cultura. L’impresa mecenate, capace cioè di farsi carico di investimenti per tutelare e valorizzare beni culturali, pubblici e privati. L’impresa culturale, con competenze imprenditoriali e manageriali per la gestione di attività culturali (musei, cinema, teatro, musica, arti figurative, editoria, etc.). E l’impresa in generale, se cultura non è solo un racconto, ma una formula chimica, la creazione di nuovi materiali, un processo produttivo, un nuovo prodotto o un servizio, un museo e un archivio storici d’impresa come asset di competitività, un contratto di lavoro, una scelta originale di governance, la scoperta e l’applicazione di nuovi linguaggi al marketing, alla pubblicità, alla comunicazione.

La cultura non come cosa, ma come un modo di fare le cose (lo testimoniava Angelo Guglielmi, intellettuale sofisticato e popolare, profondo innovatore della Tv).

Cultura, per fare solo un esempio, è anche la svolta sostenibile di un grande gruppo siderurgico come Arvedi, la prima acciaieria green al mondo, certificata a livello internazionale come net zero emission: “Un emblema del successo, anche economico, che possono ottenere le aziende italiane che hanno un legame stretto con il proprio territorio e che hanno capito quanto sia strategico per il successo economico di un’impresa puntare sul paradigma della sostenibilità”, sostiene Ermete Realacci, presidente di Symbola.

Sostenibilità come scelta di produttività e competitività su mercati globali sempre più selettivi, come insieme di valori per produrre valore economico e responsabilità sociale. Buona cultura d’impresa, appunto.

E’ indispensabile, infatti, una solida cultura politecnica, perché l’Italia possa rifondare e rafforzare le basi del suo sviluppo, proprio in tempi di crisi radicali, di grandi mutazioni geopolitiche, di fratture industriali e sociali e di necessari cambi di paradigma economici e sociali, per fronteggiare la stagione dell’incertezza e, andando oltre le fragilità, costruire le condizioni per un’economia più giusta e solida, circolare e civile. Una cultura che ibrida i saperi umanistici e le conoscenze scientifiche. Un nuovo “umanesimo industriale” che, nelle evoluzioni verso l’uso esteso dell’Intelligenza Artificiale, si qualifica come “umanesimo digitale”.

L’impresa ne è sempre al centro: data driven e cioè guidata dall’uso intelligente dei dati per la ricerca, la produzione, i servizi, la logistica, i rapporti con i mercati e i consumi, ha bisogno di algoritmi che siano scritti da ingegneri, neuroscienziati, statistici, filosofi, giuristi e, perché no? letterati che sappiano tenere insieme l’efficienza dei risultati e la comprensione del senso e dei valori secondo cui muoversi. La matematica e l’etica. La produttività e l’insieme degli effetti su cui l’impresa fonda la sua originale legittimazione sociale. La sperimentazione. E il racconto. La sostenibilità, appunto.

Cos’è tutto questo se non cultura?

La sfida che abbiamo dunque di fronte, come donne e uomini di cultura e d’impresa, ma anche come cittadini/spettatori/amanti dell’arte come espressione della bellezza non è solo di imparare a convivere con l’innovazione, ma soprattutto di essere parte attiva nella costruzione di nuovi meccanismi di partecipazione e fruizione delle attività culturali, di stare dentro, con spirito sia critico che costruttivo, all’individuazione di originali forme di cultura popolare: nuovi linguaggi, nuove modalità di costruzione dei processi culturali, nuovi rapporti tra memoria e tecnologie d’avanguardia. Una nuova e migliore civiltà.

“La cultura non è il superfluo, ma un elemento distintivo dell’identità italiana”. Sono parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo discorso di insediamento al Quirinale. E sono state ricordate e ripetute la settimana scorsa, a Torino, durante gli Stati Generali della Cultura organizzati da “Il Sole24Ore” per ragionare con personalità delle istituzioni, delle imprese, delle strutture culturali e dell’informazione, su come valorizzare il ricco patrimonio di conoscenze umanistiche e scientifiche del nostro Paese e farne leva di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale.

La nostra, infatti, è una identità complessa, aperta, dialettica, frutto originale di sintesi tra componenti differenti e spesso contrastanti. Mediterranea e mitteleuropea. Fortemente segnata dalle radici greche e latine e comunque sensibile alle influenze di altri mondi. Conflittuale e inclusiva. Sensibile alla storia ma anche incline all’innovazione. L’avvenire della memoria ne è un’attitudine specifica, nella speranza che la memoria abbia un futuro (secondo l’indimenticabile lezione di Leonardo Sciascia). La coniugazione tra senso della bellezza, creatività, operosità, intraprendenza e piacere per la qualità della vita è la sua connotazione fondamentale.

Sono temi forti, italiani ed europei, appunto. E sono per fortuna ricorrenti nel discorso pubblico (anche se purtroppo assai meno di quanto sarebbe necessario, nel contesto delle scelte politiche e di governo). Se ne è discusso, appunto, agli Stati Generali di Torino, ma anche a Treia, bellissimo borgo marchigiano, per il Seminario annuale di Symbola concentrato sui temi della sostenibilità e in parecchi dei festival dedicati ai libri e alla cultura che, come ogni estate, affollano le agende di molte città e località turistiche un po’ in tutta Italia.

Bellezza e cultura. Letteratura e scienza. Creatività artistica e conoscenze scientifiche. Consapevolezza delle radici (“Essere stati è condizione per essere”, ci ha insegnato Fernand Braudel, uno dei massimi storici del Novecento) e sguardo lungimirante verso il cambiamento. “Una storia al futuro”, appunto, come indica il titolo essenziale del libro curato dalla Fondazione Pirelli, pubblicato da Marsilio e dedicato a raccontare i 150 anni di vita di una grande multinazionale italiana e le sue prospettive per il tempo che verrà (con saggi e testimonianze, tra i tanti, di Ian McEwan, David Weinberger, Renzo Piano, Salvatore Accardo, Ernesto Ferrero, Monica Maggioni, Bruno Arpaia, Giuseppe Lupo, Maria Cristina Messa, Ferruccio Resta, Guido Saracco, etc.).

Ecco il punto: il ruolo dell’impresa come soggetto culturale, come attore creativo di cultura. L’impresa mecenate, capace cioè di farsi carico di investimenti per tutelare e valorizzare beni culturali, pubblici e privati. L’impresa culturale, con competenze imprenditoriali e manageriali per la gestione di attività culturali (musei, cinema, teatro, musica, arti figurative, editoria, etc.). E l’impresa in generale, se cultura non è solo un racconto, ma una formula chimica, la creazione di nuovi materiali, un processo produttivo, un nuovo prodotto o un servizio, un museo e un archivio storici d’impresa come asset di competitività, un contratto di lavoro, una scelta originale di governance, la scoperta e l’applicazione di nuovi linguaggi al marketing, alla pubblicità, alla comunicazione.

La cultura non come cosa, ma come un modo di fare le cose (lo testimoniava Angelo Guglielmi, intellettuale sofisticato e popolare, profondo innovatore della Tv).

Cultura, per fare solo un esempio, è anche la svolta sostenibile di un grande gruppo siderurgico come Arvedi, la prima acciaieria green al mondo, certificata a livello internazionale come net zero emission: “Un emblema del successo, anche economico, che possono ottenere le aziende italiane che hanno un legame stretto con il proprio territorio e che hanno capito quanto sia strategico per il successo economico di un’impresa puntare sul paradigma della sostenibilità”, sostiene Ermete Realacci, presidente di Symbola.

Sostenibilità come scelta di produttività e competitività su mercati globali sempre più selettivi, come insieme di valori per produrre valore economico e responsabilità sociale. Buona cultura d’impresa, appunto.

E’ indispensabile, infatti, una solida cultura politecnica, perché l’Italia possa rifondare e rafforzare le basi del suo sviluppo, proprio in tempi di crisi radicali, di grandi mutazioni geopolitiche, di fratture industriali e sociali e di necessari cambi di paradigma economici e sociali, per fronteggiare la stagione dell’incertezza e, andando oltre le fragilità, costruire le condizioni per un’economia più giusta e solida, circolare e civile. Una cultura che ibrida i saperi umanistici e le conoscenze scientifiche. Un nuovo “umanesimo industriale” che, nelle evoluzioni verso l’uso esteso dell’Intelligenza Artificiale, si qualifica come “umanesimo digitale”.

L’impresa ne è sempre al centro: data driven e cioè guidata dall’uso intelligente dei dati per la ricerca, la produzione, i servizi, la logistica, i rapporti con i mercati e i consumi, ha bisogno di algoritmi che siano scritti da ingegneri, neuroscienziati, statistici, filosofi, giuristi e, perché no? letterati che sappiano tenere insieme l’efficienza dei risultati e la comprensione del senso e dei valori secondo cui muoversi. La matematica e l’etica. La produttività e l’insieme degli effetti su cui l’impresa fonda la sua originale legittimazione sociale. La sperimentazione. E il racconto. La sostenibilità, appunto.

Cos’è tutto questo se non cultura?

La sfida che abbiamo dunque di fronte, come donne e uomini di cultura e d’impresa, ma anche come cittadini/spettatori/amanti dell’arte come espressione della bellezza non è solo di imparare a convivere con l’innovazione, ma soprattutto di essere parte attiva nella costruzione di nuovi meccanismi di partecipazione e fruizione delle attività culturali, di stare dentro, con spirito sia critico che costruttivo, all’individuazione di originali forme di cultura popolare: nuovi linguaggi, nuove modalità di costruzione dei processi culturali, nuovi rapporti tra memoria e tecnologie d’avanguardia. Una nuova e migliore civiltà.

1910: Pirelli espone a Bruxelles e Buenos Aires

Dopo le Expo di Parigi 1900 e Saint Louis 1904, la successiva si tiene a Liegi, in Belgio, nel 1905. La partecipazione dell’Italia è però marginale, e Pirelli non risulta essere presente. Sul finire del 1906 viene annunciata una nuova esposizione, ancora in Belgio, a Bruxelles, nel 1910. Il Comitato Nazionale per le Esposizioni e le Esportazioni Italiane all’Estero avvia subito i preparativi per la partecipazione ufficiale dell’Italia all’evento, sancita con la legge del 10 giugno 1909. Nell’autunno dello stesso anno viene annunciato però lo svolgimento di un’Esposizione internazionale anche nella città di Buenos Aires, da tenersi a partire dalla primavera del 1910 in occasione della celebrazione del Centenario della Repubblica Argentina. Il Comitato Nazionale, riconoscendo l’utilità politica e commerciale della partecipazione dei produttori italiani anche alla manifestazione argentina, vi aderisce. La contemporaneità delle due manifestazioni crea però non pochi problemi organizzativi, in particolare nel gruppo “automobili e cicli” dell’Esposizione di Bruxelles, dove inizialmente si erano avute adesioni tali da coprire una superficie di oltre 1.000 mq: all’annuncio dell’Expo di Buenos Aires quasi tutti gli espositori hanno optato per la mostra argentina. Solo con grandi difficoltà si riesce a mantenere la partecipazione a Bruxelles di poche ditte, tra cui Pirelli.  All’interno della “galleria internazionale” della Sezione italiana, riservata appunto alle mostre di automobilismo, ciclismo e sport, Pirelli espone pneumatici, accessori per automobili e biciclette, abiti sportivi in tessuto impermeabile. L’attività nel settore dei cavi è raccontata attraverso l’esposizione di 14 fotografie che raffigurano il gabinetto elettrico dello stabilimento e quello a bordo della nave posacavi Città di Milano, la posa di cavi per il trasporto di energia sotto il Nilo, l’impianto della Ontario Power Co al Niagara. Sono esposti anche dei quadri con le vedute dei principali stabilimenti (quelli di Milano, La Spezia, Villanueva y la Geltrù in Spagna e del nuovo stabilimento di Greco Milanese – cioè quello della Bicocca), e la fotografia dell’uscita degli operai dallo stabilimento di Milano firmata da Luca Comerio.

A maggio apre i battenti anche l’Expo di Buenos Aires, divisa in “Ferrovie e trasporti terrestri”, “Belle arti”, “Agricoltura”, “Igiene e medicina”. La Pirelli, con un’esportazione in Argentina da oltre un ventennio e una sede di rappresentanza aperta proprio nel 1910 e affidata all’agente Alvaro Compaby, tiene naturalmente in gran considerazione la partecipazione alla manifestazione. Scrive infatti Alberto Pirelli al Company, il 16 agosto 1909: “Siamo una delle ditte italiane che, fra quelle che possono esporre ad un’esposizione di mezzi di trasporto – compresi i trasporti di energia elettrica – esporta di più nell’Amerca del Sud, ci troviamo nella condizione di poter concorrere in quasi tutte le Sezioni e siamo disposti a partecipare in modo serio”. La Pirelli ottiene uno stand in ottima posizione all’interno del Padiglione Italia: le vengono infatti riservate due aree situate a destra e a sinistra  del corridoio centrale del padiglione, di fronte all’ingresso principale. Sono esposti pneumatici, cavi e articoli tecnici in gomma, il modellino della nave posa cavi Città di Milano già presente all’Esposizione di Parigi del 1900, e le stesse fotografie e vedute di stabilimento selezionate per Bruxelles. Vengono inviati a Buenos Aires 10.000 opuscoli sulla Pechino Parigi (la macchina vincitrice è tra l’altro esposta nello stand del marchio Itala) e 20.000 opuscoli con vedute degli stabilimenti della ditta, da distribuire al pubblico. Nella sala cinematografica dell’Esposizione viene proiettato un filmato realizzato su proposta e a cura del Comitato Nazionale per le Esposizioni, con l’obiettivo di “portare a mostrare all’estero mediante spettacoli di proiezioni e cinematografie, oltre che le bellezze naturali ed artistiche, anche quelle intese ad illustrare lo sviluppo industriale del nostro Paese”, si legge nella lettera del 22 aprile 1910: una pellicola di 50 metri che mostra l’uscita degli operai dallo stabilimento di Milano. Inoltre, grazie ad accordi con le case auto, Pirelli ottiene che tutte le automobili e le biciclette italiane presenti all’esposizione siano gommate Pirelli.

Il 1910 segna così ottimi risultati per la presenza di Pirelli all’estero, e importanti riconoscimenti, ottenuti sia a Bruxelles – dove l’azienda si aggiudica due diplomi di Gran Premio e una medaglia in bronzo – sia a Buenos Aires, dove ottiene ben tre diplomi di Gran Premio, quattro Diplomi d’onore e due diplomi di medaglia d’oro.  Un successo ormai ampiamente consolidato su scala internazionale.

Dopo le Expo di Parigi 1900 e Saint Louis 1904, la successiva si tiene a Liegi, in Belgio, nel 1905. La partecipazione dell’Italia è però marginale, e Pirelli non risulta essere presente. Sul finire del 1906 viene annunciata una nuova esposizione, ancora in Belgio, a Bruxelles, nel 1910. Il Comitato Nazionale per le Esposizioni e le Esportazioni Italiane all’Estero avvia subito i preparativi per la partecipazione ufficiale dell’Italia all’evento, sancita con la legge del 10 giugno 1909. Nell’autunno dello stesso anno viene annunciato però lo svolgimento di un’Esposizione internazionale anche nella città di Buenos Aires, da tenersi a partire dalla primavera del 1910 in occasione della celebrazione del Centenario della Repubblica Argentina. Il Comitato Nazionale, riconoscendo l’utilità politica e commerciale della partecipazione dei produttori italiani anche alla manifestazione argentina, vi aderisce. La contemporaneità delle due manifestazioni crea però non pochi problemi organizzativi, in particolare nel gruppo “automobili e cicli” dell’Esposizione di Bruxelles, dove inizialmente si erano avute adesioni tali da coprire una superficie di oltre 1.000 mq: all’annuncio dell’Expo di Buenos Aires quasi tutti gli espositori hanno optato per la mostra argentina. Solo con grandi difficoltà si riesce a mantenere la partecipazione a Bruxelles di poche ditte, tra cui Pirelli.  All’interno della “galleria internazionale” della Sezione italiana, riservata appunto alle mostre di automobilismo, ciclismo e sport, Pirelli espone pneumatici, accessori per automobili e biciclette, abiti sportivi in tessuto impermeabile. L’attività nel settore dei cavi è raccontata attraverso l’esposizione di 14 fotografie che raffigurano il gabinetto elettrico dello stabilimento e quello a bordo della nave posacavi Città di Milano, la posa di cavi per il trasporto di energia sotto il Nilo, l’impianto della Ontario Power Co al Niagara. Sono esposti anche dei quadri con le vedute dei principali stabilimenti (quelli di Milano, La Spezia, Villanueva y la Geltrù in Spagna e del nuovo stabilimento di Greco Milanese – cioè quello della Bicocca), e la fotografia dell’uscita degli operai dallo stabilimento di Milano firmata da Luca Comerio.

A maggio apre i battenti anche l’Expo di Buenos Aires, divisa in “Ferrovie e trasporti terrestri”, “Belle arti”, “Agricoltura”, “Igiene e medicina”. La Pirelli, con un’esportazione in Argentina da oltre un ventennio e una sede di rappresentanza aperta proprio nel 1910 e affidata all’agente Alvaro Compaby, tiene naturalmente in gran considerazione la partecipazione alla manifestazione. Scrive infatti Alberto Pirelli al Company, il 16 agosto 1909: “Siamo una delle ditte italiane che, fra quelle che possono esporre ad un’esposizione di mezzi di trasporto – compresi i trasporti di energia elettrica – esporta di più nell’Amerca del Sud, ci troviamo nella condizione di poter concorrere in quasi tutte le Sezioni e siamo disposti a partecipare in modo serio”. La Pirelli ottiene uno stand in ottima posizione all’interno del Padiglione Italia: le vengono infatti riservate due aree situate a destra e a sinistra  del corridoio centrale del padiglione, di fronte all’ingresso principale. Sono esposti pneumatici, cavi e articoli tecnici in gomma, il modellino della nave posa cavi Città di Milano già presente all’Esposizione di Parigi del 1900, e le stesse fotografie e vedute di stabilimento selezionate per Bruxelles. Vengono inviati a Buenos Aires 10.000 opuscoli sulla Pechino Parigi (la macchina vincitrice è tra l’altro esposta nello stand del marchio Itala) e 20.000 opuscoli con vedute degli stabilimenti della ditta, da distribuire al pubblico. Nella sala cinematografica dell’Esposizione viene proiettato un filmato realizzato su proposta e a cura del Comitato Nazionale per le Esposizioni, con l’obiettivo di “portare a mostrare all’estero mediante spettacoli di proiezioni e cinematografie, oltre che le bellezze naturali ed artistiche, anche quelle intese ad illustrare lo sviluppo industriale del nostro Paese”, si legge nella lettera del 22 aprile 1910: una pellicola di 50 metri che mostra l’uscita degli operai dallo stabilimento di Milano. Inoltre, grazie ad accordi con le case auto, Pirelli ottiene che tutte le automobili e le biciclette italiane presenti all’esposizione siano gommate Pirelli.

Il 1910 segna così ottimi risultati per la presenza di Pirelli all’estero, e importanti riconoscimenti, ottenuti sia a Bruxelles – dove l’azienda si aggiudica due diplomi di Gran Premio e una medaglia in bronzo – sia a Buenos Aires, dove ottiene ben tre diplomi di Gran Premio, quattro Diplomi d’onore e due diplomi di medaglia d’oro.  Un successo ormai ampiamente consolidato su scala internazionale.

Tronchetti e i 150 anni di Pirelli, sull’auto no a una sola tecnologia

Milano, incontro per i 150 anni di Pirelli

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