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La teoria dimostrata dalla realtà

I premi Nobel 2021 conferiti dalla Sveriges Riksbank riconoscono il valore dell’attenzione a quello che davvero accade, anche in economia

Usare l’osservazione della realtà per dimostrare la teoria che spiega la realtà. Anche quando la complessità dei problemi affrontati appare quasi insormontabile e irrisolvibile. Comunque, nessun laboratorio. Che, d’altra parte, quando si osserva ciò che accade nelle società, qualsiasi esse siano, sarebbe sempre cosa limitante. Anche se più semplice. Da qui l’importanza di quanto raggiunto da David Card (University of California, Berkeley), Joshua D. Angrist (Massachussets Institute of Technology) e Guido W. Imbens (Stanford University), che per questo hanno ricevuto il premio “della Sveriges Riksbank in scienze economiche in memoria di Alfred Nobel” per il 2021. Un riconoscimento importante, che fa bene a quella parte dell’economia che si sforza di comprendere la realtà con quelli che vengono definitivi “esperimenti naturali” cioè quegli studi compiuti con osservazioni, in cui il controllo e le variabili sperimentali di interesse non vengono manipolate artificialmente dai ricercatori, ma possono invece essere influenzate dalla natura o da fattori al di fuori del controllo dei ricercatori. Si tratta, in parole semplici, del tentativo di avvicinare di più la realtà, e il suo mutare, alla teoria. Che, a ben vedere, è quanto spesso accade nelle imprese e nelle organizzazioni umane in generale.

E non è forse un caso che tra gli argomenti più studiati dai tre vincitori del Nobel per l’economia di quest’anno, vi siano stati proprio i temi del lavoro. Lo si capisce subito dalle motivazioni del riconoscimento. Card è stato premiato “per i suoi contributi empirici all’economia del lavoro”, Angrist e Imbens lo sono stati “per i loro contributi metodologici all’analisi delle relazioni di causa ed effetto”. I tre hanno condotto un lavoro complementare riuscendo ad usare proprio il metodo degli “esperimenti naturali”: il primo ha contribuito con la parte empirica, gli altri due con quella metodologica. Detto in modo più dettagliato, David Card ha studiato gli effetti del salario minimo, dell’immigrazione e dell’educazione sul mercato del lavoro arrivando alla conclusione che quando il primo cresce non ne consegue una diminuzione degli occupati e che investire nella scuola contribuisce al futuro successo degli studenti nel mondo del lavoro. Joshua Angrist e Guido Imbens hanno invece fornito lo strumento per leggere gli esperimenti di Card, dimostrando in che modo è possibile trarre precise conclusioni riguardo la causa e l’effetto di un fenomeno a partire da esperimenti naturali e cioè dall’osservazione attenta della realtà con un metodo raffinato che lasciasse libere le persone “di scegliere”.
Temi complessi ma affascinanti quelli che hanno condotto i tre economisti ad un traguardo così importante. Argomenti che si possono comunque avvicinare attraverso alcuni dei libri scritti dai tre. Card ha scritto nel 2016 Wages, School Quality, and Employment Demand e nel 1995 è stato co-autore del libro Myth and Measurement: The New Economics of the Minimum Wage. Mentre Angrist nel 2014 ha dato alle stampe Mastering ‘Metrics: The Path from Cause to Effect al quale nel 2009 aveva fatto da precurose Mostly Harmless Econometrics: An Empiricist’s Companion. Guido W. Imbens, infine, ha pubblicato Causal Inference for Statistics, Social, and Biomedical Sciences: An Introduction, nel quale vengono proprio discussi e confrontati gli “esperimenti naturali” con gli altri metodi di spiegazione della realtà.

Wages, School Quality, and Employment Demand
David Card
Oxford University Press, 2016

Myth and Measurement: The New Economics of the Minimum Wage
David Card, Alan B. Krueger
Princeton University Press, 2015 (edizione rivista)

Mastering Metrics: The Path from Cause to Effect
Joshua D. Angrist, Jorn-steffen Pischke
Princeton University Press, 2014

Mostly Harmless Econometrics: An Empiricist’s Companion
Joahua D. Angrist, Jorn-steffen Pischke
Princeton University Press, 2009

Causal Inference for Statistics, Social, and Biomedical Sciences: An Introduction
Guido W. Imbens, Donald B. Rubin
Cambridge University Press, 2015

I premi Nobel 2021 conferiti dalla Sveriges Riksbank riconoscono il valore dell’attenzione a quello che davvero accade, anche in economia

Usare l’osservazione della realtà per dimostrare la teoria che spiega la realtà. Anche quando la complessità dei problemi affrontati appare quasi insormontabile e irrisolvibile. Comunque, nessun laboratorio. Che, d’altra parte, quando si osserva ciò che accade nelle società, qualsiasi esse siano, sarebbe sempre cosa limitante. Anche se più semplice. Da qui l’importanza di quanto raggiunto da David Card (University of California, Berkeley), Joshua D. Angrist (Massachussets Institute of Technology) e Guido W. Imbens (Stanford University), che per questo hanno ricevuto il premio “della Sveriges Riksbank in scienze economiche in memoria di Alfred Nobel” per il 2021. Un riconoscimento importante, che fa bene a quella parte dell’economia che si sforza di comprendere la realtà con quelli che vengono definitivi “esperimenti naturali” cioè quegli studi compiuti con osservazioni, in cui il controllo e le variabili sperimentali di interesse non vengono manipolate artificialmente dai ricercatori, ma possono invece essere influenzate dalla natura o da fattori al di fuori del controllo dei ricercatori. Si tratta, in parole semplici, del tentativo di avvicinare di più la realtà, e il suo mutare, alla teoria. Che, a ben vedere, è quanto spesso accade nelle imprese e nelle organizzazioni umane in generale.

E non è forse un caso che tra gli argomenti più studiati dai tre vincitori del Nobel per l’economia di quest’anno, vi siano stati proprio i temi del lavoro. Lo si capisce subito dalle motivazioni del riconoscimento. Card è stato premiato “per i suoi contributi empirici all’economia del lavoro”, Angrist e Imbens lo sono stati “per i loro contributi metodologici all’analisi delle relazioni di causa ed effetto”. I tre hanno condotto un lavoro complementare riuscendo ad usare proprio il metodo degli “esperimenti naturali”: il primo ha contribuito con la parte empirica, gli altri due con quella metodologica. Detto in modo più dettagliato, David Card ha studiato gli effetti del salario minimo, dell’immigrazione e dell’educazione sul mercato del lavoro arrivando alla conclusione che quando il primo cresce non ne consegue una diminuzione degli occupati e che investire nella scuola contribuisce al futuro successo degli studenti nel mondo del lavoro. Joshua Angrist e Guido Imbens hanno invece fornito lo strumento per leggere gli esperimenti di Card, dimostrando in che modo è possibile trarre precise conclusioni riguardo la causa e l’effetto di un fenomeno a partire da esperimenti naturali e cioè dall’osservazione attenta della realtà con un metodo raffinato che lasciasse libere le persone “di scegliere”.
Temi complessi ma affascinanti quelli che hanno condotto i tre economisti ad un traguardo così importante. Argomenti che si possono comunque avvicinare attraverso alcuni dei libri scritti dai tre. Card ha scritto nel 2016 Wages, School Quality, and Employment Demand e nel 1995 è stato co-autore del libro Myth and Measurement: The New Economics of the Minimum Wage. Mentre Angrist nel 2014 ha dato alle stampe Mastering ‘Metrics: The Path from Cause to Effect al quale nel 2009 aveva fatto da precurose Mostly Harmless Econometrics: An Empiricist’s Companion. Guido W. Imbens, infine, ha pubblicato Causal Inference for Statistics, Social, and Biomedical Sciences: An Introduction, nel quale vengono proprio discussi e confrontati gli “esperimenti naturali” con gli altri metodi di spiegazione della realtà.

Wages, School Quality, and Employment Demand
David Card
Oxford University Press, 2016

Myth and Measurement: The New Economics of the Minimum Wage
David Card, Alan B. Krueger
Princeton University Press, 2015 (edizione rivista)

Mastering Metrics: The Path from Cause to Effect
Joshua D. Angrist, Jorn-steffen Pischke
Princeton University Press, 2014

Mostly Harmless Econometrics: An Empiricist’s Companion
Joahua D. Angrist, Jorn-steffen Pischke
Princeton University Press, 2009

Causal Inference for Statistics, Social, and Biomedical Sciences: An Introduction
Guido W. Imbens, Donald B. Rubin
Cambridge University Press, 2015

Il risparmio come strumento d’impresa

Il Governatore della Banca d’Italia traccia una chiara sintesi delle relazioni tra sviluppo e comportamento finanziario dei cittadini

 

Il risparmio in aiuto alle imprese. Meccanismo noto e virtuoso. Soprattutto in tempi difficile come questi. Ad analizzare relazione, funzioni e rapporti del risparmio ci ha pensato Ignazio Visco (Governatore della Banca d’Italia) in un suo recente intervento in occasione della Giornata del risparmio 2021.

Dopo aver inquadrato il periodo che l’economia e la società stanno vivendo – il rientro dalla pandemia di Covid-19 -, Visco pone attenzione alla “eredità dei due precedenti episodi di crisi”, rilevando prima di tutto che il ritorno della produzione “solo” a quel punto non sarebbe comunque sufficiente, per passare poi ad approfondire le relazioni tra “risparmio delle famiglie e rafforzamento della struttura finanziaria delle imprese”. Il Governatore in particolare scrive: “Affinché il risparmio possa essere efficacemente indirizzato al sostegno dell’attività delle imprese residenti è (…) necessario agire soprattutto sul fronte dell’offerta di strumenti finanziari. Si amplierebbero così le possibilità di attrarre investimenti di fondi dall’estero, beneficiando anche, in tal modo, degli sviluppi attesi sul fronte della creazione di un autentico mercato unico dei capitali nell’Unione europea”. E’ uno dei punti nodali del ragionamento di Visco: il risparmio può davvero aiutare le imprese, basta che vi siano gli strumenti adatti. Ma non basta ancora, perché, dice ancora il Governatore, “accanto agli interventi volti ad ampliare l’offerta di strumenti finanziari da parte delle imprese si collocano quelli diretti ad accrescere le tutele per risparmiatori e investitori. Correttezza e trasparenza dei rapporti tra intermediari e clienti sono peraltro esse stesse funzionali ad attrarre gli investimenti”. E’ uno degli altri elementi fondamentali per una buona economia: la fiducia fa da “carburante” efficace per ogni sviluppo. Il traguardo da raggiungere, fa intendere Visco, è importante e riguarda l’accesso del risparmio agli investimenti produttivi da una parte, ma anche, dall’altra, quello delle imprese, soprattutto medie e piccole, al mercato dei capitali.

Come sempre Ignazio Visco riesce ad essere chiaro e semplice anche quando racconta di temi complessi e in evoluzione. Una lettura da fare. E da rifare.

Intervento del Governatore della Banca d’Italia. Giornata Mondiale del Risparmio del 2021

Ignazio Visco

Banca d’Italia, 2021

Il Governatore della Banca d’Italia traccia una chiara sintesi delle relazioni tra sviluppo e comportamento finanziario dei cittadini

 

Il risparmio in aiuto alle imprese. Meccanismo noto e virtuoso. Soprattutto in tempi difficile come questi. Ad analizzare relazione, funzioni e rapporti del risparmio ci ha pensato Ignazio Visco (Governatore della Banca d’Italia) in un suo recente intervento in occasione della Giornata del risparmio 2021.

Dopo aver inquadrato il periodo che l’economia e la società stanno vivendo – il rientro dalla pandemia di Covid-19 -, Visco pone attenzione alla “eredità dei due precedenti episodi di crisi”, rilevando prima di tutto che il ritorno della produzione “solo” a quel punto non sarebbe comunque sufficiente, per passare poi ad approfondire le relazioni tra “risparmio delle famiglie e rafforzamento della struttura finanziaria delle imprese”. Il Governatore in particolare scrive: “Affinché il risparmio possa essere efficacemente indirizzato al sostegno dell’attività delle imprese residenti è (…) necessario agire soprattutto sul fronte dell’offerta di strumenti finanziari. Si amplierebbero così le possibilità di attrarre investimenti di fondi dall’estero, beneficiando anche, in tal modo, degli sviluppi attesi sul fronte della creazione di un autentico mercato unico dei capitali nell’Unione europea”. E’ uno dei punti nodali del ragionamento di Visco: il risparmio può davvero aiutare le imprese, basta che vi siano gli strumenti adatti. Ma non basta ancora, perché, dice ancora il Governatore, “accanto agli interventi volti ad ampliare l’offerta di strumenti finanziari da parte delle imprese si collocano quelli diretti ad accrescere le tutele per risparmiatori e investitori. Correttezza e trasparenza dei rapporti tra intermediari e clienti sono peraltro esse stesse funzionali ad attrarre gli investimenti”. E’ uno degli altri elementi fondamentali per una buona economia: la fiducia fa da “carburante” efficace per ogni sviluppo. Il traguardo da raggiungere, fa intendere Visco, è importante e riguarda l’accesso del risparmio agli investimenti produttivi da una parte, ma anche, dall’altra, quello delle imprese, soprattutto medie e piccole, al mercato dei capitali.

Come sempre Ignazio Visco riesce ad essere chiaro e semplice anche quando racconta di temi complessi e in evoluzione. Una lettura da fare. E da rifare.

Intervento del Governatore della Banca d’Italia. Giornata Mondiale del Risparmio del 2021

Ignazio Visco

Banca d’Italia, 2021

Exit Only: continua la fuga dei cervelli, mentre si parla troppo di pensioni, trascurando gli interessi dei giovani

Exit Only” è il titolo, esemplare, d’un libro di Giulia Pastorella, giovane manager molto milanese e molto internazionale (laurea a Oxford, specializzazioni a Sciences Po a Parigi e alla London School of Economics), pubblicato da Laterza e scritto per documentare “cosa sbaglia l’Italia sui cervelli in fuga”: avari riconoscimenti al merito, pochi investimenti in ricerca e formazione di alto livello, bassa qualità della Pubblica Amministrazione, stipendi poco correlati alle competenze, imprese restie a far fare carriera ai giovani più intraprendenti e dotati. L’Italia, purtroppo, non è un paese adatto a dare risposte alle speranze di futuro delle nuove generazioni. Che “votano con i piedi” e cioè vanno via.

Il fenomeno è generale, investe molti altri paesi europei. Ma, qui da noi, è aggravato dal fatto che emigrano soprattutto i laureati con maggiori capacità e ambizioni e al loro posto non arrivano giovani da altri paesi del mondo in numero uguale. L’Italia, insomma, perde prezioso capitale umano dopo avere investito parecchio per formarlo.
Il guaio è che il discorso pubblico, anche in questi tempi difficili di preparazione della legge di Bilancio e dunque di scelte per il futuro, parla poco di giovani e lavoro e molto di più, invece, di “quota 100” e cioè di pensioni e di persone che vogliono abbandonare l’impiego prima dei limiti indicati dalla legge Fornero, una riforma essenziale varata nel 2011 e attenta sia alla tenuta dei conti pubblici sia all’equità generazionale.
Partiti di maggioranza (la Lega, innanzitutto) e sindacati (la Cgil, in prima fila) spingono perché si vada in pensione anzitempo. E altri, guardando ai giovani, preferiscono insistere sull’assistenzialismo (il reddito di cittadinanza) trascurando invece di impegnarsi sulle politiche attive del lavoro, che garantiscano maggiori e migliori opportunità professionale, per ragazze e ragazzi in cerca di buona occupazione.
Un clima pesante. Che favorisce l’emigrazione dei “cervelli”, via d’uscita preferenziale dalla “crisi di futuro”. “Exit Only”, appunto. Per una “generazione tradita” (efficace titolo de “La Stampa”, 28 ottobre, per un dossier sui nostri giovani).

Ricordiamo i dati, dunque. “Nel 2019 sono 70mila i giovani con meno di 40 anni che hanno lasciato il Paese. Negli ultimi dieci anni quasi mezzo milione di ragazze e ragazzi se ne sono andati”, ha calcolato il ministro dell’Economia Daniele Franco, durante una cerimonia alla Guardia di Finanza, la settimana scorsa, aggiungendo che “i giovani emigrano perché cresciamo poco e tutto ciò succede anche perché non li valorizziamo, non riusciamo a usare pienamente le loro energie, i loro talenti. E tutto ciò si accentua nelle regioni meridionali”.
Ancora dati su cui riflettere. Sempre Giulia Pastorella, nel libro di cui abbiamo parlato, ricorda come l’Italia, nel decennio 2008-2018 sia seconda in Europa per l’aumento della differenza tra laureati residenti all’estero e in patria. Il che vuol dire che il ritmo della “fuga dei cervelli” è maggiore di quello della “produzione dei cervelli”. Che, peraltro, sono sempre troppo pochi: in Italia solo il 17% ha una laurea, contro il 30% della media Ue.
Una situazione che adesso potrebbe essere radicalmente modificata, anche usando bene le risorse per la formazione di qualità, l’innovazione e la sostenibilità messi a disposizione con il Recovery Plan Next Generation Ue, ben tradotto nel Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) del governo Draghi.

Ha dunque ragione chi insiste sulla necessità di smetterla con il dibattito sul pensionamento anticipato e di ragionare, invece, sulle politiche attive del lavoro, sulla formazione, sulle scelte di welfare e di nuove dimensioni previdenziali che seguano gli andamenti di un mercato in rapida trasformazione. Sulla riscrittura di un patto generazionale che cerchi di ricomporre il divario tra i ceti sociali più protetti e sindacalmente organizzati (gli attuali detentori di un posto stabile, in maggioranza uomini, di età superiore ai 50 anni e radicati nel pubblico impiego o nelle grandi aziende) e i ceti più deboli, giovani e donne soprattutto. Sapendo bene che bisognerà anche cominciare ad affrontare il nodo della copertura previdenziale delle nuove generazioni: quando andranno in pensione e con che redditi? E come provare a fare funzionare meccanismi di previdenza integrativa?
Sostiene Antonio Misiani, responsabile economico del Pd: “Le priorità sono i giovani: molti di loro rischiano trattamenti pensionistici da fame. Per evitarlo, è necessario spingere l’adesione ai fondi pensione e introdurre un minimo vitale. Va ampliata la libertà di scelta dei lavoratori sull’età di pensionamento, con un ricalcolo attuariale: chi va prima, prende meno” (Corriere della Sera, 1 novembre). Una discussione seria, che metta al tavolo governo, sindacati e imprese. Tutto il contrario della propaganda su “quota 100”.
Il dibattito va appunto articolato su questi temi, sullo sfondo della presa d’atto che siamo un paese in crisi di natalità, destinato a invecchiare (a meno che non si facciano scelte lungimiranti a favore della famiglia) e ad avere un rapporto sempre più squilibrato tra giovani e anziani, persone in età da lavoro e pensionati.
Altrimenti, in assenza di scelte di riforma e investimento di lungo periodo, i giovani italiani continueranno ad andare via. E l’Italia, nonostante le sue vivaci capacità di intraprendenza, la sua cultura creativa, la sua intelligenza di progetto, non potrà non declinare. Una decrescita profondamente infelice.

Exit Only” è il titolo, esemplare, d’un libro di Giulia Pastorella, giovane manager molto milanese e molto internazionale (laurea a Oxford, specializzazioni a Sciences Po a Parigi e alla London School of Economics), pubblicato da Laterza e scritto per documentare “cosa sbaglia l’Italia sui cervelli in fuga”: avari riconoscimenti al merito, pochi investimenti in ricerca e formazione di alto livello, bassa qualità della Pubblica Amministrazione, stipendi poco correlati alle competenze, imprese restie a far fare carriera ai giovani più intraprendenti e dotati. L’Italia, purtroppo, non è un paese adatto a dare risposte alle speranze di futuro delle nuove generazioni. Che “votano con i piedi” e cioè vanno via.

Il fenomeno è generale, investe molti altri paesi europei. Ma, qui da noi, è aggravato dal fatto che emigrano soprattutto i laureati con maggiori capacità e ambizioni e al loro posto non arrivano giovani da altri paesi del mondo in numero uguale. L’Italia, insomma, perde prezioso capitale umano dopo avere investito parecchio per formarlo.
Il guaio è che il discorso pubblico, anche in questi tempi difficili di preparazione della legge di Bilancio e dunque di scelte per il futuro, parla poco di giovani e lavoro e molto di più, invece, di “quota 100” e cioè di pensioni e di persone che vogliono abbandonare l’impiego prima dei limiti indicati dalla legge Fornero, una riforma essenziale varata nel 2011 e attenta sia alla tenuta dei conti pubblici sia all’equità generazionale.
Partiti di maggioranza (la Lega, innanzitutto) e sindacati (la Cgil, in prima fila) spingono perché si vada in pensione anzitempo. E altri, guardando ai giovani, preferiscono insistere sull’assistenzialismo (il reddito di cittadinanza) trascurando invece di impegnarsi sulle politiche attive del lavoro, che garantiscano maggiori e migliori opportunità professionale, per ragazze e ragazzi in cerca di buona occupazione.
Un clima pesante. Che favorisce l’emigrazione dei “cervelli”, via d’uscita preferenziale dalla “crisi di futuro”. “Exit Only”, appunto. Per una “generazione tradita” (efficace titolo de “La Stampa”, 28 ottobre, per un dossier sui nostri giovani).

Ricordiamo i dati, dunque. “Nel 2019 sono 70mila i giovani con meno di 40 anni che hanno lasciato il Paese. Negli ultimi dieci anni quasi mezzo milione di ragazze e ragazzi se ne sono andati”, ha calcolato il ministro dell’Economia Daniele Franco, durante una cerimonia alla Guardia di Finanza, la settimana scorsa, aggiungendo che “i giovani emigrano perché cresciamo poco e tutto ciò succede anche perché non li valorizziamo, non riusciamo a usare pienamente le loro energie, i loro talenti. E tutto ciò si accentua nelle regioni meridionali”.
Ancora dati su cui riflettere. Sempre Giulia Pastorella, nel libro di cui abbiamo parlato, ricorda come l’Italia, nel decennio 2008-2018 sia seconda in Europa per l’aumento della differenza tra laureati residenti all’estero e in patria. Il che vuol dire che il ritmo della “fuga dei cervelli” è maggiore di quello della “produzione dei cervelli”. Che, peraltro, sono sempre troppo pochi: in Italia solo il 17% ha una laurea, contro il 30% della media Ue.
Una situazione che adesso potrebbe essere radicalmente modificata, anche usando bene le risorse per la formazione di qualità, l’innovazione e la sostenibilità messi a disposizione con il Recovery Plan Next Generation Ue, ben tradotto nel Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) del governo Draghi.

Ha dunque ragione chi insiste sulla necessità di smetterla con il dibattito sul pensionamento anticipato e di ragionare, invece, sulle politiche attive del lavoro, sulla formazione, sulle scelte di welfare e di nuove dimensioni previdenziali che seguano gli andamenti di un mercato in rapida trasformazione. Sulla riscrittura di un patto generazionale che cerchi di ricomporre il divario tra i ceti sociali più protetti e sindacalmente organizzati (gli attuali detentori di un posto stabile, in maggioranza uomini, di età superiore ai 50 anni e radicati nel pubblico impiego o nelle grandi aziende) e i ceti più deboli, giovani e donne soprattutto. Sapendo bene che bisognerà anche cominciare ad affrontare il nodo della copertura previdenziale delle nuove generazioni: quando andranno in pensione e con che redditi? E come provare a fare funzionare meccanismi di previdenza integrativa?
Sostiene Antonio Misiani, responsabile economico del Pd: “Le priorità sono i giovani: molti di loro rischiano trattamenti pensionistici da fame. Per evitarlo, è necessario spingere l’adesione ai fondi pensione e introdurre un minimo vitale. Va ampliata la libertà di scelta dei lavoratori sull’età di pensionamento, con un ricalcolo attuariale: chi va prima, prende meno” (Corriere della Sera, 1 novembre). Una discussione seria, che metta al tavolo governo, sindacati e imprese. Tutto il contrario della propaganda su “quota 100”.
Il dibattito va appunto articolato su questi temi, sullo sfondo della presa d’atto che siamo un paese in crisi di natalità, destinato a invecchiare (a meno che non si facciano scelte lungimiranti a favore della famiglia) e ad avere un rapporto sempre più squilibrato tra giovani e anziani, persone in età da lavoro e pensionati.
Altrimenti, in assenza di scelte di riforma e investimento di lungo periodo, i giovani italiani continueranno ad andare via. E l’Italia, nonostante le sue vivaci capacità di intraprendenza, la sua cultura creativa, la sua intelligenza di progetto, non potrà non declinare. Una decrescita profondamente infelice.

Fondazione Pirelli sulle pagine del New York Times

La Fondazione Pirelli “sbarca” nelle edicole di New York. Nell’articolo “Museums showcase Italy’s stunning cars”, con un’anticipazione online e ora in versione cartacea, il New York Times ha infatti dedicato un approfondimento alla nostra Fondazione. Nel pezzo, firmato dall’esperto di automotive Stephen Williams, che ha avuto modo di visitare la Fondazione lo scorso settembre, il giornalista mette in evidenza la ricchezza del patrimonio storico-artistico del Gruppo Pirelli. E, a proposito dell’Archivio Storico dell’azienda, ne sottolinea la valorizzazione in ottica divulgativa, osservando come i documenti “possano essere consultati da studenti e ricercatori”.

Williams osserva inoltre che, grazie alle sue mostre e ai suoi allestimenti con “bozzetti, film e una collezione di manifesti pubblicitari ultrasofisticati”, la Fondazione Pirelli ha un ruolo attivo all’interno dell’azienda “nel diffondere l’arte e la cultura tra i suoi dipendenti”.

La trasferta italiana dell’inviato del NY Times è proseguita con una visita al Museo storico dell’Alfa Romeo e al MAUTO, il Museo Nazionale dell’Automobile di Torino.

Il racconto del grand tour a Nord della nostra Penisola celebra così il Made in Italy e la storia della mobilità  sulle pagine del quotidiano statunitense più conosciuto, e più letto, al mondo

Leggi l’articolo in pdf

La Fondazione Pirelli “sbarca” nelle edicole di New York. Nell’articolo “Museums showcase Italy’s stunning cars”, con un’anticipazione online e ora in versione cartacea, il New York Times ha infatti dedicato un approfondimento alla nostra Fondazione. Nel pezzo, firmato dall’esperto di automotive Stephen Williams, che ha avuto modo di visitare la Fondazione lo scorso settembre, il giornalista mette in evidenza la ricchezza del patrimonio storico-artistico del Gruppo Pirelli. E, a proposito dell’Archivio Storico dell’azienda, ne sottolinea la valorizzazione in ottica divulgativa, osservando come i documenti “possano essere consultati da studenti e ricercatori”.

Williams osserva inoltre che, grazie alle sue mostre e ai suoi allestimenti con “bozzetti, film e una collezione di manifesti pubblicitari ultrasofisticati”, la Fondazione Pirelli ha un ruolo attivo all’interno dell’azienda “nel diffondere l’arte e la cultura tra i suoi dipendenti”.

La trasferta italiana dell’inviato del NY Times è proseguita con una visita al Museo storico dell’Alfa Romeo e al MAUTO, il Museo Nazionale dell’Automobile di Torino.

Il racconto del grand tour a Nord della nostra Penisola celebra così il Made in Italy e la storia della mobilità  sulle pagine del quotidiano statunitense più conosciuto, e più letto, al mondo

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Sguardi sul Grattacielo. Grandi fotografi per il “Pirellone”

Si sono concluse le visite guidate alla mostra “Storie del Grattacielo. I 60 anni del Pirellone tra cultura industriale e attività istituzionali di Regione Lombardia” per l’edizione 2021 di Archivi Aperti di Rete Fotografia. La fotografia è stato il tema conduttore dell’iniziativa, che ha visto il coinvolgimento anche di bambini e ragazzi. Aldo Ballo, Arno Hammacher, Paolo Monti,  Dino Sala sono alcuni dei nomi dei grandi fotografi che hanno documentato il Grattacielo Pirelli e potenziato quell’immaginario di slancio verso il futuro che l’architettura dell’edificio progettato da Gio Ponti ha da sempre ispirato. La sua forma finita ed essenziale è stata anche la quinta di grandi produzioni cinematografiche e lo sfondo di numerosi reportage fotografici, come quello  di Ugo Mulas per il catalogo “La Moda e il grattacielo”. Tra le fotografie in mostra anche l’iconica immagine di un immigrato davanti all’edificio, scattata da Uliano Lucas. Lo stesso fotografo neracconta la nascita all’interno di una delle videoinstallazioni presenti nel percorso espositivo.

Una delle attività proposte è stata dedicata ai bambini e ai ragazzi che sono stati guidati alla scoperta del Grattacielo accompagnati da un “diario di bordo” arricchito in ogni tappa da illustrazioni, citazioni e collage per documentare il passato, il presente e il futuro di questo straordinario edificio testimone di oltre sessant’anni di storia milanese.

Si sono concluse le visite guidate alla mostra “Storie del Grattacielo. I 60 anni del Pirellone tra cultura industriale e attività istituzionali di Regione Lombardia” per l’edizione 2021 di Archivi Aperti di Rete Fotografia. La fotografia è stato il tema conduttore dell’iniziativa, che ha visto il coinvolgimento anche di bambini e ragazzi. Aldo Ballo, Arno Hammacher, Paolo Monti,  Dino Sala sono alcuni dei nomi dei grandi fotografi che hanno documentato il Grattacielo Pirelli e potenziato quell’immaginario di slancio verso il futuro che l’architettura dell’edificio progettato da Gio Ponti ha da sempre ispirato. La sua forma finita ed essenziale è stata anche la quinta di grandi produzioni cinematografiche e lo sfondo di numerosi reportage fotografici, come quello  di Ugo Mulas per il catalogo “La Moda e il grattacielo”. Tra le fotografie in mostra anche l’iconica immagine di un immigrato davanti all’edificio, scattata da Uliano Lucas. Lo stesso fotografo neracconta la nascita all’interno di una delle videoinstallazioni presenti nel percorso espositivo.

Una delle attività proposte è stata dedicata ai bambini e ai ragazzi che sono stati guidati alla scoperta del Grattacielo accompagnati da un “diario di bordo” arricchito in ogni tappa da illustrazioni, citazioni e collage per documentare il passato, il presente e il futuro di questo straordinario edificio testimone di oltre sessant’anni di storia milanese.

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A Tour of Italy, and a Century of Stunning Cars

Etica sociale e sistema tecnico

In un articolo appena pubblicato, la sintesi delle relazioni tra le due parti di un binomio complesso e importante

 

Etica sociale unita all’etica d’impresa. Buona cultura d’impresa, in altre parole. Un traguardo complesso da raggiungere. E che, a ben vedere, si sposta sempre in avanti, spinto dalla realtà dei fatti, dall’accadere delle cose. E’ partendo anche da queste condizioni che ragiona Claudio A. Testi – imprenditore e filosofo – nel suo “L’etica sociale di fronte al sistema tecnico: la sfida e le azioni” contributo al numero di ottobre di Oikonomia.

Il tema specifico che Testi si dà il compito di affrontare è tra i più complessi del momento: porre l’etica sociale di fronte al “sistema tecnico” e, per essere più precisi, al Sistema Tecnico-Economico (STE) che lo stesso definisce come “un sistema composto essenzialmente da tre elementi: A) la produzione-lavoro, B) i consumi-bisogni,

  1. C) l’istruzione-ricerca scientifica”. Che equivale a dire l’insieme complesso, variegato e mutevole di quell’apparato umano e tecnico che dà forma alla società attuale. Qualcosa di davvero estremamente complesso, visto che ogni suo “elemento influenza gli altri”. Ed è, appunto, di fronte a questa complessità che Testi pone l’etica sociale che, a sua volta, viene vista come qualsiasi altra “etica” e cioè ciò che ha come obiettivo non “sapere cosa è buono e giusto”, ma quello di indicare come “diventare buoni e giusti attraverso il concreto l’agire”. Tutto, quindi viene rapportato alla condizione dell’oggi e quindi all’obbligo di dover fare i conti con gli effetti della pandemia di Covid-19.

Testi, poi, analizza il binomio etica sociale-STE sotto diversi profili – economico, sociale, culturale -, per arrivare a fissare alcune conclusioni. Scrive quindi l’autore: “Affinché l’etica sociale produca oggi effetti positivi, non basta comprendere il problema posto dal Sistema Tecnico-Economico e prendere coscienza che per ‘risolverlo’ è necessario agire concretamente. Serve anche essere consapevoli che per cambiare l’orizzonte tecnocratico in cui siamo immersi servirà tempo e paziente determinazione. Il compito è certo immane, per quanto ineludibile, ma non bisogna farsi prendere dall’angoscia e dallo scoramento. Siamo limitati e non possiamo cambiare tutto subito: possiamo però impiegare il tempo che ci è dato per una giusta e buona causa”.

Quanto scritto da Claudio Testi è certamente una sintesi di un tema che non si esaurisce in un semplice contributo di rivista, ma che necessita di approfondimenti e aggiornamenti continui. L’intervento di Testi, tuttavia, tra i meriti che ha è quello d’esser chiaro e sintetico. E quindi di fornire a chi legge le basi fondamentali per iniziare un percorso di crescita culturale importante.

L’etica sociale di fronte al sistema tecnico: la sfida e le azioni

Claudio A. Testi

OIKONOMIA, ANNO XX – N. 3 OTTOBRE 2021

In un articolo appena pubblicato, la sintesi delle relazioni tra le due parti di un binomio complesso e importante

 

Etica sociale unita all’etica d’impresa. Buona cultura d’impresa, in altre parole. Un traguardo complesso da raggiungere. E che, a ben vedere, si sposta sempre in avanti, spinto dalla realtà dei fatti, dall’accadere delle cose. E’ partendo anche da queste condizioni che ragiona Claudio A. Testi – imprenditore e filosofo – nel suo “L’etica sociale di fronte al sistema tecnico: la sfida e le azioni” contributo al numero di ottobre di Oikonomia.

Il tema specifico che Testi si dà il compito di affrontare è tra i più complessi del momento: porre l’etica sociale di fronte al “sistema tecnico” e, per essere più precisi, al Sistema Tecnico-Economico (STE) che lo stesso definisce come “un sistema composto essenzialmente da tre elementi: A) la produzione-lavoro, B) i consumi-bisogni,

  1. C) l’istruzione-ricerca scientifica”. Che equivale a dire l’insieme complesso, variegato e mutevole di quell’apparato umano e tecnico che dà forma alla società attuale. Qualcosa di davvero estremamente complesso, visto che ogni suo “elemento influenza gli altri”. Ed è, appunto, di fronte a questa complessità che Testi pone l’etica sociale che, a sua volta, viene vista come qualsiasi altra “etica” e cioè ciò che ha come obiettivo non “sapere cosa è buono e giusto”, ma quello di indicare come “diventare buoni e giusti attraverso il concreto l’agire”. Tutto, quindi viene rapportato alla condizione dell’oggi e quindi all’obbligo di dover fare i conti con gli effetti della pandemia di Covid-19.

Testi, poi, analizza il binomio etica sociale-STE sotto diversi profili – economico, sociale, culturale -, per arrivare a fissare alcune conclusioni. Scrive quindi l’autore: “Affinché l’etica sociale produca oggi effetti positivi, non basta comprendere il problema posto dal Sistema Tecnico-Economico e prendere coscienza che per ‘risolverlo’ è necessario agire concretamente. Serve anche essere consapevoli che per cambiare l’orizzonte tecnocratico in cui siamo immersi servirà tempo e paziente determinazione. Il compito è certo immane, per quanto ineludibile, ma non bisogna farsi prendere dall’angoscia e dallo scoramento. Siamo limitati e non possiamo cambiare tutto subito: possiamo però impiegare il tempo che ci è dato per una giusta e buona causa”.

Quanto scritto da Claudio Testi è certamente una sintesi di un tema che non si esaurisce in un semplice contributo di rivista, ma che necessita di approfondimenti e aggiornamenti continui. L’intervento di Testi, tuttavia, tra i meriti che ha è quello d’esser chiaro e sintetico. E quindi di fornire a chi legge le basi fondamentali per iniziare un percorso di crescita culturale importante.

L’etica sociale di fronte al sistema tecnico: la sfida e le azioni

Claudio A. Testi

OIKONOMIA, ANNO XX – N. 3 OTTOBRE 2021

Capire la diseguaglianza per capire come crescere

L’ultimo libro di Pierluigi Ciocca va al centro della questione povertà/ricchezza. E delinea un possibile percorso di sviluppo

 

Pochi ricchi, molti poveri. Diseguaglianze. Una questione che non è solo etica ma anche economica, perché mette in forse le basi stesse dello sviluppo e della crescita. Questione che oggi torna in primo piano. E non solo nelle analisi degli economisti, ma anche nelle cronache giornalistiche. E che deve anche essere tenuta in gran conto dalle imprese così come dai governi.

Attualissimo eppure antichissimo, il nodo delle diseguaglianze – e quindi della ricchezza e della povertà -, deve essere sciolto ma è difficilissimo scioglierlo. Per farlo, o almeno per provarci, serve prima capire bene come si è formato. Ed a questo serve leggere “Ricchi e poveri. Storia della diseguaglianza” di Pierluigi Ciocca: un vero racconto della continua contrapposizione di questi due stati dell’uomo scritto con le competenze di un economista e la curiosità di un antropologo, che va dal Paleolitico ai Sumeri, dagli Etruschi all’Antica Roma, fino all’Età moderna e contemporanea. E che non è, occorre sottolinearlo, un libretto di storia scritto da un economista, ma qualcosa di molto denso, importante, utile a molti.

Ciocca – con un linguaggio sempre piano e semplice ma non per questo privo di esattezza – delinea prima i concetti di povertà e ricchezza, poi approfondisce la constatazione che povertà/ricchezza sia la “diade che ha segnato e segna la storia dell’umanità”, per passare quindi ad approfondire alcuni passaggi della storia dell’umanità visti proprio dal lato del grado di povertà e ricchezza che li ha connotati. Ciocca, quindi, approfondisce la situazione dell’Europa preindustriale, poi quella che gradualmente ha condotto dal Medioevo al secolo dei Lumi, alla Rivoluzione industriale e quindi all’Ottocento e ai giorni nostri. L’autore, quindi, esamina le “ragioni dell’equità” e la possibilità di agire concretamente per ottenerla.

E’ bello da leggere il libro di Ciocca. Ed è bello da rileggere e da tenere come una specie di guida per comprendere meglio uno dei problemi (forse il problema) che più di altri può condizionare il futuro dell’attuale assetto economico e sociale.

Ricchi e poveri. Storia della diseguaglianza

Pierluigi Ciocca

Einaudi, 2021

L’ultimo libro di Pierluigi Ciocca va al centro della questione povertà/ricchezza. E delinea un possibile percorso di sviluppo

 

Pochi ricchi, molti poveri. Diseguaglianze. Una questione che non è solo etica ma anche economica, perché mette in forse le basi stesse dello sviluppo e della crescita. Questione che oggi torna in primo piano. E non solo nelle analisi degli economisti, ma anche nelle cronache giornalistiche. E che deve anche essere tenuta in gran conto dalle imprese così come dai governi.

Attualissimo eppure antichissimo, il nodo delle diseguaglianze – e quindi della ricchezza e della povertà -, deve essere sciolto ma è difficilissimo scioglierlo. Per farlo, o almeno per provarci, serve prima capire bene come si è formato. Ed a questo serve leggere “Ricchi e poveri. Storia della diseguaglianza” di Pierluigi Ciocca: un vero racconto della continua contrapposizione di questi due stati dell’uomo scritto con le competenze di un economista e la curiosità di un antropologo, che va dal Paleolitico ai Sumeri, dagli Etruschi all’Antica Roma, fino all’Età moderna e contemporanea. E che non è, occorre sottolinearlo, un libretto di storia scritto da un economista, ma qualcosa di molto denso, importante, utile a molti.

Ciocca – con un linguaggio sempre piano e semplice ma non per questo privo di esattezza – delinea prima i concetti di povertà e ricchezza, poi approfondisce la constatazione che povertà/ricchezza sia la “diade che ha segnato e segna la storia dell’umanità”, per passare quindi ad approfondire alcuni passaggi della storia dell’umanità visti proprio dal lato del grado di povertà e ricchezza che li ha connotati. Ciocca, quindi, approfondisce la situazione dell’Europa preindustriale, poi quella che gradualmente ha condotto dal Medioevo al secolo dei Lumi, alla Rivoluzione industriale e quindi all’Ottocento e ai giorni nostri. L’autore, quindi, esamina le “ragioni dell’equità” e la possibilità di agire concretamente per ottenerla.

E’ bello da leggere il libro di Ciocca. Ed è bello da rileggere e da tenere come una specie di guida per comprendere meglio uno dei problemi (forse il problema) che più di altri può condizionare il futuro dell’attuale assetto economico e sociale.

Ricchi e poveri. Storia della diseguaglianza

Pierluigi Ciocca

Einaudi, 2021

Al di là dei rischi e delle paure quotidiane ricostruire fiducia su istituzioni e imprese

“Nessuno può tornare indietro e ricominciare da capo, ma chiunque può andare avanti e decidere il finale”. Affidarsi alla saggezza di Karl Barth, teologo svizzero, acuta mente critica del Novecento, aiuta a trovare strade possibili di comportamento in una “società del rischio” (Ulrich Beck) che amplifica la crescente sensazione di incertezza e di fragilità che continua a ferire la nostra condizione umana. Emergenze ambientali, pandemia, cybercrime invasivo, violenze razziali, ma anche tensioni economiche sull’energia e sulle materie prime, sui microchip, sul lavoro e sui prezzi acuiscono la portata dei problemi aperti. E aggravano la nostra sensazione di insicurezza, fanno crescere l’ansia personale e sociale di fronte alle ombre del futuro. Ecco il punto di Barth. Decidere il finale come? Con quali scelte? E come fare vivere il riformismo responsabile, in tempi di crisi radicali e metamorfosi?
Guardiamo, innanzitutto, lo stato delle cose. La globalizzazione estrema ha mostrato da tempo i suoi limiti (“Left Behind” era il titolo di un’efficace copertina di “The Economist” dell’ottobre 2017, già quattro anni fa, per illustrare una documentata inchiesta su persone e luoghi “hurt by globalisation”, colpiti dolorosamente dalle diseguaglianze crescenti e dalle speculazioni della finanza rapace internazionale). E lo sviluppo impetuoso delle nuove tecnologie digitali ha travolto gli assetti tradizionali di produzione, consumo, distribuzione del reddito. Vita civile, ambiente, mercati ne risentono pesantemente. E il disagio sociale crescente turba profondamente anche gli equilibri politici, soprattutto nelle sensibili democrazie liberali.

A che rischi andiamo incontro? Le cronache di questi mesi controversi ci offrono alcune delle tante rappresentazioni. La pandemia da Covid19, che ancora dura, pur ridimensionata dalla diffusione dei vaccini e di terapie finalmente efficaci. Le devastazioni ambientali, determinate dalle scelte inquinanti dell’aria e delle acque. E il proliferare del cybercrime, che rende insicure e fragili tutte le reti di connessione che riguardano l’economia, i trasporti, le comunicazioni, i mille aspetti della vita quotidiana.
Eccola, la “società del rischio”. Con fenomeni aggravati dalla crescente intolleranza per i tanti aspetti dei divari e delle diseguaglianze di genere, generazione, religione, razza, cultura.
A rendere il quadro più cupo concorrono le nuove dimensioni di quella che “The Economist” ha definito la “shortage economy” (ne abbiamo parlato nel blog di due settimane fa), un’economia della scarsità che riguarda le fonti energetiche (con impennata dei prezzi del petrolio e del gas) e una serie di materie prime, ma anche la componentistica essenziale di parte ampia dell’industria e dei servizi (i microchip) e, nel cambiamento radicale degli assetti produttivi, anche la mano d’opera qualificata e i mezzi di trasporto marittimo (il sovraffollamento dei porti del Pacifico, con le gigantesche navi porta-container in rada a Los Angeles, ferme perché non riescono a caricare e scaricare, ne è oggi immagine esemplare, dopo quella del luglio scorso del blocco del Canale di Suez).
“Questo eterno presente non ci fa pensare al futuro”, nota Giuseppe De Rita (“Corriere della Sera”, 23 ottobre), rilevando criticamente il nostro chiudersi nel piccolo recinto delle paure e degli interessi privati, familisti, egoisticamente localisti e nazionalisti.
Eppure, proprio la crisi da pandemia e recessione ci mostra come sia necessario uscire dall’angustia degli egoismi particolari e partecipare alla scommessa ragionevole su un migliore futuro.

La collaborazione internazionale tra scienziati, centri di ricerca pubblici e privati, imprese e, naturalmente, governi ha dato all’umanità, in tempi molto brevi, i vaccini, mettendo ben a frutto una lunga stagione di ricerche di base su biologia, genomica, farmaceutica. Ed è chiaro come su questa strada sia necessario continuare ad andare: la salute è un bene pubblico fondamentale, le sinergie tra istituzioni e imprese può fare moltissimo.
Gli Stati, i governi e le autorità monetarie internazionali, che hanno messo da canto l’ortodossia ideologica dell’austerità e promosso spesa pubblica contro la caduta dei redditi e per investimenti di sviluppo, hanno aperto una nuova stagione economica. Il “Recovery Plan” dell’ Ue centrato su green economy e digital economy, pensando soprattutto alla Next Generation, è una delle scelte migliori in questa direzione. Ed è un’Europa generosa, lungimirante e impegnata sui progetti di sviluppo sostenibile cui continuare a guardare con fiducia. Il Governo Draghi, in Italia, ne è protagonista di grande rilievo.
Eccola, la strada da seguire. Un riformismo lungimirante e sensibile. Una ricostruzione di fiducia grazie a una capacità di governo competente e autorevole, attento agli interessi generali.
Decidere il finale, dunque. Alla Barth. Con consapevolezza della fragilità, ma senza cedere alle paure, alle emozioni irrazionali, al pensiero magico o agli egoismi di corporazione e di comunità chiuse, escludenti, gelose d’un piccolo o grande privilegio. E facendosi carico, con senso di responsabilità, dei progetti e dei costi di un futuro migliore. “I care” era un’espressione cara ad alcune delle personalità che segnano ancora positivamente il nostro tempo. Don Milani, per esempio. O l’ex presidente degli Usa Obama. “I care” e cioè ho a cuore, mi faccio carico di un problema, mi prendo cura delle persone con cui entro in rapporto, per “simpatia” (sun e pathos, affrontare insieme una tensione, un dolore) e solidarietà. Per spirito di comunità. Una buona indicazione.

“Nessuno può tornare indietro e ricominciare da capo, ma chiunque può andare avanti e decidere il finale”. Affidarsi alla saggezza di Karl Barth, teologo svizzero, acuta mente critica del Novecento, aiuta a trovare strade possibili di comportamento in una “società del rischio” (Ulrich Beck) che amplifica la crescente sensazione di incertezza e di fragilità che continua a ferire la nostra condizione umana. Emergenze ambientali, pandemia, cybercrime invasivo, violenze razziali, ma anche tensioni economiche sull’energia e sulle materie prime, sui microchip, sul lavoro e sui prezzi acuiscono la portata dei problemi aperti. E aggravano la nostra sensazione di insicurezza, fanno crescere l’ansia personale e sociale di fronte alle ombre del futuro. Ecco il punto di Barth. Decidere il finale come? Con quali scelte? E come fare vivere il riformismo responsabile, in tempi di crisi radicali e metamorfosi?
Guardiamo, innanzitutto, lo stato delle cose. La globalizzazione estrema ha mostrato da tempo i suoi limiti (“Left Behind” era il titolo di un’efficace copertina di “The Economist” dell’ottobre 2017, già quattro anni fa, per illustrare una documentata inchiesta su persone e luoghi “hurt by globalisation”, colpiti dolorosamente dalle diseguaglianze crescenti e dalle speculazioni della finanza rapace internazionale). E lo sviluppo impetuoso delle nuove tecnologie digitali ha travolto gli assetti tradizionali di produzione, consumo, distribuzione del reddito. Vita civile, ambiente, mercati ne risentono pesantemente. E il disagio sociale crescente turba profondamente anche gli equilibri politici, soprattutto nelle sensibili democrazie liberali.

A che rischi andiamo incontro? Le cronache di questi mesi controversi ci offrono alcune delle tante rappresentazioni. La pandemia da Covid19, che ancora dura, pur ridimensionata dalla diffusione dei vaccini e di terapie finalmente efficaci. Le devastazioni ambientali, determinate dalle scelte inquinanti dell’aria e delle acque. E il proliferare del cybercrime, che rende insicure e fragili tutte le reti di connessione che riguardano l’economia, i trasporti, le comunicazioni, i mille aspetti della vita quotidiana.
Eccola, la “società del rischio”. Con fenomeni aggravati dalla crescente intolleranza per i tanti aspetti dei divari e delle diseguaglianze di genere, generazione, religione, razza, cultura.
A rendere il quadro più cupo concorrono le nuove dimensioni di quella che “The Economist” ha definito la “shortage economy” (ne abbiamo parlato nel blog di due settimane fa), un’economia della scarsità che riguarda le fonti energetiche (con impennata dei prezzi del petrolio e del gas) e una serie di materie prime, ma anche la componentistica essenziale di parte ampia dell’industria e dei servizi (i microchip) e, nel cambiamento radicale degli assetti produttivi, anche la mano d’opera qualificata e i mezzi di trasporto marittimo (il sovraffollamento dei porti del Pacifico, con le gigantesche navi porta-container in rada a Los Angeles, ferme perché non riescono a caricare e scaricare, ne è oggi immagine esemplare, dopo quella del luglio scorso del blocco del Canale di Suez).
“Questo eterno presente non ci fa pensare al futuro”, nota Giuseppe De Rita (“Corriere della Sera”, 23 ottobre), rilevando criticamente il nostro chiudersi nel piccolo recinto delle paure e degli interessi privati, familisti, egoisticamente localisti e nazionalisti.
Eppure, proprio la crisi da pandemia e recessione ci mostra come sia necessario uscire dall’angustia degli egoismi particolari e partecipare alla scommessa ragionevole su un migliore futuro.

La collaborazione internazionale tra scienziati, centri di ricerca pubblici e privati, imprese e, naturalmente, governi ha dato all’umanità, in tempi molto brevi, i vaccini, mettendo ben a frutto una lunga stagione di ricerche di base su biologia, genomica, farmaceutica. Ed è chiaro come su questa strada sia necessario continuare ad andare: la salute è un bene pubblico fondamentale, le sinergie tra istituzioni e imprese può fare moltissimo.
Gli Stati, i governi e le autorità monetarie internazionali, che hanno messo da canto l’ortodossia ideologica dell’austerità e promosso spesa pubblica contro la caduta dei redditi e per investimenti di sviluppo, hanno aperto una nuova stagione economica. Il “Recovery Plan” dell’ Ue centrato su green economy e digital economy, pensando soprattutto alla Next Generation, è una delle scelte migliori in questa direzione. Ed è un’Europa generosa, lungimirante e impegnata sui progetti di sviluppo sostenibile cui continuare a guardare con fiducia. Il Governo Draghi, in Italia, ne è protagonista di grande rilievo.
Eccola, la strada da seguire. Un riformismo lungimirante e sensibile. Una ricostruzione di fiducia grazie a una capacità di governo competente e autorevole, attento agli interessi generali.
Decidere il finale, dunque. Alla Barth. Con consapevolezza della fragilità, ma senza cedere alle paure, alle emozioni irrazionali, al pensiero magico o agli egoismi di corporazione e di comunità chiuse, escludenti, gelose d’un piccolo o grande privilegio. E facendosi carico, con senso di responsabilità, dei progetti e dei costi di un futuro migliore. “I care” era un’espressione cara ad alcune delle personalità che segnano ancora positivamente il nostro tempo. Don Milani, per esempio. O l’ex presidente degli Usa Obama. “I care” e cioè ho a cuore, mi faccio carico di un problema, mi prendo cura delle persone con cui entro in rapporto, per “simpatia” (sun e pathos, affrontare insieme una tensione, un dolore) e solidarietà. Per spirito di comunità. Una buona indicazione.

Una nuova collaborazione con l’Accademia di Brera per il restauro del nostro fondo fotografico

Una delle mission più importanti della nostra Fondazione, fin dalla sua costituzione, è quella di lavorare alla tutela e alla conservazione del patrimonio aziendale, anche attraverso la collaborazione con realtà accademiche e istituzioni culturali. Proprio in questo contesto si inserisce la collaborazione con l’Accademia di Brera, istituzione con la quale la Fondazione ha collaborato già in passato, per la salvaguardia del nostro patrimonio storico fotografico, costituito da centinaia di migliaia di scatti (negativi su lastra e su pellicola, stampe, diapositive), realizzati per pubblicizzare i prodotti, illustrare le riviste aziendali e per documentare e comunicare l’attività dell’impresa tra gli anni Dieci e gli anni Novanta del Novecento. Si è infatti da poco conclusa una settimana di intenso lavoro per gli studenti del corso in restauro della fotografia dell’Accademia: durante un cantiere scuola di cinque giorni gli studenti, guidati dalla docente Alice Laudisa, hanno potuto esercitarsi nella pulitura e nel restauro di circa mille negativi provenienti dall’Archivio.

L’attività si è concentrata sul fondo dei “trasparenti”: circa 18.000 negativi e fotocolor su pellicola e lastra di vetro prodotti soprattutto tra gli anni Cinquanta e Settanta e conservati all’interno di buste in pergamino inserite in piccole scatole di cartone. Il fondo presentava specifiche criticità legate alla conservazione e all’intellegibilità delle immagini. Da un lato i materiali di archiviazione originali, non idonei alla conservazione definitiva, dall’altro la difficoltà di lettura delle immagini su supporti fragili e delicati come le lastre, di complessa consultazione. Il lavoro degli studenti si è così articolato nell’attività di pulizia e ricondizionamento dei materiali e nella ricomposizone delle lastre danneggiate tramite montaggio in passepartout. Per ogni trasparente è stata inoltre compilata una scheda descrittiva dell’intervento ed eseguita una fotografia su piano luminoso, così da permetterne l’intelleggibilità e agevolare le attività di catalogazione e digitalizzazione che seguiranno questa prima fase di messa in sicurezza. Gli studenti hanno potuto mettere in pratica le tecniche di restauro apprese durante il corso ed esercitarsi su materiali originali con diverse caratteristiche, grazie alla varietà e ricchezza dell’archivio conservato dalla nostra Fondazione.

Una delle mission più importanti della nostra Fondazione, fin dalla sua costituzione, è quella di lavorare alla tutela e alla conservazione del patrimonio aziendale, anche attraverso la collaborazione con realtà accademiche e istituzioni culturali. Proprio in questo contesto si inserisce la collaborazione con l’Accademia di Brera, istituzione con la quale la Fondazione ha collaborato già in passato, per la salvaguardia del nostro patrimonio storico fotografico, costituito da centinaia di migliaia di scatti (negativi su lastra e su pellicola, stampe, diapositive), realizzati per pubblicizzare i prodotti, illustrare le riviste aziendali e per documentare e comunicare l’attività dell’impresa tra gli anni Dieci e gli anni Novanta del Novecento. Si è infatti da poco conclusa una settimana di intenso lavoro per gli studenti del corso in restauro della fotografia dell’Accademia: durante un cantiere scuola di cinque giorni gli studenti, guidati dalla docente Alice Laudisa, hanno potuto esercitarsi nella pulitura e nel restauro di circa mille negativi provenienti dall’Archivio.

L’attività si è concentrata sul fondo dei “trasparenti”: circa 18.000 negativi e fotocolor su pellicola e lastra di vetro prodotti soprattutto tra gli anni Cinquanta e Settanta e conservati all’interno di buste in pergamino inserite in piccole scatole di cartone. Il fondo presentava specifiche criticità legate alla conservazione e all’intellegibilità delle immagini. Da un lato i materiali di archiviazione originali, non idonei alla conservazione definitiva, dall’altro la difficoltà di lettura delle immagini su supporti fragili e delicati come le lastre, di complessa consultazione. Il lavoro degli studenti si è così articolato nell’attività di pulizia e ricondizionamento dei materiali e nella ricomposizone delle lastre danneggiate tramite montaggio in passepartout. Per ogni trasparente è stata inoltre compilata una scheda descrittiva dell’intervento ed eseguita una fotografia su piano luminoso, così da permetterne l’intelleggibilità e agevolare le attività di catalogazione e digitalizzazione che seguiranno questa prima fase di messa in sicurezza. Gli studenti hanno potuto mettere in pratica le tecniche di restauro apprese durante il corso ed esercitarsi su materiali originali con diverse caratteristiche, grazie alla varietà e ricchezza dell’archivio conservato dalla nostra Fondazione.

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