Accedi all’Archivio online
Esplora l’Archivio online per trovare fonti e materiali. Seleziona la tipologia di supporto documentale che più ti interessa e inserisci le parole chiave della tua ricerca.
    Seleziona una delle seguenti categorie:
  • Documenti
  • Fotografie
  • Disegni e manifesti
  • Audiovisivi
  • Pubblicazioni e riviste
  • Tutti
Assistenza alla consultazione
Per richiedere la consultazione del materiale conservato nell’Archivio Storico e nelle Biblioteche della Fondazione Pirelli al fine di studi e ricerche e conoscere le modalità di utilizzo dei materiali per prestiti e mostre, compila il seguente modulo.
Riceverai una mail di conferma dell'avvenuta ricezione della richiesta e sarai ricontattato.
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Seleziona il grado di istruzione della scuola di appartenenza
Back
Scuola Primaria
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.

Dichiaro di avere preso visione dell’informativa relativa al trattamento dei miei dati personali, e autorizzo la Fondazione Pirelli al trattamento dei miei dati personali per l’invio, anche a mezzo e-mail, di comunicazioni relative ad iniziative/convegni organizzati dalla Fondazione Pirelli.

Back
Scuole secondarie di I grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Scuole secondarie di II grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Università
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Vuoi organizzare un percorso personalizzato con i tuoi studenti? Per informazioni e prenotazioni scrivi a universita@fondazionepirelli.org

Visita la Fondazione
Per informazioni sulle attività della Fondazione, visite guidate e l'accessibilità agli spazi
contattare il numero 0264423971 o compilare il form qui sotto anticipando nel campo note i dettagli nella richiesta.

Affidabilità, tecnologia e stile dei pneumatici Pirelli in mostra al Guggenheim di Bilbao

Ultimi giorni per vedere la mostra “Motion. Autos, Art, Architecture” al Museo Guggenheim di Bilbao, in chiusura il 18 settembre 2022: un emozionante percorso espositivo che esplora il rapporto tra arte, automobili e tecnologia. Per chi non avesse avuto ancora occasione di visitare l’esposizione e di ammirare i cinque bozzetti pubblicitari originali della Fondazione Pirelli selezionati da Lord Norman Foster, ideatore della mostra, e dai curatori, può farlo anche attraverso il tour virtuale a disposizione sul sito del museo e accessibile a questo link. I pneumatici Pirelli Stelvio e Cinturato, protagonisti delle competizioni automobilistiche e dello sviluppo tecnologico tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, arricchiscono il racconto della sala Sporting e dialogano con le altre opere presenti nella sala, dalle serigrafie di Andy Warhol ai progetti di Frank Lloyd Wright. La pubblicità “+ Km” di Alan Fletcher, allusione all’affidabilità e alla lunga durata dei pneumatici Pirelli, le tracce dei battistrada di Pavel Michael Engelmann per un pneumatico “che morde la strada”, la catena di pneumatici e “di successi” su sfondo giallo di Ezio Bonini, la “sicurezza” dell’uomo al volante di André François e il leone di Armando Testa, che con il pneumatico Stelvio al posto della criniera “artiglia l’asfalto” e diventa simbolo di controllo e aderenza al terreno. Nella stessa sala un posto spetta anche al Grattacielo Pirelli, primo Headquarters dell’azienda, rappresentato attraverso un disegno della pianta dell’edificio dalla caratteristica forma diamantata e la riproduzione fotografica di un originale proveniente dal nostro Archivio Storico che ne valorizza modernità e purezza di forme.

Ultimi giorni per vedere la mostra “Motion. Autos, Art, Architecture” al Museo Guggenheim di Bilbao, in chiusura il 18 settembre 2022: un emozionante percorso espositivo che esplora il rapporto tra arte, automobili e tecnologia. Per chi non avesse avuto ancora occasione di visitare l’esposizione e di ammirare i cinque bozzetti pubblicitari originali della Fondazione Pirelli selezionati da Lord Norman Foster, ideatore della mostra, e dai curatori, può farlo anche attraverso il tour virtuale a disposizione sul sito del museo e accessibile a questo link. I pneumatici Pirelli Stelvio e Cinturato, protagonisti delle competizioni automobilistiche e dello sviluppo tecnologico tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, arricchiscono il racconto della sala Sporting e dialogano con le altre opere presenti nella sala, dalle serigrafie di Andy Warhol ai progetti di Frank Lloyd Wright. La pubblicità “+ Km” di Alan Fletcher, allusione all’affidabilità e alla lunga durata dei pneumatici Pirelli, le tracce dei battistrada di Pavel Michael Engelmann per un pneumatico “che morde la strada”, la catena di pneumatici e “di successi” su sfondo giallo di Ezio Bonini, la “sicurezza” dell’uomo al volante di André François e il leone di Armando Testa, che con il pneumatico Stelvio al posto della criniera “artiglia l’asfalto” e diventa simbolo di controllo e aderenza al terreno. Nella stessa sala un posto spetta anche al Grattacielo Pirelli, primo Headquarters dell’azienda, rappresentato attraverso un disegno della pianta dell’edificio dalla caratteristica forma diamantata e la riproduzione fotografica di un originale proveniente dal nostro Archivio Storico che ne valorizza modernità e purezza di forme.

Bruno Munari, artista-filosofo per la gomma Pirelli

“È necessario che l’artista abbandoni ogni aspetto romantico e diventi uomo attivo tra gli uomini, informato sulle tecniche attuali, sui materiali, e sui metodi di lavoro…” è la sintesi, tratta dalla prefazione del libro “Arte e mestiere” edito nel 1966, del concetto di produzione artistica secondo Bruno Munari, uno dei più geniali protagonisti della grafica del XX secolo.

La sua attività in Pirelli, durante il Secondo Dopoguerra, coincide con uno dei periodi più floridi del graphic design che vede all’opera artisti del calibro di Carboni, Monguzzi, Grignani, Savignac e lo stesso Bruno Munari. Sono gli anni in cui in Pirelli la pubblicità si allinea alla ripresa economica e la circolazione di forze intellettuali si avvale della presenza di figure carismatiche come Leonardo Sinisgalli e Arrigo Castellani, che nel 1951 è a capo della Direzione Propaganda.

Munari collabora con l’azienda in due riprese: nel 1949 crea e disegna i giocattoli in gommapiuma armata, il gatto “Meo Romeo” e la scimmietta “Zizi”, grazie alla quale nel 1954 vince il Compasso d’Oro. Sulle pagine della Rivista Pirelli scrive a proposito della progettazione del giocattolo “..vorrei anche sollecitare questa produzione ma, come faccio io in quell’enorme complesso di stabilimenti grande, come un paese, dove si muovono interessi grossi, io, Bruno Munari, dal peso di quarantotto chili, non mi sento di disturbare tanto lavoro e aspetto il mio gatto, all’angolo della strada, assieme a tanti bambini che mi hanno chiesto se per Natale lo possono avere”.

Nel 1952 Munari diventa poi direttore artistico dei giocattoli “Pigomma”, eredi dalla linea “Rempel”, maturando un’esperienza importante per la progettazione e la creazione di prodotti per bambini.

Manipolazioni geometriche e accordi spaziali sono in quegli anni il pretesto per creare innovative campagne pubblicitarie come quella del 1953 per la suola “Coria”, dove allinea su un labirinto nero delle impronte di suole gialle, ideando così manifesti “senza limiti ma che una volta combinati e affissi sui muri diventano un unico manifesto grande come si vuole” .

Per l’azienda cura anche alcuni allestimenti fieristici, come quello per il padiglione delle Materie Plastiche alla Fiera di Milano del 1954, fino al 1956, anno in cui si chiude la fertile collaborazione del designer, scrittore e grafico, insomma dell’artista, Bruno Munari con Pirelli.

“È necessario che l’artista abbandoni ogni aspetto romantico e diventi uomo attivo tra gli uomini, informato sulle tecniche attuali, sui materiali, e sui metodi di lavoro…” è la sintesi, tratta dalla prefazione del libro “Arte e mestiere” edito nel 1966, del concetto di produzione artistica secondo Bruno Munari, uno dei più geniali protagonisti della grafica del XX secolo.

La sua attività in Pirelli, durante il Secondo Dopoguerra, coincide con uno dei periodi più floridi del graphic design che vede all’opera artisti del calibro di Carboni, Monguzzi, Grignani, Savignac e lo stesso Bruno Munari. Sono gli anni in cui in Pirelli la pubblicità si allinea alla ripresa economica e la circolazione di forze intellettuali si avvale della presenza di figure carismatiche come Leonardo Sinisgalli e Arrigo Castellani, che nel 1951 è a capo della Direzione Propaganda.

Munari collabora con l’azienda in due riprese: nel 1949 crea e disegna i giocattoli in gommapiuma armata, il gatto “Meo Romeo” e la scimmietta “Zizi”, grazie alla quale nel 1954 vince il Compasso d’Oro. Sulle pagine della Rivista Pirelli scrive a proposito della progettazione del giocattolo “..vorrei anche sollecitare questa produzione ma, come faccio io in quell’enorme complesso di stabilimenti grande, come un paese, dove si muovono interessi grossi, io, Bruno Munari, dal peso di quarantotto chili, non mi sento di disturbare tanto lavoro e aspetto il mio gatto, all’angolo della strada, assieme a tanti bambini che mi hanno chiesto se per Natale lo possono avere”.

Nel 1952 Munari diventa poi direttore artistico dei giocattoli “Pigomma”, eredi dalla linea “Rempel”, maturando un’esperienza importante per la progettazione e la creazione di prodotti per bambini.

Manipolazioni geometriche e accordi spaziali sono in quegli anni il pretesto per creare innovative campagne pubblicitarie come quella del 1953 per la suola “Coria”, dove allinea su un labirinto nero delle impronte di suole gialle, ideando così manifesti “senza limiti ma che una volta combinati e affissi sui muri diventano un unico manifesto grande come si vuole” .

Per l’azienda cura anche alcuni allestimenti fieristici, come quello per il padiglione delle Materie Plastiche alla Fiera di Milano del 1954, fino al 1956, anno in cui si chiude la fertile collaborazione del designer, scrittore e grafico, insomma dell’artista, Bruno Munari con Pirelli.

Da fine Ottocento agli anni Ottanta: i pavimenti resilienti Pirelli, un prodotto tra funzionalità e design

A fine Ottocento, tra le molteplici applicazioni della gomma nella vita quotidiana figura anche il suo utilizzo per tappeti e pavimenti. Tappeti di gomma elastica per pedane, carrozze, ingressi, compaiono nel primo catalogo generale della Pirelli del 1886, illustrato, proprio per quanto riguarda i tappeti, dalle litografie del pittore e incisore Giuseppe Barberis. Il primo catalogo per pavimenti e piastrelle presente nel nostro Archivio Storico è datato invece 1912. «Il pavimento in gomma ha caratteristiche che lo rendono unico: estremamente resistente e durevole, grazie alla sua superficie liscia è facilmente lavabile e non trattiene polvere; elastico e morbido, attutisce i rumori e la varietà di colori e di decorazioni che si possono ottenere ne fa un prodotto adatto a rispondere a ogni esigenza di stile e di arredamento». Grazie a queste caratteristiche – si legge nel catalogo del 1912 – questo prodotto trova molto favore in Inghilterra e negli Stati Uniti “dove viene prescelto come pavimento di lusso non solamente a bordo dei transatlantici, nelle sale delle maggiori amministrazioni e nei vagoni letto, ma anche nelle chiese, nei clubs, negli uffici pubblici, nei caffè”.

Tra i transatlantici a utilizzare questo tipo di pavimento c’è il principessa Mafalda, uno dei più grandi piroscafi mai costruito per il Lloyd Italiano, varato nel 1908, passato alla storia come il “Titanic italiano”, a causa del tragico affondamento al largo del Brasile avvento nel 1927. Sin dal 1898 la Pirelli affianca alla produzione dei pavimenti in gomma anche quella dei pavimenti in un materiale sintetico ottenuto tramite trattamento dell’olio di lino, dalle caratteristiche di elasticità e impermeabilità simili a quelle della gomma: il linoleum. Dopo aver rilevato infatti lo stabilimento di una ditta concorrente a Narni, in provincia di Terni, nel 1898 la Pirelli lo destina alla produzione di questo materiale e costituisce la Società del Linoleum. Tra i principali clienti dei pavimenti in gomma e linoleum vi sono la Regia Marina e le Ferrovie dello Stato, a cui Pirelli fornisce la pavimentazione per navi e treni. Negli anni Venti e Trenta del Novecento si registra un vero e proprio boom delle vendite di questi pavimenti, che per la loro igienicità e facilità di pulitura si impongono in ospedali e cliniche, e grazie alle qualità acustiche vengono utilizzati anche per la pavimentazione di banche, uffici, teatri, tra cui, a Milano, le succursali della Banca Popolare di Novara e del Banco di Napoli, il Palazzo della Borsa disegnato dall’architetto Paolo Mezzanotte, il Teatro Lirico.  Negli stessi anni, quando in entrambe le società si strutturano gli uffici dedicati alla Propaganda – proprio alla Società del Linoleum nei primi anni Trenta il poeta ingegnere Leonardo Sinisgalli fa la sua prima esperienza in un’impresa – si assiste a un notevole investimento pubblicitario nel settore degli articoli vari. Con la pubblicità dei pavimenti si cimentano cartellonisti di fama come Leonetto Cappiello, Nino Nanni e Aldo Mazza, che nel 1928 realizza la pubblicità dei pavimenti in gomma, di cui conserviamo il bozzetto originale nel nostro Archivio Storico: un bambino rovescia la cioccolata sul pavimento, ma “niente di male” recita lo slogan, “è un pavimento di gomma!”.

A partire dagli anni Cinquanta la gamma dei pavimenti “resilienti” si allarga con l’utilizzo di nuovi materiali sintetici quali vinile, resivite, prealino, laminati in fibra di vetro e poliestere. Continua anche la produzione  dei pavimenti in linoleum, fino al 1974, e  in gomma. Quello nero “a bolli” viene scelto da Franco Albini e Bob Noorda per l’allestimento della Metropolitana Milanese nel 1963, diventandone un’icona di design e funzionalità.

A fine Ottocento, tra le molteplici applicazioni della gomma nella vita quotidiana figura anche il suo utilizzo per tappeti e pavimenti. Tappeti di gomma elastica per pedane, carrozze, ingressi, compaiono nel primo catalogo generale della Pirelli del 1886, illustrato, proprio per quanto riguarda i tappeti, dalle litografie del pittore e incisore Giuseppe Barberis. Il primo catalogo per pavimenti e piastrelle presente nel nostro Archivio Storico è datato invece 1912. «Il pavimento in gomma ha caratteristiche che lo rendono unico: estremamente resistente e durevole, grazie alla sua superficie liscia è facilmente lavabile e non trattiene polvere; elastico e morbido, attutisce i rumori e la varietà di colori e di decorazioni che si possono ottenere ne fa un prodotto adatto a rispondere a ogni esigenza di stile e di arredamento». Grazie a queste caratteristiche – si legge nel catalogo del 1912 – questo prodotto trova molto favore in Inghilterra e negli Stati Uniti “dove viene prescelto come pavimento di lusso non solamente a bordo dei transatlantici, nelle sale delle maggiori amministrazioni e nei vagoni letto, ma anche nelle chiese, nei clubs, negli uffici pubblici, nei caffè”.

Tra i transatlantici a utilizzare questo tipo di pavimento c’è il principessa Mafalda, uno dei più grandi piroscafi mai costruito per il Lloyd Italiano, varato nel 1908, passato alla storia come il “Titanic italiano”, a causa del tragico affondamento al largo del Brasile avvento nel 1927. Sin dal 1898 la Pirelli affianca alla produzione dei pavimenti in gomma anche quella dei pavimenti in un materiale sintetico ottenuto tramite trattamento dell’olio di lino, dalle caratteristiche di elasticità e impermeabilità simili a quelle della gomma: il linoleum. Dopo aver rilevato infatti lo stabilimento di una ditta concorrente a Narni, in provincia di Terni, nel 1898 la Pirelli lo destina alla produzione di questo materiale e costituisce la Società del Linoleum. Tra i principali clienti dei pavimenti in gomma e linoleum vi sono la Regia Marina e le Ferrovie dello Stato, a cui Pirelli fornisce la pavimentazione per navi e treni. Negli anni Venti e Trenta del Novecento si registra un vero e proprio boom delle vendite di questi pavimenti, che per la loro igienicità e facilità di pulitura si impongono in ospedali e cliniche, e grazie alle qualità acustiche vengono utilizzati anche per la pavimentazione di banche, uffici, teatri, tra cui, a Milano, le succursali della Banca Popolare di Novara e del Banco di Napoli, il Palazzo della Borsa disegnato dall’architetto Paolo Mezzanotte, il Teatro Lirico.  Negli stessi anni, quando in entrambe le società si strutturano gli uffici dedicati alla Propaganda – proprio alla Società del Linoleum nei primi anni Trenta il poeta ingegnere Leonardo Sinisgalli fa la sua prima esperienza in un’impresa – si assiste a un notevole investimento pubblicitario nel settore degli articoli vari. Con la pubblicità dei pavimenti si cimentano cartellonisti di fama come Leonetto Cappiello, Nino Nanni e Aldo Mazza, che nel 1928 realizza la pubblicità dei pavimenti in gomma, di cui conserviamo il bozzetto originale nel nostro Archivio Storico: un bambino rovescia la cioccolata sul pavimento, ma “niente di male” recita lo slogan, “è un pavimento di gomma!”.

A partire dagli anni Cinquanta la gamma dei pavimenti “resilienti” si allarga con l’utilizzo di nuovi materiali sintetici quali vinile, resivite, prealino, laminati in fibra di vetro e poliestere. Continua anche la produzione  dei pavimenti in linoleum, fino al 1974, e  in gomma. Quello nero “a bolli” viene scelto da Franco Albini e Bob Noorda per l’allestimento della Metropolitana Milanese nel 1963, diventandone un’icona di design e funzionalità.

Cambiamenti d’impresa, un racconto da dentro

L’analisi di quanto è accaduto in un’organizzazione della produzione alle prese con la pandemia e i mutamenti della cultura del lavoro

 

Riorganizzare il lavoro per fare fronte ai cambiamenti esterni all’impresa e provocare così altri cambiamenti all’interno della stessa. Percorso comune a tutte le organizzazioni della produzione, che determina un cambiamento anche nella stessa cultura d’impresa, oltre che nell’approccio personale al lavoro.

È da questa constatazione di fondo che Alberto Martiello e Giuseppe Parigi partono per analizzare quanto accaduto, a seguito della pandemia di Covid-19, in una organizzazione del lavoro particolare come Banca d’Italia. “Il modello ibrido: una reazione vitale dal mondo del lavoro” – ricerca appena pubblicata nella serie di indagini “Tematiche istituzionali” dell’Istituto stesso – rappresenta un buon esempio di analisi di un caso particolare che può indicare molto anche per altre situazioni simili.

Cambiare modalità con cui si lavora, applicando strumenti tecnologici nuovi, collocazioni fisiche diverse dei lavoratori, metodi differenti di interlocuzione tra gli stessi, approcci di socialità evoluti. Sono questi gli elementi attorno ai quali ruota l’esperienza di Banca d’Italia e l’analisi stessa di Martiello e Parigi. Tutto senza trascurare la necessità di accordi sindacali diversi dal passato. E senza dimenticare i rischi connessi ad un cambio di assetto del lavoro stesso; rischi che hanno a che fare, prima di tutto, con la natura stessa del lavoratore come “essere sociale” e quindi necessitante anche di una relazione diretta con i propri compagni di lavoro.

Oltre a tutto questo, i due autori focalizzano l’attenzione pure sul ruolo dei “capi”, così come sulla necessità di una formazione diversa da quella tradizionale e della ricerca di forma di coesione d’impresa differenti.

L’analisi di Martiello e di Parigi ha il grande pregio di raccontare dall’interno l’esperienza forte di cambiamento avvenuta in un’impresa (seppure particolare) verso un modello ibrido di lavoro. Si tratta di un racconto onesto, che non lascia spazio alla retorica inutile e non trascura nulla seppure nella sua brevità. In un passaggio delle conclusioni viene scritto: “Come sempre accade in fasi di rapido mutamento, nascono incertezze e si generano momenti di smarrimento e confusione e questo può favorire ansia e apprensione per il futuro. Non tutti sono stati in grado di sostenere questa situazione e molti hanno attraversato  periodi  di  (grande)  disagio  psicologico  connesso  con  l’attività  lavorativa;  altri  hanno  reagito  aumentando  il  carico  da  lavoro  eccessivamente  (oppure,  lasciando  il lavoro tout court). I capi devono ripensare il proprio ruolo, trovando nuovi equilibri in cui gli stessi strumenti del passato devono essere rivisti se non proprio abbandonati a favore di nuovi”.

Il modello ibrido: una reazione vitale dal mondo del lavoro

Alberto Martiello, Giuseppe Parigi

Tematiche istituzionali, Banca d’Italia, giugno 2022

L’analisi di quanto è accaduto in un’organizzazione della produzione alle prese con la pandemia e i mutamenti della cultura del lavoro

 

Riorganizzare il lavoro per fare fronte ai cambiamenti esterni all’impresa e provocare così altri cambiamenti all’interno della stessa. Percorso comune a tutte le organizzazioni della produzione, che determina un cambiamento anche nella stessa cultura d’impresa, oltre che nell’approccio personale al lavoro.

È da questa constatazione di fondo che Alberto Martiello e Giuseppe Parigi partono per analizzare quanto accaduto, a seguito della pandemia di Covid-19, in una organizzazione del lavoro particolare come Banca d’Italia. “Il modello ibrido: una reazione vitale dal mondo del lavoro” – ricerca appena pubblicata nella serie di indagini “Tematiche istituzionali” dell’Istituto stesso – rappresenta un buon esempio di analisi di un caso particolare che può indicare molto anche per altre situazioni simili.

Cambiare modalità con cui si lavora, applicando strumenti tecnologici nuovi, collocazioni fisiche diverse dei lavoratori, metodi differenti di interlocuzione tra gli stessi, approcci di socialità evoluti. Sono questi gli elementi attorno ai quali ruota l’esperienza di Banca d’Italia e l’analisi stessa di Martiello e Parigi. Tutto senza trascurare la necessità di accordi sindacali diversi dal passato. E senza dimenticare i rischi connessi ad un cambio di assetto del lavoro stesso; rischi che hanno a che fare, prima di tutto, con la natura stessa del lavoratore come “essere sociale” e quindi necessitante anche di una relazione diretta con i propri compagni di lavoro.

Oltre a tutto questo, i due autori focalizzano l’attenzione pure sul ruolo dei “capi”, così come sulla necessità di una formazione diversa da quella tradizionale e della ricerca di forma di coesione d’impresa differenti.

L’analisi di Martiello e di Parigi ha il grande pregio di raccontare dall’interno l’esperienza forte di cambiamento avvenuta in un’impresa (seppure particolare) verso un modello ibrido di lavoro. Si tratta di un racconto onesto, che non lascia spazio alla retorica inutile e non trascura nulla seppure nella sua brevità. In un passaggio delle conclusioni viene scritto: “Come sempre accade in fasi di rapido mutamento, nascono incertezze e si generano momenti di smarrimento e confusione e questo può favorire ansia e apprensione per il futuro. Non tutti sono stati in grado di sostenere questa situazione e molti hanno attraversato  periodi  di  (grande)  disagio  psicologico  connesso  con  l’attività  lavorativa;  altri  hanno  reagito  aumentando  il  carico  da  lavoro  eccessivamente  (oppure,  lasciando  il lavoro tout court). I capi devono ripensare il proprio ruolo, trovando nuovi equilibri in cui gli stessi strumenti del passato devono essere rivisti se non proprio abbandonati a favore di nuovi”.

Il modello ibrido: una reazione vitale dal mondo del lavoro

Alberto Martiello, Giuseppe Parigi

Tematiche istituzionali, Banca d’Italia, giugno 2022

Rileggere Keynes. E far crescere la buona cultura d’impresa

Il ritorno ad alcuni articoli scritti dal grande economista del XX secolo, è utile anche per capire meglio cosa accade oggi

 

Affrontare l’economia come espressione di un’attività tutta umana e soggettiva tesa a migliorare le condizioni di vita delle persone e le loro prospettive. Cura della “casa” con strumenti razionali ma anche con quella dose di soggettività che proprio dall’agire umano deriva. E con un’attenzione forte agli insegnamenti dei classici che, nel tempo, hanno studiato e interpretato questa parte fondamentale della gire dell’uomo. E trovare proprio nei classici strumenti utili ancora oggi per la comprensione di quanto accade.

È per questo che, tra i molti, può essere utile rileggere alcuni degli articoli sulla crisi scritti da John Maynard Keynes e raccolti in “Come uscire dalla crisi” curato da Pierluigi Sabbatini. Si tratta di nove saggi scritti negli anni immediatamente precedenti la stesura della sua opera fondamentale (la Teoria generale), nel periodo della Grande Depressione degli anni Trenta. Gli articoli, tutti scritti con uno stile polemico e brillante ma facilmente accessibile, affrontano problemi importanti ieri come oggi – la disoccupazione, la carenza di investimenti, le operazioni speculative internazionali – che costituiscono altrettanti elementi di crisi del sistema economico nei confronti dei quali Keynes propone prima una descrizione acuta e, poi, un’indicazione di politica economica per loro risoluzione.

Nel libro, quindi, sono contenuti interventi sul livello dei salari, sui problemi e sulle tensioni internazionali, sulla disoccupazione, sulla pianificazione economica pubblica, sui metodi e percorsi per raggiungere il benessere, sull’autosufficienza degli Stati, sulla presenza delle povertà anche quando nei sistemi economici vige l’abbondanza. Temi che, non è nemmeno il caso di dirlo, vengono affrontati non solo con una raffinata analisi ma anche con un linguaggio acuto e comprensibile.

Leggere Keynes è sempre un’esperienza stimolante e formativa. Leggerlo in un periodo di grande complessità e, per molti versi, di crisi, procura strumenti interpretativi non comuni che vanno certamente attualizzati ma che rimangono insostituibili.

Come uscire dalla crisi

John Maynard Keynes

Pierluigi Sabbatini (a cura di)

Laterza, 2004

Il ritorno ad alcuni articoli scritti dal grande economista del XX secolo, è utile anche per capire meglio cosa accade oggi

 

Affrontare l’economia come espressione di un’attività tutta umana e soggettiva tesa a migliorare le condizioni di vita delle persone e le loro prospettive. Cura della “casa” con strumenti razionali ma anche con quella dose di soggettività che proprio dall’agire umano deriva. E con un’attenzione forte agli insegnamenti dei classici che, nel tempo, hanno studiato e interpretato questa parte fondamentale della gire dell’uomo. E trovare proprio nei classici strumenti utili ancora oggi per la comprensione di quanto accade.

È per questo che, tra i molti, può essere utile rileggere alcuni degli articoli sulla crisi scritti da John Maynard Keynes e raccolti in “Come uscire dalla crisi” curato da Pierluigi Sabbatini. Si tratta di nove saggi scritti negli anni immediatamente precedenti la stesura della sua opera fondamentale (la Teoria generale), nel periodo della Grande Depressione degli anni Trenta. Gli articoli, tutti scritti con uno stile polemico e brillante ma facilmente accessibile, affrontano problemi importanti ieri come oggi – la disoccupazione, la carenza di investimenti, le operazioni speculative internazionali – che costituiscono altrettanti elementi di crisi del sistema economico nei confronti dei quali Keynes propone prima una descrizione acuta e, poi, un’indicazione di politica economica per loro risoluzione.

Nel libro, quindi, sono contenuti interventi sul livello dei salari, sui problemi e sulle tensioni internazionali, sulla disoccupazione, sulla pianificazione economica pubblica, sui metodi e percorsi per raggiungere il benessere, sull’autosufficienza degli Stati, sulla presenza delle povertà anche quando nei sistemi economici vige l’abbondanza. Temi che, non è nemmeno il caso di dirlo, vengono affrontati non solo con una raffinata analisi ma anche con un linguaggio acuto e comprensibile.

Leggere Keynes è sempre un’esperienza stimolante e formativa. Leggerlo in un periodo di grande complessità e, per molti versi, di crisi, procura strumenti interpretativi non comuni che vanno certamente attualizzati ma che rimangono insostituibili.

Come uscire dalla crisi

John Maynard Keynes

Pierluigi Sabbatini (a cura di)

Laterza, 2004

Le priorità e i valori delle imprese per il nuovo governo: Europa, debito pubblico da ridurre e Pnrr da attuare

Parola d’impresa. Noi siamo Europa. Europei la nostra valuta e il nostro principale mercato di riferimento. Europee le regole istituzionali e le scelte politiche indispensabili per poter investire e crescere. Europei i valori (la democrazia liberale, la sostenibilità ambientale e sociale, la ricerca della competitività legata alla solidarietà, l’attenzione per le persone, l’impegno per la ricerca scientifica e la qualità) cui si ispirano i nostri impegni di attori sociali che costruiscono benessere e lavoro.

Le imprese italiane, nell’arco di un biennio drammatico, hanno affrontato la pandemia da Covid19 e un drastico rallentamento economico, la guerra in Ucraina e la crisi energetica, i “colli di bottiglia” di una globalizzazione tutta da ripensare, l’inflazione e, adesso, i rischi di recessione. Hanno vissuto con preoccupazione la sconsiderata crisi del governo Draghi per colpa di forze politiche miopi e irresponsabili. Temono le conseguenze di una recessione in arrivo in parecchie aree del mondo. E dunque, in un documento approvato nei giorni scorsi dal Consiglio generale di Confindustria, indicano in 18 punti una strategia di resistenza e ripresa che guarda agli interessi generali del Paese e insiste sugli interventi indispensabili per garantire sviluppo, redditi, occupazione. Una vera e propria “agenda di priorità” rivolta al Governo che si formerà dopo le prossime elezioni politiche e che “rappresenta una strategia d’azione per la prossima legislatura”.
Si comincia con un preambolo molto politico, appunto nella cornice dei valori e degli interessi della Ue, messa in discussione da ombre populiste e sovraniste che incombono sull’attuale politica italiana: “La visione di Confindustria resta saldamente ancorata alla scelta europea e a quella occidentale della NATO. Siamo convinti, oggi più che mai, che all’Italia serva una finanza pubblica che non torni a essere a rischio, una spedita attuazione del PNRR con una nuova stagione di riforme, incisive, per dare risposta al crescere della povertà e del disagio sociale”.
L’industria, infatti, va considerata “un asset strategico di sicurezza nazionale”: senza industria non c’è crescita, né coesione sociale. E’ una convinzione, confermata dai numeri e dai successi di questi anni (come dicono anche i dati ISTAT su una crescita acquisita del Pil del 3,4% nel ‘22, tra le migliori in Europa). E costituisce la premessa delle proposte avanzate: “Senza un’azione riformista non migliorerà la produttività e la qualità della spesa pubblica, non si attrarranno capitali, non si darà risposta ai 10 milioni di italiani a rischio povertà, non s’invertirà la curva demografica, non si difenderà la crescita dell’industria italiana nelle catene globali del valore”.

Il primo dei 18 punti, dunque, insiste sulla “ferma adesione ai principi e ai valori europei”: “La pandemia e la guerra hanno confermato che le soluzioni alle grandi sfide globali del nostro tempo sono europee e non nazionali. L’Europa e il mercato interno, di cui bisogna preservare il corretto e uniforme funzionamento, sono l’orizzonte imprescindibile per chi produce e la prospettiva entro cui rafforzare e incentivare la ricostituzione delle filiere strategiche, anche nazionali, nel contesto delle twin transition. I passi avanti verso un debito comune europeo a fini solidaristici e verso una comune politica energetica, la recente adozione da parte della BCE del TPI, la condivisione delle sanzioni adottate verso la Russia a seguito dell’invasione in Ucraina, costituiscono sviluppi essenziali in un percorso di necessario rafforzamento delle istituzioni europee in cui l’Italia deve considerarsi irrevocabilmente impegnata, senza alcuna concessione ai sovranismi”.
Il secondo punto conferma la scelta delle imprese nei confronti dei “valori atlantici”, con un riferimento esplicito alla Nato e all’Occidente, legando libertà democratiche con libertà di mercato, cultura dei diritti e dei doveri con la migliore cultura d’impresa di cui appunto le nostre manifatture e i nostri servizi sono esemplari nel mondo (la sostenibilità ne è rappresentazione emblematica).
“L’irresponsabile crisi politica che ha posto termine al Governo di solidarietà nazionale guidato dal Presidente Draghi ha aperto una crepa nella solidarietà occidentale, messa alla prova dall’invasione russa in Ucraina”, dice il documento. Dunque, “il Governo che nascerà dopo l’esito delle urne deve scongiurare ogni equivoco in proposito, e ribadire la linea di assoluta fermezza e condivisione delle misure politiche, militari ed economiche assunte in sede NATO e di concerto con gli USA”.

L’orizzonte è quello di un impegno in sede internazionale “per scongiurare il ritorno a un mondo diviso in due blocchi, che non corrisponde agli interessi di un paese trasformatore ed esportatore come l’Italia”. Infatti, “la piena libertà di accesso a energia, commodities e tecnologie deve rappresentare lo sforzo comune dei Paesi democratici nell’interesse mondiale a una globalizzazione i cui benefici investano tutti. In questo contesto, l’Italia deve valorizzare la propria centralità nel Mediterraneo e il ruolo di interlocuzione attiva con tutti gli attori internazionali”.
In una campagna elettorale che già s’annuncia carica di promesse costose e irrealizzabili (pensioni, contributi, vantaggi per una categoria o l’altra) e rischia di fare entrare in scena una sorta di partito trasversale del “forza debito”, Confindustria ricorda che “negli ultimi 10 anni governi di vario orientamento politico hanno accresciuto il debito pubblico italiano dal 120% al 150% del Pil. Molto più rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea, e la pandemia non c’è stata solo in Italia. La spesa pubblica italiana è stata maggiore della media dell’area euro in ciascuno dei 10 anni considerati. E abbiamo aumentato il deficit nonostante una pressione fiscale maggiore della media. Il fatto che sulla scadenza a 2 anni lo Stato italiano paghi oggi un prestito il 25% in più della Grecia deve far riflettere”.

Il nuovo Governo, perciò, “dovrà considerarsi obbligato a perseguire l’equilibrio strutturale dei conti pubblici”.
Politiche di bilancio che non rispettino i vincoli “vengono vanificate dalle tensioni sul mercato dei titoli di Stato” (i mercati stanno indicando una tendenza a una maggiore affidabilità dei titoli della Grecia). Tutte le forze politiche, quindi, “devono avere ben presente che l’eventuale attivazione dello scudo anti-spread, recentemente introdotto dalla BCE, è condizionata al rispetto degli impegni assunti con l’UE in termini di aggiustamento dei conti pubblici e di attuazione delle riforme, comprese quelle del PNRR, oltre al risanamento degli squilibri macroeconomici strutturali”.

Sempre nella cornice Ue, “questo assetto dovrebbe impegnare il futuro governo alla necessaria revisione delle regole del Patto di Stabilità e Crescita, in cui vincoli più stringenti sui conti pubblici nazionali dovrebbero essere bilanciati dalla disponibilità di una capacità fiscale adeguata a livello europeo, da utilizzare per mitigare gli effetti di eventuali crisi e per accrescere gli investimenti pubblici”.
Le imprese di Confindustria si muovono in quello che Giovanni Orsina chiama “il perimetro della serietà” (La Stampa 25 luglio): lealtà atlantica, volontà di partecipare costruttivamente alla vita della Ue, determinazione a non destabilizzare l’euro. E dunque realizzazione del Pnrr, come strumento indispensabile per non sprecare un’occasione straordinaria per riformare e modernizzare l’Italia europea, approntando finalmente i nodi della bassa crescita strutturare e della palude della scarsa produttività.

Per quel che riguarda appunto il Pnrr, si insiste su un punto essenziale: un sistema di monitoraggio efficace per verificare lo stato di attuazione del Piano, tra provvedimenti, decreti di attuazione, gare, spesa dei fondi, sia a livello centrale che da parte delle Regioni e dei comuni. Un monitoraggio su cui Confindustria si impegna, come strumento di chiarezza e ricostruzione di efficienza e fiducia.
Le altre priorità riguardano il welfare “equo e sostenibile”, la scuola e l’università, le politiche attive del lavoro per sostenere la transizione verso l’economia digitale e i valori ambientali, i salari da fare crescere con gli strumenti della contrattazione collettiva e da legare dunque alla crescita della produttività, il fisco, la patrimonializzazione delle imprese, la ricerca scientifica e il trasferimento tecnologico, la sanità efficiente ed efficace, l’energia e l’ambiente, le infrastrutture, i trasporti e la logistica per “la mobilità sostenibile”, la finanza del lo sviluppo, le scelte di politica economica e sociale per “invertire la deriva demografica”.

Europa come orizzonte, dunque. Buon governo, come strumento, al di là del vocìo d’una demagogica campagna elettorale. E sviluppo sostenibile come obiettivo, guardando soprattutto alle nuove generazioni. Per le imprese, essere protagoniste del mercato aperto e ben regolato e delle tendenze a “Reinventing globalisation” (per dirla con la copertina di metà giugno di “The Economist”) vuol dire farsi carico di un grande senso di responsabilità generale. E pretenderne, a buon diritto altrettanta dal governo che verrà.

(foto Getty images)

Parola d’impresa. Noi siamo Europa. Europei la nostra valuta e il nostro principale mercato di riferimento. Europee le regole istituzionali e le scelte politiche indispensabili per poter investire e crescere. Europei i valori (la democrazia liberale, la sostenibilità ambientale e sociale, la ricerca della competitività legata alla solidarietà, l’attenzione per le persone, l’impegno per la ricerca scientifica e la qualità) cui si ispirano i nostri impegni di attori sociali che costruiscono benessere e lavoro.

Le imprese italiane, nell’arco di un biennio drammatico, hanno affrontato la pandemia da Covid19 e un drastico rallentamento economico, la guerra in Ucraina e la crisi energetica, i “colli di bottiglia” di una globalizzazione tutta da ripensare, l’inflazione e, adesso, i rischi di recessione. Hanno vissuto con preoccupazione la sconsiderata crisi del governo Draghi per colpa di forze politiche miopi e irresponsabili. Temono le conseguenze di una recessione in arrivo in parecchie aree del mondo. E dunque, in un documento approvato nei giorni scorsi dal Consiglio generale di Confindustria, indicano in 18 punti una strategia di resistenza e ripresa che guarda agli interessi generali del Paese e insiste sugli interventi indispensabili per garantire sviluppo, redditi, occupazione. Una vera e propria “agenda di priorità” rivolta al Governo che si formerà dopo le prossime elezioni politiche e che “rappresenta una strategia d’azione per la prossima legislatura”.
Si comincia con un preambolo molto politico, appunto nella cornice dei valori e degli interessi della Ue, messa in discussione da ombre populiste e sovraniste che incombono sull’attuale politica italiana: “La visione di Confindustria resta saldamente ancorata alla scelta europea e a quella occidentale della NATO. Siamo convinti, oggi più che mai, che all’Italia serva una finanza pubblica che non torni a essere a rischio, una spedita attuazione del PNRR con una nuova stagione di riforme, incisive, per dare risposta al crescere della povertà e del disagio sociale”.
L’industria, infatti, va considerata “un asset strategico di sicurezza nazionale”: senza industria non c’è crescita, né coesione sociale. E’ una convinzione, confermata dai numeri e dai successi di questi anni (come dicono anche i dati ISTAT su una crescita acquisita del Pil del 3,4% nel ‘22, tra le migliori in Europa). E costituisce la premessa delle proposte avanzate: “Senza un’azione riformista non migliorerà la produttività e la qualità della spesa pubblica, non si attrarranno capitali, non si darà risposta ai 10 milioni di italiani a rischio povertà, non s’invertirà la curva demografica, non si difenderà la crescita dell’industria italiana nelle catene globali del valore”.

Il primo dei 18 punti, dunque, insiste sulla “ferma adesione ai principi e ai valori europei”: “La pandemia e la guerra hanno confermato che le soluzioni alle grandi sfide globali del nostro tempo sono europee e non nazionali. L’Europa e il mercato interno, di cui bisogna preservare il corretto e uniforme funzionamento, sono l’orizzonte imprescindibile per chi produce e la prospettiva entro cui rafforzare e incentivare la ricostituzione delle filiere strategiche, anche nazionali, nel contesto delle twin transition. I passi avanti verso un debito comune europeo a fini solidaristici e verso una comune politica energetica, la recente adozione da parte della BCE del TPI, la condivisione delle sanzioni adottate verso la Russia a seguito dell’invasione in Ucraina, costituiscono sviluppi essenziali in un percorso di necessario rafforzamento delle istituzioni europee in cui l’Italia deve considerarsi irrevocabilmente impegnata, senza alcuna concessione ai sovranismi”.
Il secondo punto conferma la scelta delle imprese nei confronti dei “valori atlantici”, con un riferimento esplicito alla Nato e all’Occidente, legando libertà democratiche con libertà di mercato, cultura dei diritti e dei doveri con la migliore cultura d’impresa di cui appunto le nostre manifatture e i nostri servizi sono esemplari nel mondo (la sostenibilità ne è rappresentazione emblematica).
“L’irresponsabile crisi politica che ha posto termine al Governo di solidarietà nazionale guidato dal Presidente Draghi ha aperto una crepa nella solidarietà occidentale, messa alla prova dall’invasione russa in Ucraina”, dice il documento. Dunque, “il Governo che nascerà dopo l’esito delle urne deve scongiurare ogni equivoco in proposito, e ribadire la linea di assoluta fermezza e condivisione delle misure politiche, militari ed economiche assunte in sede NATO e di concerto con gli USA”.

L’orizzonte è quello di un impegno in sede internazionale “per scongiurare il ritorno a un mondo diviso in due blocchi, che non corrisponde agli interessi di un paese trasformatore ed esportatore come l’Italia”. Infatti, “la piena libertà di accesso a energia, commodities e tecnologie deve rappresentare lo sforzo comune dei Paesi democratici nell’interesse mondiale a una globalizzazione i cui benefici investano tutti. In questo contesto, l’Italia deve valorizzare la propria centralità nel Mediterraneo e il ruolo di interlocuzione attiva con tutti gli attori internazionali”.
In una campagna elettorale che già s’annuncia carica di promesse costose e irrealizzabili (pensioni, contributi, vantaggi per una categoria o l’altra) e rischia di fare entrare in scena una sorta di partito trasversale del “forza debito”, Confindustria ricorda che “negli ultimi 10 anni governi di vario orientamento politico hanno accresciuto il debito pubblico italiano dal 120% al 150% del Pil. Molto più rispetto agli altri Paesi dell’Unione Europea, e la pandemia non c’è stata solo in Italia. La spesa pubblica italiana è stata maggiore della media dell’area euro in ciascuno dei 10 anni considerati. E abbiamo aumentato il deficit nonostante una pressione fiscale maggiore della media. Il fatto che sulla scadenza a 2 anni lo Stato italiano paghi oggi un prestito il 25% in più della Grecia deve far riflettere”.

Il nuovo Governo, perciò, “dovrà considerarsi obbligato a perseguire l’equilibrio strutturale dei conti pubblici”.
Politiche di bilancio che non rispettino i vincoli “vengono vanificate dalle tensioni sul mercato dei titoli di Stato” (i mercati stanno indicando una tendenza a una maggiore affidabilità dei titoli della Grecia). Tutte le forze politiche, quindi, “devono avere ben presente che l’eventuale attivazione dello scudo anti-spread, recentemente introdotto dalla BCE, è condizionata al rispetto degli impegni assunti con l’UE in termini di aggiustamento dei conti pubblici e di attuazione delle riforme, comprese quelle del PNRR, oltre al risanamento degli squilibri macroeconomici strutturali”.

Sempre nella cornice Ue, “questo assetto dovrebbe impegnare il futuro governo alla necessaria revisione delle regole del Patto di Stabilità e Crescita, in cui vincoli più stringenti sui conti pubblici nazionali dovrebbero essere bilanciati dalla disponibilità di una capacità fiscale adeguata a livello europeo, da utilizzare per mitigare gli effetti di eventuali crisi e per accrescere gli investimenti pubblici”.
Le imprese di Confindustria si muovono in quello che Giovanni Orsina chiama “il perimetro della serietà” (La Stampa 25 luglio): lealtà atlantica, volontà di partecipare costruttivamente alla vita della Ue, determinazione a non destabilizzare l’euro. E dunque realizzazione del Pnrr, come strumento indispensabile per non sprecare un’occasione straordinaria per riformare e modernizzare l’Italia europea, approntando finalmente i nodi della bassa crescita strutturare e della palude della scarsa produttività.

Per quel che riguarda appunto il Pnrr, si insiste su un punto essenziale: un sistema di monitoraggio efficace per verificare lo stato di attuazione del Piano, tra provvedimenti, decreti di attuazione, gare, spesa dei fondi, sia a livello centrale che da parte delle Regioni e dei comuni. Un monitoraggio su cui Confindustria si impegna, come strumento di chiarezza e ricostruzione di efficienza e fiducia.
Le altre priorità riguardano il welfare “equo e sostenibile”, la scuola e l’università, le politiche attive del lavoro per sostenere la transizione verso l’economia digitale e i valori ambientali, i salari da fare crescere con gli strumenti della contrattazione collettiva e da legare dunque alla crescita della produttività, il fisco, la patrimonializzazione delle imprese, la ricerca scientifica e il trasferimento tecnologico, la sanità efficiente ed efficace, l’energia e l’ambiente, le infrastrutture, i trasporti e la logistica per “la mobilità sostenibile”, la finanza del lo sviluppo, le scelte di politica economica e sociale per “invertire la deriva demografica”.

Europa come orizzonte, dunque. Buon governo, come strumento, al di là del vocìo d’una demagogica campagna elettorale. E sviluppo sostenibile come obiettivo, guardando soprattutto alle nuove generazioni. Per le imprese, essere protagoniste del mercato aperto e ben regolato e delle tendenze a “Reinventing globalisation” (per dirla con la copertina di metà giugno di “The Economist”) vuol dire farsi carico di un grande senso di responsabilità generale. E pretenderne, a buon diritto altrettanta dal governo che verrà.

(foto Getty images)

Condottieri d’impresa

Imparare in modo diverso a condurre un’organizzazione della produzione

Condurre un’impresa come un esercito in battaglia. Strategia e tattica, senso dell’organizzazione e del rischio (calcolato), capacità di entusiasmare, saper condurre tutti stando in prima fila, resistere e innovare anche sul campo. Essere buoni imprenditori e manager può equivalere anche a questo. Con, evidentemente, il senso di misura che porta a distinguere una guerra guerreggiata con le sfide che ogni giorno si presentano a chi conduce un’azienda.

È sulla base di questi presupposti che Gianfranco Di Pietro (filosofo) e Andrea Lipparini (ordinario di gestione dell’innovazione) hanno lavorato per scrivere “Strategia e leadership nella storia. Lezioni per i manager”un libro che non è un testo di storia e nemmeno un manuale di gestione aziendale per bravi imprenditori, ma qualcosa di molto diverso. E per questo di interessante da leggere.

Il libro ha l’obiettivo di presentare un modello di formazione alla leadership integrato dalla narrazione storica. In una prima fase, quindi, chi legge  si confronta con le gesta di grandi condottieri , che hanno ispirato e motivato genti diverse a seguirli con il massimo impegno. Successivamente, l’analisi delle abilità e degli errori di quei grandi personaggi e la messa in pratica di quanto appreso,  aiutano a sviluppare ed affinare le doti di leadership nell’ambito delle organizzazioni della produzione. Così, per esempio,  nelle vicende del cartaginese Annibale si svelano gli ingredienti di una strategia vincente, come lo studio dei concorrenti e la valorizzazione delle competenze dei soldati, ma anche lo scarso interesse per l’appoggio politico in patria e la sottovalutazione della tenacia dell’avversario. L’esperienza di Giulio Cesare, campione di velocità esecutiva ed efficacia nella risoluzione dei problemi mostra, mostra, l’importanza della formazione e della motivazione, nonché della necessità di preservare alleanze e consenso. L’ascesa e la caduta di Napoleone, infine, rivelano la maestria nell’organizzazione e nella tattica, ma anche i risvolti negativi della mancata crescita dei collaboratori e dell’eccesso di fiducia nelle proprie capacità.

Convinti che la capacità di comando, al pari delle tecniche manageriali, possa essere appresa, nel corso del testo gli autori suggeriscono spunti di riflessione ed indicazioni per integrare efficacemente la storia nel percorso di formazione dei leader, attuali e futuri.

Il libro di Di Pietro e Lipparini è una buona lettura, che, appunto, non ha la pretesa di rappresentare un manuale ma di fornire riflessioni importanti da un punto di vista non consueto. Bellissima l’affermazione conclusiva di tutta la narrazione : “Forse, è proprio la capacità di bilanciare adeguatamente il passato ed il presente ad essere un tratto comune di coloro che hanno fiducia nelle proprie capacità ma che sanno riconoscere di  non  essere  unici”.

Strategia e leadership nella storia. Lezioni per i manager

Gianfranco Di Pietro, Andrea Lipparini

Il Mulino, 2022

Imparare in modo diverso a condurre un’organizzazione della produzione

Condurre un’impresa come un esercito in battaglia. Strategia e tattica, senso dell’organizzazione e del rischio (calcolato), capacità di entusiasmare, saper condurre tutti stando in prima fila, resistere e innovare anche sul campo. Essere buoni imprenditori e manager può equivalere anche a questo. Con, evidentemente, il senso di misura che porta a distinguere una guerra guerreggiata con le sfide che ogni giorno si presentano a chi conduce un’azienda.

È sulla base di questi presupposti che Gianfranco Di Pietro (filosofo) e Andrea Lipparini (ordinario di gestione dell’innovazione) hanno lavorato per scrivere “Strategia e leadership nella storia. Lezioni per i manager”un libro che non è un testo di storia e nemmeno un manuale di gestione aziendale per bravi imprenditori, ma qualcosa di molto diverso. E per questo di interessante da leggere.

Il libro ha l’obiettivo di presentare un modello di formazione alla leadership integrato dalla narrazione storica. In una prima fase, quindi, chi legge  si confronta con le gesta di grandi condottieri , che hanno ispirato e motivato genti diverse a seguirli con il massimo impegno. Successivamente, l’analisi delle abilità e degli errori di quei grandi personaggi e la messa in pratica di quanto appreso,  aiutano a sviluppare ed affinare le doti di leadership nell’ambito delle organizzazioni della produzione. Così, per esempio,  nelle vicende del cartaginese Annibale si svelano gli ingredienti di una strategia vincente, come lo studio dei concorrenti e la valorizzazione delle competenze dei soldati, ma anche lo scarso interesse per l’appoggio politico in patria e la sottovalutazione della tenacia dell’avversario. L’esperienza di Giulio Cesare, campione di velocità esecutiva ed efficacia nella risoluzione dei problemi mostra, mostra, l’importanza della formazione e della motivazione, nonché della necessità di preservare alleanze e consenso. L’ascesa e la caduta di Napoleone, infine, rivelano la maestria nell’organizzazione e nella tattica, ma anche i risvolti negativi della mancata crescita dei collaboratori e dell’eccesso di fiducia nelle proprie capacità.

Convinti che la capacità di comando, al pari delle tecniche manageriali, possa essere appresa, nel corso del testo gli autori suggeriscono spunti di riflessione ed indicazioni per integrare efficacemente la storia nel percorso di formazione dei leader, attuali e futuri.

Il libro di Di Pietro e Lipparini è una buona lettura, che, appunto, non ha la pretesa di rappresentare un manuale ma di fornire riflessioni importanti da un punto di vista non consueto. Bellissima l’affermazione conclusiva di tutta la narrazione : “Forse, è proprio la capacità di bilanciare adeguatamente il passato ed il presente ad essere un tratto comune di coloro che hanno fiducia nelle proprie capacità ma che sanno riconoscere di  non  essere  unici”.

Strategia e leadership nella storia. Lezioni per i manager

Gianfranco Di Pietro, Andrea Lipparini

Il Mulino, 2022

Conoscere per crescere meglio, anche nelle imprese

Una tesi appena discussa dimostra la relazione positiva tra condivisione e sviluppo nelle organizzazioni della produzione

Rendere patrimonio condiviso la conoscenza e così far crescere meglio l’impresa. Traguardo importante da raggiungere un po’ per tutte le organizzazioni della produzione, meta che indica una cultura d’impresa attenta non solo alla produzione in senso stretto, ma alla globalità degli effetti dell’agire dell’impresa stessa. È attorno a questo nodo di problemi che ragiona Sara Pax con la sua tesi discussa alla Franklin University poche settimane fa.

“EXAMINING THE INFLUENCE OF KNOWLEDGE LEADERSHIP BEHAVIORS ON THE ENABLERS OF KNOWLEDGE MANAGEMENT IN SMALL AND MEDIUM-SIZED COMPANIES” è la sintesi di una complessa indagine attorno alla gestione della conoscenza nelle imprese intesa come fattore chiave per il successo finanziario e la sostenibilità a lungo termine di una piccola impresa. In particolare, l’obiettivo dello   studio è stato quello di capire se esistesse una relazione tra i comportamenti di leadership e gli strumenti di gestione della conoscenza. Oltre a questo, il lavoro di  Sara Pax è stato quello di fornire ai leader, soprattutto delle PMI, prove importanti per sostenere i loro sforzi nell’adozione di pratiche di gestione della conoscenza all’interno della loro azienda che mettessero in condizione tutti di fruirne in modo adeguato.

I risultati dell’analisi indicano che esiste una relazione statisticamente significativa tra una modalità di gestione che favorisca l’apprendimento e le relazioni positive con i dipendenti, la creazione di un clima di collaborazione all’interno dell’azienda stessa, il miglioramento della gestione dell’intera organizzazione della produzione. Mettere a disposizione di tutti la conoscenza che diventa patrimonio condiviso dell’impresa, è, in altri termini, una delle levi di competitività migliori che sono a disposizione di imprenditori e manager che sappiano usarle. Ed è anche una delle migliori espressioni di quella buona cultura d’impresa che riesce a guardare alle organizzazioni della produzione come ad entità dedite non solo al raggiungimento del profitto ma a qualcosa di più complesso e completo.

EXAMINING THE INFLUENCE OF KNOWLEDGE LEADERSHIP BEHAVIORS ON THE ENABLERS OF KNOWLEDGE MANAGEMENT IN SMALL AND MEDIUM-SIZED COMPANIES

Sara Pax

Tesi, Franklin University, giugno 2022

Una tesi appena discussa dimostra la relazione positiva tra condivisione e sviluppo nelle organizzazioni della produzione

Rendere patrimonio condiviso la conoscenza e così far crescere meglio l’impresa. Traguardo importante da raggiungere un po’ per tutte le organizzazioni della produzione, meta che indica una cultura d’impresa attenta non solo alla produzione in senso stretto, ma alla globalità degli effetti dell’agire dell’impresa stessa. È attorno a questo nodo di problemi che ragiona Sara Pax con la sua tesi discussa alla Franklin University poche settimane fa.

“EXAMINING THE INFLUENCE OF KNOWLEDGE LEADERSHIP BEHAVIORS ON THE ENABLERS OF KNOWLEDGE MANAGEMENT IN SMALL AND MEDIUM-SIZED COMPANIES” è la sintesi di una complessa indagine attorno alla gestione della conoscenza nelle imprese intesa come fattore chiave per il successo finanziario e la sostenibilità a lungo termine di una piccola impresa. In particolare, l’obiettivo dello   studio è stato quello di capire se esistesse una relazione tra i comportamenti di leadership e gli strumenti di gestione della conoscenza. Oltre a questo, il lavoro di  Sara Pax è stato quello di fornire ai leader, soprattutto delle PMI, prove importanti per sostenere i loro sforzi nell’adozione di pratiche di gestione della conoscenza all’interno della loro azienda che mettessero in condizione tutti di fruirne in modo adeguato.

I risultati dell’analisi indicano che esiste una relazione statisticamente significativa tra una modalità di gestione che favorisca l’apprendimento e le relazioni positive con i dipendenti, la creazione di un clima di collaborazione all’interno dell’azienda stessa, il miglioramento della gestione dell’intera organizzazione della produzione. Mettere a disposizione di tutti la conoscenza che diventa patrimonio condiviso dell’impresa, è, in altri termini, una delle levi di competitività migliori che sono a disposizione di imprenditori e manager che sappiano usarle. Ed è anche una delle migliori espressioni di quella buona cultura d’impresa che riesce a guardare alle organizzazioni della produzione come ad entità dedite non solo al raggiungimento del profitto ma a qualcosa di più complesso e completo.

EXAMINING THE INFLUENCE OF KNOWLEDGE LEADERSHIP BEHAVIORS ON THE ENABLERS OF KNOWLEDGE MANAGEMENT IN SMALL AND MEDIUM-SIZED COMPANIES

Sara Pax

Tesi, Franklin University, giugno 2022

Ecco la riforma per gli Its: formazione high tech per lavoro ai giovani e competitività delle imprese

Tra le eredità più significative del governo Draghi c’è la riforma degli Its, gli Istituti Tecnologi Superiori, strutture formative indispensabili per venire incontro alle esigenze di lavoro qualificato delle imprese nel mondo della digital economy. La legge è stata definitivamente approvata a metà luglio dalla Camera dei deputati, all’unanimità. Adesso, per essere compiutamente operativa, ha bisogno di 19 provvedimenti di attuazione, tra cui 17 decreti, con il concorso di più ministeri e delle regioni. E la speranza è che l’inopportuna crisi di governo e le tensioni di una campagna elettorale tanto breve quanto carica di polemiche e scontri non rallenti scelte politiche e amministrative indispensabili per dare risposte di lavoro e carriera a migliaia di ragazze e ragazzi e garantire alle imprese, proprio in una situazione economica così difficile, a un passo dalla recessione, competenze indispensabili a reggere la concorrenza, stare sul mercato, crescere.

Il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi e i tecnici del ministero, la ministra degli Affari regionali Mariastella Gelmini e i responsabili della Conferenza delle Regioni sono al lavoro per evitare blocchi. Varrà la pena seguirne il lavoro e sostenerne la tempestiva attività.

La legge, dunque. I finanziamenti pubblici (con un fondo apposito da 48,3 milioni a partire dal 2022 e con i fondi del Pnrr, 1,5 miliardi in cinque anni) saranno legati a una programmazione triennale, per dare stabilità all’offerta formativa e premieranno la qualità dei percorsi (niente finanziamenti a pioggia, dunque, tanto cari a una deriva egualitarista che da troppo tempo deprime l’istruzione).

Le aziende saranno il cardine degli Its Academy (fin dal nome, Academy appunto, che richiama le strutture formative d’impresa), con docenti che vengono dal mondo per lavoro “per almeno il 60% del monte ore complessivo”. Stage e tirocini aziendali dovranno rappresentare “almeno il 35%” del percorso di formazione e potranno essere svolti anche all’estero, con borse di studio. La presidenza di ognuna delle Fondazioni Its sarà espressione delle imprese fondatrici e partecipanti. E per le imprese che investono negli Its è previsto un credito d’imposta del 30%, che sale al 60% nelle province con maggior tasso di disoccupazione.

La legge apre anche agli Its multi-regionali e multi-settoriali, seguendo così le tendenze del mondo produttivo a organizzarsi per reti e filiere che investono territori e specializzazioni diverse e convergenti. E adesso bisognerà (con i provvedimenti di attuazione) definire anche le nuove aree tecnologiche di formazione (ferme sinora al 2008) secondo le più aggiornate dimensioni produttive della chimica e della meccatronica, delle scienze della vita, della cybersecurity, delle tante applicazioni dell’Intelligenza Artificiale, etc.

E’ “un rilancio decisivo per agganciare innovazione e ripresa”, commenta Giovanni Brugnoli, vicepresidente di Confindustria per il Capitale Umano, imprenditore tessile nella dinamica area industriale di Varese, anni di impegno dedicati appunto a promuovere la formazione professionale di alto livello (compresi i corsi della Liuc, la Libera Università di Castellanza). E “finalmente, dal boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, le imprese tornano centrali come luoghi di formazione per i nostri giovani, co-progettando i percorsi di specializzazione e fornendo i propri esperti come tutor” (Il Sole24Ore, 13 luglio).

La previsione è che si cresca rapidamente, dagli attuali 121 Its con 21mila studenti a dimensioni molto più corpose. Dando risposte sia al mondo economico che agli studenti e alle loro famiglie: in media, l’80% delle ragazze e dei ragazzi che escono da un Its trovano lavoro nell’arco di un anno (con punte del 100% nei territori di maggiore e più sofisticata industrializzazione) e nel 91% dei casi proprio nel loro settore di specializzazione.

C’è ancora un altro aspetto della riforma, da sottolineare: “La formula flessibile degli Its, capace di continui adattamenti: se tra quattro anni, per esempio, cambia l’industria, allora si aggiornano rapidamente i percorsi e si iniziano subito a formare le nuove competenze necessarie”, spiega Brugnoli.

Ecco il punto chiave della riforma: perché l’industria manifatturiera italiana possa continuare a competere in mercati sempre più esigenti, anche nella stagione della “riglobalizzazione selettiva” (“Reinventing globalisation”, ha titolato in copertina “The Economist” del 18 giugno), sono indispensabili risorse umane in grado di essere a proprio agio con le trasformazioni tecnologiche, ibridando conoscenze e competenze diverse. Serve dunque una formazione high tech capace di aggiornamento e miglioramento continui (“Imparare a imparare”, dicono gli esperti) su una base tecnologica e scientifica di livello e con un rapporto stretto con i processi di lavoro.

Gli Its e i corsi Stem delle università (science, technology, engineering, mathematics, cui andrebbe aggiunta la a di arts, i saperi umanistici, diventando così Steam) sono gli strumenti indispensabili. Come indica, peraltro, il Pnrr, secondo le prescrizioni del Recovery Fund Next Generation Eu. Un punto fermo delle possibilità di sviluppo. Da difendere e tradurre severamente in investimenti e riforme, anche e soprattutto in questi durissimi tempi di crisi.

(foto Getty images)

Tra le eredità più significative del governo Draghi c’è la riforma degli Its, gli Istituti Tecnologi Superiori, strutture formative indispensabili per venire incontro alle esigenze di lavoro qualificato delle imprese nel mondo della digital economy. La legge è stata definitivamente approvata a metà luglio dalla Camera dei deputati, all’unanimità. Adesso, per essere compiutamente operativa, ha bisogno di 19 provvedimenti di attuazione, tra cui 17 decreti, con il concorso di più ministeri e delle regioni. E la speranza è che l’inopportuna crisi di governo e le tensioni di una campagna elettorale tanto breve quanto carica di polemiche e scontri non rallenti scelte politiche e amministrative indispensabili per dare risposte di lavoro e carriera a migliaia di ragazze e ragazzi e garantire alle imprese, proprio in una situazione economica così difficile, a un passo dalla recessione, competenze indispensabili a reggere la concorrenza, stare sul mercato, crescere.

Il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi e i tecnici del ministero, la ministra degli Affari regionali Mariastella Gelmini e i responsabili della Conferenza delle Regioni sono al lavoro per evitare blocchi. Varrà la pena seguirne il lavoro e sostenerne la tempestiva attività.

La legge, dunque. I finanziamenti pubblici (con un fondo apposito da 48,3 milioni a partire dal 2022 e con i fondi del Pnrr, 1,5 miliardi in cinque anni) saranno legati a una programmazione triennale, per dare stabilità all’offerta formativa e premieranno la qualità dei percorsi (niente finanziamenti a pioggia, dunque, tanto cari a una deriva egualitarista che da troppo tempo deprime l’istruzione).

Le aziende saranno il cardine degli Its Academy (fin dal nome, Academy appunto, che richiama le strutture formative d’impresa), con docenti che vengono dal mondo per lavoro “per almeno il 60% del monte ore complessivo”. Stage e tirocini aziendali dovranno rappresentare “almeno il 35%” del percorso di formazione e potranno essere svolti anche all’estero, con borse di studio. La presidenza di ognuna delle Fondazioni Its sarà espressione delle imprese fondatrici e partecipanti. E per le imprese che investono negli Its è previsto un credito d’imposta del 30%, che sale al 60% nelle province con maggior tasso di disoccupazione.

La legge apre anche agli Its multi-regionali e multi-settoriali, seguendo così le tendenze del mondo produttivo a organizzarsi per reti e filiere che investono territori e specializzazioni diverse e convergenti. E adesso bisognerà (con i provvedimenti di attuazione) definire anche le nuove aree tecnologiche di formazione (ferme sinora al 2008) secondo le più aggiornate dimensioni produttive della chimica e della meccatronica, delle scienze della vita, della cybersecurity, delle tante applicazioni dell’Intelligenza Artificiale, etc.

E’ “un rilancio decisivo per agganciare innovazione e ripresa”, commenta Giovanni Brugnoli, vicepresidente di Confindustria per il Capitale Umano, imprenditore tessile nella dinamica area industriale di Varese, anni di impegno dedicati appunto a promuovere la formazione professionale di alto livello (compresi i corsi della Liuc, la Libera Università di Castellanza). E “finalmente, dal boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, le imprese tornano centrali come luoghi di formazione per i nostri giovani, co-progettando i percorsi di specializzazione e fornendo i propri esperti come tutor” (Il Sole24Ore, 13 luglio).

La previsione è che si cresca rapidamente, dagli attuali 121 Its con 21mila studenti a dimensioni molto più corpose. Dando risposte sia al mondo economico che agli studenti e alle loro famiglie: in media, l’80% delle ragazze e dei ragazzi che escono da un Its trovano lavoro nell’arco di un anno (con punte del 100% nei territori di maggiore e più sofisticata industrializzazione) e nel 91% dei casi proprio nel loro settore di specializzazione.

C’è ancora un altro aspetto della riforma, da sottolineare: “La formula flessibile degli Its, capace di continui adattamenti: se tra quattro anni, per esempio, cambia l’industria, allora si aggiornano rapidamente i percorsi e si iniziano subito a formare le nuove competenze necessarie”, spiega Brugnoli.

Ecco il punto chiave della riforma: perché l’industria manifatturiera italiana possa continuare a competere in mercati sempre più esigenti, anche nella stagione della “riglobalizzazione selettiva” (“Reinventing globalisation”, ha titolato in copertina “The Economist” del 18 giugno), sono indispensabili risorse umane in grado di essere a proprio agio con le trasformazioni tecnologiche, ibridando conoscenze e competenze diverse. Serve dunque una formazione high tech capace di aggiornamento e miglioramento continui (“Imparare a imparare”, dicono gli esperti) su una base tecnologica e scientifica di livello e con un rapporto stretto con i processi di lavoro.

Gli Its e i corsi Stem delle università (science, technology, engineering, mathematics, cui andrebbe aggiunta la a di arts, i saperi umanistici, diventando così Steam) sono gli strumenti indispensabili. Come indica, peraltro, il Pnrr, secondo le prescrizioni del Recovery Fund Next Generation Eu. Un punto fermo delle possibilità di sviluppo. Da difendere e tradurre severamente in investimenti e riforme, anche e soprattutto in questi durissimi tempi di crisi.

(foto Getty images)

Piero Pirelli, una vita tra industria, impegno sociale e passione sportiva

Primogenito di Giovanni Battista Pirelli e Maria Sormani, Piero Pirelli è stato protagonista della storia del gruppo industriale fondato dal padre nel 1872. Nato nel 1881, sin da adolescente viene avviato – con il fratello Alberto, di un anno più giovane – all’attività aziendale, affiancando il padre sia nello stabilimento di via Ponte Seveso, sia nelle campagne di posa dei cavi telegrafici sottomarini con la nave “Città di Milano” o nei viaggi di affari all’estero. Nel 1903 entrambi i fratelli conseguono la laurea in scienze giuridiche presso l’Università di Genova e l’anno seguente sono ufficialmente associati al padre nella gerenza della società. La forte espansione internazionale avviata dal Gruppo in quegli anni porta i fratelli ad alternarsi in frequenti viaggi all’estero. Nel 1904 Piero è a Saint Louis per sovrintendere alla partecipazione della Pirelli all’esposizione universale tenutasi in quella città; successivamente tornerà diverse volte negli Stati Uniti così come in Spagna, per seguire direttamente gli stabilimenti nel Paese. Durante la prima guerra mondiale Piero presta servizio come ufficiale di cavalleria presso il Comando Supremo. Rientrato in azienda, nel 1920 viene nominato, insieme al fratello, amministratore delegato delle due società neo-costituite nell’ambito di una ristrutturazione: la Società Italiana Pirelli (poi Pirelli S.p.A) e la Compagnie Internationale Pirelli, holding del gruppo estero. Da questo momento l’attività dei due fratelli si specializza maggiormente. Mentre Alberto si occupa soprattutto dei rapporti internazionali e dell’attività all’estero, Piero si dedica alle attività italiane, alle relazioni sindacali e alle iniziative di welfare. È lui a condurre le trattative per la riduzione dell’orario di lavoro da 60 a 48 ore, nel 1919, e nel 1946 promuove la Fondazione Piero e Alberto Pirelli per l’assistenza ai dipendenti anziani dell’azienda. Nel 1932 alla morte del padre, Piero viene nominato presidente del Gruppo, carica che mantiene fino alla morte, avvenuta il 7 agosto 1956. Appassionato di sport, nel 1899 contribuisce alla fondazione del Milan Football Club (di cui è presidente  tra il 1909 e il 1929) e alla costruzione dello stadio di San Siro, nel 1926.  La sua è stata un’esistenza spesa tra impresa, impegno nel sociale e grande passione per lo sport.

Primogenito di Giovanni Battista Pirelli e Maria Sormani, Piero Pirelli è stato protagonista della storia del gruppo industriale fondato dal padre nel 1872. Nato nel 1881, sin da adolescente viene avviato – con il fratello Alberto, di un anno più giovane – all’attività aziendale, affiancando il padre sia nello stabilimento di via Ponte Seveso, sia nelle campagne di posa dei cavi telegrafici sottomarini con la nave “Città di Milano” o nei viaggi di affari all’estero. Nel 1903 entrambi i fratelli conseguono la laurea in scienze giuridiche presso l’Università di Genova e l’anno seguente sono ufficialmente associati al padre nella gerenza della società. La forte espansione internazionale avviata dal Gruppo in quegli anni porta i fratelli ad alternarsi in frequenti viaggi all’estero. Nel 1904 Piero è a Saint Louis per sovrintendere alla partecipazione della Pirelli all’esposizione universale tenutasi in quella città; successivamente tornerà diverse volte negli Stati Uniti così come in Spagna, per seguire direttamente gli stabilimenti nel Paese. Durante la prima guerra mondiale Piero presta servizio come ufficiale di cavalleria presso il Comando Supremo. Rientrato in azienda, nel 1920 viene nominato, insieme al fratello, amministratore delegato delle due società neo-costituite nell’ambito di una ristrutturazione: la Società Italiana Pirelli (poi Pirelli S.p.A) e la Compagnie Internationale Pirelli, holding del gruppo estero. Da questo momento l’attività dei due fratelli si specializza maggiormente. Mentre Alberto si occupa soprattutto dei rapporti internazionali e dell’attività all’estero, Piero si dedica alle attività italiane, alle relazioni sindacali e alle iniziative di welfare. È lui a condurre le trattative per la riduzione dell’orario di lavoro da 60 a 48 ore, nel 1919, e nel 1946 promuove la Fondazione Piero e Alberto Pirelli per l’assistenza ai dipendenti anziani dell’azienda. Nel 1932 alla morte del padre, Piero viene nominato presidente del Gruppo, carica che mantiene fino alla morte, avvenuta il 7 agosto 1956. Appassionato di sport, nel 1899 contribuisce alla fondazione del Milan Football Club (di cui è presidente  tra il 1909 e il 1929) e alla costruzione dello stadio di San Siro, nel 1926.  La sua è stata un’esistenza spesa tra impresa, impegno nel sociale e grande passione per lo sport.

Multimedia

Images
CIAO, COME POSSO AIUTARTI?