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Il genius loci di Milano tra imprese e università e il buon esempio dei 60 anni del Grattacielo Pirelli

Il genius loci di Milano sta nel lavoro, nelle fabbriche, nei cantieri, nei luoghi della cultura, della scuola e dell’università. Nella città che studia, crea e intraprende. E nella “città che sale” raffigurata, all’inizio del Novecento frenetico e inquieto, da Umberto Boccioni. Un genius loci raccontato bene da una frase di Gio Ponti: “L’arte si innamora dell’industria” e dunque, anche seguendo questa strada, l’industria è un fatto culturale. Quella frase, esemplare ed essenziale, fa da titolo a un volume, pubblicato nel 2009 da Rizzoli (a cura di Ugo La Pietra) per ricordare, a trent’anni dalla morte di uno dei più grandi architetti del Novecento europeo, la relazione tra progetti e prodotti, idee e materiali, disegni e realtà di vita e lavoro. E indica bene il percorso lungo cui Milano continua a crescere, tra storia e contemporaneità.

Un percorso che si può guardare, oggi, da tre convergenti punti di vista, tutti connotati, in un modo o nell’altro, dal segno di Gio Ponti. Il primo è il Grattacielo Pirelli, da lui progettato insieme a Pier Luigi Nervi, di cui si apre proprio domani una mostra per ricordarne i sessant’anni dall’inaugurazione. Il secondo è il nuovo campus del Politecnico di Milano, progettato da Renzo Piano e inaugurato il 22 giugno, in continuazione con la ristrutturazione di due storici edifici di Gio Ponti, la Nave e il Trifoglio. Il terzo è l’Assemblea annuale di Assolombarda, in programma il primo luglio, per raccontare “la rigenerazione” e cioè la ripresa di economia e società, in una Milano paradigma italiano ed europeo, dopo il difficile e drammatico periodo della pandemia e della recessione. E’ di Gio Ponti, il palazzo dell’Assolombarda, in via Pantano, proprio di fronte a un altro dei simboli di Milano, la Torre Velasca di cui sta partendo un ambizioso progetto di ristrutturazione, riqualificazione e rilancio. E quell’Assemblea è in programma negli spazi ex industriali delle Acciaierie Falck a Sesto San Giovanni, adesso cuore di un ambizioso progetto architettonico e urbanistico, “firmato” da Forster e Partners, con un investimento da 4 miliardi. Architettura e manifattura. Idee e progetti concreti. Economia e bellezza. Per dirla in sintesi, “l’arte che si innamora dell’industria”, appunto.

Guardiamo un po’ meglio. Partendo dal Grattacielo Pirelli. Inaugurato nell’aprile del 1960 e subito definito così da Dino Buzzati, “grande firma” del Corriere della Sera, nei suoi “Piccole storie del grattacielo”: “In Milano il grattacielo Pirelli, a parte la sua incontestabile bellezza, o forse proprio per questo, è un grande personaggio”.
La mostra, curata dalla Fondazione Pirelli e dall’architetto Alessandro Colombo, al 26° piano del Pirellone, dagli anni Settanta sede della Regione Lombardia e adesso del suo Consiglio regionale, racconta storia e attualità per immagini, disegni tecnici e testimonianze. Piero Bassetti, primo presidente della Regione, ne parla così: “Il Grattacielo Pirelli è per Milano qualcosa di caro e di non contestabile, perché è qualcosa che è nato dal privato ed è stato consensualmente immesso nello sviluppo democratico del Paese in un momento di trasformazione della società e della organizzazione politica italiana”. E Gianfelice Rocca, presindente dell’Humanitas ed ex presidente dell’Assolombarda, guarda all’innovazione: “Milano deve investire nei settori che si proiettano verso il futuro. Credo che una sfida per noi tutti sia fare in modo che a Milano, anche per la sua tradizione culturale, la rivoluzione digitale non ci trasformi tutti in virtuali, ma sia invece al servizio di un vero e proprio Umanesimo tecnologico. E cioè usare al massimo questa rivoluzione nel portare servizi al cittadino, nel favorire contatti umani e comunicazione, nel rendere più accessibili e diffusi anche musica, teatro e altre attività culturali. Nel fare in modo che tutto questo avvenga in una forma che mantenga lo stesso spirito che aveva animato il Grattacielo Pirelli: avere la testa rivolta verso l’alto, ma i piedi ben saldi nella società”.

La sintesi, tra memoria e futuro, sta nelle parole di Marco Tronchetti Provera, Ceo di Pirelli: “Il Grattacielo, negli anni Sessanta, diventa rapidamente il simbolo del miracolo economico, in un’Italia che ha voglia di ripartire e libera energie straordinarie, tanto da diventare in pochi anni una delle grandi potenze mondiali industriali. Sono le energie del mondo delle imprese, insieme a quelle della politica e dei sindacati, in un grande progetto unitario di sviluppo, di migliore qualità della vita”.
Proprio il Grattacielo Pirelli ne è significativa conferma: la volontà di ripresa di una grande impresa fortemente radicata a Milano e, contemporaneamente, internazionale, capace di originali sintesi culturali e produttive, la creatività di architetti della importanza di Gio Ponti e di ingegneri con capacità riconosciute a livello mondiale come Pier Luigi Nervi, il dinamismo di una metropoli che sa e vuole guardare all’Europa. Ecco, ancora oggi “Il Grattacielo rimane un landmark per Milano e per l’Italia”. Perché, insiste Tronchetti, “Milano metropoli, come le altre grandi città del mondo, vive di cambiamento, attrazione e innovazione. Cresce nel cuore delle più intense dinamiche della storia, anticipandone spesso il corso. Attira risorse economiche, culturali e sociali. Include persone in cerca di un migliore avvenire. E stimola creatività e intraprendenza, soffre le crisi e ogni volta recupera energie per uscirne, perché arrendersi non fa parte del suo Dna di comunità aperta. E’, insomma, una metropoli in movimento”.

Anche il nuovo Campus del Politecnico, guidato da un Rettore lungimirante, Ferruccio Resta, ne è conferma. “Uno spazio aperto alla luce”, sostiene Renzo Piano, integrando didattica, laboratori di ricerca e aree verdi. Un “rammendo” tra la storica sede fine Ottocento in piazza Leonardo da Vinci, gli edifici progettati da Ponti e una zona di Città Studi diventata anonima e adesso risanata e rilanciata. Una vera e propria “fabbrica delle idee”. Un pezzo d’un cambiamento che è già attualità. Come nota il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel discorso di inaugurazione: “Il nuovo Campus del Politecnico sottolinea la proiezione verso il futuro in sintonia con il momento che il nostro Paese sta attraversando: non un ritorno alle condizioni precedenti alla pandemia, ma un nuovo inizio su condizioni diverse e nuove”.

I temi al centro dell’Assemblea di Assolombarda, guidata da Alessandro Spada, si muovono lungo questo percorso di rinnovamento e rilancio, in significativa sintonia con il pensiero del Capo dello Stato.
Ne è buon esempio, con il progetto “Milano Sesto” (4 miliardi di investimenti internazionali) l’area delle ex Acciaierie Falck, nel Nord industriale di Milano, servizi e residenze, imprese e spazi per l’innovazione e per una “Città della Salute e della Ricerca”. E in tutti i territori di Assolombarda (7mila imprese, tra Milano, Monza e Brianza, Lodi e Pavia), in un’economia che vale il 13% del Pil italiano e altrettanto di tutto l’export nazionale, è già in corso un progetto di ripartenza concentrato su innovazione e lavoro. E’ la Grande Milano dall’antica vocazione industriale che rinasce e riparte sulla base di modelli avanzati di inclusione sociale e sostenibilità ambientale, per diventare una nuova destinazione urbana dove vivere, lavorare, studiare e costruire il lavoro del territorio. Rigenerazione, appunto.

Sono i valori della Ue con il Recovery Plan. E le indicazioni strategiche e operative del Pnrr (il Piano di ripresa e resilienza) messe a punto dal governo presieduto da Mario Draghi, che Assolombarda apprezza e sostiene. Sono i temi – innovazione, lavoro, competitività, solidarietà – su cui si muove l’esperienza degli imprenditori milanesi. Forti della loro “cultura politecnica”: scienza, tecnologia, ricerca, produzione di qualità, senso della bellezza. Torniamo alla memoria di Gio Ponti, all’arte che si innamora dell’industria. Ricambiata.

Il genius loci di Milano sta nel lavoro, nelle fabbriche, nei cantieri, nei luoghi della cultura, della scuola e dell’università. Nella città che studia, crea e intraprende. E nella “città che sale” raffigurata, all’inizio del Novecento frenetico e inquieto, da Umberto Boccioni. Un genius loci raccontato bene da una frase di Gio Ponti: “L’arte si innamora dell’industria” e dunque, anche seguendo questa strada, l’industria è un fatto culturale. Quella frase, esemplare ed essenziale, fa da titolo a un volume, pubblicato nel 2009 da Rizzoli (a cura di Ugo La Pietra) per ricordare, a trent’anni dalla morte di uno dei più grandi architetti del Novecento europeo, la relazione tra progetti e prodotti, idee e materiali, disegni e realtà di vita e lavoro. E indica bene il percorso lungo cui Milano continua a crescere, tra storia e contemporaneità.

Un percorso che si può guardare, oggi, da tre convergenti punti di vista, tutti connotati, in un modo o nell’altro, dal segno di Gio Ponti. Il primo è il Grattacielo Pirelli, da lui progettato insieme a Pier Luigi Nervi, di cui si apre proprio domani una mostra per ricordarne i sessant’anni dall’inaugurazione. Il secondo è il nuovo campus del Politecnico di Milano, progettato da Renzo Piano e inaugurato il 22 giugno, in continuazione con la ristrutturazione di due storici edifici di Gio Ponti, la Nave e il Trifoglio. Il terzo è l’Assemblea annuale di Assolombarda, in programma il primo luglio, per raccontare “la rigenerazione” e cioè la ripresa di economia e società, in una Milano paradigma italiano ed europeo, dopo il difficile e drammatico periodo della pandemia e della recessione. E’ di Gio Ponti, il palazzo dell’Assolombarda, in via Pantano, proprio di fronte a un altro dei simboli di Milano, la Torre Velasca di cui sta partendo un ambizioso progetto di ristrutturazione, riqualificazione e rilancio. E quell’Assemblea è in programma negli spazi ex industriali delle Acciaierie Falck a Sesto San Giovanni, adesso cuore di un ambizioso progetto architettonico e urbanistico, “firmato” da Forster e Partners, con un investimento da 4 miliardi. Architettura e manifattura. Idee e progetti concreti. Economia e bellezza. Per dirla in sintesi, “l’arte che si innamora dell’industria”, appunto.

Guardiamo un po’ meglio. Partendo dal Grattacielo Pirelli. Inaugurato nell’aprile del 1960 e subito definito così da Dino Buzzati, “grande firma” del Corriere della Sera, nei suoi “Piccole storie del grattacielo”: “In Milano il grattacielo Pirelli, a parte la sua incontestabile bellezza, o forse proprio per questo, è un grande personaggio”.
La mostra, curata dalla Fondazione Pirelli e dall’architetto Alessandro Colombo, al 26° piano del Pirellone, dagli anni Settanta sede della Regione Lombardia e adesso del suo Consiglio regionale, racconta storia e attualità per immagini, disegni tecnici e testimonianze. Piero Bassetti, primo presidente della Regione, ne parla così: “Il Grattacielo Pirelli è per Milano qualcosa di caro e di non contestabile, perché è qualcosa che è nato dal privato ed è stato consensualmente immesso nello sviluppo democratico del Paese in un momento di trasformazione della società e della organizzazione politica italiana”. E Gianfelice Rocca, presindente dell’Humanitas ed ex presidente dell’Assolombarda, guarda all’innovazione: “Milano deve investire nei settori che si proiettano verso il futuro. Credo che una sfida per noi tutti sia fare in modo che a Milano, anche per la sua tradizione culturale, la rivoluzione digitale non ci trasformi tutti in virtuali, ma sia invece al servizio di un vero e proprio Umanesimo tecnologico. E cioè usare al massimo questa rivoluzione nel portare servizi al cittadino, nel favorire contatti umani e comunicazione, nel rendere più accessibili e diffusi anche musica, teatro e altre attività culturali. Nel fare in modo che tutto questo avvenga in una forma che mantenga lo stesso spirito che aveva animato il Grattacielo Pirelli: avere la testa rivolta verso l’alto, ma i piedi ben saldi nella società”.

La sintesi, tra memoria e futuro, sta nelle parole di Marco Tronchetti Provera, Ceo di Pirelli: “Il Grattacielo, negli anni Sessanta, diventa rapidamente il simbolo del miracolo economico, in un’Italia che ha voglia di ripartire e libera energie straordinarie, tanto da diventare in pochi anni una delle grandi potenze mondiali industriali. Sono le energie del mondo delle imprese, insieme a quelle della politica e dei sindacati, in un grande progetto unitario di sviluppo, di migliore qualità della vita”.
Proprio il Grattacielo Pirelli ne è significativa conferma: la volontà di ripresa di una grande impresa fortemente radicata a Milano e, contemporaneamente, internazionale, capace di originali sintesi culturali e produttive, la creatività di architetti della importanza di Gio Ponti e di ingegneri con capacità riconosciute a livello mondiale come Pier Luigi Nervi, il dinamismo di una metropoli che sa e vuole guardare all’Europa. Ecco, ancora oggi “Il Grattacielo rimane un landmark per Milano e per l’Italia”. Perché, insiste Tronchetti, “Milano metropoli, come le altre grandi città del mondo, vive di cambiamento, attrazione e innovazione. Cresce nel cuore delle più intense dinamiche della storia, anticipandone spesso il corso. Attira risorse economiche, culturali e sociali. Include persone in cerca di un migliore avvenire. E stimola creatività e intraprendenza, soffre le crisi e ogni volta recupera energie per uscirne, perché arrendersi non fa parte del suo Dna di comunità aperta. E’, insomma, una metropoli in movimento”.

Anche il nuovo Campus del Politecnico, guidato da un Rettore lungimirante, Ferruccio Resta, ne è conferma. “Uno spazio aperto alla luce”, sostiene Renzo Piano, integrando didattica, laboratori di ricerca e aree verdi. Un “rammendo” tra la storica sede fine Ottocento in piazza Leonardo da Vinci, gli edifici progettati da Ponti e una zona di Città Studi diventata anonima e adesso risanata e rilanciata. Una vera e propria “fabbrica delle idee”. Un pezzo d’un cambiamento che è già attualità. Come nota il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel discorso di inaugurazione: “Il nuovo Campus del Politecnico sottolinea la proiezione verso il futuro in sintonia con il momento che il nostro Paese sta attraversando: non un ritorno alle condizioni precedenti alla pandemia, ma un nuovo inizio su condizioni diverse e nuove”.

I temi al centro dell’Assemblea di Assolombarda, guidata da Alessandro Spada, si muovono lungo questo percorso di rinnovamento e rilancio, in significativa sintonia con il pensiero del Capo dello Stato.
Ne è buon esempio, con il progetto “Milano Sesto” (4 miliardi di investimenti internazionali) l’area delle ex Acciaierie Falck, nel Nord industriale di Milano, servizi e residenze, imprese e spazi per l’innovazione e per una “Città della Salute e della Ricerca”. E in tutti i territori di Assolombarda (7mila imprese, tra Milano, Monza e Brianza, Lodi e Pavia), in un’economia che vale il 13% del Pil italiano e altrettanto di tutto l’export nazionale, è già in corso un progetto di ripartenza concentrato su innovazione e lavoro. E’ la Grande Milano dall’antica vocazione industriale che rinasce e riparte sulla base di modelli avanzati di inclusione sociale e sostenibilità ambientale, per diventare una nuova destinazione urbana dove vivere, lavorare, studiare e costruire il lavoro del territorio. Rigenerazione, appunto.

Sono i valori della Ue con il Recovery Plan. E le indicazioni strategiche e operative del Pnrr (il Piano di ripresa e resilienza) messe a punto dal governo presieduto da Mario Draghi, che Assolombarda apprezza e sostiene. Sono i temi – innovazione, lavoro, competitività, solidarietà – su cui si muove l’esperienza degli imprenditori milanesi. Forti della loro “cultura politecnica”: scienza, tecnologia, ricerca, produzione di qualità, senso della bellezza. Torniamo alla memoria di Gio Ponti, all’arte che si innamora dell’industria. Ricambiata.

Covid-19 e CSR, cosa è accaduto?

Una tesi discussa alla LUISS fornisce un primo quadro interpretativo

L’impresa per sopravvivere, e crescere, deve adattarsi alle circostanze che cambiano. Vale per ogni sua componente. Vale, quindi, anche per la complessa attività che ormai viene riassunta nella Corporate Social Responsability (CSR). Ragionare su come la CSR cambia sulla base del cambiamento esterno all’azienda, è un esercizio importante. Utile a farsi. Ed è ciò che ha provato Matteo Gioia con la sua tesi discussa nell’ambito del Dipartimento di Impresa e Management, Cattedra Strategie di comunicazione e tecniche di pubblicità, della LUISS.

“Come è cambiata la Corporate Social Responsability dopo la pandemia”, è un’indagine che ha l’obiettivo di “dimostrare come sia cambiata l’importanza della CSR nel periodo Covid-19: in una situazione di crisi, caratterizzata dall’emergenza epidemiologica e dal periodo di lockdown che ha costretto tutto il paese ad una quarantena nel proprio domicilio, può rivelarsi indispensabile per un’impresa ridefinire gli obiettivi e mettere in atto una strategia di Corporate Social Responsability adeguata”. Da qui, Gioia prende le mosse per mettere a punto prima il concetto stesso di CSR e, poi, per indagare comportamenti, atteggiamenti, problemi della relazione tra lavoro “a casa” e CSR visto come due facce della stessa realtà. Gioia, quindi, approfondisce la possibilità che dopo Covid-19 cambi l’approccio stesso alla CSR.

Gioia conclude spiegando: “I team che si occupano della Responsabilità Sociale D’impresa (CSR), come quelli di tutte le altre aree del business, hanno dovuto adottare un approccio più flessibile per sostenere le comunità. Sopravvivere alla crisi fornendo contributi tangibili per il bene comune è diventato un obiettivo tanto importante quanto quello di limitare i danni economici e ripartire in ogni settore e livello aziendale. Le politiche CSR forti e coerenti sono diventate una pietra miliare dell’identità di molti marchi, con i loro clienti che si identificano fortemente con le cause sostenute dalle aziende”. Covid-19, in altri termini è diventato veicolo di coesione non solo sociale ma anche tra imprese e società. “La nuova fase non sarà un semplice ritorno al business pre-COVID, ma più probabilmente aprirà una nuova era definita da rapidi cambiamenti nelle norme culturali, nei valori della società e nei comportamenti, come l’accresciuta domanda di politiche aziendali più responsabili e un rinnovato brand purpose”.

Il lavoro di Matteo Gioia ha il merito di sintetizzare un tema complesso e in mutamento. Prospettando anche qualcosa ancora tutto da scoprire e verificare.

Come è cambiata la Corporate Social Responsability dopo la pandemia

Matteo Gioia, Tesi, LUISS, Dipartimento di Impresa e Management, Cattedra Strategie di comunicazione e tecniche di pubblicità, 2021.

Una tesi discussa alla LUISS fornisce un primo quadro interpretativo

L’impresa per sopravvivere, e crescere, deve adattarsi alle circostanze che cambiano. Vale per ogni sua componente. Vale, quindi, anche per la complessa attività che ormai viene riassunta nella Corporate Social Responsability (CSR). Ragionare su come la CSR cambia sulla base del cambiamento esterno all’azienda, è un esercizio importante. Utile a farsi. Ed è ciò che ha provato Matteo Gioia con la sua tesi discussa nell’ambito del Dipartimento di Impresa e Management, Cattedra Strategie di comunicazione e tecniche di pubblicità, della LUISS.

“Come è cambiata la Corporate Social Responsability dopo la pandemia”, è un’indagine che ha l’obiettivo di “dimostrare come sia cambiata l’importanza della CSR nel periodo Covid-19: in una situazione di crisi, caratterizzata dall’emergenza epidemiologica e dal periodo di lockdown che ha costretto tutto il paese ad una quarantena nel proprio domicilio, può rivelarsi indispensabile per un’impresa ridefinire gli obiettivi e mettere in atto una strategia di Corporate Social Responsability adeguata”. Da qui, Gioia prende le mosse per mettere a punto prima il concetto stesso di CSR e, poi, per indagare comportamenti, atteggiamenti, problemi della relazione tra lavoro “a casa” e CSR visto come due facce della stessa realtà. Gioia, quindi, approfondisce la possibilità che dopo Covid-19 cambi l’approccio stesso alla CSR.

Gioia conclude spiegando: “I team che si occupano della Responsabilità Sociale D’impresa (CSR), come quelli di tutte le altre aree del business, hanno dovuto adottare un approccio più flessibile per sostenere le comunità. Sopravvivere alla crisi fornendo contributi tangibili per il bene comune è diventato un obiettivo tanto importante quanto quello di limitare i danni economici e ripartire in ogni settore e livello aziendale. Le politiche CSR forti e coerenti sono diventate una pietra miliare dell’identità di molti marchi, con i loro clienti che si identificano fortemente con le cause sostenute dalle aziende”. Covid-19, in altri termini è diventato veicolo di coesione non solo sociale ma anche tra imprese e società. “La nuova fase non sarà un semplice ritorno al business pre-COVID, ma più probabilmente aprirà una nuova era definita da rapidi cambiamenti nelle norme culturali, nei valori della società e nei comportamenti, come l’accresciuta domanda di politiche aziendali più responsabili e un rinnovato brand purpose”.

Il lavoro di Matteo Gioia ha il merito di sintetizzare un tema complesso e in mutamento. Prospettando anche qualcosa ancora tutto da scoprire e verificare.

Come è cambiata la Corporate Social Responsability dopo la pandemia

Matteo Gioia, Tesi, LUISS, Dipartimento di Impresa e Management, Cattedra Strategie di comunicazione e tecniche di pubblicità, 2021.

Chanel, ovvero un modello inimitabile

Un libro curato da Codeluppi ragiona e fa ragionare attorno ad un caso di cultura d’impresa pressoché unico che ancora oggi fa scuola

 

Coco Chanel è scomparsa cinquant’anni fa e cent’anni fa ha lanciato sul mercato il profumo più venduto della storia: Chanel N° 5. E’ da questi due anniversari che è nata l’occasione per una raccolta di testi editi e inediti sul “caso Chanel”, che ha sempre riservato un’elevata considerazione per l’identità di marca e per l’attività di comunicazione. Caso, anche, di una particolare espressione di cultura d’impresa, tutta da studiare e apprezzare. E’ attorno a queste considerazioni che è nato “Chanel. Identità di marca e pubblicità”, libro curato da Vanni Codeluppi ordinario di Sociologia dei media all’Università IULM di Milano e grande esperto proprio in tema di aziende e di marchi.

Quello di Chanel , viene spiegato dal curatore, è un caso esemplare, grazie al quale è possibile ragionare su quello che accade nel corso del tempo all’immagine aziendale, ma anche esplorare questioni rilevanti per comprendere la natura e il funzionamento di un soggetto complesso come la marca. Il libro, quindi, ha l’obiettivo di ricordare Chanel e il suo profumo – che, nonostante i tanti anni trascorsi, riescono ancora oggi ad essere tra i più importanti brand del contesto culturale e di mercato – evidenziando ciò che tanto la figura di Coco quanto la sua creazione più iconica hanno da insegnare al mondo del marketing e della comunicazione.
Il volume raccoglie quindi testi editi e inediti, proponendo al lettore delle riflessioni sul “caso Chanel”, che ha sempre riservato un’elevata considerazione per l’identità di marca e per l’attività di comunicazione.

Tutto, naturalmente, inizia dalla messa a fuoco della protagonista – Coco Chanel -, e del suo prodotto, visto per quello che è: cioè un prodotto innovativo. Successivamente, il libro raccoglie interventi che toccano prima l’identità di marca e le sue caratteristiche, poi gli strumenti di comunicazione del prodotto. Ne emerge una sintesi efficace e importante di una particolare cultura d’impresa che è modello per tutti pur essendo inimitabile.

Tutto da leggere il libro curato da Codeluppi, che rappresenta anche un esempio di buona scrittura collettiva attorno ad un caso d’impresa.

Chanel. Identità di marca e pubblicità

Vanni Codeluppi (a cura di)

Franco Angeli, 2021

Un libro curato da Codeluppi ragiona e fa ragionare attorno ad un caso di cultura d’impresa pressoché unico che ancora oggi fa scuola

 

Coco Chanel è scomparsa cinquant’anni fa e cent’anni fa ha lanciato sul mercato il profumo più venduto della storia: Chanel N° 5. E’ da questi due anniversari che è nata l’occasione per una raccolta di testi editi e inediti sul “caso Chanel”, che ha sempre riservato un’elevata considerazione per l’identità di marca e per l’attività di comunicazione. Caso, anche, di una particolare espressione di cultura d’impresa, tutta da studiare e apprezzare. E’ attorno a queste considerazioni che è nato “Chanel. Identità di marca e pubblicità”, libro curato da Vanni Codeluppi ordinario di Sociologia dei media all’Università IULM di Milano e grande esperto proprio in tema di aziende e di marchi.

Quello di Chanel , viene spiegato dal curatore, è un caso esemplare, grazie al quale è possibile ragionare su quello che accade nel corso del tempo all’immagine aziendale, ma anche esplorare questioni rilevanti per comprendere la natura e il funzionamento di un soggetto complesso come la marca. Il libro, quindi, ha l’obiettivo di ricordare Chanel e il suo profumo – che, nonostante i tanti anni trascorsi, riescono ancora oggi ad essere tra i più importanti brand del contesto culturale e di mercato – evidenziando ciò che tanto la figura di Coco quanto la sua creazione più iconica hanno da insegnare al mondo del marketing e della comunicazione.
Il volume raccoglie quindi testi editi e inediti, proponendo al lettore delle riflessioni sul “caso Chanel”, che ha sempre riservato un’elevata considerazione per l’identità di marca e per l’attività di comunicazione.

Tutto, naturalmente, inizia dalla messa a fuoco della protagonista – Coco Chanel -, e del suo prodotto, visto per quello che è: cioè un prodotto innovativo. Successivamente, il libro raccoglie interventi che toccano prima l’identità di marca e le sue caratteristiche, poi gli strumenti di comunicazione del prodotto. Ne emerge una sintesi efficace e importante di una particolare cultura d’impresa che è modello per tutti pur essendo inimitabile.

Tutto da leggere il libro curato da Codeluppi, che rappresenta anche un esempio di buona scrittura collettiva attorno ad un caso d’impresa.

Chanel. Identità di marca e pubblicità

Vanni Codeluppi (a cura di)

Franco Angeli, 2021

Symbola, ecco i vantaggi economici della sostenibilità: le imprese coesive sono più competitive e apprezzate

“Dobbiamo fare in modo che la ripresa sia equa e sostenibile”, sostiene il presidente del Consiglio Mario Draghi. Non basta tornare a crescere, dopo la crisi scatenata dalla pandemia e dalla recessione conseguente. Se nel passato “ci siamo dimenticati della coesione sociale”, se “abbiamo dato la democrazia per scontata” e ignorato “il rischio del populismo” adesso è necessario guardare alla qualità dello sviluppo, in società che “stanno attraversando cambiamenti economici importanti”. E dunque “dobbiamo dare un sostegno ai lavoratori attraverso politiche attive del mercato del lavoro”, creando “nuove opportunità per le donne e per i giovani, oltre a riqualificare coloro che hanno perso il lavoro”.

Equità, sostenibilità ambientale e sociale, lavoro, come cardini della nuova stagione economica che stiamo cercando di costruire. Mario Draghi, convinto che “la coesione sia un dovere morale” oltre che una positiva opportunità economica, parla a Barcellona, accanto al premier spagnolo Pedro Sánchez, ricevendo il premio “Cercle d’Economia”, venerdì 18 giugno. Ed è lo stesso giorno in cui in Italia scoppia il caso del sindacalista ucciso e travolto da un camionista che cercava di forzare il blocco dei lavoratori in sciopero contro “l’inferno della logistica” nei piazzali di Biandrate (Novara).

Coincidenze (“incidenze”, avrebbe detto Leonardo Sciascia), con un forte valore simbolico. Ci sono molte facce, nel mondo del lavoro. Le trasformazioni high tech nelle fabbriche digitali e attive sui mercati internazionali, con un sofisticato miglioramento di condizioni d’impegno e salari. E le arretratezze in settori dei servizi in cui la rincorsa del costo più basso determina drammatici squilibri economici e sociali. Contraddizioni pesanti, contrasti ruvidi. Da cercare di risolvere e appianare.

La cornice è appunto quella della ripresa “equa e sostenibile” di cui parla giustamente Draghi. Gli strumenti sono le riforme che riguardano il lavoro, le leggi che lo regolano, i contratti, gli ammortizzatori sociali. Un impegno serissimo da affrontare, senza demagogie, con lungimiranza riformista da parte della politica, delle rappresentanze sociali e delle imprese. L’attuazione del Recovery Plan della Ue secondo i binari della green e della digital economy e dei processi di diffusione della conoscenza (scuola, formazione di lunga durata) e della coesione sociale e la sua traduzione nelle misure del Pnrr (il Piano italiano di ripresa e resilienza), appena approvato a pieni voti da Bruxelles sono gli strumenti in uso. E la sfida è comunque più generale, in quel “cambio di paradigma” di prodotti, produzioni e consumi da anni indicato dalla migliore letteratura economica internazionale, ma anche da Papa Francesco e dalle stesse imprese più sensibili alla necessità di legare sostenibilità e competitività, produttività e solidarietà.

Riforme, dunque. Investimenti, cui destinare risorse che derivano dai debiti contratti dalla Ue e dagli Stati (è il “debito buono” di cui parla Draghi, contrapposto al “debito cattivo” dell’assistenzialismo clientelare, la spesa pubblica produttiva che crea sviluppo). E una strategia di collaborazione tra pubblico e privato, Stato e imprese di mercato.

Indicazioni molto interessanti, guardando proprio alle imprese e alla loro evoluzione, arrivano adesso dal Rapporto annuale di Fondazione Symbola, Unioncamere e Intesa San Paolo su “Coesione e competizione – Nuove geografie della produzione del valore in Italia”. Per usare una sintesi efficace, “la coesione è un formidabile fattore produttivo, soprattutto in Italia”, sostiene Ermete Realacci, presidente di Symbola.

Il mondo – dice il Rapporto – sta cambiando e l’economia che ci ha guidato per decenni è inadeguata a gestire le crisi attuali. E “con la sostenibilità avanzano nuovi modelli nell’uso delle risorse (green economy,sharing economy, circular economy, bioeconomy), nell’uso delle competenze diffuse (open innovation, crowdsourcing), nell’accesso all’informazione (platform economy), nell’accesso ai finanziamenti (crowdfunding, sustainable bond), abilitati dalle nuove tecnologie e dal digitale. Sfide che chiamano a un’azione comune imprese, comunità, istituzioni, cittadini”.

Le imprese coesive, quelle cioè più attente ai propri dipendenti, ai territori con cui hanno rapporti e a tutti gli altri stakeholders, sono 49mila, tra le manifatturiere, soprattuto piccole e medie. Crescono di numero e capacità competitive. E hanno migliori risultati economici: esportano di più (il 58% contro il 39% delle non coesive); fanno più eco-investimenti (il 39% contro il 19% delle non coesive); investono di più per migliorare prodotti e servizi (il 58% contro il 46% delle non coesive); adottano misure legate al Piano di Transizione 4.0 (il 28% contro l’11% delle non coesive). E le imprese coesive che investiranno in processi e prodotti a maggior risparmio energetico, idrico e minor impatto ambientale nel triennio 2021-23 sono il 26%, contro il 12% delle altre.

Tra le imprese coesive – continua il Rapporto Symbola – è anche significativamente maggiore la capacità di stabilire buoni rapporti con il mondo della cultura (con quali donazioni, sponsorizzazioni, partnership con istituzioni culturali, ecc.): sono il 26%, rispetto alle 11% non coesive.

Un altro dato significativo riguarda la digitalizzazione: la quota delle imprese che hanno adottato o stanno pianificando di adottare misure legate alla Transizione 4.0 è pari a 28% per le imprese coesive e dell’11% per le altre.

Anche se c’è ancora molto da fare, coesione vuol dire pure “miglioramento del bilanciamento di genere”: nel Rapporto si evidenzia un incremento delle donne nei cda delle società quotate passato da 170 nel 2008, il 5,9%, alle 811 di oggi, il 36,3%, mentre nei collegi sindacali si è passati dal 13,4% del 2012 al 41,6% del 2019, con 475 sindaci donne.

La coesione rappresenta per le imprese un’occasione per accrescere il senso di appartenenza e soddisfazione di vita dei propri dipendenti (nel 2020 le erogazioni di welfare sulla base di contrattazione sindacale sono cresciute del 19,5%), per rafforzare le relazioni di filiera e distrettuali (le imprese ricadenti nei distretti secondo il monitor di Intesa Sanpaolo negli ultimi anni hanno visto crescere la produttività più delle imprese non distrettuali), ma anche per competere in un mercato che premia sempre di più gli atteggiamenti virtuosi.

Sul versante degli investimenti, crescono quelli diretti verso aziende che dimostrano attenzione alla dimensione sociale e ambientale. E i consumatori, “votando con il portafoglio o con i click, scelgono sempre più consapevolmente prodotti rispettosi dell’uomo e dell’ambiente e talvolta con il crowdfunding supportano le aziende più sostenibili”.

La coesione, come dimostra l’indagine condotta da Ipsos per Symbola, insieme alla sostenibilità, incrocia sempre di più nella percezione dei cittadini il tema della qualità. Già oggi due italiani su tre sono disposti a riconoscere, alle imprese che hanno atteggiamenti coesivi, un premium price sui prodotti e servizi offerti. Un differenziale di prezzo che in media è del 10% in più a favore delle imprese coesive.

Dove sono concentrate le imprese coesive? Quasi il 70% è al Nord e più del 50% in tre regioni: Lombardia (26,3%), Veneto (13,6%) ed Emilia-Romagna (13,4%). Nel Rapporto Symbola si rileva inoltre una relazione positiva con il benessere economico: le regioni in cui l’incidenza di imprese coesive è più elevata sono anche quelle con un Pil pro capite più elevato. Benessere economico, ma anche sociale e ambientale dei territori. Mettendo in relazione la presenza di imprese coesive e gli indicatori BES (Benessere Equo Sostenibile) dell’Istat, ci sono correlazioni positive elevate per la “qualità del lavoro”, la “qualità dei servizi” e la “politica e le istituzioni”.

“Dobbiamo fare in modo che la ripresa sia equa e sostenibile”, sostiene il presidente del Consiglio Mario Draghi. Non basta tornare a crescere, dopo la crisi scatenata dalla pandemia e dalla recessione conseguente. Se nel passato “ci siamo dimenticati della coesione sociale”, se “abbiamo dato la democrazia per scontata” e ignorato “il rischio del populismo” adesso è necessario guardare alla qualità dello sviluppo, in società che “stanno attraversando cambiamenti economici importanti”. E dunque “dobbiamo dare un sostegno ai lavoratori attraverso politiche attive del mercato del lavoro”, creando “nuove opportunità per le donne e per i giovani, oltre a riqualificare coloro che hanno perso il lavoro”.

Equità, sostenibilità ambientale e sociale, lavoro, come cardini della nuova stagione economica che stiamo cercando di costruire. Mario Draghi, convinto che “la coesione sia un dovere morale” oltre che una positiva opportunità economica, parla a Barcellona, accanto al premier spagnolo Pedro Sánchez, ricevendo il premio “Cercle d’Economia”, venerdì 18 giugno. Ed è lo stesso giorno in cui in Italia scoppia il caso del sindacalista ucciso e travolto da un camionista che cercava di forzare il blocco dei lavoratori in sciopero contro “l’inferno della logistica” nei piazzali di Biandrate (Novara).

Coincidenze (“incidenze”, avrebbe detto Leonardo Sciascia), con un forte valore simbolico. Ci sono molte facce, nel mondo del lavoro. Le trasformazioni high tech nelle fabbriche digitali e attive sui mercati internazionali, con un sofisticato miglioramento di condizioni d’impegno e salari. E le arretratezze in settori dei servizi in cui la rincorsa del costo più basso determina drammatici squilibri economici e sociali. Contraddizioni pesanti, contrasti ruvidi. Da cercare di risolvere e appianare.

La cornice è appunto quella della ripresa “equa e sostenibile” di cui parla giustamente Draghi. Gli strumenti sono le riforme che riguardano il lavoro, le leggi che lo regolano, i contratti, gli ammortizzatori sociali. Un impegno serissimo da affrontare, senza demagogie, con lungimiranza riformista da parte della politica, delle rappresentanze sociali e delle imprese. L’attuazione del Recovery Plan della Ue secondo i binari della green e della digital economy e dei processi di diffusione della conoscenza (scuola, formazione di lunga durata) e della coesione sociale e la sua traduzione nelle misure del Pnrr (il Piano italiano di ripresa e resilienza), appena approvato a pieni voti da Bruxelles sono gli strumenti in uso. E la sfida è comunque più generale, in quel “cambio di paradigma” di prodotti, produzioni e consumi da anni indicato dalla migliore letteratura economica internazionale, ma anche da Papa Francesco e dalle stesse imprese più sensibili alla necessità di legare sostenibilità e competitività, produttività e solidarietà.

Riforme, dunque. Investimenti, cui destinare risorse che derivano dai debiti contratti dalla Ue e dagli Stati (è il “debito buono” di cui parla Draghi, contrapposto al “debito cattivo” dell’assistenzialismo clientelare, la spesa pubblica produttiva che crea sviluppo). E una strategia di collaborazione tra pubblico e privato, Stato e imprese di mercato.

Indicazioni molto interessanti, guardando proprio alle imprese e alla loro evoluzione, arrivano adesso dal Rapporto annuale di Fondazione Symbola, Unioncamere e Intesa San Paolo su “Coesione e competizione – Nuove geografie della produzione del valore in Italia”. Per usare una sintesi efficace, “la coesione è un formidabile fattore produttivo, soprattutto in Italia”, sostiene Ermete Realacci, presidente di Symbola.

Il mondo – dice il Rapporto – sta cambiando e l’economia che ci ha guidato per decenni è inadeguata a gestire le crisi attuali. E “con la sostenibilità avanzano nuovi modelli nell’uso delle risorse (green economy,sharing economy, circular economy, bioeconomy), nell’uso delle competenze diffuse (open innovation, crowdsourcing), nell’accesso all’informazione (platform economy), nell’accesso ai finanziamenti (crowdfunding, sustainable bond), abilitati dalle nuove tecnologie e dal digitale. Sfide che chiamano a un’azione comune imprese, comunità, istituzioni, cittadini”.

Le imprese coesive, quelle cioè più attente ai propri dipendenti, ai territori con cui hanno rapporti e a tutti gli altri stakeholders, sono 49mila, tra le manifatturiere, soprattuto piccole e medie. Crescono di numero e capacità competitive. E hanno migliori risultati economici: esportano di più (il 58% contro il 39% delle non coesive); fanno più eco-investimenti (il 39% contro il 19% delle non coesive); investono di più per migliorare prodotti e servizi (il 58% contro il 46% delle non coesive); adottano misure legate al Piano di Transizione 4.0 (il 28% contro l’11% delle non coesive). E le imprese coesive che investiranno in processi e prodotti a maggior risparmio energetico, idrico e minor impatto ambientale nel triennio 2021-23 sono il 26%, contro il 12% delle altre.

Tra le imprese coesive – continua il Rapporto Symbola – è anche significativamente maggiore la capacità di stabilire buoni rapporti con il mondo della cultura (con quali donazioni, sponsorizzazioni, partnership con istituzioni culturali, ecc.): sono il 26%, rispetto alle 11% non coesive.

Un altro dato significativo riguarda la digitalizzazione: la quota delle imprese che hanno adottato o stanno pianificando di adottare misure legate alla Transizione 4.0 è pari a 28% per le imprese coesive e dell’11% per le altre.

Anche se c’è ancora molto da fare, coesione vuol dire pure “miglioramento del bilanciamento di genere”: nel Rapporto si evidenzia un incremento delle donne nei cda delle società quotate passato da 170 nel 2008, il 5,9%, alle 811 di oggi, il 36,3%, mentre nei collegi sindacali si è passati dal 13,4% del 2012 al 41,6% del 2019, con 475 sindaci donne.

La coesione rappresenta per le imprese un’occasione per accrescere il senso di appartenenza e soddisfazione di vita dei propri dipendenti (nel 2020 le erogazioni di welfare sulla base di contrattazione sindacale sono cresciute del 19,5%), per rafforzare le relazioni di filiera e distrettuali (le imprese ricadenti nei distretti secondo il monitor di Intesa Sanpaolo negli ultimi anni hanno visto crescere la produttività più delle imprese non distrettuali), ma anche per competere in un mercato che premia sempre di più gli atteggiamenti virtuosi.

Sul versante degli investimenti, crescono quelli diretti verso aziende che dimostrano attenzione alla dimensione sociale e ambientale. E i consumatori, “votando con il portafoglio o con i click, scelgono sempre più consapevolmente prodotti rispettosi dell’uomo e dell’ambiente e talvolta con il crowdfunding supportano le aziende più sostenibili”.

La coesione, come dimostra l’indagine condotta da Ipsos per Symbola, insieme alla sostenibilità, incrocia sempre di più nella percezione dei cittadini il tema della qualità. Già oggi due italiani su tre sono disposti a riconoscere, alle imprese che hanno atteggiamenti coesivi, un premium price sui prodotti e servizi offerti. Un differenziale di prezzo che in media è del 10% in più a favore delle imprese coesive.

Dove sono concentrate le imprese coesive? Quasi il 70% è al Nord e più del 50% in tre regioni: Lombardia (26,3%), Veneto (13,6%) ed Emilia-Romagna (13,4%). Nel Rapporto Symbola si rileva inoltre una relazione positiva con il benessere economico: le regioni in cui l’incidenza di imprese coesive è più elevata sono anche quelle con un Pil pro capite più elevato. Benessere economico, ma anche sociale e ambientale dei territori. Mettendo in relazione la presenza di imprese coesive e gli indicatori BES (Benessere Equo Sostenibile) dell’Istat, ci sono correlazioni positive elevate per la “qualità del lavoro”, la “qualità dei servizi” e la “politica e le istituzioni”.

Il Circuito panamericano, un nuovo progetto di Pirelli in Brasile nel segno della tradizione e della innovazione

Il 27 maggio 2021 Pirelli ha presentato il Circuito Panamericano, il complesso multipista più grande e moderno di tutta l’America Latina, situato nel Municipio di Elias Fausto, a 110 km da San Paolo. Il complesso, che si estende su un area di 1.650.000m², con sette piste per un totale di 22 km, è dedicato ai test e allo sviluppo dei nuovi pneumatici dell’azienda, ma è anche a disposizione di assemblatori e altri partner di Pirelli per effettuare perizie tecniche, e dei principali produttori di auto e moto per il lancio dei loro nuovi prodotti. Il circuito, che va ad aggiungersi agli stabilimenti di Feira de Santana e Campinas per la produzione di pneumatici auto e moto, rafforza così la presenza di Pirelli in Brasile, con attività e produzioni tecnologicamente avanzate, dedicate sia al settore consumer sia al motorsport. Una storia che parte da molto lontano.

Al 1929 risale infatti l’avvio dell’attività produttiva in Brasile con l’acquisizione della CONAC-Companhia Nacional de Artefactos de Cobre e la costruzione di uno stabilimento a Capuava, nel municipio di Santo Andrè, per la produzione di cavi elettrici e successivamente di pneumatici. E già dagli anni Trenta i pneumatici Pirelli sono protagonisti delle gare sui principali circuiti del paese. Nel 1937 e nel 1938 il pilota italiano Carlo Pintacuda vince il Gran Premio Città di Rio de Janeiro con Alfa Romeo gommata Pirelli, sul circuito di Gavea.  Negli anni Cinquanta Pirelli è protagonista sul circuito di Interlagos, come mostrano le pagine di “Noticias Pirelli”, l’house organ per i dipendenti del gruppo brasiliano, uscito tra il 1956 e il 1981 e consultabile on line. Pirelli vince nel 1956 con la Ford guidata da Catharino Andreatta e Breno Fornari, nel 1957 con la Fulgor Especial di Celso Barbieri e Rugero Peruzzo  e ancora nel 1958 con la Maserati del campione argentino Juan Manuel Fangio.). Anche nel campo dei rally Pirelli si afferma in Brasile vincendo nel 1974 il primo Rally Internazionale del Brasile con la Fiat 131 Abarth equipaggiata Pirelli P7.

Alla fabbrica di Santo Andrè si aggiungono via via nel 1971 quella di Campinas, nell’area industriale di San Paolo, quella di Gravataì, nello stato del Rio Grande do Sul nel 1976, e poi ancora quella di Sumaré nel 1980, con la prima pista prove pneumatici del Sudamerica inaugurata nel 1988. Nel 1986 è la volta del moderno complesso di Feira de Santana, nello Stato di Bahia, oggi primo polo 4.0 dell’area grazie a un cospicuo investimento effettuato dal Gruppo Pirelli nell’ultimo triennio. Il Circuito Panamericano continua dunque nella direzione degli investimenti in ricerca e sviuppo e innovazione, confermando la centralità del paese sudamericano nella strategia della Pirelli, che si appresta a compiere i 150 anni di attività.

Il 27 maggio 2021 Pirelli ha presentato il Circuito Panamericano, il complesso multipista più grande e moderno di tutta l’America Latina, situato nel Municipio di Elias Fausto, a 110 km da San Paolo. Il complesso, che si estende su un area di 1.650.000m², con sette piste per un totale di 22 km, è dedicato ai test e allo sviluppo dei nuovi pneumatici dell’azienda, ma è anche a disposizione di assemblatori e altri partner di Pirelli per effettuare perizie tecniche, e dei principali produttori di auto e moto per il lancio dei loro nuovi prodotti. Il circuito, che va ad aggiungersi agli stabilimenti di Feira de Santana e Campinas per la produzione di pneumatici auto e moto, rafforza così la presenza di Pirelli in Brasile, con attività e produzioni tecnologicamente avanzate, dedicate sia al settore consumer sia al motorsport. Una storia che parte da molto lontano.

Al 1929 risale infatti l’avvio dell’attività produttiva in Brasile con l’acquisizione della CONAC-Companhia Nacional de Artefactos de Cobre e la costruzione di uno stabilimento a Capuava, nel municipio di Santo Andrè, per la produzione di cavi elettrici e successivamente di pneumatici. E già dagli anni Trenta i pneumatici Pirelli sono protagonisti delle gare sui principali circuiti del paese. Nel 1937 e nel 1938 il pilota italiano Carlo Pintacuda vince il Gran Premio Città di Rio de Janeiro con Alfa Romeo gommata Pirelli, sul circuito di Gavea.  Negli anni Cinquanta Pirelli è protagonista sul circuito di Interlagos, come mostrano le pagine di “Noticias Pirelli”, l’house organ per i dipendenti del gruppo brasiliano, uscito tra il 1956 e il 1981 e consultabile on line. Pirelli vince nel 1956 con la Ford guidata da Catharino Andreatta e Breno Fornari, nel 1957 con la Fulgor Especial di Celso Barbieri e Rugero Peruzzo  e ancora nel 1958 con la Maserati del campione argentino Juan Manuel Fangio.). Anche nel campo dei rally Pirelli si afferma in Brasile vincendo nel 1974 il primo Rally Internazionale del Brasile con la Fiat 131 Abarth equipaggiata Pirelli P7.

Alla fabbrica di Santo Andrè si aggiungono via via nel 1971 quella di Campinas, nell’area industriale di San Paolo, quella di Gravataì, nello stato del Rio Grande do Sul nel 1976, e poi ancora quella di Sumaré nel 1980, con la prima pista prove pneumatici del Sudamerica inaugurata nel 1988. Nel 1986 è la volta del moderno complesso di Feira de Santana, nello Stato di Bahia, oggi primo polo 4.0 dell’area grazie a un cospicuo investimento effettuato dal Gruppo Pirelli nell’ultimo triennio. Il Circuito Panamericano continua dunque nella direzione degli investimenti in ricerca e sviuppo e innovazione, confermando la centralità del paese sudamericano nella strategia della Pirelli, che si appresta a compiere i 150 anni di attività.

La cultura d’impresa per le scuole di tutta Italia

Oltre 3.500 studenti per i percorsi di Fondazione Pirelli Educational

E anche per quest’anno le lezioni scolastiche sono terminate. Durante l’anno scolastico 2020-2021 oltre 3.500 studenti hanno partecipato al programma didattico tutto digitale di Fondazione Pirelli Educational. I percorsi, in diretta online, hanno coinvolto ragazzi delle scuole superiori collegati da diverse regioni di tutta Italia. Un’occasione per gli studenti per avvicinarsi al mondo dell’impresa e conoscere e approfondire, attraverso diversi appuntamenti, alcuni aspetti salienti dell’attualità e della storia della realtà industriale e culturale del nostro Paese.

Le scuole partecipanti hanno potuto scegliere tra quattro specifiche offerte formative. Il percorso “L’impresa e la fabbrica ieri e oggi” ha permesso di conoscere le diverse fasi del processo produttivo del pneumatico e l’evoluzione storica e tecnologica di Pirelli, prima azienda per la produzione di oggetti in gomma in Italia, nata a Milano nel 1872 dalla brillante intuizione di Giovanni Battista Pirelli, e oggi multinazionale presente in tutto il mondo. Con “Pirelli Mobility Revolution” gli studenti hanno approfondito invece la storia della mobilità, con una particolare attenzione alle innovazioni introdotte in questo campo da Pirelli: dalla produzione dei primi pneumatici velo, alla motorizzazione di massa con in Cinturato, fino alla guida autonoma e connessa. “La città in verticale”, percorso dedicato ai sostanziali cambiamenti sociali, architettonici, urbanistici che hanno interessato Milano – città da sempre strettamente legata all’azienda –  fino a renderla  “verticale” e smart. E ancora “Storia e futuro di un manifesto”, proposta molto apprezzata dalle scuole, che ha visto i ragazzi confrontarsi con le opere dei grandi maestri della grafica che nel corso del tempo hanno collaborato con Pirelli: dalle pubblicità “d’artista” di primo Novecento alle creazioni dei protagonisti del graphic design italiano e internazionale negli anni Cinquanta e Sessanta, fino alle campagne globali degli anni Novanta. Documenti storici, letture guidate di opere d’arte e fotografie, virtual tour, mostre virtuali, quiz, attività pratiche sono stati alcuni degli strumenti utilizzati per coinvolgere i ragazzi negli argomenti trattati.

Vogliamo ringraziare tutti gli studenti che hanno partecipato con entusiasmo ai percorsi e salutare la chiusura di questo anno scolastico con il backstage del video realizzato a conclusione del percorso “Storia e futuro di un manifesto”, da due classi dell’Istituto Tecnico ed Economico Familiari di Melito di Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria. Gli studenti, grazie anche al supporto degli insegnanti e del Dirigente Scolastico, hanno preso ispirazione dalle storiche campagne pubblicitarie di Pirelli per creare un breve spot pubblicitario dove il logo Pirelli prende vita e “traccia il tempo”. Un bel lavoro di squadra che ha visto coinvolti i ragazzi come attori e videomakers in tutti gli aspetti di produzione dello spot: dal concept, al set, dal scelta della musica al montaggio.

Oltre 3.500 studenti per i percorsi di Fondazione Pirelli Educational

E anche per quest’anno le lezioni scolastiche sono terminate. Durante l’anno scolastico 2020-2021 oltre 3.500 studenti hanno partecipato al programma didattico tutto digitale di Fondazione Pirelli Educational. I percorsi, in diretta online, hanno coinvolto ragazzi delle scuole superiori collegati da diverse regioni di tutta Italia. Un’occasione per gli studenti per avvicinarsi al mondo dell’impresa e conoscere e approfondire, attraverso diversi appuntamenti, alcuni aspetti salienti dell’attualità e della storia della realtà industriale e culturale del nostro Paese.

Le scuole partecipanti hanno potuto scegliere tra quattro specifiche offerte formative. Il percorso “L’impresa e la fabbrica ieri e oggi” ha permesso di conoscere le diverse fasi del processo produttivo del pneumatico e l’evoluzione storica e tecnologica di Pirelli, prima azienda per la produzione di oggetti in gomma in Italia, nata a Milano nel 1872 dalla brillante intuizione di Giovanni Battista Pirelli, e oggi multinazionale presente in tutto il mondo. Con “Pirelli Mobility Revolution” gli studenti hanno approfondito invece la storia della mobilità, con una particolare attenzione alle innovazioni introdotte in questo campo da Pirelli: dalla produzione dei primi pneumatici velo, alla motorizzazione di massa con in Cinturato, fino alla guida autonoma e connessa. “La città in verticale”, percorso dedicato ai sostanziali cambiamenti sociali, architettonici, urbanistici che hanno interessato Milano – città da sempre strettamente legata all’azienda –  fino a renderla  “verticale” e smart. E ancora “Storia e futuro di un manifesto”, proposta molto apprezzata dalle scuole, che ha visto i ragazzi confrontarsi con le opere dei grandi maestri della grafica che nel corso del tempo hanno collaborato con Pirelli: dalle pubblicità “d’artista” di primo Novecento alle creazioni dei protagonisti del graphic design italiano e internazionale negli anni Cinquanta e Sessanta, fino alle campagne globali degli anni Novanta. Documenti storici, letture guidate di opere d’arte e fotografie, virtual tour, mostre virtuali, quiz, attività pratiche sono stati alcuni degli strumenti utilizzati per coinvolgere i ragazzi negli argomenti trattati.

Vogliamo ringraziare tutti gli studenti che hanno partecipato con entusiasmo ai percorsi e salutare la chiusura di questo anno scolastico con il backstage del video realizzato a conclusione del percorso “Storia e futuro di un manifesto”, da due classi dell’Istituto Tecnico ed Economico Familiari di Melito di Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria. Gli studenti, grazie anche al supporto degli insegnanti e del Dirigente Scolastico, hanno preso ispirazione dalle storiche campagne pubblicitarie di Pirelli per creare un breve spot pubblicitario dove il logo Pirelli prende vita e “traccia il tempo”. Un bel lavoro di squadra che ha visto coinvolti i ragazzi come attori e videomakers in tutti gli aspetti di produzione dello spot: dal concept, al set, dal scelta della musica al montaggio.

La nuova forma della “città dei quartieri” e gli equilibri tra vita e smart working

“L’architettura non può fare miracoli. Non cambia il mondo, così come non lo cambiano molte altre arti. Ma può aiutare o comunque interpretare i cambiamenti del mondo”. Il giudizio è di Renzo Piano (sta nelle pagine de “Il canto della fabbrica”, il libro Mondadori dedicato al Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese, progettato appunto da Piano). E indica bene le sfide che adesso, nella stagione della crisi tra pandemia e recessione economica e delle strategie di ripresa, è necessario affrontare per migliorare finalmente le nostre condizioni di vita e di lavoro.

“La pandemia ci sta spingendo a ripensare le nostre vite e, insieme a esse, le nostre città”, conferma Carlo Ratti, ingegnere, direttore del Mit Senseable City Lab a Boston, parlando di “progettazione di nuovi quartieri” ma anche di “riconversione dei distretti esistenti secondo direttrici più sostenibili dal punto di vista sociale e ambientale” (“Corriere della Sera”, 28 maggio”).

È questo uno dei principali dibattiti che attirano l’attenzione dell’opinione pubblica, parlando di riqualificazione urbana e di “città come spazio fisico e spazio della mente” (lo ha fatto, per esempio, ai primi di giugno, l’Aspen Institute Italia) ma anche di nuovo e migliore governo delle città, tema centrale proprio mentre a Roma e a Milano, Torino, Napoli, Bologna e in parecchie altre aree del Paese ci si prepara alle campagne elettorali d’autunno per eleggere i nuovi sindaci e i nuovi consigli comunali.

La pandemia ha evidenziato l’estrema fragilità, sanitaria, sociale ed economica delle megalopoli e delle stesse metropoli, in cui continua ad addensarsi la maggior parte della popolazione del mondo. E soprattutto in Europa tiene banco l’idea della “città in un quarto d’ora”, lanciata dalla sindaco di Parigi Anne Hidalgo e ripresa da altri sindaci, come Beppe Sala a Milano. Parecchie associazioni culturali e ambientali (il Touring Club Italiano, per esempio) insistono sulla bellezza e sulla vivibilità dei borghi.

L’accelerazione delle tendenze allo smart working in molte imprese evidenzia nuovi equilibri tra tempo della vita e tempo del lavoro e pone la questione delle reti digitali e dei collegamenti informatici come essenziali non solo per l’economia ma per i processi di partecipazione politica e di godimento dei servizi sociali, cardine della cittadinanza.
Siamo di fronte a un cambiamento non solo tecnologico, ma soprattutto antropologico. Una metamorfosi. Un mondo in movimento, che pretende giustamente nuovi pensieri politici e culturali, una migliore governance delle città. “How will we live together?” è il tema della Biennale di Architettura in corso a Venezia, da metà maggio. Una domanda chiave per un futuro che è già stretta attualità.

Qualcuno – nota Fulvio Irace, studioso di architettura e urbanistica – suggerisce che il futuro delle metropoli vada verso un modello di disaggregazione, quasi come un arcipelago di piccole città. Una buona idea, confermano Yvonne Farrell e Shelley McNamara, fondatrici dello studio Grafton Architects (è stato progettato da loro l’edificio dell’Università Bocconi in via Roentgen a Milano) e vincitrici del Pritzker Prize 2020, il più prestigioso premio internazionale di architettura: “È proprio il tradizionale modello dei quartieri. Le unità di vicinato dentro la bolla più grande della città: il vecchio modello di quartieri quasi autosufficienti basati su due tipi di mobilità, quella generale dei trasporti urbani e quella particolare delle piccole distanze a piedi” (“Il Sole24Ore”, 13 giugno).

La riqualificazione delle città, dunque, luogo cardine della cosiddetta “economia di agglomerazione”, condensa di idee, capitali, conoscenze, esperienze.

È vero, nei momenti più duri della pandemia si è sviluppata la passione per i borghi, la tendenza di andare a vivere in campagna o in piccoli villaggi. Eppure, avvertono oggi Farrell e McNamara, “anche se la tecnologia ci consente di lavorare da remoto e di essere autosufficienti, rimane il piacere umano di interrelarsi, di intrecciarsi gli uni agli altri, di sperimentare quel tipo di vicinanza che solo la città è in grado di offrire”.

Bisogna “ridisegnare la città, tra ombre e speranze”, avevamo scritto nel blog del 25 maggio scorso, parlando anche di un rilancio di Milano “produttiva e inclusiva”, punto di riferimento di una strategia di sviluppo nazionale, lungo l’asse tra Europa e Mediterraneo. Una “città che sale”, per riprendere l’efficace immagine di Umberto Boccioni, con un dinamismo che la pandemia ha solo sospeso ma adesso in ripresa (vanno avanti tutti i grandi progetti immobiliari, a cominciare da Mind, Milano Innovation District sull’area ex Expo e dall’ambizioso “Milano Sesto”, con oltre 4 miliardi di investimento a nord della metropoli, tra servizi produttivi, edilizia, parchi).

È necessario, insomma, un ripensamento critico, dunque, come dicono Piano e Ratti. Con un ridisegno del territorio che tenga conto della particolare condizione italiana: poche metropoli (Milano, Roma, Napoli se si considera tutta l’affollata e intricata area vesuviana) e un fitto intreccio di città grandi, medie e piccole, paesi, borghi, campagne fortemente industrializzate e antropizzate, con altre aree (la dorsale appenninica, soprattutto) segnata invece da profondi fenomeni di abbandono.
In tempi di Recovery Plan “Next Generation Ue” ispirato a green e digital economy, sostenibilità ambientale e innovazione, cioè e di Pnrr, il Piano nazionale di resistenza e ripresa, che è la traduzione italiana da parte del buon governo Draghi, per spendere bene i 200 miliardi di stanziamenti a fondo perduto e prestiti (la maggior parte), Il territorio da mettere in sicurezza, riqualificare e considerare asset fondamentale di sviluppo e qualità della vita assume una radicale centralità.

Gli spazi urbani da ripensare. Ma anche gli spazi degli “interni”, di case, uffici, luoghi della comunità.

Sono utili, in questo senso, le riflessioni su una vera e propria “Filosofia della casa”, come indica Emanuele Coccia, professore all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, ragionando, in un libro pubblicato da Einaudi, su “lo spazio domestico e la felicità” e notando che “sempre e solo grazie e dentro una casa abitiamo questo pianeta”.

Una casa intesa come “un artefatto psichico e materiale, che ci permette di essere al mondo meglio di quanto la nostra natura ci consentirebbe”. Stanze, arredi, oggetti, ma anche persone e animali, con cui intrecciamo “una relazione talmente intensa da rendere la felicità e il nostro respiro inseparabili”. Nel racconto di Coccia ci sono riflessioni rafforzate da esperienze personali (una trentina di traslochi in 45 anni di vita), gioie, dolori, equilibri infranti e ricostituiti. E analisi generali sull’ampliamento dell’abitudine a “fare casa” a tutto il pianeta, profondamente antropizzato. Intimità ed esteriorità trovano nuove relazioni, spesso in condizioni critiche. E adesso varrà davvero la pena sperimentare modi migliori di vivere e abitare il mondo.

“L’architettura non può fare miracoli. Non cambia il mondo, così come non lo cambiano molte altre arti. Ma può aiutare o comunque interpretare i cambiamenti del mondo”. Il giudizio è di Renzo Piano (sta nelle pagine de “Il canto della fabbrica”, il libro Mondadori dedicato al Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese, progettato appunto da Piano). E indica bene le sfide che adesso, nella stagione della crisi tra pandemia e recessione economica e delle strategie di ripresa, è necessario affrontare per migliorare finalmente le nostre condizioni di vita e di lavoro.

“La pandemia ci sta spingendo a ripensare le nostre vite e, insieme a esse, le nostre città”, conferma Carlo Ratti, ingegnere, direttore del Mit Senseable City Lab a Boston, parlando di “progettazione di nuovi quartieri” ma anche di “riconversione dei distretti esistenti secondo direttrici più sostenibili dal punto di vista sociale e ambientale” (“Corriere della Sera”, 28 maggio”).

È questo uno dei principali dibattiti che attirano l’attenzione dell’opinione pubblica, parlando di riqualificazione urbana e di “città come spazio fisico e spazio della mente” (lo ha fatto, per esempio, ai primi di giugno, l’Aspen Institute Italia) ma anche di nuovo e migliore governo delle città, tema centrale proprio mentre a Roma e a Milano, Torino, Napoli, Bologna e in parecchie altre aree del Paese ci si prepara alle campagne elettorali d’autunno per eleggere i nuovi sindaci e i nuovi consigli comunali.

La pandemia ha evidenziato l’estrema fragilità, sanitaria, sociale ed economica delle megalopoli e delle stesse metropoli, in cui continua ad addensarsi la maggior parte della popolazione del mondo. E soprattutto in Europa tiene banco l’idea della “città in un quarto d’ora”, lanciata dalla sindaco di Parigi Anne Hidalgo e ripresa da altri sindaci, come Beppe Sala a Milano. Parecchie associazioni culturali e ambientali (il Touring Club Italiano, per esempio) insistono sulla bellezza e sulla vivibilità dei borghi.

L’accelerazione delle tendenze allo smart working in molte imprese evidenzia nuovi equilibri tra tempo della vita e tempo del lavoro e pone la questione delle reti digitali e dei collegamenti informatici come essenziali non solo per l’economia ma per i processi di partecipazione politica e di godimento dei servizi sociali, cardine della cittadinanza.
Siamo di fronte a un cambiamento non solo tecnologico, ma soprattutto antropologico. Una metamorfosi. Un mondo in movimento, che pretende giustamente nuovi pensieri politici e culturali, una migliore governance delle città. “How will we live together?” è il tema della Biennale di Architettura in corso a Venezia, da metà maggio. Una domanda chiave per un futuro che è già stretta attualità.

Qualcuno – nota Fulvio Irace, studioso di architettura e urbanistica – suggerisce che il futuro delle metropoli vada verso un modello di disaggregazione, quasi come un arcipelago di piccole città. Una buona idea, confermano Yvonne Farrell e Shelley McNamara, fondatrici dello studio Grafton Architects (è stato progettato da loro l’edificio dell’Università Bocconi in via Roentgen a Milano) e vincitrici del Pritzker Prize 2020, il più prestigioso premio internazionale di architettura: “È proprio il tradizionale modello dei quartieri. Le unità di vicinato dentro la bolla più grande della città: il vecchio modello di quartieri quasi autosufficienti basati su due tipi di mobilità, quella generale dei trasporti urbani e quella particolare delle piccole distanze a piedi” (“Il Sole24Ore”, 13 giugno).

La riqualificazione delle città, dunque, luogo cardine della cosiddetta “economia di agglomerazione”, condensa di idee, capitali, conoscenze, esperienze.

È vero, nei momenti più duri della pandemia si è sviluppata la passione per i borghi, la tendenza di andare a vivere in campagna o in piccoli villaggi. Eppure, avvertono oggi Farrell e McNamara, “anche se la tecnologia ci consente di lavorare da remoto e di essere autosufficienti, rimane il piacere umano di interrelarsi, di intrecciarsi gli uni agli altri, di sperimentare quel tipo di vicinanza che solo la città è in grado di offrire”.

Bisogna “ridisegnare la città, tra ombre e speranze”, avevamo scritto nel blog del 25 maggio scorso, parlando anche di un rilancio di Milano “produttiva e inclusiva”, punto di riferimento di una strategia di sviluppo nazionale, lungo l’asse tra Europa e Mediterraneo. Una “città che sale”, per riprendere l’efficace immagine di Umberto Boccioni, con un dinamismo che la pandemia ha solo sospeso ma adesso in ripresa (vanno avanti tutti i grandi progetti immobiliari, a cominciare da Mind, Milano Innovation District sull’area ex Expo e dall’ambizioso “Milano Sesto”, con oltre 4 miliardi di investimento a nord della metropoli, tra servizi produttivi, edilizia, parchi).

È necessario, insomma, un ripensamento critico, dunque, come dicono Piano e Ratti. Con un ridisegno del territorio che tenga conto della particolare condizione italiana: poche metropoli (Milano, Roma, Napoli se si considera tutta l’affollata e intricata area vesuviana) e un fitto intreccio di città grandi, medie e piccole, paesi, borghi, campagne fortemente industrializzate e antropizzate, con altre aree (la dorsale appenninica, soprattutto) segnata invece da profondi fenomeni di abbandono.
In tempi di Recovery Plan “Next Generation Ue” ispirato a green e digital economy, sostenibilità ambientale e innovazione, cioè e di Pnrr, il Piano nazionale di resistenza e ripresa, che è la traduzione italiana da parte del buon governo Draghi, per spendere bene i 200 miliardi di stanziamenti a fondo perduto e prestiti (la maggior parte), Il territorio da mettere in sicurezza, riqualificare e considerare asset fondamentale di sviluppo e qualità della vita assume una radicale centralità.

Gli spazi urbani da ripensare. Ma anche gli spazi degli “interni”, di case, uffici, luoghi della comunità.

Sono utili, in questo senso, le riflessioni su una vera e propria “Filosofia della casa”, come indica Emanuele Coccia, professore all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, ragionando, in un libro pubblicato da Einaudi, su “lo spazio domestico e la felicità” e notando che “sempre e solo grazie e dentro una casa abitiamo questo pianeta”.

Una casa intesa come “un artefatto psichico e materiale, che ci permette di essere al mondo meglio di quanto la nostra natura ci consentirebbe”. Stanze, arredi, oggetti, ma anche persone e animali, con cui intrecciamo “una relazione talmente intensa da rendere la felicità e il nostro respiro inseparabili”. Nel racconto di Coccia ci sono riflessioni rafforzate da esperienze personali (una trentina di traslochi in 45 anni di vita), gioie, dolori, equilibri infranti e ricostituiti. E analisi generali sull’ampliamento dell’abitudine a “fare casa” a tutto il pianeta, profondamente antropizzato. Intimità ed esteriorità trovano nuove relazioni, spesso in condizioni critiche. E adesso varrà davvero la pena sperimentare modi migliori di vivere e abitare il mondo.

Imprese a impatto sociale

Un libro appena pubblicato raccoglie teoria e pratica delle nuove forme di organizzazione della produzione

Coniugare profitto con attenzione all’impatto sociale dell’agire dell’impresa. Traguardo importante, raggiunto da molte realtà produttive, ma lontano ancora per altrettante. Traguardo che si delinea quando, nell’ambito dell’organizzazione della produzione, si fa strada una visione diversa della produzione. Leggere la fatica letteraria collettanea curata da
Giorgio Fiorentini, senior professor in Management delle Imprese Sociali in Università Bocconi, aiuta moltissimo nella comprensione di quanto occorra per arrivare ad una sintesi tra profitto economico e profitto sociale dell’agire d’impresa.

“Tutte le imprese devono essere sociali”, curato da Fiorentini con il contributo di una serie importante di ricercatori, parte da una constatazione: tutte le imprese devono essere sociali non è una raccomandazione, ma una prassi e una condizione per lo sviluppo del sistema socio economico e per la sostenibilità dell’ecosistema. Non una scelta, quindi, ma quasi un percorso obbligato.

Anche perché, è l’idea che sostiene il libro, profitto e impatto sociale sono due facce della stessa medaglia: l’impresa ad impatto sociale (IIS). Esse sono complementari per la sostenibilità e sono “sostanza” delle imprese sociali profit e non profit.
Il profitto (massimizzazione relativa del profitto) e l’equilibrio economico finanziario si ottengono gestendo bene l’azienda; l’impatto sociale positivo è il senso e la connotazione non estetica e non riduttiva dell’imprenditorialità (formula imprenditoriale sociale) oltre che la condizione necessaria per lo sviluppo del sistema.

Detto in altre parole, un’impresa di successo non è quella che riesce solo a far profitto per i suoi azionisti, ma quella che ha dentro un “finalismo sociale” (insieme a quello ambientale) che la rende pressoché unica. E che riesce a conciliare produttività economica con produttività sociale e territoriale.

È importante però – viene sottolineato -, misurare e valutare l’impatto sociale per avere un rating sociale di riferimento. Anche perché l’impatto sociale è interno (per esempio welfare aziendale) ed esterno (per esempio commitment e sviluppo del territorio come “luogo” e “comunità”) e porta a reddito la social reputation.

E’ tutto questo che unisce i 22 contributi di studiosi e operatori raccolti nel libro. Interventi che prendono in considerazione per esempio la collocazione dell’impresa sociale all’interno della teoria aziendale, le situazioni di confine, le imprese sociali ibride, le  relazioni tra imprese profit e non profit, il profitto del volontariato e molto altro ancora. Tutto è preceduto da una lunga e ampia introduzione dello stesso Fiorentini che serve per inquadrare un tema comunque in evoluzione.

Tutte le imprese devono essere sociali

Fiorentini Giorgio (a cura di)

Franco Angeli, 2021

Un libro appena pubblicato raccoglie teoria e pratica delle nuove forme di organizzazione della produzione

Coniugare profitto con attenzione all’impatto sociale dell’agire dell’impresa. Traguardo importante, raggiunto da molte realtà produttive, ma lontano ancora per altrettante. Traguardo che si delinea quando, nell’ambito dell’organizzazione della produzione, si fa strada una visione diversa della produzione. Leggere la fatica letteraria collettanea curata da
Giorgio Fiorentini, senior professor in Management delle Imprese Sociali in Università Bocconi, aiuta moltissimo nella comprensione di quanto occorra per arrivare ad una sintesi tra profitto economico e profitto sociale dell’agire d’impresa.

“Tutte le imprese devono essere sociali”, curato da Fiorentini con il contributo di una serie importante di ricercatori, parte da una constatazione: tutte le imprese devono essere sociali non è una raccomandazione, ma una prassi e una condizione per lo sviluppo del sistema socio economico e per la sostenibilità dell’ecosistema. Non una scelta, quindi, ma quasi un percorso obbligato.

Anche perché, è l’idea che sostiene il libro, profitto e impatto sociale sono due facce della stessa medaglia: l’impresa ad impatto sociale (IIS). Esse sono complementari per la sostenibilità e sono “sostanza” delle imprese sociali profit e non profit.
Il profitto (massimizzazione relativa del profitto) e l’equilibrio economico finanziario si ottengono gestendo bene l’azienda; l’impatto sociale positivo è il senso e la connotazione non estetica e non riduttiva dell’imprenditorialità (formula imprenditoriale sociale) oltre che la condizione necessaria per lo sviluppo del sistema.

Detto in altre parole, un’impresa di successo non è quella che riesce solo a far profitto per i suoi azionisti, ma quella che ha dentro un “finalismo sociale” (insieme a quello ambientale) che la rende pressoché unica. E che riesce a conciliare produttività economica con produttività sociale e territoriale.

È importante però – viene sottolineato -, misurare e valutare l’impatto sociale per avere un rating sociale di riferimento. Anche perché l’impatto sociale è interno (per esempio welfare aziendale) ed esterno (per esempio commitment e sviluppo del territorio come “luogo” e “comunità”) e porta a reddito la social reputation.

E’ tutto questo che unisce i 22 contributi di studiosi e operatori raccolti nel libro. Interventi che prendono in considerazione per esempio la collocazione dell’impresa sociale all’interno della teoria aziendale, le situazioni di confine, le imprese sociali ibride, le  relazioni tra imprese profit e non profit, il profitto del volontariato e molto altro ancora. Tutto è preceduto da una lunga e ampia introduzione dello stesso Fiorentini che serve per inquadrare un tema comunque in evoluzione.

Tutte le imprese devono essere sociali

Fiorentini Giorgio (a cura di)

Franco Angeli, 2021

Cultura d’impresa del territorio

Una indagine curata da Ca’ Foscari esplora le varie realtà in Veneto

 

Storia come veicolo per apprezzare meglio il presente. Cultura come elemento indispensabile dell’attualità. E’ anche sulla base di questi due principi che si dipana “Industrial Heritage. Le competenze manageriali per l’industrial cultural heritage & brand identity” ricerca curata da Fabrizio Panozzo, Professore di Management Università Ca’ Foscari Venezia, per Assindustria Venetocentro.

L’indagine, poi, prende le mosse da una visione complessa della buona cultura d’impresa intesa come capacità di valorizzare il patrimonio culturale di un’azienda, la storia, l’identità, la creatività e i saperi inimitabili e quindi abilità nell’accrescerne l’immagine, nella creazione di uno spirito di appartenenza, nel differenziarsi dai competitor. Cultura che significa anche promuovere l’attrattività del proprio territorio, favorendone il richiamo, l’esclusività e la riconoscibilità nazionale e internazionale. E ancora cultura del produrre che vuol dire coinvolgere, appassionare, trasmettere significati, valori, emozioni, qualità in continua evoluzione. Cultura d’impresa, dunque, come leva per la rinascita del territorio e del Paese.

Tutto questo, declinato in vario modo, è contenuto nella serie di indagini curate da Panozzo che riesce a mappare le visioni, le conoscenze e le competenze manageriali che possono trasformare in asset strategico il patrimonio di cultura che l’impresa esprime ma non sempre valorizza.

La ricerca ha individuato 57 interventi condotti direttamente dalle imprese o dai distretti produttivi del Veneto e 25 musei del lavoro e dell’industrial cultural heritage territoriale, per un totale di 82 strutture tra musei aziendali, musei-azienda dotati di autonomia gestionale, musei distrettuali, archivi d’impresa, showroom evoluti, percorsi didattici/esperienziali, spazi architettonici celebrativi.

Il risultato è una fotografia originale ed esaustiva delle diverse tipologie di interventi artistici e culturali adottati dalle imprese del territorio, utile per costruire un modello manageriale che riesce ad unire competitività produttiva con capacità di valorizzazione delle proprie origini. Una ricerca da leggere anche come modello per altre realtà territoriali.

Industrial Heritage. Le competenze manageriali per l’industrial cultural heritage & brand identity

Fabrizio Panozzo (a cura di), Professore di Management Università Ca’ Foscari Venezia, Assindustria Venetocentro, 2021

Una indagine curata da Ca’ Foscari esplora le varie realtà in Veneto

 

Storia come veicolo per apprezzare meglio il presente. Cultura come elemento indispensabile dell’attualità. E’ anche sulla base di questi due principi che si dipana “Industrial Heritage. Le competenze manageriali per l’industrial cultural heritage & brand identity” ricerca curata da Fabrizio Panozzo, Professore di Management Università Ca’ Foscari Venezia, per Assindustria Venetocentro.

L’indagine, poi, prende le mosse da una visione complessa della buona cultura d’impresa intesa come capacità di valorizzare il patrimonio culturale di un’azienda, la storia, l’identità, la creatività e i saperi inimitabili e quindi abilità nell’accrescerne l’immagine, nella creazione di uno spirito di appartenenza, nel differenziarsi dai competitor. Cultura che significa anche promuovere l’attrattività del proprio territorio, favorendone il richiamo, l’esclusività e la riconoscibilità nazionale e internazionale. E ancora cultura del produrre che vuol dire coinvolgere, appassionare, trasmettere significati, valori, emozioni, qualità in continua evoluzione. Cultura d’impresa, dunque, come leva per la rinascita del territorio e del Paese.

Tutto questo, declinato in vario modo, è contenuto nella serie di indagini curate da Panozzo che riesce a mappare le visioni, le conoscenze e le competenze manageriali che possono trasformare in asset strategico il patrimonio di cultura che l’impresa esprime ma non sempre valorizza.

La ricerca ha individuato 57 interventi condotti direttamente dalle imprese o dai distretti produttivi del Veneto e 25 musei del lavoro e dell’industrial cultural heritage territoriale, per un totale di 82 strutture tra musei aziendali, musei-azienda dotati di autonomia gestionale, musei distrettuali, archivi d’impresa, showroom evoluti, percorsi didattici/esperienziali, spazi architettonici celebrativi.

Il risultato è una fotografia originale ed esaustiva delle diverse tipologie di interventi artistici e culturali adottati dalle imprese del territorio, utile per costruire un modello manageriale che riesce ad unire competitività produttiva con capacità di valorizzazione delle proprie origini. Una ricerca da leggere anche come modello per altre realtà territoriali.

Industrial Heritage. Le competenze manageriali per l’industrial cultural heritage & brand identity

Fabrizio Panozzo (a cura di), Professore di Management Università Ca’ Foscari Venezia, Assindustria Venetocentro, 2021

Olivetti, una lettura

Una tesi discussa alla Luiss, descrive l’impresa di Ivrea mettendo insieme storia e organizzazione aziendale per delineare una particolare interpretazione dell’avventura Olivettiana

 

Olivetti, ovvero l’utopia che diventa realtà. E che, certo, ad un determinato punto della sua esistenza, finisce per cedere. Ma che comunque lascio un segno profondo – e positivo – nella cultura d’impresa italiana (e mondiale). Sempre da studiare, quanto fatto da Camillo e da Adriano Olivetti. E’ utile quindi leggere “Adriano Olivetti e il modello innovativo di impresa fra politica e comunicazione”, tesi di Marco Corbucci discussa nell’ambito del Dipartimento di scienze politiche, Cattedra di innovazione democratica, dell’Università Luiss.

Corbucci guarda agli Olivetti, e in particolare ad Adriano, da un particolare punto di vista: quello che lega il fare impresa con il fare politica e fare comunicazione. “Il progetto che andremo ad intraprendere – scrive Corbucci -,  risulterà essere composto da diversi livelli e metodi di analisi, tutti accomunati dall’obiettivo unico finale di applicare, con revisioni e modifiche finalizzate a renderle consone alla contemporaneità, un’idea politico-aziendale di ispirazione Olivettiana come metodo di innovazione democratica”. Esercizio importante e complesso quello di Marco Corbuci, che applica “un approccio storiografico” che consente di analizzare la situazione politico sociale e l’evoluzione dell’azienda, ma anche un “approccio più analitico” con il quale l’autore si sofferma “sull’analisi del modello olivettiano originale”.

Per arrivare al fondo del suo lavoro, Corbucci analizza prima il contesto aziendale, poi quello legato al territorio e infine la fisionomia dei due Olivetti; si passa quindi a studiare “Adriano la comunità e le innovative idee sociali” approfondendone i diversi aspetti collegati all’impresa, al lavoro in azienda e alle idee politiche e sociali presenti ma anche al particolare welfare praticato. Successivamente, Corbucci approfondisce l’aspetto particolare legato all’architettura del gruppo Olivetti per arrivare così all’eredità di Olivetti.

Scrive Corbucci nelle sue conclusioni: “Sotto molti aspetti il comportamento di Adriano Olivetti nel fare impresa è sicuramente moderno, a volte anche superiore e più lungimirante di quello adottato dagli industriali contemporanei. Probabilmente egli inorridirebbe nell’apprendere che il fare impresa attuale corrisponde, per lo più, alla mera creazione di valore per gli azionisti, rimarrebbe atterrito di fronte alla svalutazione delle aziende a favore della finanza, alla sottomissione dell’artigianato italiano fatto schiavo di ricchi padroni lontani e irreperibili che sfruttano tradizioni tecniche e personale per meri interessi finanziari; rabbrividirebbe di fronte ad holding finanziare che acquisiscono sempre più imprese togliendole alle storiche famiglie per dare tutto in mano a pochi padroni, disinteressati alle stesse. Con riferimento al rapporto con i dipendenti, proverebbe un forte sentimento di delusione di fronte a spostamenti di produzione finalizzati alla mera elusione delle norme e al più facile sfruttamento di operai in Paesi con regole sindacali poco ferree. Infatti il concetto di impresa di Adriano è molto più ampio: non si doveva produrre solo ricchezza bensì tale ricchezza doveva essere ridistribuita sul territorio. Ciò poteva essere conseguito realizzando vie di comunicazione, edificando scuole, costruendo edifici salubri, fornendo servizi alla comunità locale. L’impresa doveva diffondere anche dei valori estetici, quali la bellezza e la cultura”.

Adriano Olivetti e il modello innovativo di impresa fra politica e comunicazione

Marco Corbucci

Tesi, Università LUISS, Dipartimento di scienze politiche, Cattedra di innovazione democratica, 2020.

Una tesi discussa alla Luiss, descrive l’impresa di Ivrea mettendo insieme storia e organizzazione aziendale per delineare una particolare interpretazione dell’avventura Olivettiana

 

Olivetti, ovvero l’utopia che diventa realtà. E che, certo, ad un determinato punto della sua esistenza, finisce per cedere. Ma che comunque lascio un segno profondo – e positivo – nella cultura d’impresa italiana (e mondiale). Sempre da studiare, quanto fatto da Camillo e da Adriano Olivetti. E’ utile quindi leggere “Adriano Olivetti e il modello innovativo di impresa fra politica e comunicazione”, tesi di Marco Corbucci discussa nell’ambito del Dipartimento di scienze politiche, Cattedra di innovazione democratica, dell’Università Luiss.

Corbucci guarda agli Olivetti, e in particolare ad Adriano, da un particolare punto di vista: quello che lega il fare impresa con il fare politica e fare comunicazione. “Il progetto che andremo ad intraprendere – scrive Corbucci -,  risulterà essere composto da diversi livelli e metodi di analisi, tutti accomunati dall’obiettivo unico finale di applicare, con revisioni e modifiche finalizzate a renderle consone alla contemporaneità, un’idea politico-aziendale di ispirazione Olivettiana come metodo di innovazione democratica”. Esercizio importante e complesso quello di Marco Corbuci, che applica “un approccio storiografico” che consente di analizzare la situazione politico sociale e l’evoluzione dell’azienda, ma anche un “approccio più analitico” con il quale l’autore si sofferma “sull’analisi del modello olivettiano originale”.

Per arrivare al fondo del suo lavoro, Corbucci analizza prima il contesto aziendale, poi quello legato al territorio e infine la fisionomia dei due Olivetti; si passa quindi a studiare “Adriano la comunità e le innovative idee sociali” approfondendone i diversi aspetti collegati all’impresa, al lavoro in azienda e alle idee politiche e sociali presenti ma anche al particolare welfare praticato. Successivamente, Corbucci approfondisce l’aspetto particolare legato all’architettura del gruppo Olivetti per arrivare così all’eredità di Olivetti.

Scrive Corbucci nelle sue conclusioni: “Sotto molti aspetti il comportamento di Adriano Olivetti nel fare impresa è sicuramente moderno, a volte anche superiore e più lungimirante di quello adottato dagli industriali contemporanei. Probabilmente egli inorridirebbe nell’apprendere che il fare impresa attuale corrisponde, per lo più, alla mera creazione di valore per gli azionisti, rimarrebbe atterrito di fronte alla svalutazione delle aziende a favore della finanza, alla sottomissione dell’artigianato italiano fatto schiavo di ricchi padroni lontani e irreperibili che sfruttano tradizioni tecniche e personale per meri interessi finanziari; rabbrividirebbe di fronte ad holding finanziare che acquisiscono sempre più imprese togliendole alle storiche famiglie per dare tutto in mano a pochi padroni, disinteressati alle stesse. Con riferimento al rapporto con i dipendenti, proverebbe un forte sentimento di delusione di fronte a spostamenti di produzione finalizzati alla mera elusione delle norme e al più facile sfruttamento di operai in Paesi con regole sindacali poco ferree. Infatti il concetto di impresa di Adriano è molto più ampio: non si doveva produrre solo ricchezza bensì tale ricchezza doveva essere ridistribuita sul territorio. Ciò poteva essere conseguito realizzando vie di comunicazione, edificando scuole, costruendo edifici salubri, fornendo servizi alla comunità locale. L’impresa doveva diffondere anche dei valori estetici, quali la bellezza e la cultura”.

Adriano Olivetti e il modello innovativo di impresa fra politica e comunicazione

Marco Corbucci

Tesi, Università LUISS, Dipartimento di scienze politiche, Cattedra di innovazione democratica, 2020.

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