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Il successo del Salone del Libro e il nuovo ruolo di librerie e biblioteche

“Leggere produce indipendenza”, c’è scritto sulla trave di uno dei padiglioni del Salone del Libro di Torino, affollato quasi come nei tempi migliori da una moltitudine allegra di lettori, ragazze e ragazzi soprattutto, in fila paziente davanti alle sale colorate degli incontri con autrici e autori o intenti a sfogliare un volume dopo l’altro negli stand dei 715 espositori, tutti contenti di quel pubblico curioso, allegro, ricco di voglia di sapere e di vivere.

In tempi così difficili e controversi, densi di fake news e manipolazioni dell’informazione con finalità tutt’altro che culturali e democratiche e di nuove sfide poste da un fastidioso rumore di fondo di notizie gridate e “bruciate” dal sovraffollamento, la responsabilità dell’intelligenza è impegnarsi a cercare di capire, ascoltare meglio, distinguere, scegliere con acutezza critica. Leggere, dunque. Per il “piacere del testo”. Per avere un ruolo consapevole nella stagione della cosiddetta “economia della conoscenza” e della straordinaria diffusione della cultura digitale e dell’Intelligenza Artificiale (per scrivere e applicare algoritmi serve conoscenza profonda del loro senso e delle loro conseguenze, oltre che competenza tecnica: un lavoro da ingegneri-filosofi, con sensibilità morale). Leggere, per costruirsi un’opinione superando il fossato di una bestemmia, un urlo d’odio, un insulto frutto di razzismo e pregiudizio.

Eccolo, dunque, il ruolo dei libri. Quelli che sfidano il tempo, le mode passeggere, le polemiche miserelle sui social media e nei vocianti programmi Tv.

“Non tutti i nostri libri periranno”, si augura l’imperatore Adriano nelle “Memorie” ricostruite e raccontate da Marguerite Yourcenar. Proprio quell’Adriano che ragionava così: “Fondare biblioteche è un po’ come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro l’inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”.

La nostra è una stagione carica di complessità, in cui un inquietante “inverno dello spirito” si manifesta in molti modi, inquinando con violenze, sovranismi e razzismi le conquiste di democrazia, libertà critica e responsabile e benessere condiviso. Ma in cui, contemporaneamente, emergono con nettezza segnali forti di un’opinione publica che, soprattutto nelle nuove generazioni, parla di qualità della vita, sostenibilità ambientale e sociale, economia circolare, solidarietà e inclusione. Il cardine della svolta sta anche in un buon libro. In una crescente abitudine a leggere e dunque a pensare. Tornano in mente le parole di Umberto Eco, sul libro oggetto indispensabile e perfetto, come un cucchiaio o una bicicletta, di cui non potremo mai più fare a meno.

Gli italiani lo stanno capendo davvero? Ne stanno finalmente imparando il valore? Proprio al Salone del Libro sono stati messi in evidenza alcuni dati interessanti. Le vendite di libri (di “varia” e cioè di letteratura e saggistica) nei primi nove mesi del ‘21 sono aumentate, per fatturato, del 29% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e del 16% rispetto al 2019 (secondo una ricerca dell’Associazione Italiana Editori, in collaborazione con Nielsen). In aumento anche il numero di copie vendute, del 31% sul ‘20 e del 18% sul ‘19. La pandemia da Covid19, da questo punto di vista, ha avuto un effetto positivo: chiusi in casa o comunque con forti limitazioni nell’uso del tempo libero (niente teatri, concerti, cinema, sport), ci siamo affidati ai libri. E anche la scelta di tenere aperte le librerie, come negozi di consumi essenziali, ha avuto un impatto benefico sul pubblico.

Diminuiscono, però, gli italiani che leggono, oggi al 56% rispetto al 65% del ‘19 e al 59% del ‘20. Il che vuol dire che aumenta il numero dei “lettori forti” (quello che leggono almeno dieci libri all’anno) e di chi, comunque, un libro l’ha già preso in mano, apprezzandone il valore.

C’è dunque un contrasto: gli italiani comprano più libri, ma poco meno di uno su due è completamente estraneo al mondo della lettura (erano uno su tre, prima della pandemia). Al Sud e tra le giovani generazioni (nella fascia d’età tra i 15 e i 17 anni) va anche peggio, con un peso negativo crescente tra chi ha un basso titolo di studio.

“Siamo di fronte a un’emergenza nazionale, anche se il mondo del libro è in buona salute”, sintetizza Ricardo Franco Levi, presidente dell’Associazione Editori.

Bisogna dunque insistere sulle politiche per la lettura, sostenere le librerie (soprattutto quelle indipendenti, attivissime durante il lock down e indispensabili per orientare il lettore, con consigli nella scelta di cosa leggere) e lavorare molto anche per il potenziamento delle biblioteche, pubbliche e private.

Il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, proprio al Salone del Libro, ha annunciato l’impegno di ricostruire e rafforzare la rete delle biblioteche scolastiche. E cresce, nel mondo delle imprese, l’interesse per la diffusione delle biblioteche aziendali, finora limitate a pochi casi (hanno successo, come sanno i lettori di questo i blog, le biblioteche Pirelli, sia nell’Head Quarter di Milano Bicocca sia nelle fabbriche di Settimo Torinese e Bollate, inaugurate giusto a metà ottobre di cinque anni fa).

E’ con i giovani, soprattutto, che bisogna parlare, per fare crescere il pubblico anche nel futuro. Ha già funzionato, per esempio, l’App 18, che eroga 500 euro per i consumi culturali dei diciottenni e che molti hanno usato per comprare libri, con occhio attento pure per i fumetti. E hanno peso le iniziative sulla lettura dei professori più sensibili, già fin dalle prime classi delle scuole elementari. La forte affluenza di studenti al Salone ne è conferma.

Stimoli arrivano anche dal mondo dei premi letterari. L’iniziativa del “Campiello Junior” appena lanciata dal Premio Campiello e dalla Fondazione Pirelli per scrittori di libri di letteratura e poesia per la generazione dai 10 ai 14 anni, va in questa direzione: diffondere “il piacere della lettura” oltre che la consapevolezza del ruolo formativo dei buoni libri per la propria crescita personale e, poi, professionale.

“Avere, da adolescenti, uno scaffale domestico ben fornito di libri dà una marcia in più nella vita: i ragazzi che hanno avuto almeno 80 libri in casa oggi hanno competenze linguistiche, matematiche e tecnologiche superiori alla media”. Lo suggeriva, già tre anni fa, uno studio, pubblicato su Social Science Research, che riguardava 160 mila adulti da 31 nazioni, con dati raccolti dal Programme for the International Assessment of Adult Competencies dell’Ocse”. Una prospettiva che proprio adesso è sempre più di attualità.

“Leggere produce indipendenza”, c’è scritto sulla trave di uno dei padiglioni del Salone del Libro di Torino, affollato quasi come nei tempi migliori da una moltitudine allegra di lettori, ragazze e ragazzi soprattutto, in fila paziente davanti alle sale colorate degli incontri con autrici e autori o intenti a sfogliare un volume dopo l’altro negli stand dei 715 espositori, tutti contenti di quel pubblico curioso, allegro, ricco di voglia di sapere e di vivere.

In tempi così difficili e controversi, densi di fake news e manipolazioni dell’informazione con finalità tutt’altro che culturali e democratiche e di nuove sfide poste da un fastidioso rumore di fondo di notizie gridate e “bruciate” dal sovraffollamento, la responsabilità dell’intelligenza è impegnarsi a cercare di capire, ascoltare meglio, distinguere, scegliere con acutezza critica. Leggere, dunque. Per il “piacere del testo”. Per avere un ruolo consapevole nella stagione della cosiddetta “economia della conoscenza” e della straordinaria diffusione della cultura digitale e dell’Intelligenza Artificiale (per scrivere e applicare algoritmi serve conoscenza profonda del loro senso e delle loro conseguenze, oltre che competenza tecnica: un lavoro da ingegneri-filosofi, con sensibilità morale). Leggere, per costruirsi un’opinione superando il fossato di una bestemmia, un urlo d’odio, un insulto frutto di razzismo e pregiudizio.

Eccolo, dunque, il ruolo dei libri. Quelli che sfidano il tempo, le mode passeggere, le polemiche miserelle sui social media e nei vocianti programmi Tv.

“Non tutti i nostri libri periranno”, si augura l’imperatore Adriano nelle “Memorie” ricostruite e raccontate da Marguerite Yourcenar. Proprio quell’Adriano che ragionava così: “Fondare biblioteche è un po’ come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro l’inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”.

La nostra è una stagione carica di complessità, in cui un inquietante “inverno dello spirito” si manifesta in molti modi, inquinando con violenze, sovranismi e razzismi le conquiste di democrazia, libertà critica e responsabile e benessere condiviso. Ma in cui, contemporaneamente, emergono con nettezza segnali forti di un’opinione publica che, soprattutto nelle nuove generazioni, parla di qualità della vita, sostenibilità ambientale e sociale, economia circolare, solidarietà e inclusione. Il cardine della svolta sta anche in un buon libro. In una crescente abitudine a leggere e dunque a pensare. Tornano in mente le parole di Umberto Eco, sul libro oggetto indispensabile e perfetto, come un cucchiaio o una bicicletta, di cui non potremo mai più fare a meno.

Gli italiani lo stanno capendo davvero? Ne stanno finalmente imparando il valore? Proprio al Salone del Libro sono stati messi in evidenza alcuni dati interessanti. Le vendite di libri (di “varia” e cioè di letteratura e saggistica) nei primi nove mesi del ‘21 sono aumentate, per fatturato, del 29% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente e del 16% rispetto al 2019 (secondo una ricerca dell’Associazione Italiana Editori, in collaborazione con Nielsen). In aumento anche il numero di copie vendute, del 31% sul ‘20 e del 18% sul ‘19. La pandemia da Covid19, da questo punto di vista, ha avuto un effetto positivo: chiusi in casa o comunque con forti limitazioni nell’uso del tempo libero (niente teatri, concerti, cinema, sport), ci siamo affidati ai libri. E anche la scelta di tenere aperte le librerie, come negozi di consumi essenziali, ha avuto un impatto benefico sul pubblico.

Diminuiscono, però, gli italiani che leggono, oggi al 56% rispetto al 65% del ‘19 e al 59% del ‘20. Il che vuol dire che aumenta il numero dei “lettori forti” (quello che leggono almeno dieci libri all’anno) e di chi, comunque, un libro l’ha già preso in mano, apprezzandone il valore.

C’è dunque un contrasto: gli italiani comprano più libri, ma poco meno di uno su due è completamente estraneo al mondo della lettura (erano uno su tre, prima della pandemia). Al Sud e tra le giovani generazioni (nella fascia d’età tra i 15 e i 17 anni) va anche peggio, con un peso negativo crescente tra chi ha un basso titolo di studio.

“Siamo di fronte a un’emergenza nazionale, anche se il mondo del libro è in buona salute”, sintetizza Ricardo Franco Levi, presidente dell’Associazione Editori.

Bisogna dunque insistere sulle politiche per la lettura, sostenere le librerie (soprattutto quelle indipendenti, attivissime durante il lock down e indispensabili per orientare il lettore, con consigli nella scelta di cosa leggere) e lavorare molto anche per il potenziamento delle biblioteche, pubbliche e private.

Il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, proprio al Salone del Libro, ha annunciato l’impegno di ricostruire e rafforzare la rete delle biblioteche scolastiche. E cresce, nel mondo delle imprese, l’interesse per la diffusione delle biblioteche aziendali, finora limitate a pochi casi (hanno successo, come sanno i lettori di questo i blog, le biblioteche Pirelli, sia nell’Head Quarter di Milano Bicocca sia nelle fabbriche di Settimo Torinese e Bollate, inaugurate giusto a metà ottobre di cinque anni fa).

E’ con i giovani, soprattutto, che bisogna parlare, per fare crescere il pubblico anche nel futuro. Ha già funzionato, per esempio, l’App 18, che eroga 500 euro per i consumi culturali dei diciottenni e che molti hanno usato per comprare libri, con occhio attento pure per i fumetti. E hanno peso le iniziative sulla lettura dei professori più sensibili, già fin dalle prime classi delle scuole elementari. La forte affluenza di studenti al Salone ne è conferma.

Stimoli arrivano anche dal mondo dei premi letterari. L’iniziativa del “Campiello Junior” appena lanciata dal Premio Campiello e dalla Fondazione Pirelli per scrittori di libri di letteratura e poesia per la generazione dai 10 ai 14 anni, va in questa direzione: diffondere “il piacere della lettura” oltre che la consapevolezza del ruolo formativo dei buoni libri per la propria crescita personale e, poi, professionale.

“Avere, da adolescenti, uno scaffale domestico ben fornito di libri dà una marcia in più nella vita: i ragazzi che hanno avuto almeno 80 libri in casa oggi hanno competenze linguistiche, matematiche e tecnologiche superiori alla media”. Lo suggeriva, già tre anni fa, uno studio, pubblicato su Social Science Research, che riguardava 160 mila adulti da 31 nazioni, con dati raccolti dal Programme for the International Assessment of Adult Competencies dell’Ocse”. Una prospettiva che proprio adesso è sempre più di attualità.

Cosa accade quando arriva il “lavoro agile”

Una tesi discussa presso l’Università di Padova fa il punto su un aspetto nuovo della gestione aziendale

Lavora nelle “organizzazioni agili”: ultimo traguardo prospettato, in ordine di tempo, per fr evolvere l’impresa verso modelli sempre più efficaci. Meta, tuttavia, solo in apparenza facile da raggiungere, ma che, in realtà, pone più di un tema da risolvere. E’ attorono a quesi argomenti che ragiona Camilla Ruzza con la sua tesi discussa presso il Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno” dell’Università di Padova.

“Nuovi paradigmi organizzativi: le organizzazioni agili” affronta, in particolare, uno degli aspetti più importanti del modello di “organizzazione agile”: la sua applicazione all’interno delle imprese già operative e quindi strutturate secondo altri schemi organizzativi. E cioè, l’analisi dell’impatto di due culture del produrre sostanzialmente di verse quella che Ruzza affronta che, nell’introduzione spiega: “Grazie alle nuove tecnologie, le organizzazioni agili riescono a tramutare le modalità lavorative, aiutando le persone a collaborare, ad accedere alle informazioni più rapidamente e a prendere decisioni più intelligenti. L’osservazione principale è che l’evoluzione tecnologica ha ispirato nuovi approcci organizzativi: espandendo così le nostre capacità e ampliando i nostri orizzonti; permettendo al management di evolvere. (…)”. Il problema, come si è detto, si delinea quando si ceca di “passare da un’organizzazione tradizionale ad un’organizzazione agile”. Perché “costituire un’organizzazione che lavori con i principi agili non è affatto immediato e semplice, soprattutto per quanto riguarda le aziende più anziane dove sono radicate aspettative e abitudini; spesso trovano minori difficoltà, invece, le aziende più giovani”.

Camilla Ruzza sintetizza prima il concetto di “agile come pratica di gestione” (confrontandolo anche con le modalità di gestione tradizionali), per passare poi ad approfondire gli aspetti positivi della “organizzazione agile” e quindi affrontare gli ostacoli e le difficoltà da risolvere nel momento in cui si cerca di cambiare la cultura d’impresa orientandola in modo diverso dal passato.

Scrive Camilla Ruzza nelle conclusioni: “L’introduzione dei nuovi ruoli e modelli operativi comporta sempre il rischio che i soggetti portatori di interesse nell’azienda debbano uscire dalla propria comfort zone non sentendosi a proprio agio nel loro modo di lavorare. La paura di non riuscire a far fronte a queste difficoltà tende a creare il fenomeno della resistenza al cambiamento e questo tipo di resistenza richiede alcune cautele nella gestione”. Un aspetto, questo, che vale non solo per l’attivo delle “organizzazioni agili” in azienda.

Nuovi paradigmi organizzativi: le organizzazioni agili

Camilla Ruzza

Tesi, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno”, Corso di laurea in Economia, 2021

Una tesi discussa presso l’Università di Padova fa il punto su un aspetto nuovo della gestione aziendale

Lavora nelle “organizzazioni agili”: ultimo traguardo prospettato, in ordine di tempo, per fr evolvere l’impresa verso modelli sempre più efficaci. Meta, tuttavia, solo in apparenza facile da raggiungere, ma che, in realtà, pone più di un tema da risolvere. E’ attorono a quesi argomenti che ragiona Camilla Ruzza con la sua tesi discussa presso il Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno” dell’Università di Padova.

“Nuovi paradigmi organizzativi: le organizzazioni agili” affronta, in particolare, uno degli aspetti più importanti del modello di “organizzazione agile”: la sua applicazione all’interno delle imprese già operative e quindi strutturate secondo altri schemi organizzativi. E cioè, l’analisi dell’impatto di due culture del produrre sostanzialmente di verse quella che Ruzza affronta che, nell’introduzione spiega: “Grazie alle nuove tecnologie, le organizzazioni agili riescono a tramutare le modalità lavorative, aiutando le persone a collaborare, ad accedere alle informazioni più rapidamente e a prendere decisioni più intelligenti. L’osservazione principale è che l’evoluzione tecnologica ha ispirato nuovi approcci organizzativi: espandendo così le nostre capacità e ampliando i nostri orizzonti; permettendo al management di evolvere. (…)”. Il problema, come si è detto, si delinea quando si ceca di “passare da un’organizzazione tradizionale ad un’organizzazione agile”. Perché “costituire un’organizzazione che lavori con i principi agili non è affatto immediato e semplice, soprattutto per quanto riguarda le aziende più anziane dove sono radicate aspettative e abitudini; spesso trovano minori difficoltà, invece, le aziende più giovani”.

Camilla Ruzza sintetizza prima il concetto di “agile come pratica di gestione” (confrontandolo anche con le modalità di gestione tradizionali), per passare poi ad approfondire gli aspetti positivi della “organizzazione agile” e quindi affrontare gli ostacoli e le difficoltà da risolvere nel momento in cui si cerca di cambiare la cultura d’impresa orientandola in modo diverso dal passato.

Scrive Camilla Ruzza nelle conclusioni: “L’introduzione dei nuovi ruoli e modelli operativi comporta sempre il rischio che i soggetti portatori di interesse nell’azienda debbano uscire dalla propria comfort zone non sentendosi a proprio agio nel loro modo di lavorare. La paura di non riuscire a far fronte a queste difficoltà tende a creare il fenomeno della resistenza al cambiamento e questo tipo di resistenza richiede alcune cautele nella gestione”. Un aspetto, questo, che vale non solo per l’attivo delle “organizzazioni agili” in azienda.

Nuovi paradigmi organizzativi: le organizzazioni agili

Camilla Ruzza

Tesi, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno”, Corso di laurea in Economia, 2021

Cosa resta oggi di Torino. Un reportage in 15 dialoghi sul futuro.

Da “città imperiale” a “città operaia” fino all’odierna “città laboratorio”. Torino, più di altre realtà italiane, ha attraversato momenti storici e mutazioni socioeconomiche che ne hanno fatto un osservatorio molto interessante di dinamiche politiche, produttive, culturali e sociali della contemporaneità. Capitale del Regno d’Italia, centro del boom economico e dell’immigrazione dal Mezzogiorno; testimone dei quartieri operai, della grande industria; palcoscenico di contestazioni; promotrice della rigenerazione post-industriale.

Ma oggi? Qual è il futuro che si prepara all’ombra della Mole? Le sperimentazioni sociali, le start-up, l’automotive e l’aerospazio?

Andrea Zaghi raccoglie e mette in dialogo quindici testimonianze di chi lavora nelle imprese e di chi ha a che fare con la cultura, la solidarietà, i contesti giovanili, l’istruzione e la formazione, la ricerca, l’ambiente, le infrastrutture, e molto altro ancora.

Torino, città futura (edito da Il Mulino con il sostegno della Fondazione Compagnia di San Paolo e della Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo) tratteggia da un lato una Torino che non c’è più e, dall’altro, una Torino che non c’è ancora. Ciò che sta nel mezzo è la città d’oggi: non più industriale, non più imperiale, non più esuberante né “in movimento”.

C’è chi ricorda con nostalgia il passato fervore culturale, artistico e manifatturiero e, al contempo, chi evidenzia come le Olimpiadi del 2006 abbiano segnato uno spartiacque decisivo dopo il quale la città manca di direzioni chiare. E così, le dicotomie hanno trovato terreno fertile per inasprirsi: centro e periferia, ricchezza e povertà, emarginazione ed élite, fabbrica e intellighenzia, la volontà di recuperare centralità nel Paese in contrasto con i mancati investimenti sui giovani talenti. Da simili polarizzazioni prendono le mosse il diffuso senso di disillusione che emerge nelle dichiarazioni degli intervistati.

Eppure, quella che il testo di Zaghi rimanda è anche l’immagine di una realtà vivace e resiliente, composta da tante storie, volti e persone. Sono i giovani, le periferie, le associazioni laiche e religiose che dal basso fanno sistema per scuotere e risvegliare il territorio a partire dalla green economy, dalla cultura, dalla digitalizzazione, dalla riurbanizzazione e dalle infrastrutture. L’unica vera ricchezza da tesaurizzare è il capitale umano riscattato dalle periferie, dagli emarginati, dalla formazione, dal fare rete, dall’«avere delle antenne pensanti sparse per le sue vie» per ascoltare e per riscoprire l’immaginazione, il coraggio di rompere gli schemi, l’apertura verso gli altri. Come sottolinea Francesco Profumo nella prefazione, il testo di Zaghi «contiene una serie di suggestioni e indicazioni che possono fare in modo, se ascoltate e sviluppate, di dare davvero a questa città un futuro diverso dall’oggi, un futuro migliore di oggi».

Torino, città futura

Andrea Zaghi

Edizioni Il Mulino, 2021

Da “città imperiale” a “città operaia” fino all’odierna “città laboratorio”. Torino, più di altre realtà italiane, ha attraversato momenti storici e mutazioni socioeconomiche che ne hanno fatto un osservatorio molto interessante di dinamiche politiche, produttive, culturali e sociali della contemporaneità. Capitale del Regno d’Italia, centro del boom economico e dell’immigrazione dal Mezzogiorno; testimone dei quartieri operai, della grande industria; palcoscenico di contestazioni; promotrice della rigenerazione post-industriale.

Ma oggi? Qual è il futuro che si prepara all’ombra della Mole? Le sperimentazioni sociali, le start-up, l’automotive e l’aerospazio?

Andrea Zaghi raccoglie e mette in dialogo quindici testimonianze di chi lavora nelle imprese e di chi ha a che fare con la cultura, la solidarietà, i contesti giovanili, l’istruzione e la formazione, la ricerca, l’ambiente, le infrastrutture, e molto altro ancora.

Torino, città futura (edito da Il Mulino con il sostegno della Fondazione Compagnia di San Paolo e della Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo) tratteggia da un lato una Torino che non c’è più e, dall’altro, una Torino che non c’è ancora. Ciò che sta nel mezzo è la città d’oggi: non più industriale, non più imperiale, non più esuberante né “in movimento”.

C’è chi ricorda con nostalgia il passato fervore culturale, artistico e manifatturiero e, al contempo, chi evidenzia come le Olimpiadi del 2006 abbiano segnato uno spartiacque decisivo dopo il quale la città manca di direzioni chiare. E così, le dicotomie hanno trovato terreno fertile per inasprirsi: centro e periferia, ricchezza e povertà, emarginazione ed élite, fabbrica e intellighenzia, la volontà di recuperare centralità nel Paese in contrasto con i mancati investimenti sui giovani talenti. Da simili polarizzazioni prendono le mosse il diffuso senso di disillusione che emerge nelle dichiarazioni degli intervistati.

Eppure, quella che il testo di Zaghi rimanda è anche l’immagine di una realtà vivace e resiliente, composta da tante storie, volti e persone. Sono i giovani, le periferie, le associazioni laiche e religiose che dal basso fanno sistema per scuotere e risvegliare il territorio a partire dalla green economy, dalla cultura, dalla digitalizzazione, dalla riurbanizzazione e dalle infrastrutture. L’unica vera ricchezza da tesaurizzare è il capitale umano riscattato dalle periferie, dagli emarginati, dalla formazione, dal fare rete, dall’«avere delle antenne pensanti sparse per le sue vie» per ascoltare e per riscoprire l’immaginazione, il coraggio di rompere gli schemi, l’apertura verso gli altri. Come sottolinea Francesco Profumo nella prefazione, il testo di Zaghi «contiene una serie di suggestioni e indicazioni che possono fare in modo, se ascoltate e sviluppate, di dare davvero a questa città un futuro diverso dall’oggi, un futuro migliore di oggi».

Torino, città futura

Andrea Zaghi

Edizioni Il Mulino, 2021

Innovazione, resilienza e dimensione d’impresa

Una ricerca della Sapienza, mette in luce i legami forti tra Pmi e capacità di rinnovare metodi e strategie di produzione

Spesso fare innovazione nell’impresa equivale, in quanto a dimensione aziendale, a pensare ad una piccola o media organizzazione della produzione. Parrebbe quasi che l’ambiente giusto per la creatività, la ricerca e l’innovazione sia quello costituito da una Pmi. Immagine da prendersi con grande cautela, naturalmente, ma che ha più di un fondamento nella realtà. Renato Fontana, Ernesto Dario Calò e Milena Cassella (dell’Università Sapienza Roma), con il loro contributo appena pubblicato sulla “Rivista Trimestrale di Scienza dell’amministrazione. Studi di teorie e ricerca sociale” hanno cercato di capire meglio il tema guardando con attenzione alle PMI neo-costituite, le start-up.

“Ripartire dall’innovazione: PMI e start-up in Italia Quali sono, quanto contano, come cambiano” è un contributo di ricerca che ha l’obiettivo di ragionare sulla portata e il significato delle piccole e medie imprese in Italia, soprattutto nella più recente forma di start-up innovative, con particolare attenzione alla loro distribuzione regionale.

L’indagine inizia con una buona sintesi della storia delle PMI italiane per passare poi ad approfondire l’argomento delle relazioni tra queste imprese e le start-up innovative nel tessuto imprenditoriale italiano e quindi delineandone le caratteristiche con particolare attenzione ai loro legami con il territorio, con la “qualità” del capitale umano e con il livello di conoscenza presente. Tutto, poi, viene collegato alla nuova situazione che si è generata a seguito di Covid-19. Per la ripresa di un ipotetico scenario post-pandemico – viene spiegato dagli autori -,  alcuni tra i possibili rimedi passano dalla lunga e importante storia delle PMI, che più di altre interseca la necessità di innovazione organizzativa e sistemica dettata dalla trasformazione digitale e dalla crescente esigenza di resilienza e flessibilità. In altri termini, al di là della disponibilità di capitali, la forza delle PMI nei confronti dell’innovazione viene individuata nelle loro capacità di mettere insieme l’organizzazione con la resilienza, la capacità di strutturarsi con la flessibilità. Le PMI, in altri termini, costituiscono la forma concreta di quella cultura d’impresa che può costituire una delle risorse più importanti del sistema industriale italiano.

 

 

Ripartire dall’innovazione: PMI e start-up in Italia Quali sono, quanto contano, come cambiano

Renato Fontana, Ernesto Dario Calò, Milena Cassella (Università Sapienza Roma)

Rivista Trimestrale di Scienza dell’amministrazione. Studi di teorie e ricerca sociale, 3/2021

Una ricerca della Sapienza, mette in luce i legami forti tra Pmi e capacità di rinnovare metodi e strategie di produzione

Spesso fare innovazione nell’impresa equivale, in quanto a dimensione aziendale, a pensare ad una piccola o media organizzazione della produzione. Parrebbe quasi che l’ambiente giusto per la creatività, la ricerca e l’innovazione sia quello costituito da una Pmi. Immagine da prendersi con grande cautela, naturalmente, ma che ha più di un fondamento nella realtà. Renato Fontana, Ernesto Dario Calò e Milena Cassella (dell’Università Sapienza Roma), con il loro contributo appena pubblicato sulla “Rivista Trimestrale di Scienza dell’amministrazione. Studi di teorie e ricerca sociale” hanno cercato di capire meglio il tema guardando con attenzione alle PMI neo-costituite, le start-up.

“Ripartire dall’innovazione: PMI e start-up in Italia Quali sono, quanto contano, come cambiano” è un contributo di ricerca che ha l’obiettivo di ragionare sulla portata e il significato delle piccole e medie imprese in Italia, soprattutto nella più recente forma di start-up innovative, con particolare attenzione alla loro distribuzione regionale.

L’indagine inizia con una buona sintesi della storia delle PMI italiane per passare poi ad approfondire l’argomento delle relazioni tra queste imprese e le start-up innovative nel tessuto imprenditoriale italiano e quindi delineandone le caratteristiche con particolare attenzione ai loro legami con il territorio, con la “qualità” del capitale umano e con il livello di conoscenza presente. Tutto, poi, viene collegato alla nuova situazione che si è generata a seguito di Covid-19. Per la ripresa di un ipotetico scenario post-pandemico – viene spiegato dagli autori -,  alcuni tra i possibili rimedi passano dalla lunga e importante storia delle PMI, che più di altre interseca la necessità di innovazione organizzativa e sistemica dettata dalla trasformazione digitale e dalla crescente esigenza di resilienza e flessibilità. In altri termini, al di là della disponibilità di capitali, la forza delle PMI nei confronti dell’innovazione viene individuata nelle loro capacità di mettere insieme l’organizzazione con la resilienza, la capacità di strutturarsi con la flessibilità. Le PMI, in altri termini, costituiscono la forma concreta di quella cultura d’impresa che può costituire una delle risorse più importanti del sistema industriale italiano.

 

 

Ripartire dall’innovazione: PMI e start-up in Italia Quali sono, quanto contano, come cambiano

Renato Fontana, Ernesto Dario Calò, Milena Cassella (Università Sapienza Roma)

Rivista Trimestrale di Scienza dell’amministrazione. Studi di teorie e ricerca sociale, 3/2021

Imparare “agilmente”

Un libro scritto tra impresa e accademia scatta l’istantanea della conoscenza nelle organizzazioni della produzione e ne traccia le linee fondamentali

 

Imparare ad imparare. E farlo con “agilità” e cioè con flessibilità, resilienza, capacità di adattamento. L’indicazione è ormai di quelle che appaiono più comunemente in tutti i progetti di rilancio aziendale. Indicazione condivisibile in teoria ma complessa da attuare nella pratica. E’ per questo che serve leggere – applicare -, “Learning Agility 4.0. Ecosistemi e trasformazione culturale” libro scritto a più mani che ragiona proprio sul vasto insieme di temi che hanno anche fare la trasformazione delle imprese che, come il sottotitolo del libro dice bene, è prima di tutto una trasformazione culturale.

Autori del volume sono Donatella Pinto (Consultancy & Education Business Leader di Comau), Giuseppe Scaratti (Professore a contratto presso l’Università Cattolica di Milano e Professore ordinario presso l’Università degli studi di Bergamo), Ezio Fregnan (Direttore dell’Academy e dell’Education Business di Comau).

L’obiettivo della ricerca – che ha tra le sue peculiarità anche quella di essere stata scritta tra azienda e accademia -, è quello di descrivere le trasformazioni che stanno caratterizzando la “cultura del lavoro” nella società odierna, i fattori che orienteranno in futuro la ricerca di nuove professionalità e lo sviluppo di innovativi progetti formativi. A fare la differenza è la fonte delle informazioni che sono state raccolte: la rete professionale di Comau, le attività didattiche della sua Academy e la teorizzazione accademica.

Secondo lo studio, sarebbero quindi sette le competenze ritenute fondamentali per diventare lavoratori e cittadini del futuro capaci di fronteggiare i molteplici cambiamenti della nostra società. Ognuna di esse si focalizza sulla centralità del ruolo dell’uomo e delle sue capacità, all’interno di un contesto sempre più influenzato dall’utilizzo di nuove tecnologie. Ad essere fondamentali appaiono così essere la creatività, il pensiero agile, il saper lavorare in gruppo, con passione e a contatto con l’innovazione tecnologica, mettendo in atto conoscenze interdisciplinari dove le cosiddette hard e soft skills diventano tutt’uno.

Leggere “Learning Agility 4.0.” può far bene a molti e comunque a tutti quelli che devono fare i conti con un ambito professionale e produttivo in continuo mutamento al quale dover rispondere non solo sulla base di competenze strettamente tecniche.

Learning Agility 4.0. Ecosistemi e trasformazione culturale

AA.VV.

curato da Comau con Università Cattolica di Milano

Pearson, 2021

Un libro scritto tra impresa e accademia scatta l’istantanea della conoscenza nelle organizzazioni della produzione e ne traccia le linee fondamentali

 

Imparare ad imparare. E farlo con “agilità” e cioè con flessibilità, resilienza, capacità di adattamento. L’indicazione è ormai di quelle che appaiono più comunemente in tutti i progetti di rilancio aziendale. Indicazione condivisibile in teoria ma complessa da attuare nella pratica. E’ per questo che serve leggere – applicare -, “Learning Agility 4.0. Ecosistemi e trasformazione culturale” libro scritto a più mani che ragiona proprio sul vasto insieme di temi che hanno anche fare la trasformazione delle imprese che, come il sottotitolo del libro dice bene, è prima di tutto una trasformazione culturale.

Autori del volume sono Donatella Pinto (Consultancy & Education Business Leader di Comau), Giuseppe Scaratti (Professore a contratto presso l’Università Cattolica di Milano e Professore ordinario presso l’Università degli studi di Bergamo), Ezio Fregnan (Direttore dell’Academy e dell’Education Business di Comau).

L’obiettivo della ricerca – che ha tra le sue peculiarità anche quella di essere stata scritta tra azienda e accademia -, è quello di descrivere le trasformazioni che stanno caratterizzando la “cultura del lavoro” nella società odierna, i fattori che orienteranno in futuro la ricerca di nuove professionalità e lo sviluppo di innovativi progetti formativi. A fare la differenza è la fonte delle informazioni che sono state raccolte: la rete professionale di Comau, le attività didattiche della sua Academy e la teorizzazione accademica.

Secondo lo studio, sarebbero quindi sette le competenze ritenute fondamentali per diventare lavoratori e cittadini del futuro capaci di fronteggiare i molteplici cambiamenti della nostra società. Ognuna di esse si focalizza sulla centralità del ruolo dell’uomo e delle sue capacità, all’interno di un contesto sempre più influenzato dall’utilizzo di nuove tecnologie. Ad essere fondamentali appaiono così essere la creatività, il pensiero agile, il saper lavorare in gruppo, con passione e a contatto con l’innovazione tecnologica, mettendo in atto conoscenze interdisciplinari dove le cosiddette hard e soft skills diventano tutt’uno.

Leggere “Learning Agility 4.0.” può far bene a molti e comunque a tutti quelli che devono fare i conti con un ambito professionale e produttivo in continuo mutamento al quale dover rispondere non solo sulla base di competenze strettamente tecniche.

Learning Agility 4.0. Ecosistemi e trasformazione culturale

AA.VV.

curato da Comau con Università Cattolica di Milano

Pearson, 2021

I nuovi pericoli della “economia della scarsità” e le mosse della Ue protagonista industriale

The shortage economy”, titola in copertina l’ultimo numero di “The Economist”, raccontando come una nuova stagione di scarsità di materie prime e di semilavorati stia minacciando la prosperità globale. Dopo la Grande Crisi finanziaria del 2008, abbiamo vissuto un lungo periodo di austerità, di limiti alla spesa pubblica, di freno agli investimenti. Poi la pandemia da Covid19 ha radicalmente cambiato il quadro, determinando un forte aumento della spesa pubblica sia per assistenza sia per investimenti, per fare fronte alla malattia, rafforzare il sistema sanitario, trovare, sperimentare, produrre e distribuire i vaccini, rispondere alla crisi sociale di chi perdeva lavoro e redditi per i lock down indispensabili ad arginare il contagio da coronavirus.

La pandemia ha fatto anche da straordinario acceleratore di parecchi processi economici e sociali: ha portato al centro dell’attenzione delle opinioni pubbliche mondiali le questioni della salute e della qualità della vita, ha rilanciato i temi della sostenibilità e dell’economia circolare e civile, ha imposto un’agenda pubblica internazionale incardinata sui temi del clima, dell’ambiente, della salvaguardia di una serie di valori che investono il nostro modo di vivere, produrre, consumare.
Alla ribalta, il necessario “cambio di paradigma” dall’ossessione per la crescita economica quantitativa (il predominio del Pil, l’indice che misura la ricchezza prodotta) all’assunzione di responsabilità per uno sviluppo di qualità, calcolato secondo il “Better Life Index” o, per usare un metro statistico italiano, il Bes, che misura il “benessere equo e sostenibile” (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana).

La pandemia è tutt’altro che finita, colpisce ancora con dolorosa durezza aree geografiche e nazioni in cui il vaccino non è ancora diffuso (o covano le irresponsabili resistenze dei no vax). Ma certo, soprattutto in Europa e in altri paesi a forte livello di industrializzazione, l’economia è ripartita. Ma…
Ecco il nuovo pericolo, segnalato con autorevolezza del settimanale di riferimento degli ambienti economici internazionali. La “shortage economy”, l’economia della scarsità – si spiega – è il prodotto di due forze profonde. Innanzitutto, le scelte politiche sulla decarbonizzazione, accelerando il passaggio dai carbone alle energie rinnovabili, con un’impennata conseguente dei prezzi del gas e, più in generale, di tutti i prezzi dell’energia. L’industria e parte dei consumi ne hanno pesantemente risentito.
Il passaggio alle energie rinnovabili e non inquinanti è indispensabile e urgente, certo. Ma va governato con intelligenza politica, per non caricarlo di pesanti costi economici e sociali (le tematiche legate all’auto elettrica, con le conseguenze sulla dipendenza da materie prime strategiche particolari e sullo smaltimento delle batterie consumiate ne sono una testimonianza)

La seconda ragione della “shortage economy” sta nell’effetto delle politiche protezionistiche che si diffondono nel mondo, con un appesantimento del conflitto tra Usa e Cina e una lunga fila di conseguenze sul commercio internazionale. L’ombra della crescita dell’inflazione legata ai due fenomeni rende incerto il clima economico generale. In alcuni ambienti – racconta “The Economist” – si teme il ritorno della stagflazione (inflazione combinata con bassa crescita economica), pur ricordando che il passato, gli anni Settanta cioè, non è la miglior guida per il presente.

Sul mercato mancano anche semi-lavorati essenziali, a cominciare dai microchip, con effetti su moltissime produzioni, dall’auto all’aeronautica e a una lunga serie di altri settori industriali. La ripresa post-pandemia ne risente parecchio. I mercati finanziari sono in fibrillazione. L’ottimismo sulla crescita si smorza. Ecco il quadro generale con cui fare i conti, per discutere seriamente di politica economica e di prospettive delle imprese.

Un punto è certo. La stagione delle lunghe supply chain va verso il tramonto: troppo fragili, troppe esposte alle fratture dei grandi eventi traumatici (pandemie, alterazioni climatiche ma anche crisi che investono la  cybersecurity) . Restano, naturalmente, le connessioni tra le varie economie mondiali. Ma quelle supply chain vanno radicalmente ripensate. E molte produzioni di semilavorati vanno riportate più a ridosso degli impianti di produzione finale di beni e servizi.
L’Europa è uno spazio adatto, per evitare i piccoli protezionismi nazionalistiche e rafforzare la Ue come grande attore economico. L’Europa con una comune politica industriale, fiscale, della ricerca e della formazione e, perché no?, della difesa (con le ricadute industriali conseguenti). L’Europa con la sua autonomia energetica e industriale, come è necessario per essere un attore economico fondamentale nella grande “partita a tre” accanto a Usa e Cina (dal titolo di un interessante libro scritto per Il Mulino da Paolo Guerrieri, professore a Science Po di Parigi e all’università di San Diego, California).

La globalizzazione resta come riferimento, ma non più assoluto. Si ridisegnano, appunto, equilibri, mercati, catene di produzione e abitudini di consumo. E proprio la Ue, con il suo dinamismo economico e l’incrocio tra economia di mercato e sistemi di protezione sociale, può fare da paradigma per il resto del mondo ed essere un protagonista forte di una solida capacità di dialogo e di confronto. Contribuendo a frenare la “shortage economy”, cioè la “decrescita infelice”.

The shortage economy”, titola in copertina l’ultimo numero di “The Economist”, raccontando come una nuova stagione di scarsità di materie prime e di semilavorati stia minacciando la prosperità globale. Dopo la Grande Crisi finanziaria del 2008, abbiamo vissuto un lungo periodo di austerità, di limiti alla spesa pubblica, di freno agli investimenti. Poi la pandemia da Covid19 ha radicalmente cambiato il quadro, determinando un forte aumento della spesa pubblica sia per assistenza sia per investimenti, per fare fronte alla malattia, rafforzare il sistema sanitario, trovare, sperimentare, produrre e distribuire i vaccini, rispondere alla crisi sociale di chi perdeva lavoro e redditi per i lock down indispensabili ad arginare il contagio da coronavirus.

La pandemia ha fatto anche da straordinario acceleratore di parecchi processi economici e sociali: ha portato al centro dell’attenzione delle opinioni pubbliche mondiali le questioni della salute e della qualità della vita, ha rilanciato i temi della sostenibilità e dell’economia circolare e civile, ha imposto un’agenda pubblica internazionale incardinata sui temi del clima, dell’ambiente, della salvaguardia di una serie di valori che investono il nostro modo di vivere, produrre, consumare.
Alla ribalta, il necessario “cambio di paradigma” dall’ossessione per la crescita economica quantitativa (il predominio del Pil, l’indice che misura la ricchezza prodotta) all’assunzione di responsabilità per uno sviluppo di qualità, calcolato secondo il “Better Life Index” o, per usare un metro statistico italiano, il Bes, che misura il “benessere equo e sostenibile” (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana).

La pandemia è tutt’altro che finita, colpisce ancora con dolorosa durezza aree geografiche e nazioni in cui il vaccino non è ancora diffuso (o covano le irresponsabili resistenze dei no vax). Ma certo, soprattutto in Europa e in altri paesi a forte livello di industrializzazione, l’economia è ripartita. Ma…
Ecco il nuovo pericolo, segnalato con autorevolezza del settimanale di riferimento degli ambienti economici internazionali. La “shortage economy”, l’economia della scarsità – si spiega – è il prodotto di due forze profonde. Innanzitutto, le scelte politiche sulla decarbonizzazione, accelerando il passaggio dai carbone alle energie rinnovabili, con un’impennata conseguente dei prezzi del gas e, più in generale, di tutti i prezzi dell’energia. L’industria e parte dei consumi ne hanno pesantemente risentito.
Il passaggio alle energie rinnovabili e non inquinanti è indispensabile e urgente, certo. Ma va governato con intelligenza politica, per non caricarlo di pesanti costi economici e sociali (le tematiche legate all’auto elettrica, con le conseguenze sulla dipendenza da materie prime strategiche particolari e sullo smaltimento delle batterie consumiate ne sono una testimonianza)

La seconda ragione della “shortage economy” sta nell’effetto delle politiche protezionistiche che si diffondono nel mondo, con un appesantimento del conflitto tra Usa e Cina e una lunga fila di conseguenze sul commercio internazionale. L’ombra della crescita dell’inflazione legata ai due fenomeni rende incerto il clima economico generale. In alcuni ambienti – racconta “The Economist” – si teme il ritorno della stagflazione (inflazione combinata con bassa crescita economica), pur ricordando che il passato, gli anni Settanta cioè, non è la miglior guida per il presente.

Sul mercato mancano anche semi-lavorati essenziali, a cominciare dai microchip, con effetti su moltissime produzioni, dall’auto all’aeronautica e a una lunga serie di altri settori industriali. La ripresa post-pandemia ne risente parecchio. I mercati finanziari sono in fibrillazione. L’ottimismo sulla crescita si smorza. Ecco il quadro generale con cui fare i conti, per discutere seriamente di politica economica e di prospettive delle imprese.

Un punto è certo. La stagione delle lunghe supply chain va verso il tramonto: troppo fragili, troppe esposte alle fratture dei grandi eventi traumatici (pandemie, alterazioni climatiche ma anche crisi che investono la  cybersecurity) . Restano, naturalmente, le connessioni tra le varie economie mondiali. Ma quelle supply chain vanno radicalmente ripensate. E molte produzioni di semilavorati vanno riportate più a ridosso degli impianti di produzione finale di beni e servizi.
L’Europa è uno spazio adatto, per evitare i piccoli protezionismi nazionalistiche e rafforzare la Ue come grande attore economico. L’Europa con una comune politica industriale, fiscale, della ricerca e della formazione e, perché no?, della difesa (con le ricadute industriali conseguenti). L’Europa con la sua autonomia energetica e industriale, come è necessario per essere un attore economico fondamentale nella grande “partita a tre” accanto a Usa e Cina (dal titolo di un interessante libro scritto per Il Mulino da Paolo Guerrieri, professore a Science Po di Parigi e all’università di San Diego, California).

La globalizzazione resta come riferimento, ma non più assoluto. Si ridisegnano, appunto, equilibri, mercati, catene di produzione e abitudini di consumo. E proprio la Ue, con il suo dinamismo economico e l’incrocio tra economia di mercato e sistemi di protezione sociale, può fare da paradigma per il resto del mondo ed essere un protagonista forte di una solida capacità di dialogo e di confronto. Contribuendo a frenare la “shortage economy”, cioè la “decrescita infelice”.

Responsabilità digitale d’impresa

La necessità di un’attenzione maggiore alla digitalizzazione dei processi produttivi anche nei confronti dei mercati.

 

Responsabilità sociale d’impresa. Dettato importante ormai per tutte le organizzazioni della produzione, anche sotto il profilo della digitalizzazione dei processi così come delle relazioni con il mercato e con i clienti. Aspetto nuovo, quest’ultimo, che mette in gioco non solo le imprese ma anche i clienti stessi. E’ su questo tema che hanno ragionato Renato Fiocca e Ivo Ferrario con il loro intervento “Una riflessione sulle responsabilità dei clienti nel mondo digitale” apparso in Micro & Macro Marketing.

Il tema è solo apparentemente banale. La digitalizzazione del sistema dell’economia e della produzione, tocca infatti anche le relazioni tra produzione d’impresa e destinatari finali della stessa. Fiocca e Ferrario spiegano come, in Italia (ma non solo), dopo aver superato un deficit sugli aspetti strutturali della rete, è necessario affrontare anche quello che si può definire un secondo livello di digital divide, legato principalmente all’uso che la popolazione può fare del web. Uso che, in effetti, coinvolge non solo il consumatore finale ma anche l’impresa di produzione. Dall’interpretazione parzialmente distorta di internet e dei social media – spiegano i due autori -, derivano alcuni fenomeni di disinformazione (fake news) e, più in generale, la necessità di un maggior livello di consapevolezza nell’uso delle tecnologie. E’ qui che Fiocca e Ferrario vedono la necessità di “evocare una corresponsabilità tra aziende e consumatori”. Se, da un lato, chi produce deve porre attenzione non solo alla qualità del prodotto ma anche a quella della comunicazione con la quale lo supporta, dall’altro, il “cliente” deve porre altrettanta attenzione all’affidabilità delle fonti di informazioni che può trovare sul web.

Fiocca e Ferrario, così, sintetizzano una sorta di nuovo patto tra imprese e mercati. Un accordo nel quale oltre all’attenzione alla qualità e all’ambiente, si fa largo la necessità di una uguale attenzione alle tecniche di digitalizzazione viste come veicoli di migliore informazione ma anche, se male adoperate, di una forte disinformazione. Ed è la buona cultura del produrre così come del consumare correttamente che fa un passo in avanti.

Una riflessione sulle responsabilità dei clienti nel mondo digitale

Renato Fiocca, Ivo Ferrario

https://www.rivisteweb.it/doi/10.1431/101626

La necessità di un’attenzione maggiore alla digitalizzazione dei processi produttivi anche nei confronti dei mercati.

 

Responsabilità sociale d’impresa. Dettato importante ormai per tutte le organizzazioni della produzione, anche sotto il profilo della digitalizzazione dei processi così come delle relazioni con il mercato e con i clienti. Aspetto nuovo, quest’ultimo, che mette in gioco non solo le imprese ma anche i clienti stessi. E’ su questo tema che hanno ragionato Renato Fiocca e Ivo Ferrario con il loro intervento “Una riflessione sulle responsabilità dei clienti nel mondo digitale” apparso in Micro & Macro Marketing.

Il tema è solo apparentemente banale. La digitalizzazione del sistema dell’economia e della produzione, tocca infatti anche le relazioni tra produzione d’impresa e destinatari finali della stessa. Fiocca e Ferrario spiegano come, in Italia (ma non solo), dopo aver superato un deficit sugli aspetti strutturali della rete, è necessario affrontare anche quello che si può definire un secondo livello di digital divide, legato principalmente all’uso che la popolazione può fare del web. Uso che, in effetti, coinvolge non solo il consumatore finale ma anche l’impresa di produzione. Dall’interpretazione parzialmente distorta di internet e dei social media – spiegano i due autori -, derivano alcuni fenomeni di disinformazione (fake news) e, più in generale, la necessità di un maggior livello di consapevolezza nell’uso delle tecnologie. E’ qui che Fiocca e Ferrario vedono la necessità di “evocare una corresponsabilità tra aziende e consumatori”. Se, da un lato, chi produce deve porre attenzione non solo alla qualità del prodotto ma anche a quella della comunicazione con la quale lo supporta, dall’altro, il “cliente” deve porre altrettanta attenzione all’affidabilità delle fonti di informazioni che può trovare sul web.

Fiocca e Ferrario, così, sintetizzano una sorta di nuovo patto tra imprese e mercati. Un accordo nel quale oltre all’attenzione alla qualità e all’ambiente, si fa largo la necessità di una uguale attenzione alle tecniche di digitalizzazione viste come veicoli di migliore informazione ma anche, se male adoperate, di una forte disinformazione. Ed è la buona cultura del produrre così come del consumare correttamente che fa un passo in avanti.

Una riflessione sulle responsabilità dei clienti nel mondo digitale

Renato Fiocca, Ivo Ferrario

https://www.rivisteweb.it/doi/10.1431/101626

Il fascino di quanto accadrà

Un’antologia di interventi sull’idea di futuro serve per capire meglio cosa è accaduto e cosa ci aspetta

 Confrontarsi con il futuro. Esercizio facoltativo per alcuni e obbligatorio per altri. Dovere per molti, insomma. Soprattutto per chi ha a che fare con organizzazioni che necessitano di pianificazione, programmazione, lucidità dei passi da compiere. Guardare al futuro, poi, è cosa propria di chi – per natura o compito – ha una visione da realizzare. Per tutti, o quasi, leggere “Il futuro. Storia di un’idea” antologia di interventi sul tema scritta a molteplici mani, è non solo un’avventura intellettuale stimolante e utile ma anche un cammino affascinante lungo millenni di esercizi e ragionamenti dell’uomo su ciò che lo aspetta.

Il libro muove dalla constatazione che l’uomo ha sempre immaginato il futuro. Lo ha fatto con un misto di speranza e paura, liberando la sua fantasia con racconti, utopie e progetti. Tracce di queste idee del futuro si trovano nelle più diverse sue opere: dalle tragedie antiche ai romanzi di fantascienza, dalle opere filosofiche ai manifesti politici, ma anche nel cinema e nel teatro, nelle architetture, nei dipinti e nella musica, fino ad arrivare ai serial televisivi. E’ quindi davvero un futuro aperto e per tutti, quello di cui raccontano le poco meno di quattrocento pagine del libro costruito in modo originale: pagina dopo pagina, intellettuali e interpreti del nostro tempo risalgono la storia del futuro attraverso le opere che hanno costruito la nostra cultura attuale e che in qualche modo hanno riferimenti con questa idea. Scorrono così il Prometeo di Eschilo, La città di Dio di Agostino, i disegni sul volo di Leonardo da Vinci, L’origine delle specie di Darwin, naturalmente Dalla Terra alla Luna di Verne, Il Manifesto del futurismo di Marinetti, e poi ancora la teoria della relatività, , Tempi moderni, ma anche La fine dell’eternità di Asimov, Imagine di John Lennon fino a Fratelli tutti di papa Francesco e molto altro ancora.

Il libro così composto non è da leggere tutto d’un fiato, ma da leggere con calma, attenzione e tornandovi spesso.

Bella la frase conclusiva della breve “Nota dell’editore” posta all’inizio: “Conoscere il futuro di ieri forse può aiutarci a pensare il futuro di oggi”. Così come fondamentale, anche se apparentemente infantile, è la citazione di un passo di Gianni Rodari posto nel libro: “So bene che il futuro non sarà quasi mai bello come una fiaba. Ma non è questo che conta. Intanto, bisogna che il bambino faccia provvista di ottimismo e di fiducia per sfidare la vita. E poi, non trascuriamo il valore educativo dell’utopia. Se non sperassimo, a dispetto di tutto, in un mondo migliore, chi ce lo farebbe fare di andare dal dentista?”.

Il futuro. Storia di un’idea

AA.VV.

Laterza, 2021

Un’antologia di interventi sull’idea di futuro serve per capire meglio cosa è accaduto e cosa ci aspetta

 Confrontarsi con il futuro. Esercizio facoltativo per alcuni e obbligatorio per altri. Dovere per molti, insomma. Soprattutto per chi ha a che fare con organizzazioni che necessitano di pianificazione, programmazione, lucidità dei passi da compiere. Guardare al futuro, poi, è cosa propria di chi – per natura o compito – ha una visione da realizzare. Per tutti, o quasi, leggere “Il futuro. Storia di un’idea” antologia di interventi sul tema scritta a molteplici mani, è non solo un’avventura intellettuale stimolante e utile ma anche un cammino affascinante lungo millenni di esercizi e ragionamenti dell’uomo su ciò che lo aspetta.

Il libro muove dalla constatazione che l’uomo ha sempre immaginato il futuro. Lo ha fatto con un misto di speranza e paura, liberando la sua fantasia con racconti, utopie e progetti. Tracce di queste idee del futuro si trovano nelle più diverse sue opere: dalle tragedie antiche ai romanzi di fantascienza, dalle opere filosofiche ai manifesti politici, ma anche nel cinema e nel teatro, nelle architetture, nei dipinti e nella musica, fino ad arrivare ai serial televisivi. E’ quindi davvero un futuro aperto e per tutti, quello di cui raccontano le poco meno di quattrocento pagine del libro costruito in modo originale: pagina dopo pagina, intellettuali e interpreti del nostro tempo risalgono la storia del futuro attraverso le opere che hanno costruito la nostra cultura attuale e che in qualche modo hanno riferimenti con questa idea. Scorrono così il Prometeo di Eschilo, La città di Dio di Agostino, i disegni sul volo di Leonardo da Vinci, L’origine delle specie di Darwin, naturalmente Dalla Terra alla Luna di Verne, Il Manifesto del futurismo di Marinetti, e poi ancora la teoria della relatività, , Tempi moderni, ma anche La fine dell’eternità di Asimov, Imagine di John Lennon fino a Fratelli tutti di papa Francesco e molto altro ancora.

Il libro così composto non è da leggere tutto d’un fiato, ma da leggere con calma, attenzione e tornandovi spesso.

Bella la frase conclusiva della breve “Nota dell’editore” posta all’inizio: “Conoscere il futuro di ieri forse può aiutarci a pensare il futuro di oggi”. Così come fondamentale, anche se apparentemente infantile, è la citazione di un passo di Gianni Rodari posto nel libro: “So bene che il futuro non sarà quasi mai bello come una fiaba. Ma non è questo che conta. Intanto, bisogna che il bambino faccia provvista di ottimismo e di fiducia per sfidare la vita. E poi, non trascuriamo il valore educativo dell’utopia. Se non sperassimo, a dispetto di tutto, in un mondo migliore, chi ce lo farebbe fare di andare dal dentista?”.

Il futuro. Storia di un’idea

AA.VV.

Laterza, 2021

Elogio dell’importanza della “ricerca pura” per capire come e perché migliorare ambiente, salute e qualità della vita

Di fronte alla pandemia da Covid19, nel corso di un tempo molto breve, si è stati capaci di scoprire, sperimentare, produrre e somministrare vaccini efficaci a centinaia di milioni di persone. Un grandissimo sforzo scientifico, medico, finanziario e imprenditoriale, logistico e politico-amministrativo. Una riprova importante dell’effetto positivo della collaborazione internazionale e della concezione della scienza e della salute come “beni comuni” di portata globale. Una strada su cui continuare a camminare.

E’ stato naturalmente un processo difficile, controverso, denso di contraddizioni, ombre, conflitti tra interessi politici ed economici differenti. Eppure, nonostante tutto, oggi possiamo osservare con una certa soddisfazione una serie di successi: il contagio, in parecchi paesi, è stato drasticamente frenato e le morti sono nettamente diminuite (pesano comunque, i cinque milioni di morti nel mondo, con territori in cui il virus continua a mietere vittime). Vanno avanti anche le sperimentazioni di farmaci efficaci a contrastare gli effetti più devastanti e dolorosi del Coronavirus.

La crisi sanitaria, insomma, è stata decentemente affrontata. Abbiamo messo in evidenza le drammatiche fragilità della nostra condizione umana e sociale. E possiamo sperare di saper affrontare meglio la prossima crisi che sicuramente ci colpirà: anche se non sappiamo quando e come, siamo ben consapevoli della assoluta fondatezza del timore.

Nasce da questo quadro generale una prima considerazione di base. Abbiamo prodotto i vaccini perché da tempo erano in corso ricerche scientifiche di base sulla genetica. Perché, cioè, esisteva una solida e profonda “ricerca pura” i cui risultati sono stati rapidamente applicati a un problema concreto, la pandemia appunto.

Torna così alla ribalta la questione della necessità di un grande impegno lungimirante, degli investitori soprattutto pubblici, ma anche privati, su quella che si chiama “ricerca pura” o “ricerca di base”, slegata da obiettivi specifici e destinata a indagare i misteri della natura e della mente, il senso della vita e delle scelte, i metodi e i linguaggi delle relazioni tra le persone, i valori della nostra convivenza sociale e civile. La complessità del nostro essere umani, su questa Terra, parte infinitesima d’uno spazio ancora in gran parte da scoprire, comprendere, raccontare (gli astrofisici, personaggi esemplari della “ricerca pura”, hanno moltissimo da dirci).

Questi temi sono rilanciati da un recente documento dell’Aspen Institute Usa “for a Pure Science Project”, affidato alla discussione dei board di tutti e 14 i paesi in cui l’Aspen è presente (l’Italia è in prima fila), con un duplice obiettivo: approfondire nel discorso pubblico le questioni del valore della scienza e della ricerca e stimolare i decisori politici a investire meglio e di più.

Spiega il documento che il progresso della scienza pura è positivo in sé, dato che corrisponde a una delle fondamentali vie di civilizzazione: capire a fondo chi siamo e le caratteristiche del mondo fisico e biologico in cui viviamo. Valori forti – insiste il documento dell’Aspen – che incidono anche sul progresso materiale e sulla qualità della vita. Senza le scoperte della termodinamica, della relatività e della fisica quantistica, della teoria dell’evoluzione e della chimica teorica, tanto per citare solo alcuni campi scientifici, noi umani vivremmo una vita più povera e meno interessante.

Purtroppo, nota ancora l’Aspen, quasi dovunque il sostegno alla ricerca scientifica di base è in netta caduta, come peraltro dimostra l’ultimo UNESCO Science Report: towards 2030 (https://en.unesco.org/unescosciencereport).

Ecco dunque l’importanza di un rilancio della discussione. Maggiori fondi, proprio per la ricerca di base. E definizione di criteri di misurazione dei risultati che vadano ben al di là degli effetti immediati. Una responsabilità dei grandi organismi internazionali e degli Stati, quelli caratterizzati da una chiara democrazia liberale (il documento Aspen, d’altronde, ricorda bene il nesso tra libertà di ricerca e libertà democratiche). Ma anche un compito per le opinioni pubbliche più lungimiranti e sensibili, ben consapevoli dei nessi tra conoscenza, sostenibilità ambientale e sociale (la lotta alle diseguaglianze), innovazione, qualità della vita (la salute ne è parte essenziale), prospettive di fiducia nel futuro delle nuove generazioni.

E’ un compito essenziale anche dal punto di vista dell’economia, in cui occorre “andare oltre il Pil”, che misura soltanto la ricchezza prodotta, per indagare sulle dimensioni ambientali e sociali dei fenomeni, sui costi del degrado ambientale e del depauperamento delle risorse ma anche sull’incremento delle diseguaglianze (generazionali, di genere, geografiche e sociali) e sulla crisi delle opportunità di miglioramento. E’ necessario dunque definire e applicare un “Better Life Index” per valutare la crescita del benessere. Pensare non solo a necessari incrementi di produttività e competitività, ma anche alle ipotesi di fondo di una economia “circolare” e “civile”, per migliorare la vita e le prospettive delle persone. Una “ricerca pura” sugli aspetti essenziali della nostra fragile condizione umana (utile la lettura di “Misurare ciò che conta” di Joseph E. Stiglitz, Jean-Paul Fitoussi e Martine Durand, appena pubblicato da Einaudi).

La ricerca applicata, su singole questioni, poi seguirà, nella collaborazione tra poteri pubblici e legittimi interessi privati, tra fondi pubblici e stimoli fiscali e investimenti delle imprese.

Il “Recovery Fund” della Ue fondato su “green and digital economy” e mirato alle prospettive per la “Next Generation” ma anche la ridefinizione del Bilancio Ue per i prossimi anni dovrebbe muoversi in questa direzione con più chiara consapevolezza e maggiori risorse a disposizione.

Le questioni poste dal documento dell’Aspen sulla ricerca pura investono anche il mondo della formazione e della cultura, insistendo su temi citati parecchie volte in questo blog: la necessità di una “cultura politecnica” in cui i saperi umanistici si ibridano con le conoscenze scientifiche, le diverse discipline si incrocino, gli ingegneri e i filosofi, i medici e i letterati, i fisici e gli esperti di neuroscienze, i chimici e i sociologi, i tecnologici e gli psicologi, i giuristi e gli economisti si ritrovino a studiare, fare ricerca, lavorare e produrre insieme.

Nella stagione dell’economia della conoscenza e dello sviluppo dell’Intelligenza artificiale, è questo il campo dello sviluppo equilibrato. E senza puntare sulla ricerca di base, con tutto quel che ne consegue, non faremo grandi passi avanti, per una vita più soddisfacente, più equilibrata, migliore.

Di fronte alla pandemia da Covid19, nel corso di un tempo molto breve, si è stati capaci di scoprire, sperimentare, produrre e somministrare vaccini efficaci a centinaia di milioni di persone. Un grandissimo sforzo scientifico, medico, finanziario e imprenditoriale, logistico e politico-amministrativo. Una riprova importante dell’effetto positivo della collaborazione internazionale e della concezione della scienza e della salute come “beni comuni” di portata globale. Una strada su cui continuare a camminare.

E’ stato naturalmente un processo difficile, controverso, denso di contraddizioni, ombre, conflitti tra interessi politici ed economici differenti. Eppure, nonostante tutto, oggi possiamo osservare con una certa soddisfazione una serie di successi: il contagio, in parecchi paesi, è stato drasticamente frenato e le morti sono nettamente diminuite (pesano comunque, i cinque milioni di morti nel mondo, con territori in cui il virus continua a mietere vittime). Vanno avanti anche le sperimentazioni di farmaci efficaci a contrastare gli effetti più devastanti e dolorosi del Coronavirus.

La crisi sanitaria, insomma, è stata decentemente affrontata. Abbiamo messo in evidenza le drammatiche fragilità della nostra condizione umana e sociale. E possiamo sperare di saper affrontare meglio la prossima crisi che sicuramente ci colpirà: anche se non sappiamo quando e come, siamo ben consapevoli della assoluta fondatezza del timore.

Nasce da questo quadro generale una prima considerazione di base. Abbiamo prodotto i vaccini perché da tempo erano in corso ricerche scientifiche di base sulla genetica. Perché, cioè, esisteva una solida e profonda “ricerca pura” i cui risultati sono stati rapidamente applicati a un problema concreto, la pandemia appunto.

Torna così alla ribalta la questione della necessità di un grande impegno lungimirante, degli investitori soprattutto pubblici, ma anche privati, su quella che si chiama “ricerca pura” o “ricerca di base”, slegata da obiettivi specifici e destinata a indagare i misteri della natura e della mente, il senso della vita e delle scelte, i metodi e i linguaggi delle relazioni tra le persone, i valori della nostra convivenza sociale e civile. La complessità del nostro essere umani, su questa Terra, parte infinitesima d’uno spazio ancora in gran parte da scoprire, comprendere, raccontare (gli astrofisici, personaggi esemplari della “ricerca pura”, hanno moltissimo da dirci).

Questi temi sono rilanciati da un recente documento dell’Aspen Institute Usa “for a Pure Science Project”, affidato alla discussione dei board di tutti e 14 i paesi in cui l’Aspen è presente (l’Italia è in prima fila), con un duplice obiettivo: approfondire nel discorso pubblico le questioni del valore della scienza e della ricerca e stimolare i decisori politici a investire meglio e di più.

Spiega il documento che il progresso della scienza pura è positivo in sé, dato che corrisponde a una delle fondamentali vie di civilizzazione: capire a fondo chi siamo e le caratteristiche del mondo fisico e biologico in cui viviamo. Valori forti – insiste il documento dell’Aspen – che incidono anche sul progresso materiale e sulla qualità della vita. Senza le scoperte della termodinamica, della relatività e della fisica quantistica, della teoria dell’evoluzione e della chimica teorica, tanto per citare solo alcuni campi scientifici, noi umani vivremmo una vita più povera e meno interessante.

Purtroppo, nota ancora l’Aspen, quasi dovunque il sostegno alla ricerca scientifica di base è in netta caduta, come peraltro dimostra l’ultimo UNESCO Science Report: towards 2030 (https://en.unesco.org/unescosciencereport).

Ecco dunque l’importanza di un rilancio della discussione. Maggiori fondi, proprio per la ricerca di base. E definizione di criteri di misurazione dei risultati che vadano ben al di là degli effetti immediati. Una responsabilità dei grandi organismi internazionali e degli Stati, quelli caratterizzati da una chiara democrazia liberale (il documento Aspen, d’altronde, ricorda bene il nesso tra libertà di ricerca e libertà democratiche). Ma anche un compito per le opinioni pubbliche più lungimiranti e sensibili, ben consapevoli dei nessi tra conoscenza, sostenibilità ambientale e sociale (la lotta alle diseguaglianze), innovazione, qualità della vita (la salute ne è parte essenziale), prospettive di fiducia nel futuro delle nuove generazioni.

E’ un compito essenziale anche dal punto di vista dell’economia, in cui occorre “andare oltre il Pil”, che misura soltanto la ricchezza prodotta, per indagare sulle dimensioni ambientali e sociali dei fenomeni, sui costi del degrado ambientale e del depauperamento delle risorse ma anche sull’incremento delle diseguaglianze (generazionali, di genere, geografiche e sociali) e sulla crisi delle opportunità di miglioramento. E’ necessario dunque definire e applicare un “Better Life Index” per valutare la crescita del benessere. Pensare non solo a necessari incrementi di produttività e competitività, ma anche alle ipotesi di fondo di una economia “circolare” e “civile”, per migliorare la vita e le prospettive delle persone. Una “ricerca pura” sugli aspetti essenziali della nostra fragile condizione umana (utile la lettura di “Misurare ciò che conta” di Joseph E. Stiglitz, Jean-Paul Fitoussi e Martine Durand, appena pubblicato da Einaudi).

La ricerca applicata, su singole questioni, poi seguirà, nella collaborazione tra poteri pubblici e legittimi interessi privati, tra fondi pubblici e stimoli fiscali e investimenti delle imprese.

Il “Recovery Fund” della Ue fondato su “green and digital economy” e mirato alle prospettive per la “Next Generation” ma anche la ridefinizione del Bilancio Ue per i prossimi anni dovrebbe muoversi in questa direzione con più chiara consapevolezza e maggiori risorse a disposizione.

Le questioni poste dal documento dell’Aspen sulla ricerca pura investono anche il mondo della formazione e della cultura, insistendo su temi citati parecchie volte in questo blog: la necessità di una “cultura politecnica” in cui i saperi umanistici si ibridano con le conoscenze scientifiche, le diverse discipline si incrocino, gli ingegneri e i filosofi, i medici e i letterati, i fisici e gli esperti di neuroscienze, i chimici e i sociologi, i tecnologici e gli psicologi, i giuristi e gli economisti si ritrovino a studiare, fare ricerca, lavorare e produrre insieme.

Nella stagione dell’economia della conoscenza e dello sviluppo dell’Intelligenza artificiale, è questo il campo dello sviluppo equilibrato. E senza puntare sulla ricerca di base, con tutto quel che ne consegue, non faremo grandi passi avanti, per una vita più soddisfacente, più equilibrata, migliore.

Fondazione Pirelli e le “Storie del Grattacielo” ad Archivi Aperti 2021

Dal 15 al 24 ottobre 2021 è in programma la nuova edizione di Archivi Aperti, manifestazione promossa da Rete Fotografia, quest’anno sul tema del territorio e del paesaggio, e del rapporto con il sociale nella fotografia. Una discussione a più voci per un confronto corale sul ruolo della fotografia nel nuovo modello di sviluppo sostenibile. Parteciperemo anche quest’anno, proponendo esclusive visite guidate al percorso espositivo “Storie del Grattacielo. I 60 anni del Pirellone tra cultura industriale e attività istituzionali di Regione Lombardia”, curata dalla nostra Fondazione con l’architetto Alessandro Colombo. La mostra, promossa dalla Fondazione Pirelli e dalla Regione Lombardia, Giunta e Consiglio, è un racconto dell’edificio, nato come Headquarters della Pirelli e poi diventato sede e simbolo dell’istituzione regionale, attraverso fotografie, illustrazioni, filmati di repertorio, in larga parte provenienti dall’Archivio Storico Pirelli.

Il percorso espositivo al 26esimo del Pirellone (di cui sono già disponibili il catalogo edito da Marsilio e il sito dedicato 60grattacielopirelli.org), si apre con un plastico dell’edificio proveniente dai Gio Ponti Archives ed è scandito da cinque “movimenti”, dalla costruzione del Grattacielo a oggi. Una linea del tempo ripercorre gli eventi più significativi della grande Storia nazionale e internazionale dal 1956 ai giorni nostri. Scatti e reportage d’autore, tra cui le fotografie di Paolo Monti e la celebre serie dell’olandese Arno Hammacher del 1959, che documentano l’evoluzione del progetto architettonico, affidato agli studi Ponti-Fornaroli-Rosselli e Valtolina-Dell’Orto e agli ingegneri Pier Luigi Nervi e Arturo Danusso. La narrazione della vita nell’edificio, gli spazi interni, il design, il lavoro, è affidata allo sguardo di grandi fotografi come De Paoli, Aldo Ballo, Calcagni, Dino Sala e storiche agenzie come Publifoto. Negli anni del boom il Grattacielo è protagonista di reportage fotografici e servizi di moda di maestri come Ugo Mulas, ed è palcoscenico del nuovo cinema italiano di autori come Luchino Visconti, Michelangelo Antonioni, Carlo Lizzani. Nel 1968 Uliano Lucas immortala un immigrato davanti al Grattacielo: uno scatto potente e iconico raccontato dallo stesso autore in una delle videoinstallazioni in mostra che, attraverso la voce di coloro che hanno vissuto l’edificio e che con esso hanno un legame profondo, accompagnano il visitatore in questo lungo viaggio. Un’occasione per approfondire la storia architettonica della capoluogo lombardo e ammirare la città dall’alto.

Le visite guidate sono programmate nelle giornate di mercoledì 20 ottobre e giovedì 21 ottobre 2021, su tre turni (14.30, 16 e 17.30), con una speciale proposta dedicata alle famiglie con bambini dai 6 ai 10 anni nei turni delle 17.30. L’ingresso è gratuito e su prenotazione, scrivendo a visite@fondazionepirelli.org.

Comunichiamo che i posti disponibili per le visite di “Archivi Aperti” sono esauriti. La mostra è comunque visitabile su prenotazione nei giorni di lunedì e mercoledì dalle ore 9,30 alle ore 12,30 e dalle ore 14,30 alle ore 16,30. Per prenotare è possibile chiamare il numero di Regione Lombardia 02-67482777 oppure scrivere a urp@consiglio.regione.lombardia.it

Dal 15 al 24 ottobre 2021 è in programma la nuova edizione di Archivi Aperti, manifestazione promossa da Rete Fotografia, quest’anno sul tema del territorio e del paesaggio, e del rapporto con il sociale nella fotografia. Una discussione a più voci per un confronto corale sul ruolo della fotografia nel nuovo modello di sviluppo sostenibile. Parteciperemo anche quest’anno, proponendo esclusive visite guidate al percorso espositivo “Storie del Grattacielo. I 60 anni del Pirellone tra cultura industriale e attività istituzionali di Regione Lombardia”, curata dalla nostra Fondazione con l’architetto Alessandro Colombo. La mostra, promossa dalla Fondazione Pirelli e dalla Regione Lombardia, Giunta e Consiglio, è un racconto dell’edificio, nato come Headquarters della Pirelli e poi diventato sede e simbolo dell’istituzione regionale, attraverso fotografie, illustrazioni, filmati di repertorio, in larga parte provenienti dall’Archivio Storico Pirelli.

Il percorso espositivo al 26esimo del Pirellone (di cui sono già disponibili il catalogo edito da Marsilio e il sito dedicato 60grattacielopirelli.org), si apre con un plastico dell’edificio proveniente dai Gio Ponti Archives ed è scandito da cinque “movimenti”, dalla costruzione del Grattacielo a oggi. Una linea del tempo ripercorre gli eventi più significativi della grande Storia nazionale e internazionale dal 1956 ai giorni nostri. Scatti e reportage d’autore, tra cui le fotografie di Paolo Monti e la celebre serie dell’olandese Arno Hammacher del 1959, che documentano l’evoluzione del progetto architettonico, affidato agli studi Ponti-Fornaroli-Rosselli e Valtolina-Dell’Orto e agli ingegneri Pier Luigi Nervi e Arturo Danusso. La narrazione della vita nell’edificio, gli spazi interni, il design, il lavoro, è affidata allo sguardo di grandi fotografi come De Paoli, Aldo Ballo, Calcagni, Dino Sala e storiche agenzie come Publifoto. Negli anni del boom il Grattacielo è protagonista di reportage fotografici e servizi di moda di maestri come Ugo Mulas, ed è palcoscenico del nuovo cinema italiano di autori come Luchino Visconti, Michelangelo Antonioni, Carlo Lizzani. Nel 1968 Uliano Lucas immortala un immigrato davanti al Grattacielo: uno scatto potente e iconico raccontato dallo stesso autore in una delle videoinstallazioni in mostra che, attraverso la voce di coloro che hanno vissuto l’edificio e che con esso hanno un legame profondo, accompagnano il visitatore in questo lungo viaggio. Un’occasione per approfondire la storia architettonica della capoluogo lombardo e ammirare la città dall’alto.

Le visite guidate sono programmate nelle giornate di mercoledì 20 ottobre e giovedì 21 ottobre 2021, su tre turni (14.30, 16 e 17.30), con una speciale proposta dedicata alle famiglie con bambini dai 6 ai 10 anni nei turni delle 17.30. L’ingresso è gratuito e su prenotazione, scrivendo a visite@fondazionepirelli.org.

Comunichiamo che i posti disponibili per le visite di “Archivi Aperti” sono esauriti. La mostra è comunque visitabile su prenotazione nei giorni di lunedì e mercoledì dalle ore 9,30 alle ore 12,30 e dalle ore 14,30 alle ore 16,30. Per prenotare è possibile chiamare il numero di Regione Lombardia 02-67482777 oppure scrivere a urp@consiglio.regione.lombardia.it

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