Cambiare approccio al lavoro per lavorare meglio
Una tesi di dottorato affronta il tema della CSS applicata nelle fonderie italiane
Lavorare bene anche in situazioni difficili. E non solo per ottenere il massimo risultato, ma per vivere bene il proprio lavoro. E’ attorno a queste idee che ha lavorato Leonardo Ciocca con la sua tesi di dottorato in psicologia discussa presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Ciocca ha approfondito un aspetto particolare della buona cultura d’impresa: riuscire a rendere vivibili anche situazioni produttive difficili e pericolose, nel rispetto di ogni ruolo, guardando ai risultati ma anche alle persone.
Lo scritto – viene spiegato nella sintesi della ricerca -, approfondisce i costrutti di cultura della cosiddetta Corporate Social Sustainability (“CSS”) e sostenibilità della vita organizzativa nelle fonderie italiane, inquadrate nella letteratura di settore come organizzazioni ad alto rischio. E’ questo uno dei punti cruciali del lavoro di Ciocca: prendere come oggetto di studio una condizione produttiva difficile e rischiosa. Le fonderie, viene spiegato, sono comunemente percepite come “Industrie 3D: Dirty, Dusty and Dangerous”, poco attente alla sostenibilità ambientale, sociale ed economica. L’ipotesi di Ciocca è che in questi contesti sia possibile identificare elementi culturali in grado di “rendere pulito” un lavoro “sporco”, così da migliorare la sostenibilità della vita lavorativa e contribuire alla transizione da “Industrie 3D” a “Industrie 3P: Profit, Planet and People”.
L’autore prende prima in considerazione il concetto di CSS, poi il particolare ambito nel quale inserirlo e, quindi, il metodo di ricerca da applicare. Il passo successivo consiste quindi nell’approfondire il CSS nelle fonderie italiane cercando di trarne indicazioni non solo teoriche ma anche operative.
Scrive Ciocca nelle sue conclusioni che l’applicazione del CSS a questi particolari contesti “offrire opportunità per il miglioramento delle condizioni lavorative e per l’incremento di benessere organizzativo nelle imprese di fonderia”, oltre a questo, “si è notato che questo aspetto incide positivamente sulle condizioni di sicurezza e di tutela della salute delle risorse umane coinvolte, elemento che potrebbe tradursi in un incremento dell’attrattività del settore per giovani lavoratori, oltre che per un miglioramento della reputation del settore agli occhi dell’opinione pubblica e degli stessi lavoratori”. Per Ciocca, poi, la grande sfida “consiste nell’orientare le fonderie a investire nella direzione sostenibilità delle risorse umane e della cultura della CSS, sostenendo il proprio personale, in particolare a chi ricopre ruoli dirigenziali e di responsabilità, attraverso percorsi formativi in grado di combinare aspetti gestionali (…) e di tutela del personale impiegato (…)”. Un percorso difficile da mettere in pratica, che passa per “l’evoluzione del management e delle politiche gestionali” e poi dal “rinnovamento della dimensione impiantistica e tecnologica”.
Leonardo Ciocca
Tesi, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Corso di Dottorato in Psicologia, Ciclo XXXIV, 2020
Una tesi di dottorato affronta il tema della CSS applicata nelle fonderie italiane
Lavorare bene anche in situazioni difficili. E non solo per ottenere il massimo risultato, ma per vivere bene il proprio lavoro. E’ attorno a queste idee che ha lavorato Leonardo Ciocca con la sua tesi di dottorato in psicologia discussa presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Ciocca ha approfondito un aspetto particolare della buona cultura d’impresa: riuscire a rendere vivibili anche situazioni produttive difficili e pericolose, nel rispetto di ogni ruolo, guardando ai risultati ma anche alle persone.
Lo scritto – viene spiegato nella sintesi della ricerca -, approfondisce i costrutti di cultura della cosiddetta Corporate Social Sustainability (“CSS”) e sostenibilità della vita organizzativa nelle fonderie italiane, inquadrate nella letteratura di settore come organizzazioni ad alto rischio. E’ questo uno dei punti cruciali del lavoro di Ciocca: prendere come oggetto di studio una condizione produttiva difficile e rischiosa. Le fonderie, viene spiegato, sono comunemente percepite come “Industrie 3D: Dirty, Dusty and Dangerous”, poco attente alla sostenibilità ambientale, sociale ed economica. L’ipotesi di Ciocca è che in questi contesti sia possibile identificare elementi culturali in grado di “rendere pulito” un lavoro “sporco”, così da migliorare la sostenibilità della vita lavorativa e contribuire alla transizione da “Industrie 3D” a “Industrie 3P: Profit, Planet and People”.
L’autore prende prima in considerazione il concetto di CSS, poi il particolare ambito nel quale inserirlo e, quindi, il metodo di ricerca da applicare. Il passo successivo consiste quindi nell’approfondire il CSS nelle fonderie italiane cercando di trarne indicazioni non solo teoriche ma anche operative.
Scrive Ciocca nelle sue conclusioni che l’applicazione del CSS a questi particolari contesti “offrire opportunità per il miglioramento delle condizioni lavorative e per l’incremento di benessere organizzativo nelle imprese di fonderia”, oltre a questo, “si è notato che questo aspetto incide positivamente sulle condizioni di sicurezza e di tutela della salute delle risorse umane coinvolte, elemento che potrebbe tradursi in un incremento dell’attrattività del settore per giovani lavoratori, oltre che per un miglioramento della reputation del settore agli occhi dell’opinione pubblica e degli stessi lavoratori”. Per Ciocca, poi, la grande sfida “consiste nell’orientare le fonderie a investire nella direzione sostenibilità delle risorse umane e della cultura della CSS, sostenendo il proprio personale, in particolare a chi ricopre ruoli dirigenziali e di responsabilità, attraverso percorsi formativi in grado di combinare aspetti gestionali (…) e di tutela del personale impiegato (…)”. Un percorso difficile da mettere in pratica, che passa per “l’evoluzione del management e delle politiche gestionali” e poi dal “rinnovamento della dimensione impiantistica e tecnologica”.
Leonardo Ciocca
Tesi, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Corso di Dottorato in Psicologia, Ciclo XXXIV, 2020
Leggi anche...
Noi e i robot
Appena tradotto in Italia un libro che approfondisce realtà ed effetti dell’Intelligenza Artificiale
Robot ovvero Intelligenza Artificiale. Nelle nostre vite di tutti i giorni come nel lavoro delle imprese. IA che rappresenta la più recente rivoluzione industriale che, come le precedenti, affascina e fa paura, deve essere capita e gestita, comunque affrontata. Per tutto questo serve leggere – con attenzione -, “Il dominio dei robot. Come l’intelligenza artificiale rivoluzionerà l’economia, la politica e la nostra vita” scritto da Martin Ford, uno dei più attenti e disincantati conoscitori della materia, che è riuscito in qualche centinaio di pagine che si leggono quasi d’un fiato, a raccontare la realtà dell’IA, i suoi vantaggi e i suoi notevoli rischi. Oltre alla necessità di governo che deve essere messa in atto.
Robot, dunque, che Ford prima di tutto racconta e descrive nelle loro svariate mansioni. Dalla realizzazione di automobili senza conducente, alle applicazioni che traducono segni incomprensibili in frasi di senso compiuto, passando per le abitazioni che accendono luci e riscaldamento a nostro comando, ma anche dalla completa automazione di ristoranti e supermercati, per arrivare alla fabbricazione di armi capaci di uccidere senza intervento umano, ai robot disinfettanti in grado di eliminare ogni batterio da una camera d’ospedale, agli algoritmi impiegati nella selezione del personale, alle scoperte in ambito chimico, sanitario ed energetico rese possibili dal deep learning ai raffinati sistemi di riconoscimento facciale utilizzabili dai governi per identificare gli oppositori politici. Ford non dimentica nemmeno AGI, l’”intelligenza artificiale generale” che, se realizzata, permetterebbe a una macchina di comunicare, ragionare e concepire idee al livello di un essere umano o addirittura superiore.
Ciò che forse più conta del libro di Ford, è però la serie di approfondimenti su alcuni passaggi cruciali dell’IA: il suo controllo, gli effetti sul lavoro e sulle imprese, sul vivere sociale, sul cambiamento climatico, il suo potere positivo per la risoluzione di una serie di questioni cruciali per tutti noi a patto di essere guidata bene e democraticamente.
Il libro di Martin è solo in apparenza un viaggio dentro il mondo dei robot, perché rappresenta un’analisi seria di ciò che davvero è l’IA e di cosa potrebbe essere.
Il dominio dei robot. Come l’intelligenza artificiale rivoluzionerà l’economia, la politica e la nostra vita
Martin Ford
il Saggiatore, 2022






Appena tradotto in Italia un libro che approfondisce realtà ed effetti dell’Intelligenza Artificiale
Robot ovvero Intelligenza Artificiale. Nelle nostre vite di tutti i giorni come nel lavoro delle imprese. IA che rappresenta la più recente rivoluzione industriale che, come le precedenti, affascina e fa paura, deve essere capita e gestita, comunque affrontata. Per tutto questo serve leggere – con attenzione -, “Il dominio dei robot. Come l’intelligenza artificiale rivoluzionerà l’economia, la politica e la nostra vita” scritto da Martin Ford, uno dei più attenti e disincantati conoscitori della materia, che è riuscito in qualche centinaio di pagine che si leggono quasi d’un fiato, a raccontare la realtà dell’IA, i suoi vantaggi e i suoi notevoli rischi. Oltre alla necessità di governo che deve essere messa in atto.
Robot, dunque, che Ford prima di tutto racconta e descrive nelle loro svariate mansioni. Dalla realizzazione di automobili senza conducente, alle applicazioni che traducono segni incomprensibili in frasi di senso compiuto, passando per le abitazioni che accendono luci e riscaldamento a nostro comando, ma anche dalla completa automazione di ristoranti e supermercati, per arrivare alla fabbricazione di armi capaci di uccidere senza intervento umano, ai robot disinfettanti in grado di eliminare ogni batterio da una camera d’ospedale, agli algoritmi impiegati nella selezione del personale, alle scoperte in ambito chimico, sanitario ed energetico rese possibili dal deep learning ai raffinati sistemi di riconoscimento facciale utilizzabili dai governi per identificare gli oppositori politici. Ford non dimentica nemmeno AGI, l’”intelligenza artificiale generale” che, se realizzata, permetterebbe a una macchina di comunicare, ragionare e concepire idee al livello di un essere umano o addirittura superiore.
Ciò che forse più conta del libro di Ford, è però la serie di approfondimenti su alcuni passaggi cruciali dell’IA: il suo controllo, gli effetti sul lavoro e sulle imprese, sul vivere sociale, sul cambiamento climatico, il suo potere positivo per la risoluzione di una serie di questioni cruciali per tutti noi a patto di essere guidata bene e democraticamente.
Il libro di Martin è solo in apparenza un viaggio dentro il mondo dei robot, perché rappresenta un’analisi seria di ciò che davvero è l’IA e di cosa potrebbe essere.
Il dominio dei robot. Come l’intelligenza artificiale rivoluzionerà l’economia, la politica e la nostra vita
Martin Ford
il Saggiatore, 2022
Leggi anche...
Ricordando gli anni Ottanta, tra vittoria al Mundial, stragi di mafia e debito pubblico: lezioni d’attualità
Ricorrenze e somiglianze. Si parla e si scrive molto, in questi giorni difficili, degli anni Ottanta. Ricordandone i fasti: l’Italia campione del Mundial di calcio, a Madrid, l’11 luglio del 1982, giusto quarant’anni fa. Ma anche le pagine cariche d’ombra: “L’inflazione (8%) torna ai livelli del 1986”, titola “Il Sole24Ore”, sabato 2 luglio. Celebrando i successi di un paese che provava a chiudere con una grande festa sportiva e popolare le angosce e i lutti degli “anni di piombo”. E non dimenticando però i rischi che, come allora, corrono il tenore di vita e le capacità d’acquisto delle famiglie italiane.
Le ricorrenze hanno uno straordinario carico di fascino. Consentono di giocare con il gusto agrodolce dell’Amarcord, selezionando nei cassetti della memoria soprattutto ciò che ci fa più piacere. Ma rischiano di farci scivolare lungo la deriva della malinconia e della nostalgia, illudendoci che il “come eravamo” sia meglio del come siamo e forse saremo. E così vale forse la pena modificare parzialmente il campo di gioco e affidarci alla severità della ricostruzione storica. L’avvenire della memoria, negli schemi dei doveri intellettuali e morali, chiede sguardo lucido, tra passato e futuro. E consapevolezza critica.
Guardiamo meglio, dunque. Proprio a quel luglio 1982 della finale tra Italia e Germania, sul campo dello stadio Santiago Bernabéu di Madrid. In campo, gli azzurri allenati da Enzo Bearzot (eccoli, i nomi recitati da allora in poi come una litania: Zoff, Gentile, Cabrini, Bergomi, Collovati, Scirea, Conti, Tardelli, Rossi, Oriali, Graziani e, in panchina, Bordon, Dossena, Marini, Causio e Altobelli) e i tedeschi allenati da Jupp Derwall. In tribuna, accanto al re di Spagna Juan Carlos, alto e impettito, il presidente della Repubblica italiana, Sandro Pertini, tutto un guizzo di energia e tifo sincero. Finì, come tutti sanno, 3 a 1 per noi. Un trionfo.
“Voi non vi rendete conto di quel che avete fatto per il vostro Paese”, disse a caldo Pertini ai giocatori italiani subito dopo la vittoria, “intendendo rimarcare che non si trattava ‘solo’ di un risultato calcistico, ma qualcosa di più sostanzioso, a conferma che lo sport, quando si professa in forma di leggenda, assume un valore antropologico”, con tutte le sequenze “di un teatro laico e mitologico”, per dirla con le essenziali parole della ricostruzione d’uno scrittore sapido come Giuseppe Lupo (“Il Sole24Ore”, 21 giugno).
Una data che prende come simbolo un successo sportivo e ne fa la metafora di un riscatto dalla cupezza dei tempi precedenti e di una ripartenza nel segno di un radicale rinnovamento di comportamenti e speranze.
Alle spalle, ci si lascia la stagione cupa e dolorosa cominciata con la strage di piazza Fontana, a Milano, nel dicembre del 1969 e seguita da attentati, agguati, sparatorie, tra le bombe delle “trame nere” neofasciste coperte anche da organismi interni allo Stato e le uccisioni firmate dai terroristi delle Brigate Rosse e degli altri gruppi dell’estremismo di estrema sinistra. Le tensioni politiche e sociali. La drammatica crisi petrolifera del 1973. L’inflazione che devasta l’economia, sino a toccare il tetto delle due cifre.
Davanti, una straordinaria voglia di vivere. La politica economica liberista di Ronald Reagan negli Usa e di Margareth Thatcher in Gran Bretagna (“Non esiste la società, esistono gli individui”). Il segno della “leggerezza” (secondo l’indicazione delle “Lezioni americane” di Italo Calvino e d’uno straordinario romanzo di Milan Kundera, “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, che diventa rapidamente un tormentone adatto all’ironia delle trasmissioni Tv, tra la Rai di “Quelli della notte” e “Indietro tutta” sotto la guida di Renzo Arbore e i canali Mediaset con “Drive in” ed “Emilio”). Tutto un grande allegro colorato impasto di mode e modi, eleganza e pubblicità (“Milano da bere”, recita un fortunato spot d’un amaro di successo), turboeconomia che alimenta Borsa in crescita e investimenti importanti per merito dell’ attivismo di piccole e medie imprese ma anche una spregiudicata finanza speculativa (il “fare soldi per mezzo di soldi”).
Un racconto dinamico e avido, comunque vitalissimo. Ma non l’unico racconto possibile da ricordare.
Perché proprio quel 1982 dell’indimenticabile festa del Mundial ha anche altre date, che scandiscono il tempo. 30 aprile, a Palermo, l’assassinio del segretario siciliano del Pci Pio La Torre e della sua guardia del corpo Rosario Di Salvo. 3 settembre, sempre a Palermo, la strage di via Carini, in cui perdono la vita il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa (da cento giorni prefetto della città con un mandato chiaro di combattere la mafia ma lasciato in solitudine e senza poteri) e, accanto a lui, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo: “Convergenza tra Cosa Nostra e settori politici ed economici”, dissero sulle origini del delitto i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Era sostenitore di una più severa e incisiva legge antimafia, La Torre. Approvata finalmente dal Parlamento solo dopo l’uccisione di Dalla Chiesa.
Eccolo qui, il ritratto completo di quel 1982. Una festa. E una strage. L’allegria della ripresa. E il lutto di una guerra di mafia che nei primi anni Ottanta, tra Sicilia, Calabria e Campania, lascerà a terra diecimila vittime. Diecimila (un racconto ben costruito sta nelle pagine de “Il raccolto rosso” di Enrico Deaglio, Il Saggiatore).
Per dirla in sintesi: c’è la Milano da bere e la Palermo per morire.
Ancora una volta il ritratto dell’Italia è molteplice, contrastato, ridente e drammatico.
Quegli anni Ottanta di novità sociali e politiche (il primo presidente del Consiglio socialista, nella storia della Repubblica: Bettino Craxi), nel dinamismo economico covano però una frattura che si ripercuoterà negli anni futuri.
Esplode infatti il debito pubblico che passa rapidamente dal 60% a oltre il 120% del Pil nell’arco del decennio: spesa pubblica per mantenere il tenore di vita diffuso e “comprare consenso”, debiti scaricati sulle spalle delle nuove generazioni.
Si rompe allora, infatti, il “patto generazionale” (ogni generazione starà meglio delle precedenti, perché padri e madri investono sul futuro dei figli). E le conseguenze, tra crisi, incertezza e fragilità della fiducia, le subiamo ancora adesso.
Ecco perché il richiamo dei titoli dei giornali di questi giorni sul paragone tra l’inflazione attuale e gli anni Ottanta suona inquietante. Ci ricorda errori politici e calcoli miopi, scarso senso di responsabilità verso il futuro e spregiudicatezza nell’amministrare la cosa pubblica.
Oggi abbiamo, è vero, limiti e vincoli maggiori, a cominciare dalle scelte della Ue e dalla necessità di convergenza dei conti pubblici. Eppure, bisogna impegnarsi a non cedere sulla spesa pubblica facile, sulla corsa al debito per soddisfare elettorati, corporazioni, clientele.
Proprio quel 1982, infatti, ha ancora insegnamenti da darci, su cui riflettere. La vittoria al Mundial fu il frutto di serietà, impegno, qualità sportiva, spirito di squadra. Quello spirito di comunità responsabile e solidale di cui abbiamo ancora un grande bisogno.
E dopo i delitti di quei primi anni 80, proprio a Palermo, forti della lezione di Dalla Chiesa e La Torre, ma anche di altri politici (Pier Santi Mattarella) e uomini delle istituzioni (Terranova, Costa, Chinnici, Basile, D’Aleo, Giuliano, Cassarà e tanti altri ancora), lo Stato è stato capace di mettere in piedi il maxi processo contro i boss di Cosa Nostra, cominciato nel 1986 e concluso, nel 1992, con severe e ben motivate condanne dei boss più potenti. Lì, lo Stato ha vinto e la mafia ha perso. Lo Stato vince, quando sa fare bene lo Stato.
E questo è un buon ricordo, da trasmettere alle nuove generazioni.
(Photo by Peter Robinson/EMPICS via Getty Images)






Ricorrenze e somiglianze. Si parla e si scrive molto, in questi giorni difficili, degli anni Ottanta. Ricordandone i fasti: l’Italia campione del Mundial di calcio, a Madrid, l’11 luglio del 1982, giusto quarant’anni fa. Ma anche le pagine cariche d’ombra: “L’inflazione (8%) torna ai livelli del 1986”, titola “Il Sole24Ore”, sabato 2 luglio. Celebrando i successi di un paese che provava a chiudere con una grande festa sportiva e popolare le angosce e i lutti degli “anni di piombo”. E non dimenticando però i rischi che, come allora, corrono il tenore di vita e le capacità d’acquisto delle famiglie italiane.
Le ricorrenze hanno uno straordinario carico di fascino. Consentono di giocare con il gusto agrodolce dell’Amarcord, selezionando nei cassetti della memoria soprattutto ciò che ci fa più piacere. Ma rischiano di farci scivolare lungo la deriva della malinconia e della nostalgia, illudendoci che il “come eravamo” sia meglio del come siamo e forse saremo. E così vale forse la pena modificare parzialmente il campo di gioco e affidarci alla severità della ricostruzione storica. L’avvenire della memoria, negli schemi dei doveri intellettuali e morali, chiede sguardo lucido, tra passato e futuro. E consapevolezza critica.
Guardiamo meglio, dunque. Proprio a quel luglio 1982 della finale tra Italia e Germania, sul campo dello stadio Santiago Bernabéu di Madrid. In campo, gli azzurri allenati da Enzo Bearzot (eccoli, i nomi recitati da allora in poi come una litania: Zoff, Gentile, Cabrini, Bergomi, Collovati, Scirea, Conti, Tardelli, Rossi, Oriali, Graziani e, in panchina, Bordon, Dossena, Marini, Causio e Altobelli) e i tedeschi allenati da Jupp Derwall. In tribuna, accanto al re di Spagna Juan Carlos, alto e impettito, il presidente della Repubblica italiana, Sandro Pertini, tutto un guizzo di energia e tifo sincero. Finì, come tutti sanno, 3 a 1 per noi. Un trionfo.
“Voi non vi rendete conto di quel che avete fatto per il vostro Paese”, disse a caldo Pertini ai giocatori italiani subito dopo la vittoria, “intendendo rimarcare che non si trattava ‘solo’ di un risultato calcistico, ma qualcosa di più sostanzioso, a conferma che lo sport, quando si professa in forma di leggenda, assume un valore antropologico”, con tutte le sequenze “di un teatro laico e mitologico”, per dirla con le essenziali parole della ricostruzione d’uno scrittore sapido come Giuseppe Lupo (“Il Sole24Ore”, 21 giugno).
Una data che prende come simbolo un successo sportivo e ne fa la metafora di un riscatto dalla cupezza dei tempi precedenti e di una ripartenza nel segno di un radicale rinnovamento di comportamenti e speranze.
Alle spalle, ci si lascia la stagione cupa e dolorosa cominciata con la strage di piazza Fontana, a Milano, nel dicembre del 1969 e seguita da attentati, agguati, sparatorie, tra le bombe delle “trame nere” neofasciste coperte anche da organismi interni allo Stato e le uccisioni firmate dai terroristi delle Brigate Rosse e degli altri gruppi dell’estremismo di estrema sinistra. Le tensioni politiche e sociali. La drammatica crisi petrolifera del 1973. L’inflazione che devasta l’economia, sino a toccare il tetto delle due cifre.
Davanti, una straordinaria voglia di vivere. La politica economica liberista di Ronald Reagan negli Usa e di Margareth Thatcher in Gran Bretagna (“Non esiste la società, esistono gli individui”). Il segno della “leggerezza” (secondo l’indicazione delle “Lezioni americane” di Italo Calvino e d’uno straordinario romanzo di Milan Kundera, “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, che diventa rapidamente un tormentone adatto all’ironia delle trasmissioni Tv, tra la Rai di “Quelli della notte” e “Indietro tutta” sotto la guida di Renzo Arbore e i canali Mediaset con “Drive in” ed “Emilio”). Tutto un grande allegro colorato impasto di mode e modi, eleganza e pubblicità (“Milano da bere”, recita un fortunato spot d’un amaro di successo), turboeconomia che alimenta Borsa in crescita e investimenti importanti per merito dell’ attivismo di piccole e medie imprese ma anche una spregiudicata finanza speculativa (il “fare soldi per mezzo di soldi”).
Un racconto dinamico e avido, comunque vitalissimo. Ma non l’unico racconto possibile da ricordare.
Perché proprio quel 1982 dell’indimenticabile festa del Mundial ha anche altre date, che scandiscono il tempo. 30 aprile, a Palermo, l’assassinio del segretario siciliano del Pci Pio La Torre e della sua guardia del corpo Rosario Di Salvo. 3 settembre, sempre a Palermo, la strage di via Carini, in cui perdono la vita il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa (da cento giorni prefetto della città con un mandato chiaro di combattere la mafia ma lasciato in solitudine e senza poteri) e, accanto a lui, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo: “Convergenza tra Cosa Nostra e settori politici ed economici”, dissero sulle origini del delitto i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Era sostenitore di una più severa e incisiva legge antimafia, La Torre. Approvata finalmente dal Parlamento solo dopo l’uccisione di Dalla Chiesa.
Eccolo qui, il ritratto completo di quel 1982. Una festa. E una strage. L’allegria della ripresa. E il lutto di una guerra di mafia che nei primi anni Ottanta, tra Sicilia, Calabria e Campania, lascerà a terra diecimila vittime. Diecimila (un racconto ben costruito sta nelle pagine de “Il raccolto rosso” di Enrico Deaglio, Il Saggiatore).
Per dirla in sintesi: c’è la Milano da bere e la Palermo per morire.
Ancora una volta il ritratto dell’Italia è molteplice, contrastato, ridente e drammatico.
Quegli anni Ottanta di novità sociali e politiche (il primo presidente del Consiglio socialista, nella storia della Repubblica: Bettino Craxi), nel dinamismo economico covano però una frattura che si ripercuoterà negli anni futuri.
Esplode infatti il debito pubblico che passa rapidamente dal 60% a oltre il 120% del Pil nell’arco del decennio: spesa pubblica per mantenere il tenore di vita diffuso e “comprare consenso”, debiti scaricati sulle spalle delle nuove generazioni.
Si rompe allora, infatti, il “patto generazionale” (ogni generazione starà meglio delle precedenti, perché padri e madri investono sul futuro dei figli). E le conseguenze, tra crisi, incertezza e fragilità della fiducia, le subiamo ancora adesso.
Ecco perché il richiamo dei titoli dei giornali di questi giorni sul paragone tra l’inflazione attuale e gli anni Ottanta suona inquietante. Ci ricorda errori politici e calcoli miopi, scarso senso di responsabilità verso il futuro e spregiudicatezza nell’amministrare la cosa pubblica.
Oggi abbiamo, è vero, limiti e vincoli maggiori, a cominciare dalle scelte della Ue e dalla necessità di convergenza dei conti pubblici. Eppure, bisogna impegnarsi a non cedere sulla spesa pubblica facile, sulla corsa al debito per soddisfare elettorati, corporazioni, clientele.
Proprio quel 1982, infatti, ha ancora insegnamenti da darci, su cui riflettere. La vittoria al Mundial fu il frutto di serietà, impegno, qualità sportiva, spirito di squadra. Quello spirito di comunità responsabile e solidale di cui abbiamo ancora un grande bisogno.
E dopo i delitti di quei primi anni 80, proprio a Palermo, forti della lezione di Dalla Chiesa e La Torre, ma anche di altri politici (Pier Santi Mattarella) e uomini delle istituzioni (Terranova, Costa, Chinnici, Basile, D’Aleo, Giuliano, Cassarà e tanti altri ancora), lo Stato è stato capace di mettere in piedi il maxi processo contro i boss di Cosa Nostra, cominciato nel 1986 e concluso, nel 1992, con severe e ben motivate condanne dei boss più potenti. Lì, lo Stato ha vinto e la mafia ha perso. Lo Stato vince, quando sa fare bene lo Stato.
E questo è un buon ricordo, da trasmettere alle nuove generazioni.
(Photo by Peter Robinson/EMPICS via Getty Images)
Leggi anche...
“Una storia al futuro. Pirelli, 150 anni di industria, innovazione, cultura” a Palazzo Marino
Si è tenuto oggi alle ore 11 nell’affascinante contesto della Sala Alessi di Palazzo Marino a Milano un incontro a più voci sul tema “Una storia al futuro. Pirelli, 150 anni di industria, innovazione, cultura”. Il Sindaco di Milano Giuseppe Sala, il Vice Presidente Esecutivo e Amministratore Delegato di Pirelli Marco Tronchetti Provera e molti altri rappresentanti delle istituzioni e del mondo accademico si sono confrontati sui temi dell’innovazione e della sostenibilità.
Gli interventi da remoto del Ministro Maria Cristina Messa e dal Commissario Europeo per gli affari economici e monetari Paolo Gentiloni si sono integrati con quelli in presenza del Rettore del Politecnico di Milano Ferruccio Resta e della giornalista Silvia Boccardi moderati dal Direttore di Fondazione Pirelli, Antonio Calabrò. Ad arricchire il dibattito proiezioni di immagini provenienti dal nostro Archivio Storico, fotografie e video firmati da Carlo Furgeri Gilbert: forme, trame, movimenti e colori delle materie prime, ma anche sperimentazione e persone, arte e cultura, sport e innovazione tecnica. Un “umanesimo industriale” che caratterizza l’identità di Pirelli in ogni ambito della ricerca e dello sviluppo tecnologico di processi e prodotti nel settore della gomma dal 1872.
«Pirelli nella sua storia – e siamo convinti nel suo futuro – è contemporaneamente due cose: è molto milanese, dunque molto italiana, e molto internazionale. Cioè risponde appieno alle caratteristiche di fondo di questa città dove Pirelli è nata, dove è cresciuta, da dove è partita per guardare sin da subito al mondo» – Antonio Calabrò, Direttore di Fondazione Pirelli e Responsabile Affari Istituzionali Pirelli
«Aziende che hanno una storia così lunga e così profonda – che vuol dire che sono passati attraverso errori oppure momenti gloriosi, che sanno come funziona il mondo nelle sue sfaccettature – vanno guardate con molto interesse e vanno chiamate al loro dovere.» – Giuseppe Sala, Sindaco di Milano
«Questa storia ci insegna quanto sia importante la determinazione, la forza, la competenza, l’imprenditorialità che ebbe Giovanni Battista Pirelli cento cinquant’anni fa. Ma ci insegna anche come lo studio, la conoscenza, la scienza sia importante per qualsiasi decisione. Ed è questo un concetto fondamentale quanto la conoscenza e la competenza portano all’innovazione» – Maria Cristina Messa, Ministro dell’Università e della Ricerca
«Nel corso di questo secolo e mezzo di Storia, Pirelli ha saputo interpretare i cambiamenti epocali nei processi produttivi e nella società: dalle grandi trasformazioni industriali all’avvento della globalizzazione e delle tecnologie digitali fino alla leadership sui cambiamenti climatici, oggi. L’esperienza di Pirelli rappresenta un utile esempio per guidare la nostra politica economica e industriale» –Paolo Gentiloni, Commissario europeo per gli affari economici e monetari
«La costruzione di un’azienda è sempre la costruzione del domani» – Marco Tronchetti Provera, Vice Presidente Esecutivo, Amministratore Delegato di Pirelli
«Pirelli e il Politecnico hanno tenuto un filo conduttore. E quindici anni fa sono incominciate delle ricerche in maniera strutturata su alcuni temi. Il primo è il cyber tyre – un pneumatico con dentro dei sensori che connettevano il veicolo all’infrastruttura. Oggi si chiamerebbe “trasformazione digitale”. Il secondo sono i materiali naturali. Oggi si chiamerebbe “trasformazione green”. Forse non l’avevamo raccontata con queste parole ma era assolutamente intercettata come dimensione. E aggiungo una terza dimensione: con queste due tecnologie, però, si ragionava su come produrlo, quindi anche la fabbrica cambiava. E quindi di nuovo “transizione industriale” cioè accompagnare le transizioni green, le transizioni digitali nel far cambiare il mercato del lavoro e la fabbrica» – Ferruccio Resta, Rettore del Politecnico di Milano
«Oggi i consumatori non sono più passivi. Sono estremamente consapevoli quindi le imprese, le aziende devono assumere e assumono un nuovo ruolo sociale che in qualche modo si affianca anche a quello delle Istituzioni, si deve affiancare a quello delle Istituzioni. Mentre le persone, con il loro consumo critico, devono fare pressione affinché le aziende si rinnovino e siano sempre più al passo con i tempi» – Silvia Boccardi, Giornalista e Social Equity Expert “Will Media”






Si è tenuto oggi alle ore 11 nell’affascinante contesto della Sala Alessi di Palazzo Marino a Milano un incontro a più voci sul tema “Una storia al futuro. Pirelli, 150 anni di industria, innovazione, cultura”. Il Sindaco di Milano Giuseppe Sala, il Vice Presidente Esecutivo e Amministratore Delegato di Pirelli Marco Tronchetti Provera e molti altri rappresentanti delle istituzioni e del mondo accademico si sono confrontati sui temi dell’innovazione e della sostenibilità.
Gli interventi da remoto del Ministro Maria Cristina Messa e dal Commissario Europeo per gli affari economici e monetari Paolo Gentiloni si sono integrati con quelli in presenza del Rettore del Politecnico di Milano Ferruccio Resta e della giornalista Silvia Boccardi moderati dal Direttore di Fondazione Pirelli, Antonio Calabrò. Ad arricchire il dibattito proiezioni di immagini provenienti dal nostro Archivio Storico, fotografie e video firmati da Carlo Furgeri Gilbert: forme, trame, movimenti e colori delle materie prime, ma anche sperimentazione e persone, arte e cultura, sport e innovazione tecnica. Un “umanesimo industriale” che caratterizza l’identità di Pirelli in ogni ambito della ricerca e dello sviluppo tecnologico di processi e prodotti nel settore della gomma dal 1872.
«Pirelli nella sua storia – e siamo convinti nel suo futuro – è contemporaneamente due cose: è molto milanese, dunque molto italiana, e molto internazionale. Cioè risponde appieno alle caratteristiche di fondo di questa città dove Pirelli è nata, dove è cresciuta, da dove è partita per guardare sin da subito al mondo» – Antonio Calabrò, Direttore di Fondazione Pirelli e Responsabile Affari Istituzionali Pirelli
«Aziende che hanno una storia così lunga e così profonda – che vuol dire che sono passati attraverso errori oppure momenti gloriosi, che sanno come funziona il mondo nelle sue sfaccettature – vanno guardate con molto interesse e vanno chiamate al loro dovere.» – Giuseppe Sala, Sindaco di Milano
«Questa storia ci insegna quanto sia importante la determinazione, la forza, la competenza, l’imprenditorialità che ebbe Giovanni Battista Pirelli cento cinquant’anni fa. Ma ci insegna anche come lo studio, la conoscenza, la scienza sia importante per qualsiasi decisione. Ed è questo un concetto fondamentale quanto la conoscenza e la competenza portano all’innovazione» – Maria Cristina Messa, Ministro dell’Università e della Ricerca
«Nel corso di questo secolo e mezzo di Storia, Pirelli ha saputo interpretare i cambiamenti epocali nei processi produttivi e nella società: dalle grandi trasformazioni industriali all’avvento della globalizzazione e delle tecnologie digitali fino alla leadership sui cambiamenti climatici, oggi. L’esperienza di Pirelli rappresenta un utile esempio per guidare la nostra politica economica e industriale» –Paolo Gentiloni, Commissario europeo per gli affari economici e monetari
«La costruzione di un’azienda è sempre la costruzione del domani» – Marco Tronchetti Provera, Vice Presidente Esecutivo, Amministratore Delegato di Pirelli
«Pirelli e il Politecnico hanno tenuto un filo conduttore. E quindici anni fa sono incominciate delle ricerche in maniera strutturata su alcuni temi. Il primo è il cyber tyre – un pneumatico con dentro dei sensori che connettevano il veicolo all’infrastruttura. Oggi si chiamerebbe “trasformazione digitale”. Il secondo sono i materiali naturali. Oggi si chiamerebbe “trasformazione green”. Forse non l’avevamo raccontata con queste parole ma era assolutamente intercettata come dimensione. E aggiungo una terza dimensione: con queste due tecnologie, però, si ragionava su come produrlo, quindi anche la fabbrica cambiava. E quindi di nuovo “transizione industriale” cioè accompagnare le transizioni green, le transizioni digitali nel far cambiare il mercato del lavoro e la fabbrica» – Ferruccio Resta, Rettore del Politecnico di Milano
«Oggi i consumatori non sono più passivi. Sono estremamente consapevoli quindi le imprese, le aziende devono assumere e assumono un nuovo ruolo sociale che in qualche modo si affianca anche a quello delle Istituzioni, si deve affiancare a quello delle Istituzioni. Mentre le persone, con il loro consumo critico, devono fare pressione affinché le aziende si rinnovino e siano sempre più al passo con i tempi» – Silvia Boccardi, Giornalista e Social Equity Expert “Will Media”
Quali archivi? Quali luoghi della memoria?
Sintetizzate in un articolo pubblicato da poco definizioni e significati di un vocabolo denso di contenuti
Archivi come luoghi di memoria e lavoro, depositi non di “cose morte” ma di innumerevoli vite, luoghi di vita essi stessi, di meditazione, di storie vissute ma non passate. Attorno alla parola “archivio” ci si può ragionare a lungo. Soprattutto per sganciare questo vocabolo dall’immagine di inutilità e di polvere alla quale spesso si accompagna ancora oggi. Ed è quello che ha fatto Gianni Penzo Doria con il suo “Una nuova definizione di archivio” apparso recentemente in Italian Journal of Library, Archives & Information Science.
L’articolo non ha l’ambizione di introdurre un’idea nuova di archivio ma di esplorare caratteristiche e particolarità di quelle che già circolano arrivando a dare una nuova definizione di “archivi” partendo da quelle che sono già state messe a punto. Compito importante, perché aiuta chi legge e chi vuole saperne di più sul tema, a fare ordine tra definizioni e concetti che si portano dietro mondi e modi diversi di intendere il significato della conservazione di documenti e testimonianze del passato. Compito che Doria si propone di svolgere “a seguito di un’accurata ricognizione degli orientamenti dottrinali su questo specifico argomento, analizzando, parola per parola, ogni lemma particolare che compone la nuova proposta”.
Tutto con una premessa importante: “Non esiste una definizione valida in ogni contesto”. E pur tenendo conto che “la teoria archivistica sembra soffrire in gran parte di una visione eterogenea, a valle di un rigoroso percorso scientifico, ma densa di contingenze concettuali e lessicali inaspettate”. Che non potrebbe che essere così, visto che – a ben vedere -, quanto c’è dietro la parola “archivio” riflette la storia stessa che l’archivio conserva, storia, ancora una volta, fatta di vite, accadimenti, collegamenti, esperienze ogni volta diverse. Definire una volta per tutte un archivio, quindi, appare come qualcosa di quasi impossibile (e comunque spesso fuorviante). Spiega Doria: “Ogni termine, con significati e contesti, non costituisce un semplice significante, ma rimanda a un bagaglio specifico di ogni tradizione disciplinare e culturale”.
L’intervento di Gianni Penzo Doria non è forse una lettura facilissima, ma è comunque lettura da fare da parte di chi voglia comprendere meglio perché, per tutti, è importante conservare la memoria in luoghi che, appunto, vengono definitivi “archivi”.
Una nuova definizione di archivio
Gianni Penzo Doria
JLIS.it, Italian Journal of Library, Archives & Information Science, maggio 2022, vol. 13 Edizione 2, p156-173. 18p.
Sintetizzate in un articolo pubblicato da poco definizioni e significati di un vocabolo denso di contenuti
Archivi come luoghi di memoria e lavoro, depositi non di “cose morte” ma di innumerevoli vite, luoghi di vita essi stessi, di meditazione, di storie vissute ma non passate. Attorno alla parola “archivio” ci si può ragionare a lungo. Soprattutto per sganciare questo vocabolo dall’immagine di inutilità e di polvere alla quale spesso si accompagna ancora oggi. Ed è quello che ha fatto Gianni Penzo Doria con il suo “Una nuova definizione di archivio” apparso recentemente in Italian Journal of Library, Archives & Information Science.
L’articolo non ha l’ambizione di introdurre un’idea nuova di archivio ma di esplorare caratteristiche e particolarità di quelle che già circolano arrivando a dare una nuova definizione di “archivi” partendo da quelle che sono già state messe a punto. Compito importante, perché aiuta chi legge e chi vuole saperne di più sul tema, a fare ordine tra definizioni e concetti che si portano dietro mondi e modi diversi di intendere il significato della conservazione di documenti e testimonianze del passato. Compito che Doria si propone di svolgere “a seguito di un’accurata ricognizione degli orientamenti dottrinali su questo specifico argomento, analizzando, parola per parola, ogni lemma particolare che compone la nuova proposta”.
Tutto con una premessa importante: “Non esiste una definizione valida in ogni contesto”. E pur tenendo conto che “la teoria archivistica sembra soffrire in gran parte di una visione eterogenea, a valle di un rigoroso percorso scientifico, ma densa di contingenze concettuali e lessicali inaspettate”. Che non potrebbe che essere così, visto che – a ben vedere -, quanto c’è dietro la parola “archivio” riflette la storia stessa che l’archivio conserva, storia, ancora una volta, fatta di vite, accadimenti, collegamenti, esperienze ogni volta diverse. Definire una volta per tutte un archivio, quindi, appare come qualcosa di quasi impossibile (e comunque spesso fuorviante). Spiega Doria: “Ogni termine, con significati e contesti, non costituisce un semplice significante, ma rimanda a un bagaglio specifico di ogni tradizione disciplinare e culturale”.
L’intervento di Gianni Penzo Doria non è forse una lettura facilissima, ma è comunque lettura da fare da parte di chi voglia comprendere meglio perché, per tutti, è importante conservare la memoria in luoghi che, appunto, vengono definitivi “archivi”.
Una nuova definizione di archivio
Gianni Penzo Doria
JLIS.it, Italian Journal of Library, Archives & Information Science, maggio 2022, vol. 13 Edizione 2, p156-173. 18p.
Leggi anche...
Divi e dive al volante
Il rapporto tra cinema e mondo delle corse parte da lontano. Il Novecento è stato il secolo della “bellezza della velocità” e, dai futuristi in poi, il culto dei motori si è imposto anche nei decenni successivi. E quale miglior mezzo se non il cinema, l’arte fatta di immagini in movimento, per raccontare il dinamismo delle quattro ruote? A partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, con la diffusione delle automobili grazie al boom economico, il tema del viaggio in auto è ampiamente rappresentato al cinema. Vacanze al mare, sorpassi in autostrada, inseguimenti mozzafiato. Anche le gare di Formula 1, nate proprio negli anni Cinquanta, diventano in alcuni casi protagoniste di lungometraggi, come il film “The Racers” del 1955, sbarcato in Italia con il titolo “Destino sull’asfalto”, girato durante le prove del Gran Premio del Belgio del 1954, a cui lo svizzero Toulo de Graffenried prende parte come controfigura di Kirk Douglas guidando una Maserati A6GCM dotata di camera car. Anche in Italia nel 1951 Gianni Franciolini gira sul circuito di Monza il film melodrammatico “L’ultimo incontro” di cui conserviamo nel nostro Archivio Storico alcuni scatti del backstage con Jean-Pierre Aumont, Amedeo Nazzari e una giovane Alida Valli, di ritorno in Italia dopo la sua esperienza hollywoodiana. La sceneggiatura, a cui collabora anche Alberto Moravia, è tratta dal romanzo “La biondina” (1893) di Marco Praga. Come attori recitano anche, interpretando se stessi, nomi illustri dell’automobilismo agonistico come Juan Manuel Fangio, Nino Farina, Consalvo Sanesi e Felice Bonetto e, come ricorda anche un trafiletto della Rivista Pirelli, meccanici e gomme Pirelli campeggiano ovunque “in qualità di modeste ma indispensabili… comparse”.
Negli stessi anni anche il rally incontra il mondo del cinema, questa volta non sul grande schermo, ma attraverso l’organizzazione di una corsa automobilistica che dal 1954 vede al volante, in coppia, i più famosi attori italiani. Mike Bongiorno, Gina Lollobrigida, Sophia Loren, Raf Vallone, Renato Rascel, Eleonora Ruffo, solo per citarne alcuni. Tanti i nomi che nel corso degli anni competono per arrivare primi al traguardo in una gara a tappe, spesso dovendo avere la meglio sugli ammiratori disposti a tutto pur di farsi fare un autografo dai propri idoli cinematografici. Il nostro Archivio Storico custodisce preziose testimonianze fotografiche dell’edizione del 1957, che mostrano gli attori Roberto Risso e Magali Noël, futura “Gradisca” nell’“Amarcord” di Fellini, con la loro Fiat TV n. 2 e l’attrice Marisa Allasio, reduce dal grande successo in “Poveri ma belli” e “Belle ma povere” di Dino Risi, fotografata accanto a un automezzo dell’Assistenza Tecnica Pirelli. Nello stesso anno sarà proprio Marisa Allasio a presentare, con Nunzio Filogamo e Fiorella Mari, il Festival di Sanremo per poi lasciare definitivamente le scene nel 1958. Restando però per sempre nell’immaginario degli italiani, insieme alle altre dive – e ai grandi divi – che hanno costellato la storia della “settima arte”.






Il rapporto tra cinema e mondo delle corse parte da lontano. Il Novecento è stato il secolo della “bellezza della velocità” e, dai futuristi in poi, il culto dei motori si è imposto anche nei decenni successivi. E quale miglior mezzo se non il cinema, l’arte fatta di immagini in movimento, per raccontare il dinamismo delle quattro ruote? A partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, con la diffusione delle automobili grazie al boom economico, il tema del viaggio in auto è ampiamente rappresentato al cinema. Vacanze al mare, sorpassi in autostrada, inseguimenti mozzafiato. Anche le gare di Formula 1, nate proprio negli anni Cinquanta, diventano in alcuni casi protagoniste di lungometraggi, come il film “The Racers” del 1955, sbarcato in Italia con il titolo “Destino sull’asfalto”, girato durante le prove del Gran Premio del Belgio del 1954, a cui lo svizzero Toulo de Graffenried prende parte come controfigura di Kirk Douglas guidando una Maserati A6GCM dotata di camera car. Anche in Italia nel 1951 Gianni Franciolini gira sul circuito di Monza il film melodrammatico “L’ultimo incontro” di cui conserviamo nel nostro Archivio Storico alcuni scatti del backstage con Jean-Pierre Aumont, Amedeo Nazzari e una giovane Alida Valli, di ritorno in Italia dopo la sua esperienza hollywoodiana. La sceneggiatura, a cui collabora anche Alberto Moravia, è tratta dal romanzo “La biondina” (1893) di Marco Praga. Come attori recitano anche, interpretando se stessi, nomi illustri dell’automobilismo agonistico come Juan Manuel Fangio, Nino Farina, Consalvo Sanesi e Felice Bonetto e, come ricorda anche un trafiletto della Rivista Pirelli, meccanici e gomme Pirelli campeggiano ovunque “in qualità di modeste ma indispensabili… comparse”.
Negli stessi anni anche il rally incontra il mondo del cinema, questa volta non sul grande schermo, ma attraverso l’organizzazione di una corsa automobilistica che dal 1954 vede al volante, in coppia, i più famosi attori italiani. Mike Bongiorno, Gina Lollobrigida, Sophia Loren, Raf Vallone, Renato Rascel, Eleonora Ruffo, solo per citarne alcuni. Tanti i nomi che nel corso degli anni competono per arrivare primi al traguardo in una gara a tappe, spesso dovendo avere la meglio sugli ammiratori disposti a tutto pur di farsi fare un autografo dai propri idoli cinematografici. Il nostro Archivio Storico custodisce preziose testimonianze fotografiche dell’edizione del 1957, che mostrano gli attori Roberto Risso e Magali Noël, futura “Gradisca” nell’“Amarcord” di Fellini, con la loro Fiat TV n. 2 e l’attrice Marisa Allasio, reduce dal grande successo in “Poveri ma belli” e “Belle ma povere” di Dino Risi, fotografata accanto a un automezzo dell’Assistenza Tecnica Pirelli. Nello stesso anno sarà proprio Marisa Allasio a presentare, con Nunzio Filogamo e Fiorella Mari, il Festival di Sanremo per poi lasciare definitivamente le scene nel 1958. Restando però per sempre nell’immaginario degli italiani, insieme alle altre dive – e ai grandi divi – che hanno costellato la storia della “settima arte”.
Storia sincronica per capire chi siamo
Un libro sugli inizi del Novecento come strumento per comprendere il presente e prepararsi meglio al futuro
Per capire cosa siamo oggi e cosa saremo domani, è necessario anche sapere com’eravamo ieri. Storia, dunque, a tutto tondo, come strumento essenziale per tutti. Storia raccontata non solo come mera sequenza di date, accordi diplomatici e grandi accadimenti, ma storia complessa (ma non per questo meno comprensibile), risultato di un insieme di sguardi e di approfondimenti in grado di guardare al passato da più punti di vista. Storia di persone, donne e uomini, e di imprese, istituzioni. Storia come elemento culturale imprescindibile, per tutti. Che passa anche per buone letture come “L’alba del Novecento. Alle radici della nostra cultura” scritto da Fabio Fabbri e appena pubblicato.
Il libro racconta – perché questo è il verbo da usare -, l’alba del Novecento cioè di quel ventennio, dal 1895 al 1914, nel quale in ogni campo del sapere umano si produsse una vera e propria “rivoluzione culturale” che ha condotto ad oggi. Fabbri, con uno stile che si fa leggere ma che non manca di precisione, racconta usando più fonti contemporaneamente, quei venti anni durante i quali il mondo, il nostro mondo, diventò moderno: le radici della nostra cultura odierna.
Il libro quindi ripercorre non solo e non tanto la “grande storia” ma i passaggi principali che la accompagnarono. Nel giro di pochissimi mesi del 1900, ad esempio, si passò dall’inaugurazione della Esposizione Universale di Parigi alla pubblicazione de L’interpretazione dei sogni di Freud o alla teoria dei quanti di Max Planck, fino al Concerto per pianoforte n. 2 di Sergej Rachmaninov. Allo stesso modo, nel 1913, mentre in Europa si scatenava la seconda guerra balcanica, a New Orleans il dodicenne Louis Armstrong già intonava su una tromba i suoi primi temi musicali. Così il tragico naufragio del Titanic – che nell’aprile 1912 già segnava la fine di un’epoca – si collega, quasi magicamente, al cupo incipit de La montagna incantata di Mann, “il grande poema della morte” iniziato quell’anno. Oppure i colpi di cannone che dettero l’avvio alla prima guerra mondiale rinviano alle riflessioni di Kafka che, proprio nell’agosto1914, iniziava la stesura de Il processo.
Precisa l’autore nelle conclusioni di aver voluto scrivere una storia “aperta ai rapporti con le altre scienze, disponibile ad accettare ogni espressione intellettuale, con pari dignità: una sincronia culturale, appunto, che significa essere aperti alla storia dell’arte, della scienza, della letteratura, della psicoanalisi”. Una storia che, a ben vedere, non può che essere scritta e raccontata così, visto che l’agire umano è sempre frutto di più elementi.
Il libro di Fabbri è una lettura agevole, per chi legge, ma difficilissima da scrivere perché frutto di un impegno fortissimo per arrivare ad un racconto sincronico di quanto è accaduto. E che fa capire perché oggi il nostro mondo è così e non in un altro modo.
L’alba del Novecento. Alle radici della nostra cultura
Fabio Fabbri
Laterza, 2022






Un libro sugli inizi del Novecento come strumento per comprendere il presente e prepararsi meglio al futuro
Per capire cosa siamo oggi e cosa saremo domani, è necessario anche sapere com’eravamo ieri. Storia, dunque, a tutto tondo, come strumento essenziale per tutti. Storia raccontata non solo come mera sequenza di date, accordi diplomatici e grandi accadimenti, ma storia complessa (ma non per questo meno comprensibile), risultato di un insieme di sguardi e di approfondimenti in grado di guardare al passato da più punti di vista. Storia di persone, donne e uomini, e di imprese, istituzioni. Storia come elemento culturale imprescindibile, per tutti. Che passa anche per buone letture come “L’alba del Novecento. Alle radici della nostra cultura” scritto da Fabio Fabbri e appena pubblicato.
Il libro racconta – perché questo è il verbo da usare -, l’alba del Novecento cioè di quel ventennio, dal 1895 al 1914, nel quale in ogni campo del sapere umano si produsse una vera e propria “rivoluzione culturale” che ha condotto ad oggi. Fabbri, con uno stile che si fa leggere ma che non manca di precisione, racconta usando più fonti contemporaneamente, quei venti anni durante i quali il mondo, il nostro mondo, diventò moderno: le radici della nostra cultura odierna.
Il libro quindi ripercorre non solo e non tanto la “grande storia” ma i passaggi principali che la accompagnarono. Nel giro di pochissimi mesi del 1900, ad esempio, si passò dall’inaugurazione della Esposizione Universale di Parigi alla pubblicazione de L’interpretazione dei sogni di Freud o alla teoria dei quanti di Max Planck, fino al Concerto per pianoforte n. 2 di Sergej Rachmaninov. Allo stesso modo, nel 1913, mentre in Europa si scatenava la seconda guerra balcanica, a New Orleans il dodicenne Louis Armstrong già intonava su una tromba i suoi primi temi musicali. Così il tragico naufragio del Titanic – che nell’aprile 1912 già segnava la fine di un’epoca – si collega, quasi magicamente, al cupo incipit de La montagna incantata di Mann, “il grande poema della morte” iniziato quell’anno. Oppure i colpi di cannone che dettero l’avvio alla prima guerra mondiale rinviano alle riflessioni di Kafka che, proprio nell’agosto1914, iniziava la stesura de Il processo.
Precisa l’autore nelle conclusioni di aver voluto scrivere una storia “aperta ai rapporti con le altre scienze, disponibile ad accettare ogni espressione intellettuale, con pari dignità: una sincronia culturale, appunto, che significa essere aperti alla storia dell’arte, della scienza, della letteratura, della psicoanalisi”. Una storia che, a ben vedere, non può che essere scritta e raccontata così, visto che l’agire umano è sempre frutto di più elementi.
Il libro di Fabbri è una lettura agevole, per chi legge, ma difficilissima da scrivere perché frutto di un impegno fortissimo per arrivare ad un racconto sincronico di quanto è accaduto. E che fa capire perché oggi il nostro mondo è così e non in un altro modo.
L’alba del Novecento. Alle radici della nostra cultura
Fabio Fabbri
Laterza, 2022
Leggi anche...
L’economia della bellezza vale il 24% del Pil: qualità e innovazioni da fare crescere
“L’economia della bellezza” vale il 24% del Pil. Determina la competitività delle imprese sui mercati internazionali e dunque incide profondamente sul peso e sul prestigio dell’Italia nel mondo. Ed è la leva determinante per cercare di costruire un futuro economico e sociale migliore. Il dato emerge da uno studio recente di Banca Ifis che, per il secondo anno, ha provato a determinare, proprio in un momento cruciale di crisi e di ripresa, il biennio della pandemia ’20-’21, il valore di quelle imprese (manifattura e servizi) che fanno, appunto della “bellezza” (qualità, design, relazione ottimale tra forma e funzione, raporti virtuosi con gli stakeholders, la sintesi tra le due dimensioni di kalos kai agathos di origine greca) un elemento distintivo della propria identità, una caratteristica della purpose economy (quella delle imprese che hanno uno scopo sociale, un social impact in termini di sostenibilità), un vantaggio competitivo, appunto.
Lo studio di Banca Ifis, verificato con le valutazioni di Museimpresa, Federculture e Altagamma e approfondito dall’analisi di sei casi aziendali (Lavazza, Foscarini, Trend Group, Mevive, Serveco, ACBC), è stato presentato in pubblico a metà giugno, a Mestre, a Villa Fürstenberg, sede dell’istituto di credito. Documenta come il 58% degli italiani veda nei valori di un’impresa un parametro decisivo nella scelta di prodotti e servizi. Guarda ai vari settori dell’attività industriale (dal tradizionale made in Italy di abbigliamento, arredamento e agroalimentare alla meccatronica, alla chimica e alla farmaceutica e ad altri settori high tech di qualità). E mostra come l’impatto sul Pil dell’ecosistema “Economia dela bellezza” e purpose driven (imprese grandi, ma anche medie e piccole, distretti e filiere produttive) sia cresciuto dal 17,2% del 2019 al 24% di oggi.
Sviluppo di qualità. Capitale sociale positivo. Da valorizzare. E raccontare. Perché raccontare le imprese significa, appunto, dare spazio ai valori che fanno crescere economia e società: l’intraprendenza, l’innovazione, l’attenzione per le persone, il benessere diffuso, l’inclusione, la cura per la sostenibilità. Una cultura che lega competitività e solidarietà, radici storiche e cambiamenti.
La conferma sta proprio nella nostra storia, secondo la definizione di Carlo Maria Cipolla, uno dei maggiori storici del Novecento: «Gli italiani sono abituati, fin dal Medio Evo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo». Un’antica cultura manifatturiera, appunto, legata a territori in cui il senso della bellezza innerva il sistema produttivo ed esprime un’inclinazione alla qualità che conquista i più esigenti mercati internazionali. E una serie di successi nelle nicchie globali a maggior valore aggiunto, dalla moda al design, ma anche dalla meccatronica all’automotive, dalla nautica alla chimica e agli altri settori dell’eccellenza del made in Italy.
La forza delle imprese sta, appunto, in una “cultura politecnica” in cui i saperi umanistici si ibridano con la conoscenze scientifiche, in sintonia con le spinte all’innovazione. E il nostro “umanesimo industriale” è una formidabile condizione di competitività. Il tempo della storia si declina al futuro. E le nuove generazioni di donne e uomini d’impresa crescono forti di una straordinaria originalità di prodotti e servizi. L’heritage aziendale è non solo consapevolezza della tradizione che connota le imprese d’origine familiari, ma è soprattutto un’efficace leva di identità e competitività.
C’è, appunto, una grande capacità produttiva, nei territori dell’impresa diffusa, nei distretti industriali, nelle reti d’impresa e nelle supply chain. E vale la pena ascoltare la lezione di Renzo Piano, il grande architetto teorico del «rammendo del territorio», per saperne di più: «Ho passato una vita a costruire luoghi pubblici: scuole, biblioteche, musei, teatri… E poi strade, piazze, ponti. Luoghi dove la gente condivide gli stessi valori e le stesse emozioni, impara la tolleranza. Luoghi di urbanità che celebrano il rito dell’incontro, dove la città è intesa come civiltà. Posti per un mondo migliore, capaci di accendere una luce negli occhi di coloro che li attraversano».
L’economia della bellezza, al di là di ciò di cui comunemente si parla tra moda e arredamento, sta anche nel design e nell’efficienza d’una cerniera meccanica, in una macchina utensile, nel braccio mobile e nella testina rotante d’un robot, in un tornio digitale, nel battistrada d’un pneumatico, nella mappa completa del Dna pubblicata da Science (a tracciarla hanno contributo anche scienziati italiani, del dipartimento di Biologia dell’università di Bari), nell’incastro a nido di rondine d’una libreria, nel vetro speciale temperato dei serramenti d’una grande barca e nella forma della prua d’un motoscafo in legno, nella formula chimica d’una vertice speciale o d’un farmaco salvavita. Ecco, in una formula chimica.
Per capire meglio, basta prendere in mano “Il sistema periodico” di Primo Levi (pubblicato da Einaudi: a proposito, l’economia della bellezza sta pure nei caratteri e nelle grafiche eleganti d’una copertina di libro), sfogliarne le pagine e leggere: “Il sistema periodico di Mendeleev, che imparavamo laboriosamente a dipanare, era una poesia, la più alta e più solenne di tutte le poesie digerite al liceo”. Levi, un chimico. E, contemporaneamente, uno straordinario poeta, uno dei principali protagonisti della letteratura del Novecento.
Bellezza, dunque. Qualità. Equilibrio delle forme e delle funzioni. Design, insomma. Sono le caratteristiche che connotano la produttività e quindi la competitività delle imprese italiane e che consentono di parlare, nonostante tutto, di tenuta economica e di possibilità di ripresa anche in questi tempi così difficili, carichi di pericoli e feriti dall’incertezza. Infatti, per non arrendersi alla paura e ai rischi di degrado economico e sociale e attrezzarsi a fronteggiare i picchi di inflazione e le fratture da shortage economy (la penuria di materie prime e semilavorati, a cominciare dai microchip) è necessario insistere sulla necessità di politiche pubbliche nazionali ed europee ma anche affidarsi alle capacità, tutte italiane, di fare, fare bene e dunque fare del bene. E la nostra manifattura e i servizi collegati ne sono testimoni attivi, credibili, orientati al futuro.
Gli eventi drammatici che stiamo vivendo (le conseguenze del Climate change, la pandemia da Covid 19 e la recessione, adesso la guerra in Ucraina e la crisi dei tradizionali meccanismi di potere e di scambio) spingono con urgenza verso un cambio di paradigma delle relazioni politiche e dello sviluppo economico e sociale.
Servono dunque una rilettura critica del catalogo delle idee che hanno guidato le recenti stagioni della globalizzazione e dell’economia digitale e la scrittura di nuove mappe della conoscenza, della produzione e dei consumi, per riconsiderare scelte politiche, economiche e culturali sul “progresso” e sugli equilibri geografici, sociali, di genere e di generazione. La chiave da usare è quella della sostenibilità, ambientale e sociale. Con una profonda convinzione riformatrice: non si tratta di mettere in campo operazioni da green washing né aggiustamenti assistenziali. Ma di pensare a un nuovo corso politico ed economico, secondo i criteri di una “economia giusta”, circolare, civile (per riprendere la lezione del Papa, della migliore letteratura economica internazionale ma anche dei più sensibili protagonisti della finanza e dell’impresa).
Le imprese italiane, appunto, hanno in sé risorse essenziali: la forza innovativa d’un dinamico capitale sociale e la profondità d’una cultura plasmata dall’umanesimo industriale che ha contraddistinto la storia economica del Paese.






“L’economia della bellezza” vale il 24% del Pil. Determina la competitività delle imprese sui mercati internazionali e dunque incide profondamente sul peso e sul prestigio dell’Italia nel mondo. Ed è la leva determinante per cercare di costruire un futuro economico e sociale migliore. Il dato emerge da uno studio recente di Banca Ifis che, per il secondo anno, ha provato a determinare, proprio in un momento cruciale di crisi e di ripresa, il biennio della pandemia ’20-’21, il valore di quelle imprese (manifattura e servizi) che fanno, appunto della “bellezza” (qualità, design, relazione ottimale tra forma e funzione, raporti virtuosi con gli stakeholders, la sintesi tra le due dimensioni di kalos kai agathos di origine greca) un elemento distintivo della propria identità, una caratteristica della purpose economy (quella delle imprese che hanno uno scopo sociale, un social impact in termini di sostenibilità), un vantaggio competitivo, appunto.
Lo studio di Banca Ifis, verificato con le valutazioni di Museimpresa, Federculture e Altagamma e approfondito dall’analisi di sei casi aziendali (Lavazza, Foscarini, Trend Group, Mevive, Serveco, ACBC), è stato presentato in pubblico a metà giugno, a Mestre, a Villa Fürstenberg, sede dell’istituto di credito. Documenta come il 58% degli italiani veda nei valori di un’impresa un parametro decisivo nella scelta di prodotti e servizi. Guarda ai vari settori dell’attività industriale (dal tradizionale made in Italy di abbigliamento, arredamento e agroalimentare alla meccatronica, alla chimica e alla farmaceutica e ad altri settori high tech di qualità). E mostra come l’impatto sul Pil dell’ecosistema “Economia dela bellezza” e purpose driven (imprese grandi, ma anche medie e piccole, distretti e filiere produttive) sia cresciuto dal 17,2% del 2019 al 24% di oggi.
Sviluppo di qualità. Capitale sociale positivo. Da valorizzare. E raccontare. Perché raccontare le imprese significa, appunto, dare spazio ai valori che fanno crescere economia e società: l’intraprendenza, l’innovazione, l’attenzione per le persone, il benessere diffuso, l’inclusione, la cura per la sostenibilità. Una cultura che lega competitività e solidarietà, radici storiche e cambiamenti.
La conferma sta proprio nella nostra storia, secondo la definizione di Carlo Maria Cipolla, uno dei maggiori storici del Novecento: «Gli italiani sono abituati, fin dal Medio Evo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo». Un’antica cultura manifatturiera, appunto, legata a territori in cui il senso della bellezza innerva il sistema produttivo ed esprime un’inclinazione alla qualità che conquista i più esigenti mercati internazionali. E una serie di successi nelle nicchie globali a maggior valore aggiunto, dalla moda al design, ma anche dalla meccatronica all’automotive, dalla nautica alla chimica e agli altri settori dell’eccellenza del made in Italy.
La forza delle imprese sta, appunto, in una “cultura politecnica” in cui i saperi umanistici si ibridano con la conoscenze scientifiche, in sintonia con le spinte all’innovazione. E il nostro “umanesimo industriale” è una formidabile condizione di competitività. Il tempo della storia si declina al futuro. E le nuove generazioni di donne e uomini d’impresa crescono forti di una straordinaria originalità di prodotti e servizi. L’heritage aziendale è non solo consapevolezza della tradizione che connota le imprese d’origine familiari, ma è soprattutto un’efficace leva di identità e competitività.
C’è, appunto, una grande capacità produttiva, nei territori dell’impresa diffusa, nei distretti industriali, nelle reti d’impresa e nelle supply chain. E vale la pena ascoltare la lezione di Renzo Piano, il grande architetto teorico del «rammendo del territorio», per saperne di più: «Ho passato una vita a costruire luoghi pubblici: scuole, biblioteche, musei, teatri… E poi strade, piazze, ponti. Luoghi dove la gente condivide gli stessi valori e le stesse emozioni, impara la tolleranza. Luoghi di urbanità che celebrano il rito dell’incontro, dove la città è intesa come civiltà. Posti per un mondo migliore, capaci di accendere una luce negli occhi di coloro che li attraversano».
L’economia della bellezza, al di là di ciò di cui comunemente si parla tra moda e arredamento, sta anche nel design e nell’efficienza d’una cerniera meccanica, in una macchina utensile, nel braccio mobile e nella testina rotante d’un robot, in un tornio digitale, nel battistrada d’un pneumatico, nella mappa completa del Dna pubblicata da Science (a tracciarla hanno contributo anche scienziati italiani, del dipartimento di Biologia dell’università di Bari), nell’incastro a nido di rondine d’una libreria, nel vetro speciale temperato dei serramenti d’una grande barca e nella forma della prua d’un motoscafo in legno, nella formula chimica d’una vertice speciale o d’un farmaco salvavita. Ecco, in una formula chimica.
Per capire meglio, basta prendere in mano “Il sistema periodico” di Primo Levi (pubblicato da Einaudi: a proposito, l’economia della bellezza sta pure nei caratteri e nelle grafiche eleganti d’una copertina di libro), sfogliarne le pagine e leggere: “Il sistema periodico di Mendeleev, che imparavamo laboriosamente a dipanare, era una poesia, la più alta e più solenne di tutte le poesie digerite al liceo”. Levi, un chimico. E, contemporaneamente, uno straordinario poeta, uno dei principali protagonisti della letteratura del Novecento.
Bellezza, dunque. Qualità. Equilibrio delle forme e delle funzioni. Design, insomma. Sono le caratteristiche che connotano la produttività e quindi la competitività delle imprese italiane e che consentono di parlare, nonostante tutto, di tenuta economica e di possibilità di ripresa anche in questi tempi così difficili, carichi di pericoli e feriti dall’incertezza. Infatti, per non arrendersi alla paura e ai rischi di degrado economico e sociale e attrezzarsi a fronteggiare i picchi di inflazione e le fratture da shortage economy (la penuria di materie prime e semilavorati, a cominciare dai microchip) è necessario insistere sulla necessità di politiche pubbliche nazionali ed europee ma anche affidarsi alle capacità, tutte italiane, di fare, fare bene e dunque fare del bene. E la nostra manifattura e i servizi collegati ne sono testimoni attivi, credibili, orientati al futuro.
Gli eventi drammatici che stiamo vivendo (le conseguenze del Climate change, la pandemia da Covid 19 e la recessione, adesso la guerra in Ucraina e la crisi dei tradizionali meccanismi di potere e di scambio) spingono con urgenza verso un cambio di paradigma delle relazioni politiche e dello sviluppo economico e sociale.
Servono dunque una rilettura critica del catalogo delle idee che hanno guidato le recenti stagioni della globalizzazione e dell’economia digitale e la scrittura di nuove mappe della conoscenza, della produzione e dei consumi, per riconsiderare scelte politiche, economiche e culturali sul “progresso” e sugli equilibri geografici, sociali, di genere e di generazione. La chiave da usare è quella della sostenibilità, ambientale e sociale. Con una profonda convinzione riformatrice: non si tratta di mettere in campo operazioni da green washing né aggiustamenti assistenziali. Ma di pensare a un nuovo corso politico ed economico, secondo i criteri di una “economia giusta”, circolare, civile (per riprendere la lezione del Papa, della migliore letteratura economica internazionale ma anche dei più sensibili protagonisti della finanza e dell’impresa).
Le imprese italiane, appunto, hanno in sé risorse essenziali: la forza innovativa d’un dinamico capitale sociale e la profondità d’una cultura plasmata dall’umanesimo industriale che ha contraddistinto la storia economica del Paese.
Leggi anche...














