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Dall’instabilità al futuro

L’ultimo Rapporto del Centro Einaudi di Torino fornisce gli elementi per capire meglio il presente e agire con attenzione pensando al domani

Comprendere dove si è e dove si sta andando. Pratica essenziale per chiunque agisca nell’ambito di un’impresa. Pratica che non è sempre facile attuare, ma che è resa fattibile quando si hanno a disposizione buone guide. E’ il caso di “Un mondo sempre più fragile. XXV Rapporto sull’economia globale e l’Italia”, venticinquesimo Rapporto del Centro Einaudi, insieme di studi curato da Mario Deaglio e scritto a più mani da un qualificato gruppo di ricercatori e analisti.

Come ogni anno, la raccolta di ricerche fa il punto sullo “stato del mondo” questa volta ancora a confronto con la pandemia e con le sue conseguenze. Si tratta, cioè, di una aggiornata fotografia della situazione nella quale tutti – cittadini e imprese – si trovano a muoversi.

I saggi raccolti prendono quindi le mosse dalla constatazione della presenza di “un mondo sempre più fragile” e quindi di una “globalizzazione scardinata”  oltre che della situazione nella quale si trovano Usa, Cina e Europa. Gli autori quindi indagano la natura e i tratti di un’era “dalla instabilità permanente” per arrivare a porre l’attenzione sulla condizione del nostro Paese.

L’insieme delle indagini condotte dal gruppo di studio coordinato dal Centro Einaudi fornisce certamente un’immagine ancora problematica del mondo e dell’Italia, ma indica anche possibili percorsi di sviluppo.  Scrive Gian Maria Gros-Pietro, presidente di Intesa Sanpaolo che ha sostenuto le ricerche, che “l’attenzione alla sostenibilità economica e ambientale ha pervaso le nostre vite perché si è capito che il tempo per decidere un cambio di paradigma sta per scadere. Il global warming e l’uso appropriato delle materie prime scarse, o inquinanti, unito alla necessità di ripensare i tempi e i luoghi del lavoro, modificheranno il nostro modo di vivere in modo permanente. Una partnership tra pubblico e privato appare allora l’unica via percorribile per definire obiettivi condivisi, sempre più sentiti dal settore privato e, in particolare, dalle imprese come parte essenziale della loro azione quotidiana, che potrebbe, o meglio dovrebbe, portare a sostituire il concetto di ricchezza con il concetto di benessere a livello individuale e collettivo”. Sono, a ben vedere, i contorni di una cultura economica e d’impresa che si sta già diffondendo, ma che deve consolidarsi e fortificarsi. La raccolta di saggi del Centro Einaudi è una buona cassetta degli attrezzi proprio per costruire una cultura d’impresa che sia attenta al presente e impegnata per un futuro migliore dell’oggi.

Un mondo sempre più fragile. XXV Rapporto sull’economia globale e l’Italia

Deaglio Mario (a cura di)

Guerini, 2021

L’ultimo Rapporto del Centro Einaudi di Torino fornisce gli elementi per capire meglio il presente e agire con attenzione pensando al domani

Comprendere dove si è e dove si sta andando. Pratica essenziale per chiunque agisca nell’ambito di un’impresa. Pratica che non è sempre facile attuare, ma che è resa fattibile quando si hanno a disposizione buone guide. E’ il caso di “Un mondo sempre più fragile. XXV Rapporto sull’economia globale e l’Italia”, venticinquesimo Rapporto del Centro Einaudi, insieme di studi curato da Mario Deaglio e scritto a più mani da un qualificato gruppo di ricercatori e analisti.

Come ogni anno, la raccolta di ricerche fa il punto sullo “stato del mondo” questa volta ancora a confronto con la pandemia e con le sue conseguenze. Si tratta, cioè, di una aggiornata fotografia della situazione nella quale tutti – cittadini e imprese – si trovano a muoversi.

I saggi raccolti prendono quindi le mosse dalla constatazione della presenza di “un mondo sempre più fragile” e quindi di una “globalizzazione scardinata”  oltre che della situazione nella quale si trovano Usa, Cina e Europa. Gli autori quindi indagano la natura e i tratti di un’era “dalla instabilità permanente” per arrivare a porre l’attenzione sulla condizione del nostro Paese.

L’insieme delle indagini condotte dal gruppo di studio coordinato dal Centro Einaudi fornisce certamente un’immagine ancora problematica del mondo e dell’Italia, ma indica anche possibili percorsi di sviluppo.  Scrive Gian Maria Gros-Pietro, presidente di Intesa Sanpaolo che ha sostenuto le ricerche, che “l’attenzione alla sostenibilità economica e ambientale ha pervaso le nostre vite perché si è capito che il tempo per decidere un cambio di paradigma sta per scadere. Il global warming e l’uso appropriato delle materie prime scarse, o inquinanti, unito alla necessità di ripensare i tempi e i luoghi del lavoro, modificheranno il nostro modo di vivere in modo permanente. Una partnership tra pubblico e privato appare allora l’unica via percorribile per definire obiettivi condivisi, sempre più sentiti dal settore privato e, in particolare, dalle imprese come parte essenziale della loro azione quotidiana, che potrebbe, o meglio dovrebbe, portare a sostituire il concetto di ricchezza con il concetto di benessere a livello individuale e collettivo”. Sono, a ben vedere, i contorni di una cultura economica e d’impresa che si sta già diffondendo, ma che deve consolidarsi e fortificarsi. La raccolta di saggi del Centro Einaudi è una buona cassetta degli attrezzi proprio per costruire una cultura d’impresa che sia attenta al presente e impegnata per un futuro migliore dell’oggi.

Un mondo sempre più fragile. XXV Rapporto sull’economia globale e l’Italia

Deaglio Mario (a cura di)

Guerini, 2021

Cultura della sostenibilità per manager avveduti

Un libro spiega quanto debbano cambiare i Ceo di fronte alle nuove esigenze dei mercati e dei consumatori

 

Persone e non macchine. Vecchia sfida, quella del macchinismo avverso ad un umanesimo industriale che, a ben vedere, riafferma sempre il suo valore. Sfida, che, comunque, viene continuamente rinnovata e declinata magari in forme diverse dalle precedenti. E che oggi assume anche i connotati della ricerca di una più forte sensibilità nei confronti della compatibilità ambientale e sociale del fare impresa. Condizione della quale imprenditori e manager  avveduti devono tenere conto.

E’ attorno a questi argomenti che ragionano Gabriele Ghini , Stefania Micaela Vitulli e Alessandro Detto con il loro “Ceo branding nella reputation economy” appena pubblicato.

L’idea di base dalla quale partono gli autori, è il ruolo importante della presenza di cittadini e consumatori dai propositi etici oltre che della “chiamata alla leadership” che le generazioni Z e Light Millennials invocano nei confronti delle aziende (e dei loro marchi). In altri termini, è sempre più vera la constatazione che il successo di un’azienda sul mercato si costruisce partendo dalla capacità di questa di condensare  influenza, credibilità e carisma in un tratto umano che sia contemporaneamente globale e locale. Un obiettivo certamente complesso da raggiungere, ma ormai divenuto determinante per la sopravvivenza (e la crescita) di molte imprese.

E’ in questo ambito che assumono più importanza di prima i Ceo, figure che per contribuire alla conquista di uno spazio reputazionale solido per la propria marca di riferimento, devono – è la tesi del libro -, sapersi trasformare da seduttori a pionieri. Perché sono le aziende, e non più solo le ONG o i partiti, ad essere viste come motore del cambiamento sostenibile.

Il libro può essere letto come un sintetico manuale per Ceo, ma anche come una raccolta di esperienza concrete. Lo sviluppo di queste tesi viene infatti prima affrontato dal punto di vista teorico e poi attraverso le testimonianze di quindici Ceo che raccontano come hanno colto la sfida con una visione strategica e adattiva. Oltre a tutto questo, due ricerche sul campo mostrano alcuni dei punti-chiave utili per definire le strategie di risposta ai mercati.

Il libro di Ghini, Vitulli e Detto si fa leggere e, soprattutto in questo caso, è davvero una buona guida per chi deve gestire le aziende alle prese con il cambiamento continuo.

Ceo branding nella reputation economy

Gabriele Ghini , Stefania Micaela Vitulli, Alessandro Detto

Egea, 2021

Un libro spiega quanto debbano cambiare i Ceo di fronte alle nuove esigenze dei mercati e dei consumatori

 

Persone e non macchine. Vecchia sfida, quella del macchinismo avverso ad un umanesimo industriale che, a ben vedere, riafferma sempre il suo valore. Sfida, che, comunque, viene continuamente rinnovata e declinata magari in forme diverse dalle precedenti. E che oggi assume anche i connotati della ricerca di una più forte sensibilità nei confronti della compatibilità ambientale e sociale del fare impresa. Condizione della quale imprenditori e manager  avveduti devono tenere conto.

E’ attorno a questi argomenti che ragionano Gabriele Ghini , Stefania Micaela Vitulli e Alessandro Detto con il loro “Ceo branding nella reputation economy” appena pubblicato.

L’idea di base dalla quale partono gli autori, è il ruolo importante della presenza di cittadini e consumatori dai propositi etici oltre che della “chiamata alla leadership” che le generazioni Z e Light Millennials invocano nei confronti delle aziende (e dei loro marchi). In altri termini, è sempre più vera la constatazione che il successo di un’azienda sul mercato si costruisce partendo dalla capacità di questa di condensare  influenza, credibilità e carisma in un tratto umano che sia contemporaneamente globale e locale. Un obiettivo certamente complesso da raggiungere, ma ormai divenuto determinante per la sopravvivenza (e la crescita) di molte imprese.

E’ in questo ambito che assumono più importanza di prima i Ceo, figure che per contribuire alla conquista di uno spazio reputazionale solido per la propria marca di riferimento, devono – è la tesi del libro -, sapersi trasformare da seduttori a pionieri. Perché sono le aziende, e non più solo le ONG o i partiti, ad essere viste come motore del cambiamento sostenibile.

Il libro può essere letto come un sintetico manuale per Ceo, ma anche come una raccolta di esperienza concrete. Lo sviluppo di queste tesi viene infatti prima affrontato dal punto di vista teorico e poi attraverso le testimonianze di quindici Ceo che raccontano come hanno colto la sfida con una visione strategica e adattiva. Oltre a tutto questo, due ricerche sul campo mostrano alcuni dei punti-chiave utili per definire le strategie di risposta ai mercati.

Il libro di Ghini, Vitulli e Detto si fa leggere e, soprattutto in questo caso, è davvero una buona guida per chi deve gestire le aziende alle prese con il cambiamento continuo.

Ceo branding nella reputation economy

Gabriele Ghini , Stefania Micaela Vitulli, Alessandro Detto

Egea, 2021

Lo sgarbato whatsapp dei licenziamenti in tronco e la civiltà del dialogo dell’impresa riformista

C’è in Italia una solida tradizione di civiltà del lavoro che fa, ancora adesso, da punto di riferimento per le imprese attente, pure in tempo di crisi, alle buone regole delle relazioni industriali. Ed è a questa cultura d’impresa che si richiama Marco Tronchetti Provera, amministratore delegato e vicepresidente esecutivo di Pirelli, quando affronta il tema dei recenti licenziamenti in due imprese, Gkn e Giannetti, controllate da fondi d’investimento internazionali. Licenziamenti comunicati ai dipendenti via sms e whatsapp. Al di là della fondatezza o meno delle ragioni economiche che portano alla chiusura delle imprese, è il modo della scelta e della comunicazione che fa discutere. Sostiene Tronchetti: “Credo che la cultura della responsabilità debba fare parte anche delle scelte dei fondi, perché pure nel loro caso a prendere le decisioni sono le persone. Dovrebbe sempre esserci questo senso di responsabilità, che non vuol dire non fare gli interessi dei propri investitori, vuol dire l’opposto”. In sintesi: “Anche chi non è direttamente coinvolto nel Paese credo debba comunque rispettarne la struttura sociale” (intervista a “la Repubblica”, 13 luglio).

Ci sono, insomma, regole, ma anche forme da rispettare, pur nel corso di acute crisi aziendali: “La responsabilità dell’impresa, dell’imprenditore – sostiene Tronchetti – è quella di fare le scelte meno dannose per chi lavora all’interno delle aziende. Ci sono gli ammortizzatori sociali, gli strumenti per poter passare un periodo di crisi dando alle persone, alle famiglie, una prospettiva per il loro futuro”. E in questo quadro di attenzione, “il dialogo resta comunque imprescindibile, anche quando licenziare diventa l’unica strada percorribile”. Quindi, “il percorso esiste, è un percorso sempre più faticoso ovviamente, ma è l’unico che si può seguire”.

La storia italiana racconta una lunga e complessa evoluzione delle relazioni industriali che, proprio nel dialogo tra impresa e sindacato, ha trovato molto spesso soluzioni innovative per uscire dalle crisi, rivedendo criticamente i fattori di competitività. La tradizione e l’attualità della Pirelli e di parecchie altre imprese responsabili ne sono importanti testimonianze.

Sempre da questo dialogo, pur spesso ruvido, aspro, sincero tra le parti sociali e le loro rappresentanze (con la mediazione dei pubblici poteri) sono emerse, nel corso dello sviluppo del’economia italiana, anche nelle stagioni più difficili, scelte che hanno permesso ripresa e rilancio.

Scelte di politica industriale, per migliorare l’ambiente competitivo a vantaggio dell’impresa. Scelte economiche per l’efficienza e la trasparenza del mercato. Scelte sugli ammortizzatori sociali, per ridurre l’impatto delle crisi e delle trasformazioni sulle persone, i lavoratori, le loro famiglie e per salvaguardare non il singolo posto di lavoro com’era, ma le professionalità e le competenze dei lavoratori, utili verso nuovi posti di lavoro.

Le vicende specifiche di Gkn e Giannetti, insieme alle tante altre storie di crisi aziendali, stanno sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico. E ogni crisi ha radici, caratteristiche specifiche, ragioni ed errori, possibilità o meno di soluzioni.

Resta comunque, come evidenzia Tronchetti, un punto comune: il senso di responsabilità dell’impresa nei confronti dei territori e delle comunità da cui ha ricavato forza, conoscenze, creatività, spinta produttiva. E resta dunque l’impegno per la ricerca, comunque, di una soluzione alla crisi o di una modalità civile di gestione della parte finale della crisi se, fallito ogni tentativo di ripresa, si vada alla chiusura. Gli ammortizzatori sociali faranno il loro ruolo.

Ammortizzatori – ecco il punto – da riformare, migliorare, rendere molto più efficaci proprio in una stagione in cui le spinte della globalizzazione e della diffusione delle nuove tecnologie digitali stanno radicalmente trasformando i contesti economici, le caratteristiche competitive delle imprese, le forme del lavoro e l’organizzazione di produzioni e servizi.

Il governo Draghi è consapevole della necessità e dell’urgenza di questa riforma: non sussidi dal sapore assistenziale, ma investimenti e sostegni per la formazione professionale, la ricollocazione, il superamento dell’attuale mismatch tra domanda e offerta di lavoro, tra le imprese che non riescono a trovare i lavoratori professionalizzati che cercano e i lavoratori che chiedono, senza risposte adeguatae, un’occupazione.

Torniamo dunque al punto delle relazioni industriali, del dialogo, delle riforme, della responsabilità dell’impresa.

La teoria e la pratica dell’economia dicono che ogni impresa ha il suo ciclo di vita. E non esistono “variabili indipendenti”. Non lo è il salario, slegato dalla produttività e dalla competitività dell’impresa (come aveva teorizzato e cercato di praticare il sindacato, nei conflittuali anni Settanta). Non lo è il profitto, se ricercato  ossessivamente nel tempo breve tipico della speculazione finanziaria. Non lo è neppure la salvaguardia ostinata del posto di lavoro, quando l’impresa non è più in grado di stare sul mercato. Né l’intervento pubblico per acquisire l’impresa in crisi, a dispetto di ogni ragione economica (le esperienze fallimentari dell’Egam e dell’Efim degli anni Settanta e Ottanta e di alcune aziende municipalizzate fanno da monito severo).

Ma sempre teoria e pratica documentano come profitto, salario, lavoro e competitività possano stare bene insieme, nell’impresa che investe, innova, segue o meglio ancora anticipa del mercato e adotta tutti i cambiamenti necessari (prodotti, produzione, governance, marketing, comunicazione) all’evoluzione di consumi e costumi. E nel contesto di una politica industriale che favorisca l’innovazione.

Sta proprio qui, lo snodo della crisi. Negli investimenti. Nel rinnovamento. In una cultura d’impresa attenta ai cambiamenti, alle sfide competitive in tempi di transizione ecologica e digitale.

Tutto questo, con uno sbrigativo whatsapp di licenziamento, non c’entra proprio nulla.

C’è in Italia una solida tradizione di civiltà del lavoro che fa, ancora adesso, da punto di riferimento per le imprese attente, pure in tempo di crisi, alle buone regole delle relazioni industriali. Ed è a questa cultura d’impresa che si richiama Marco Tronchetti Provera, amministratore delegato e vicepresidente esecutivo di Pirelli, quando affronta il tema dei recenti licenziamenti in due imprese, Gkn e Giannetti, controllate da fondi d’investimento internazionali. Licenziamenti comunicati ai dipendenti via sms e whatsapp. Al di là della fondatezza o meno delle ragioni economiche che portano alla chiusura delle imprese, è il modo della scelta e della comunicazione che fa discutere. Sostiene Tronchetti: “Credo che la cultura della responsabilità debba fare parte anche delle scelte dei fondi, perché pure nel loro caso a prendere le decisioni sono le persone. Dovrebbe sempre esserci questo senso di responsabilità, che non vuol dire non fare gli interessi dei propri investitori, vuol dire l’opposto”. In sintesi: “Anche chi non è direttamente coinvolto nel Paese credo debba comunque rispettarne la struttura sociale” (intervista a “la Repubblica”, 13 luglio).

Ci sono, insomma, regole, ma anche forme da rispettare, pur nel corso di acute crisi aziendali: “La responsabilità dell’impresa, dell’imprenditore – sostiene Tronchetti – è quella di fare le scelte meno dannose per chi lavora all’interno delle aziende. Ci sono gli ammortizzatori sociali, gli strumenti per poter passare un periodo di crisi dando alle persone, alle famiglie, una prospettiva per il loro futuro”. E in questo quadro di attenzione, “il dialogo resta comunque imprescindibile, anche quando licenziare diventa l’unica strada percorribile”. Quindi, “il percorso esiste, è un percorso sempre più faticoso ovviamente, ma è l’unico che si può seguire”.

La storia italiana racconta una lunga e complessa evoluzione delle relazioni industriali che, proprio nel dialogo tra impresa e sindacato, ha trovato molto spesso soluzioni innovative per uscire dalle crisi, rivedendo criticamente i fattori di competitività. La tradizione e l’attualità della Pirelli e di parecchie altre imprese responsabili ne sono importanti testimonianze.

Sempre da questo dialogo, pur spesso ruvido, aspro, sincero tra le parti sociali e le loro rappresentanze (con la mediazione dei pubblici poteri) sono emerse, nel corso dello sviluppo del’economia italiana, anche nelle stagioni più difficili, scelte che hanno permesso ripresa e rilancio.

Scelte di politica industriale, per migliorare l’ambiente competitivo a vantaggio dell’impresa. Scelte economiche per l’efficienza e la trasparenza del mercato. Scelte sugli ammortizzatori sociali, per ridurre l’impatto delle crisi e delle trasformazioni sulle persone, i lavoratori, le loro famiglie e per salvaguardare non il singolo posto di lavoro com’era, ma le professionalità e le competenze dei lavoratori, utili verso nuovi posti di lavoro.

Le vicende specifiche di Gkn e Giannetti, insieme alle tante altre storie di crisi aziendali, stanno sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico. E ogni crisi ha radici, caratteristiche specifiche, ragioni ed errori, possibilità o meno di soluzioni.

Resta comunque, come evidenzia Tronchetti, un punto comune: il senso di responsabilità dell’impresa nei confronti dei territori e delle comunità da cui ha ricavato forza, conoscenze, creatività, spinta produttiva. E resta dunque l’impegno per la ricerca, comunque, di una soluzione alla crisi o di una modalità civile di gestione della parte finale della crisi se, fallito ogni tentativo di ripresa, si vada alla chiusura. Gli ammortizzatori sociali faranno il loro ruolo.

Ammortizzatori – ecco il punto – da riformare, migliorare, rendere molto più efficaci proprio in una stagione in cui le spinte della globalizzazione e della diffusione delle nuove tecnologie digitali stanno radicalmente trasformando i contesti economici, le caratteristiche competitive delle imprese, le forme del lavoro e l’organizzazione di produzioni e servizi.

Il governo Draghi è consapevole della necessità e dell’urgenza di questa riforma: non sussidi dal sapore assistenziale, ma investimenti e sostegni per la formazione professionale, la ricollocazione, il superamento dell’attuale mismatch tra domanda e offerta di lavoro, tra le imprese che non riescono a trovare i lavoratori professionalizzati che cercano e i lavoratori che chiedono, senza risposte adeguatae, un’occupazione.

Torniamo dunque al punto delle relazioni industriali, del dialogo, delle riforme, della responsabilità dell’impresa.

La teoria e la pratica dell’economia dicono che ogni impresa ha il suo ciclo di vita. E non esistono “variabili indipendenti”. Non lo è il salario, slegato dalla produttività e dalla competitività dell’impresa (come aveva teorizzato e cercato di praticare il sindacato, nei conflittuali anni Settanta). Non lo è il profitto, se ricercato  ossessivamente nel tempo breve tipico della speculazione finanziaria. Non lo è neppure la salvaguardia ostinata del posto di lavoro, quando l’impresa non è più in grado di stare sul mercato. Né l’intervento pubblico per acquisire l’impresa in crisi, a dispetto di ogni ragione economica (le esperienze fallimentari dell’Egam e dell’Efim degli anni Settanta e Ottanta e di alcune aziende municipalizzate fanno da monito severo).

Ma sempre teoria e pratica documentano come profitto, salario, lavoro e competitività possano stare bene insieme, nell’impresa che investe, innova, segue o meglio ancora anticipa del mercato e adotta tutti i cambiamenti necessari (prodotti, produzione, governance, marketing, comunicazione) all’evoluzione di consumi e costumi. E nel contesto di una politica industriale che favorisca l’innovazione.

Sta proprio qui, lo snodo della crisi. Negli investimenti. Nel rinnovamento. In una cultura d’impresa attenta ai cambiamenti, alle sfide competitive in tempi di transizione ecologica e digitale.

Tutto questo, con uno sbrigativo whatsapp di licenziamento, non c’entra proprio nulla.

Pirelli per la quindicesima edizione del Festival MITO SettembreMusica

Torna a settembre il prestigioso Festival MITO SettembreMusica, rassegna internazionale dedicata alla musica classica che unisce le città di Milano e Torino in un fitto calendario di concerti. In questa edizione, la quindicesima, Pirelli sostiene il due concerti dedicati a bambini e ragazzi. Il primo “Futurottole” domenica 19 settembre presso il Teatro Bruno Munari, dove tra rielaborazioni di brani antichi e nuove composizioni si esplorerà il futuro come un grande gioco, e il secondo “Pachua” sabato 25 settembre al Teatro Dal Verme vedrà impegnanti l’Orchestra de I Piccoli Pomeriggi Musicali diretti dal maestro Daniele Parziani ed Elio come voce recitante.

La scelta di Pirelli ribadisce così l’attenzione da sempre posta, anche attraverso la sua Fondazione, nei confronti delle nuove generazioni, concretizzatasi nel corso del tempo attraverso il sostegno e la valorizzazione dei giovani talenti, la sponsorizzazione di borse di studio,la promozione dell’istruzione e della formazione, il progetto per le scuole “Fondazione Pirelli Educational“.

Pirelli ha da sempre sostenuto e promosso la cultura musicale anche nei luoghi di lavoro. A partire dagli anni Cinquanta, il Centro Culturale Pirelli ha ospitato concerti di grandi artisti tra cui quello di John Cage, musicista americano d’avanguardia, mentre tra gli anni Sessanta e Settanta nel Grattacielo Pirelli è stato organizzato il Festival Musicale Pirelli che ha visto la partecipazione, tra gli altri, di Friedrich Gulda, Antonio Janigro, Gérard Poulet e di Salvatore Accardo. Legame, quello con il Maestro Salvatore Accardo portato avanti nel corso del tempo e culminato nel 2017 con l’esecuzione da parte dell’Orchestra da Camera Italiana diretta dal Maestro, in prima assoluta nell’ambito del Festival MITO, del brano musicale “Il Canto della fabbrica”, ispirato ai suoni e ai ritmi della produzione del Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese composto dal maestro Francesco Fiore.

Torna a settembre il prestigioso Festival MITO SettembreMusica, rassegna internazionale dedicata alla musica classica che unisce le città di Milano e Torino in un fitto calendario di concerti. In questa edizione, la quindicesima, Pirelli sostiene il due concerti dedicati a bambini e ragazzi. Il primo “Futurottole” domenica 19 settembre presso il Teatro Bruno Munari, dove tra rielaborazioni di brani antichi e nuove composizioni si esplorerà il futuro come un grande gioco, e il secondo “Pachua” sabato 25 settembre al Teatro Dal Verme vedrà impegnanti l’Orchestra de I Piccoli Pomeriggi Musicali diretti dal maestro Daniele Parziani ed Elio come voce recitante.

La scelta di Pirelli ribadisce così l’attenzione da sempre posta, anche attraverso la sua Fondazione, nei confronti delle nuove generazioni, concretizzatasi nel corso del tempo attraverso il sostegno e la valorizzazione dei giovani talenti, la sponsorizzazione di borse di studio,la promozione dell’istruzione e della formazione, il progetto per le scuole “Fondazione Pirelli Educational“.

Pirelli ha da sempre sostenuto e promosso la cultura musicale anche nei luoghi di lavoro. A partire dagli anni Cinquanta, il Centro Culturale Pirelli ha ospitato concerti di grandi artisti tra cui quello di John Cage, musicista americano d’avanguardia, mentre tra gli anni Sessanta e Settanta nel Grattacielo Pirelli è stato organizzato il Festival Musicale Pirelli che ha visto la partecipazione, tra gli altri, di Friedrich Gulda, Antonio Janigro, Gérard Poulet e di Salvatore Accardo. Legame, quello con il Maestro Salvatore Accardo portato avanti nel corso del tempo e culminato nel 2017 con l’esecuzione da parte dell’Orchestra da Camera Italiana diretta dal Maestro, in prima assoluta nell’ambito del Festival MITO, del brano musicale “Il Canto della fabbrica”, ispirato ai suoni e ai ritmi della produzione del Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese composto dal maestro Francesco Fiore.

Buona organizzazione, buona impresa

Una ricerca appena pubblicata da Technology in Society dimostra quanto forti siano i legami tra le componenti vitali di una azienda

Cultura d’impresa che si traduce anche in cultura dell’organizzazione della produzione. Aspetto particolare della “buona impresa”, la capacità di organizzare consapevolmente e con attenzione le aziende, non è un parte di poco conto. Anzi, spesso la buona organizzazione – intesa come organizzazione a tutto tondo – è manifestazione evidente, al pari dei risultati di bilancio, di un’impresa nella quale la cultura del produrre esiste davvero e non per finzione.

Studiare e misurare le relazioni che intercorrono tra cultura organizzativa e cultura d’impresa è quindi importante. E’ quanto è stato fatto da “Expanding competitive advantage through organizational culture, knowledge sharing and organizational innovation”, una ricerca appena pubblicata da Technology in Society.

L’intento dell’indagine – svolta sia dal punto di vista teorico che empirico -, è quello di indagare la relazione tra cultura organizzativa, condivisione della conoscenza, innovazione organizzativa e vantaggio competitivo. In altri termini, la domanda alla quale si cerca di rispondere è una sola: quanto è importante una buona cultura organizzativa per un’impresa che abbia come obiettivo quello della crescita integrale?

La risposta è stata ricercata attraverso una indagine su 294 manager industriali ai quali è stato sottoposto un questionario i cui risultati hanno confermato che la cultura organizzativa, la condivisione delle conoscenze e l’innovazione organizzativa influiscono positivamente sul vantaggio competitivo. Più specificamente, la cultura organizzativa favorisce la condivisione delle conoscenze e le attività di innovazione tra la forza lavoro e le collega a processi aziendali di alto livello che potrebbero favorire l’acquisizione di capacità produttive avanzate. L’indagine, in altri termini, ha dimostrato quanto la cultura organizzativa sia indispensabile per il successo operativo aziendale e quanto la condivisione delle conoscenze e l’innovazione organizzativa siano fattori chiave per ottenere un vantaggio competitivo.

“Expanding competitive advantage through organizational culture, knowledge sharing and organizational innovation” non apporta particolari conoscenze teoriche alla conoscenza dell’agire d’impresa, ma contribuisce comunque ad accrescere il bagaglio di conoscenze utili per comprendere meglio cosa accade in una buona impresa.

Expanding competitive advantage through organizational culture, knowledge sharing and organizational innovation

Muhammad Azeem, Munir Ahmed, Sajid Haider, Muhammad Sajjad (COMSATS University Islamabad, Campus Vehari, Pakistan)

Technology in Society, Volume 66, agosto 2021, 101635

Una ricerca appena pubblicata da Technology in Society dimostra quanto forti siano i legami tra le componenti vitali di una azienda

Cultura d’impresa che si traduce anche in cultura dell’organizzazione della produzione. Aspetto particolare della “buona impresa”, la capacità di organizzare consapevolmente e con attenzione le aziende, non è un parte di poco conto. Anzi, spesso la buona organizzazione – intesa come organizzazione a tutto tondo – è manifestazione evidente, al pari dei risultati di bilancio, di un’impresa nella quale la cultura del produrre esiste davvero e non per finzione.

Studiare e misurare le relazioni che intercorrono tra cultura organizzativa e cultura d’impresa è quindi importante. E’ quanto è stato fatto da “Expanding competitive advantage through organizational culture, knowledge sharing and organizational innovation”, una ricerca appena pubblicata da Technology in Society.

L’intento dell’indagine – svolta sia dal punto di vista teorico che empirico -, è quello di indagare la relazione tra cultura organizzativa, condivisione della conoscenza, innovazione organizzativa e vantaggio competitivo. In altri termini, la domanda alla quale si cerca di rispondere è una sola: quanto è importante una buona cultura organizzativa per un’impresa che abbia come obiettivo quello della crescita integrale?

La risposta è stata ricercata attraverso una indagine su 294 manager industriali ai quali è stato sottoposto un questionario i cui risultati hanno confermato che la cultura organizzativa, la condivisione delle conoscenze e l’innovazione organizzativa influiscono positivamente sul vantaggio competitivo. Più specificamente, la cultura organizzativa favorisce la condivisione delle conoscenze e le attività di innovazione tra la forza lavoro e le collega a processi aziendali di alto livello che potrebbero favorire l’acquisizione di capacità produttive avanzate. L’indagine, in altri termini, ha dimostrato quanto la cultura organizzativa sia indispensabile per il successo operativo aziendale e quanto la condivisione delle conoscenze e l’innovazione organizzativa siano fattori chiave per ottenere un vantaggio competitivo.

“Expanding competitive advantage through organizational culture, knowledge sharing and organizational innovation” non apporta particolari conoscenze teoriche alla conoscenza dell’agire d’impresa, ma contribuisce comunque ad accrescere il bagaglio di conoscenze utili per comprendere meglio cosa accade in una buona impresa.

Expanding competitive advantage through organizational culture, knowledge sharing and organizational innovation

Muhammad Azeem, Munir Ahmed, Sajid Haider, Muhammad Sajjad (COMSATS University Islamabad, Campus Vehari, Pakistan)

Technology in Society, Volume 66, agosto 2021, 101635

Etica delle nuove tecnologie

Un libro scritto a più mani, aiuta a comprendere meglio i cambiamenti in atto a partire dalla digitalizzazione della società e della produzione

Tecnologie “a misura d’uomo”. E imprese attente non solo al “profitto economico” ma anche a quello “sociale”. Approcci, questi, ormai piuttosto comuni, almeno nelle analisi quando non nella pratica. Eppure, quelli delle tecnologie e della cultura d’impresa migliore sono temi sui quali è importante ragionare con la scorta di una cassetta degli attrezzi sempre rinnovata e attuale. E’ per questo che è importante leggere “Etica digitale. Verità, responsabilità e fiducia nell’era delle macchine intelligenti” appena pubblicato a cura di Marta Bertolaso e Giovanni Lo Storto.

Il libro, viene spiegato nelle prime pagine, nasce dalla convinzione che le nuove tecnologie possano e debbano essere messe al servizio degli esseri umani per migliorarne le condizioni di vita. Il tema cruciale, tuttavia, è il difficile equilibrio tra benessere ed emancipazione determinati dalle nuove tecnologie e i rischi ai quali le stesse espongono. Le tecnologie digitali – tema principale del libro -, non fanno eccezione: le tecnologie disponibili possono fare la differenza nel migliorare le condizioni di vita delle popolazioni, eppure ci troviamo nella situazione paradossale di vivere in una società all’apice del proprio progresso scientifico e tecnologico, ma ancora alle prese con enormi e diffuse disuguaglianze sociali. Disuguaglianze che, appunto, l’era digitale rischia di acuire.

Bertolaso e Lo Storto, hanno quindi cercato di comporre nel loro libro quell’equilibrio che manca tra tecnologia, essere umano, sostenibilità ambientale, economica e sociale del sistema in cui viviamo. Ha preso così forma un percorso multidisciplinare con studiosi, professionisti, imprenditori, innovatori e membri delle istituzioni, che a partire dalle particolari implicazioni giuridiche, economiche e di policy con le quali l’agire umano si trova oggi a confrontarsi, aiuta chi legge a riflettere sull’importanza di mettere i valori etici di umanità, responsabilità e fiducia al centro del progetto di sviluppo comune del mondo che stiamo insieme costruendo.

“Etica digitale. Verità, responsabilità e fiducia nell’era delle macchine intelligenti” è una buona lettura, da fare con attenzione: una buona cassetta degli attrezzi che può accompagnare chi legge lungo il cammino della comprensione migliore di quanto sta avvenendo.

Etica digitale. Verità, responsabilità e fiducia nell’era delle macchine intelligenti

Marta Bertolaso, Giovanni Lo Storto

Luiss University Press, 2021

Un libro scritto a più mani, aiuta a comprendere meglio i cambiamenti in atto a partire dalla digitalizzazione della società e della produzione

Tecnologie “a misura d’uomo”. E imprese attente non solo al “profitto economico” ma anche a quello “sociale”. Approcci, questi, ormai piuttosto comuni, almeno nelle analisi quando non nella pratica. Eppure, quelli delle tecnologie e della cultura d’impresa migliore sono temi sui quali è importante ragionare con la scorta di una cassetta degli attrezzi sempre rinnovata e attuale. E’ per questo che è importante leggere “Etica digitale. Verità, responsabilità e fiducia nell’era delle macchine intelligenti” appena pubblicato a cura di Marta Bertolaso e Giovanni Lo Storto.

Il libro, viene spiegato nelle prime pagine, nasce dalla convinzione che le nuove tecnologie possano e debbano essere messe al servizio degli esseri umani per migliorarne le condizioni di vita. Il tema cruciale, tuttavia, è il difficile equilibrio tra benessere ed emancipazione determinati dalle nuove tecnologie e i rischi ai quali le stesse espongono. Le tecnologie digitali – tema principale del libro -, non fanno eccezione: le tecnologie disponibili possono fare la differenza nel migliorare le condizioni di vita delle popolazioni, eppure ci troviamo nella situazione paradossale di vivere in una società all’apice del proprio progresso scientifico e tecnologico, ma ancora alle prese con enormi e diffuse disuguaglianze sociali. Disuguaglianze che, appunto, l’era digitale rischia di acuire.

Bertolaso e Lo Storto, hanno quindi cercato di comporre nel loro libro quell’equilibrio che manca tra tecnologia, essere umano, sostenibilità ambientale, economica e sociale del sistema in cui viviamo. Ha preso così forma un percorso multidisciplinare con studiosi, professionisti, imprenditori, innovatori e membri delle istituzioni, che a partire dalle particolari implicazioni giuridiche, economiche e di policy con le quali l’agire umano si trova oggi a confrontarsi, aiuta chi legge a riflettere sull’importanza di mettere i valori etici di umanità, responsabilità e fiducia al centro del progetto di sviluppo comune del mondo che stiamo insieme costruendo.

“Etica digitale. Verità, responsabilità e fiducia nell’era delle macchine intelligenti” è una buona lettura, da fare con attenzione: una buona cassetta degli attrezzi che può accompagnare chi legge lungo il cammino della comprensione migliore di quanto sta avvenendo.

Etica digitale. Verità, responsabilità e fiducia nell’era delle macchine intelligenti

Marta Bertolaso, Giovanni Lo Storto

Luiss University Press, 2021

La rigenerazione necessaria per imprese e società ascoltando la lezione dell’umanesimo di Morin

Umanesimo rigenerato”, dice Edgar Morin, nelle pagine di “Lezioni di un secolo di vita”, l’autobiografia (uscita all’inizio di giugno in Francia e pronta per la pubblicazione italiana da Mimesis) di uno dei più grandi intellettuali contemporanei, cent’anni appena compiuti e un pensiero ancora fresco, severamente critico con “la nuova barbarie” e con l’ossessione della crescita priva di equilibrio. Un uomo di pensiero, dunque, lungimirante, progettuale, maestro da ascoltare, accanto ai Bauman, ai Beck, ai Sen, agli Stiglitz e ai Crouch, interpreti problematici del disagio dell’incertezza e sostenitori di un necessario “cambio di paradigma” economico e sociale.
Rigenerazione”, è stata la parola chiave dell’assemblea di Assolombarda, la maggiore associazione territoriale di Confindustria, sotto le volte dell’ex laminatoio delle Acciaierie Falck, a Sesto San Giovanni, già in trasformazione per uno dei più impegnativi progetti di ricostruzione urbanistica ed economica d’Europa.
Ci sono interessanti coincidenze da indagare, in questi nostri tempi così ruvidi eppur carichi di speranza. Al di là delle somiglianze linguistiche, le indicazioni degli imprenditori dell’area più dinamica ed europea dell’Italia e quelle d’un uomo di cultura d’origine ebraiche, un po’ italiano (“per me l’Italia è una matrice”) e un po’ spagnolo, “figlio di Montaigne e di Spinoza”, profondamente mediterraneo e dunque cosmopolita, francese per scelta d’appartenenza ma semplicemente “un essere umano” per auto-definizione (su “7”, magazine del Corriere della Sera”, 2 luglio), quelle indicazioni – dicevamo – sulla rigenerazione indicano un percorso quanto mai stimolante.
Non una semplice “ripartenza” né una “ripresa” da dove ci eravamo fermarti, per colpa della pandemia e della recessione. Ma un lavorìo che tiene conto delle fratture e delle radici della fragilità e però insiste per creare qualcosa di nuovo, perché “dopo una crisi che ci ha messo di fronte ai nostri limiti ripartire non basta. Bisogna cambiare”, come sostiene Alessandro Spada, presidente di Assolombarda.

Rigenerazione, nella sintesi tra la memoria e il futuro, la consapevolezza della propria storia e la spinta creativa e critica all’innovazione. L’impresa come comunità progettuale e dialettica e la filosofia di Morin, da strade anche molto diverse, convergono sull’idea di una nuova dimensione di umanità, fondata sulla conoscenza e sulla responsabilità. E indicano una strada su cui l’attività economica, le riflessioni delle organizzazioni sociali e, perché no? un po’ tutto il pensiero europeo contemporaneo dovrebbero concentrare l’attenzione, facendo leva sulla crisi della stagione del primato dell’incompetenza e dell’esaurirsi del fascino delle scorciatoie populiste (la cronaca politica italiana ne offre interessanti indicazioni) e indicando nuove strade di conoscenza e di sviluppo.
Umanesimo industriale, dice la migliore cultura d’impresa italiana. Umanesimo digitale, sostengono gli imprenditori sensibili al valore e ai valori anche etici degli algoritmi e i filosofi come Luciano Floridi. Umanesimo rigenerato, insiste Morin, ricordando che “scienza senza coscienza non è che rovina dell’anima” e rilanciando “la cultura umanista europea” per evitare “la degradazione del pianeta in balia di un incontrollato sviluppo tecnologico economico”.
Si apre un ragionamento, dunque, sui valori e sui fini, anche dell’attività economica e della responsabilità delle imprese. E tocca alla nostra cultura politecnica provare a disegnare uno sviluppo più equilibrato e sostenibile.
Ecco il punto: l’impresa, con il “tratto comunitario della manifattura” (la brillante definizione è di Dario Di Vico, sul “Corriere della Sera”, 4 luglio) non è più soltanto il luogo – essenziale, comunque – dove si creano benessere e lavoro, innovazione e profitto, cambiamento di prodotti e servizi e migliore qualità della vita. Ma è un soggetto attivo negli equilibri della sostenibilità, ambientale e sociale. Una componente fondamentale di un capitale sociale positivo che intende contribuire in modo determinante a quella che sia Papa Francesco che la migliore letteratura economica chiamano “l’economia giusta”, l’economia “circolare” e “civile” (rileggere Antonio Genovesi, lungimirante illuminista napoletano, e i suoi creativi interpreti contemporanei, a cominciare da Stefano Zamagni). Impresa e lavoro. Impresa e promozione umana. Impresa e inclusione sociale, tra competitività e solidarietà. Impresa e cultura. Impresa e metamorfosi, per camminare ancora sulla strada della “rigenerazione”.

Per capire ancora meglio, vale la pena fermarsi a guardare i dati della ripresa. “Il made in Italy rialza la testa: metà del distretti oltre la crisi”, titola “Il Sole24Ore” (1 luglio), citando i risultati delle analisi periodiche del Monitor Intesa San Paolo. Il primo trimestre del 2021 è stato di “netto recupero per le aree a specializzazione manifatturiera” e “l’export di elettrodomestici, metallurgia, mobili, piastrelle e alimentari supera già i volumi dell’era pre Covid”. Va male la moda. Tengono bene anche la meccatronica, la nautica, le macchine agricole, la termomeccanica.
Ecco, appunto, i distretti come motore di ripresa. Forti di una intraprendenza diffusa, di un robusto rapporto con le competenze dei territori di riferimento, di un capitale sociale che ha i suoi punti di forza nel dinamismo sociale e nell’inclusione, negli scambi e nella solidarietà. Valori economici che innervano anche le relazioni industriali e che in luoghi particolari, la Motor Valley emiliana, per esempio (“16mila imprese, 66mila addetti, elevatissime abilità tecniche”, racconta “L’Economia” del “Corriere della Sera”, 28 giugno) sono rafforzati dalla collaborazione proficua tra imprese, università e buon governo regionale e locale.
Un capitale sociale che si rinnova. “Il boom del made in Italy è figlio di Industria 4.0 e dei giovani imprenditori”, nota Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison, ricordando come le imprese più dinamiche abbiano saputo mettere a buon frutto gli stimoli fiscali dei provvedimenti per l’innovazione varati dai governi nel 2015 e 2016 investendo sulle trasformazioni digitali e come, in questo quadro di riforme e scelte lungimiranti di politica industriale, siano ben emerse “le capacità dei giovani imprenditori insediatisi al comando delle aziende negli ultimi anni, a seguito dei passaggi generazionali, di interpretare con visione e coraggio la spinta di Industria 4.0, innovando profondamente l’organizzazione, i processi e i prodotti delle imprese”. Adesso, con la ripresa avviata, ne vediamo ancora meglio i risultati.

Una ripresa “equa e sostenibile” sta molto a cuore al presidente del Consiglio Mario Draghi, che considera “la coesione sociale” come “un dovere morale”, oltre che come una grande opportunità economica, riformando in modo efficace gli strumenti del welfare e gli ammortizzatori sociali, per fare fronte al problema del lavoro.
Anche da questo punto di vista le imprese hanno un ruolo fondamentale, come conferma l’ultimo Rapporto Symbola (ne abbiamo parlato nel blog del 22 giugno), documentando come “le imprese coesive” sono più efficienti, innovano ed esportano di più, colgono meglio le occasioni di crescita di qualità e di successo competitivo.
L’orizzonte è quello della migliore tenuta sociale del sistema Paese, della ricostruzione della fiducia, dell’attuazione di riforme nel segno della produttività e della sostenibilità. Sfida economica, sociale, culturale. E politica, naturalmente. Sapientemente, il presidente di Assolombarda Spada, nelle conclusioni del suo discorso all’assemblea degli imprenditori, ha parafrasato una delle indicazioni più incisive di Alcide De Gasperi, il presidente del Consiglio della ricostruzione e della ripresa dell’Italia, dopo i disastri del fascismo e della guerra: “Bisogna imparare a guardare più alle future generazioni che non alle prossime elezioni”. Rigenerazione, appunto.

Umanesimo rigenerato”, dice Edgar Morin, nelle pagine di “Lezioni di un secolo di vita”, l’autobiografia (uscita all’inizio di giugno in Francia e pronta per la pubblicazione italiana da Mimesis) di uno dei più grandi intellettuali contemporanei, cent’anni appena compiuti e un pensiero ancora fresco, severamente critico con “la nuova barbarie” e con l’ossessione della crescita priva di equilibrio. Un uomo di pensiero, dunque, lungimirante, progettuale, maestro da ascoltare, accanto ai Bauman, ai Beck, ai Sen, agli Stiglitz e ai Crouch, interpreti problematici del disagio dell’incertezza e sostenitori di un necessario “cambio di paradigma” economico e sociale.
Rigenerazione”, è stata la parola chiave dell’assemblea di Assolombarda, la maggiore associazione territoriale di Confindustria, sotto le volte dell’ex laminatoio delle Acciaierie Falck, a Sesto San Giovanni, già in trasformazione per uno dei più impegnativi progetti di ricostruzione urbanistica ed economica d’Europa.
Ci sono interessanti coincidenze da indagare, in questi nostri tempi così ruvidi eppur carichi di speranza. Al di là delle somiglianze linguistiche, le indicazioni degli imprenditori dell’area più dinamica ed europea dell’Italia e quelle d’un uomo di cultura d’origine ebraiche, un po’ italiano (“per me l’Italia è una matrice”) e un po’ spagnolo, “figlio di Montaigne e di Spinoza”, profondamente mediterraneo e dunque cosmopolita, francese per scelta d’appartenenza ma semplicemente “un essere umano” per auto-definizione (su “7”, magazine del Corriere della Sera”, 2 luglio), quelle indicazioni – dicevamo – sulla rigenerazione indicano un percorso quanto mai stimolante.
Non una semplice “ripartenza” né una “ripresa” da dove ci eravamo fermarti, per colpa della pandemia e della recessione. Ma un lavorìo che tiene conto delle fratture e delle radici della fragilità e però insiste per creare qualcosa di nuovo, perché “dopo una crisi che ci ha messo di fronte ai nostri limiti ripartire non basta. Bisogna cambiare”, come sostiene Alessandro Spada, presidente di Assolombarda.

Rigenerazione, nella sintesi tra la memoria e il futuro, la consapevolezza della propria storia e la spinta creativa e critica all’innovazione. L’impresa come comunità progettuale e dialettica e la filosofia di Morin, da strade anche molto diverse, convergono sull’idea di una nuova dimensione di umanità, fondata sulla conoscenza e sulla responsabilità. E indicano una strada su cui l’attività economica, le riflessioni delle organizzazioni sociali e, perché no? un po’ tutto il pensiero europeo contemporaneo dovrebbero concentrare l’attenzione, facendo leva sulla crisi della stagione del primato dell’incompetenza e dell’esaurirsi del fascino delle scorciatoie populiste (la cronaca politica italiana ne offre interessanti indicazioni) e indicando nuove strade di conoscenza e di sviluppo.
Umanesimo industriale, dice la migliore cultura d’impresa italiana. Umanesimo digitale, sostengono gli imprenditori sensibili al valore e ai valori anche etici degli algoritmi e i filosofi come Luciano Floridi. Umanesimo rigenerato, insiste Morin, ricordando che “scienza senza coscienza non è che rovina dell’anima” e rilanciando “la cultura umanista europea” per evitare “la degradazione del pianeta in balia di un incontrollato sviluppo tecnologico economico”.
Si apre un ragionamento, dunque, sui valori e sui fini, anche dell’attività economica e della responsabilità delle imprese. E tocca alla nostra cultura politecnica provare a disegnare uno sviluppo più equilibrato e sostenibile.
Ecco il punto: l’impresa, con il “tratto comunitario della manifattura” (la brillante definizione è di Dario Di Vico, sul “Corriere della Sera”, 4 luglio) non è più soltanto il luogo – essenziale, comunque – dove si creano benessere e lavoro, innovazione e profitto, cambiamento di prodotti e servizi e migliore qualità della vita. Ma è un soggetto attivo negli equilibri della sostenibilità, ambientale e sociale. Una componente fondamentale di un capitale sociale positivo che intende contribuire in modo determinante a quella che sia Papa Francesco che la migliore letteratura economica chiamano “l’economia giusta”, l’economia “circolare” e “civile” (rileggere Antonio Genovesi, lungimirante illuminista napoletano, e i suoi creativi interpreti contemporanei, a cominciare da Stefano Zamagni). Impresa e lavoro. Impresa e promozione umana. Impresa e inclusione sociale, tra competitività e solidarietà. Impresa e cultura. Impresa e metamorfosi, per camminare ancora sulla strada della “rigenerazione”.

Per capire ancora meglio, vale la pena fermarsi a guardare i dati della ripresa. “Il made in Italy rialza la testa: metà del distretti oltre la crisi”, titola “Il Sole24Ore” (1 luglio), citando i risultati delle analisi periodiche del Monitor Intesa San Paolo. Il primo trimestre del 2021 è stato di “netto recupero per le aree a specializzazione manifatturiera” e “l’export di elettrodomestici, metallurgia, mobili, piastrelle e alimentari supera già i volumi dell’era pre Covid”. Va male la moda. Tengono bene anche la meccatronica, la nautica, le macchine agricole, la termomeccanica.
Ecco, appunto, i distretti come motore di ripresa. Forti di una intraprendenza diffusa, di un robusto rapporto con le competenze dei territori di riferimento, di un capitale sociale che ha i suoi punti di forza nel dinamismo sociale e nell’inclusione, negli scambi e nella solidarietà. Valori economici che innervano anche le relazioni industriali e che in luoghi particolari, la Motor Valley emiliana, per esempio (“16mila imprese, 66mila addetti, elevatissime abilità tecniche”, racconta “L’Economia” del “Corriere della Sera”, 28 giugno) sono rafforzati dalla collaborazione proficua tra imprese, università e buon governo regionale e locale.
Un capitale sociale che si rinnova. “Il boom del made in Italy è figlio di Industria 4.0 e dei giovani imprenditori”, nota Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison, ricordando come le imprese più dinamiche abbiano saputo mettere a buon frutto gli stimoli fiscali dei provvedimenti per l’innovazione varati dai governi nel 2015 e 2016 investendo sulle trasformazioni digitali e come, in questo quadro di riforme e scelte lungimiranti di politica industriale, siano ben emerse “le capacità dei giovani imprenditori insediatisi al comando delle aziende negli ultimi anni, a seguito dei passaggi generazionali, di interpretare con visione e coraggio la spinta di Industria 4.0, innovando profondamente l’organizzazione, i processi e i prodotti delle imprese”. Adesso, con la ripresa avviata, ne vediamo ancora meglio i risultati.

Una ripresa “equa e sostenibile” sta molto a cuore al presidente del Consiglio Mario Draghi, che considera “la coesione sociale” come “un dovere morale”, oltre che come una grande opportunità economica, riformando in modo efficace gli strumenti del welfare e gli ammortizzatori sociali, per fare fronte al problema del lavoro.
Anche da questo punto di vista le imprese hanno un ruolo fondamentale, come conferma l’ultimo Rapporto Symbola (ne abbiamo parlato nel blog del 22 giugno), documentando come “le imprese coesive” sono più efficienti, innovano ed esportano di più, colgono meglio le occasioni di crescita di qualità e di successo competitivo.
L’orizzonte è quello della migliore tenuta sociale del sistema Paese, della ricostruzione della fiducia, dell’attuazione di riforme nel segno della produttività e della sostenibilità. Sfida economica, sociale, culturale. E politica, naturalmente. Sapientemente, il presidente di Assolombarda Spada, nelle conclusioni del suo discorso all’assemblea degli imprenditori, ha parafrasato una delle indicazioni più incisive di Alcide De Gasperi, il presidente del Consiglio della ricostruzione e della ripresa dell’Italia, dopo i disastri del fascismo e della guerra: “Bisogna imparare a guardare più alle future generazioni che non alle prossime elezioni”. Rigenerazione, appunto.

30 giugno – 30 novembre 2021
Aperta la mostra “Storie del Grattacielo” 

Un racconto di modernità e avanguardia nella “città che sale” al 26° piano del Pirellone

Apre al pubblico a partire da mercoledì 30 giugno 2021 la mostra “Storie del Grattacielo. I 60 anni del Pirellone tra cultura industriale e attività istituzionali di Regione Lombardia”, curata dalla Fondazione Pirelli con l’architetto Alessandro Colombo, e promossa da Regione Lombardia, Giunta e Consiglio, e dalla Fondazione Pirelli, anche grazie al contributo di Pirelli e FNM Group. Un percorso allestitivo che racconta l’edificio, nato come Headquarter della Pirelli e poi diventato sede e simbolo di Regione Lombardia, attraverso videoinstallazioni con testimonianze esclusive, fotografie, illustrazioni, filmati di repertorio, in larga parte provenienti dall’Archivio Storico Pirelli.
La mostra, di cui sono già disponibili il catalogo edito da Marsilio e il sito dedicato 60grattacielopirelli.org , vuole essere una celebrazione della modernità della tecnologia e dell’industria lombarde, dell’istituzione della Regione, e dell’avanguardia urbanistica della “città che sale” che trova espressione nel capoluogo lombardo.

Il percorso espositivo si apre con un plastico dell’edificio proveniente dai Gio Ponti Archives posizionato davanti a una grande parete che accoglie il pubblico allo sbarco dagli ascensori al piano “della memoria”, il 26esimo, con la riproduzione di uno schizzo dello stesso Ponti che riassume la sua idea di Milano, della quale il Pirellone è ancora landmark indiscusso. Un disegno realizzato durante un’intervista a Ponti sull’edificio di piazza Duca d’Aosta, nella quale l’architetto racconta con visione profetica la Milano del futuro: “Sogno una Milano fatta dai miei colleghi architetti. Certamente non voglio una Milano fatta con case basse e un grattacielo qui, uno là, un altro là e un altro ancora là. Sarebbe come una bocca con qualche dente lungo e gli altri corti. I grattacieli sono belli se si trovano uno di fianco all’altro, come delle isole. […] Questo che dico non è un sogno, dico ciò che sarà in futuro”.

Cinque “movimenti” scandiscono il percorso espositivo: dalla costruzione dell’edificio, elogio della forma “finita” e del genio di Gio Ponti che ne progetta anche gli arredi per restituire ai lavoratori nuovi comfort per una migliore qualità lavorativa, a Milano, con la sua modernità e capacità di cambiare che diventa motore dello slancio economico negli anni del boom. E infine in tempi più recenti con l’edificio che diventa il simbolo dell’istituzione lombarda. Videoinstallazioni, con la voce di coloro che hanno vissuto l’edificio e che con esso hanno un legame profondo, e una linea del tempo con gli eventi più significativi della grande storia nazionale e internazionale dal 1956 ai giorni nostri, accompagnano il visitatore in questo lungo viaggio.

La mostra è visitabile su prenotazione nei giorni di lunedì e mercoledì dalle ore 9,30 alle ore 12,30 e dalle ore 14,30 alle ore 16,30 (ultimo ingresso 30 minuti prima della chiusura). La mostra rimarrà chiusa dal 1 al 31 agosto 2021.
L’accesso è limitato a gruppi di massimo 10 persone ed è necessaria la compilazione dell’autodichiarazione relativa alle norme sanitarie vigenti.

Per prenotare è possibile chiamare il numero di Regione Lombardia 02-67482777 oppure scrivere a urp@consiglio.regione.lombardia.it

Un racconto di modernità e avanguardia nella “città che sale” al 26° piano del Pirellone

Apre al pubblico a partire da mercoledì 30 giugno 2021 la mostra “Storie del Grattacielo. I 60 anni del Pirellone tra cultura industriale e attività istituzionali di Regione Lombardia”, curata dalla Fondazione Pirelli con l’architetto Alessandro Colombo, e promossa da Regione Lombardia, Giunta e Consiglio, e dalla Fondazione Pirelli, anche grazie al contributo di Pirelli e FNM Group. Un percorso allestitivo che racconta l’edificio, nato come Headquarter della Pirelli e poi diventato sede e simbolo di Regione Lombardia, attraverso videoinstallazioni con testimonianze esclusive, fotografie, illustrazioni, filmati di repertorio, in larga parte provenienti dall’Archivio Storico Pirelli.
La mostra, di cui sono già disponibili il catalogo edito da Marsilio e il sito dedicato 60grattacielopirelli.org , vuole essere una celebrazione della modernità della tecnologia e dell’industria lombarde, dell’istituzione della Regione, e dell’avanguardia urbanistica della “città che sale” che trova espressione nel capoluogo lombardo.

Il percorso espositivo si apre con un plastico dell’edificio proveniente dai Gio Ponti Archives posizionato davanti a una grande parete che accoglie il pubblico allo sbarco dagli ascensori al piano “della memoria”, il 26esimo, con la riproduzione di uno schizzo dello stesso Ponti che riassume la sua idea di Milano, della quale il Pirellone è ancora landmark indiscusso. Un disegno realizzato durante un’intervista a Ponti sull’edificio di piazza Duca d’Aosta, nella quale l’architetto racconta con visione profetica la Milano del futuro: “Sogno una Milano fatta dai miei colleghi architetti. Certamente non voglio una Milano fatta con case basse e un grattacielo qui, uno là, un altro là e un altro ancora là. Sarebbe come una bocca con qualche dente lungo e gli altri corti. I grattacieli sono belli se si trovano uno di fianco all’altro, come delle isole. […] Questo che dico non è un sogno, dico ciò che sarà in futuro”.

Cinque “movimenti” scandiscono il percorso espositivo: dalla costruzione dell’edificio, elogio della forma “finita” e del genio di Gio Ponti che ne progetta anche gli arredi per restituire ai lavoratori nuovi comfort per una migliore qualità lavorativa, a Milano, con la sua modernità e capacità di cambiare che diventa motore dello slancio economico negli anni del boom. E infine in tempi più recenti con l’edificio che diventa il simbolo dell’istituzione lombarda. Videoinstallazioni, con la voce di coloro che hanno vissuto l’edificio e che con esso hanno un legame profondo, e una linea del tempo con gli eventi più significativi della grande storia nazionale e internazionale dal 1956 ai giorni nostri, accompagnano il visitatore in questo lungo viaggio.

La mostra è visitabile su prenotazione nei giorni di lunedì e mercoledì dalle ore 9,30 alle ore 12,30 e dalle ore 14,30 alle ore 16,30 (ultimo ingresso 30 minuti prima della chiusura). La mostra rimarrà chiusa dal 1 al 31 agosto 2021.
L’accesso è limitato a gruppi di massimo 10 persone ed è necessaria la compilazione dell’autodichiarazione relativa alle norme sanitarie vigenti.

Per prenotare è possibile chiamare il numero di Regione Lombardia 02-67482777 oppure scrivere a urp@consiglio.regione.lombardia.it

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Cultura del lavoro d’impresa smart

Realtà e futuri possibile delle nuove forme del lavoro d’impresa

Lavorare da casa. Situazione ormai comunque a moltissime imprese, al di là dell’emergenza provocata dalla pandemia di Covid-19. Condizione lavorativa che indica, anche, un cambio di cultura del lavoro e della produzione che deve essere ancora tutto ragionato e assimilato. Per questo, occorrono strumenti in grado di far prima capire meglio, e poi gestire con efficacia, uno strumento che deve comunque ancora essere messo a punto in modo completo.
A questo serve “Agile, smart, da casa. I nuovi mondi del lavoro” scritto a quattro mani da Luca Solari (ordinario presso l’Università degli Studi di Milano) e da Francesco Rotondi (avvocato e giuslavorista, è docente alla LIUC-Università Carlo Cattaneo). Il libro ha l’obiettivo di offrire una lettura del modello organizzativo che utilizza lo smart working come modalità di prestazione del lavoratore dipendente. In particolare, i due autori cercano di invertire l’osservazione sullo smart working come soluzione emergenziale e estesa di questi anni.
Il testo è diviso in due parti. Nella prima vengono mostrate le necessità organizzative in relazione a una nuova cultura del rapporto tra prestazione e tempo. Particolare attenzione viene posta anche ad alcune proposte operative per applicare un vero lavoro smart alle diverse condizioni d’impresa. Nella seconda parte, viene ripercorso il cammino legislativo che ha normato i diversi temi legati al lavoro agile: un modo per arrivare a sottolineare la necessità di un intervento del legislatore che riesca a rimodulare il contratto di lavoro subordinato.
Più di tutto, però, dal libro di Solari e Rotondi emerge la necessità – e quasi l’obbligatorietà -, di un cambio culturale nell’intendere il lavoro d’impresa, che implica anche una ridiscussione dei principi stessi delle relazioni tra impresa e lavoro.

Agile, smart, da casa. I nuovi mondi del lavoro
Luca Solari, Francesco Rotondi
Franco Angeli. 2021

Realtà e futuri possibile delle nuove forme del lavoro d’impresa

Lavorare da casa. Situazione ormai comunque a moltissime imprese, al di là dell’emergenza provocata dalla pandemia di Covid-19. Condizione lavorativa che indica, anche, un cambio di cultura del lavoro e della produzione che deve essere ancora tutto ragionato e assimilato. Per questo, occorrono strumenti in grado di far prima capire meglio, e poi gestire con efficacia, uno strumento che deve comunque ancora essere messo a punto in modo completo.
A questo serve “Agile, smart, da casa. I nuovi mondi del lavoro” scritto a quattro mani da Luca Solari (ordinario presso l’Università degli Studi di Milano) e da Francesco Rotondi (avvocato e giuslavorista, è docente alla LIUC-Università Carlo Cattaneo). Il libro ha l’obiettivo di offrire una lettura del modello organizzativo che utilizza lo smart working come modalità di prestazione del lavoratore dipendente. In particolare, i due autori cercano di invertire l’osservazione sullo smart working come soluzione emergenziale e estesa di questi anni.
Il testo è diviso in due parti. Nella prima vengono mostrate le necessità organizzative in relazione a una nuova cultura del rapporto tra prestazione e tempo. Particolare attenzione viene posta anche ad alcune proposte operative per applicare un vero lavoro smart alle diverse condizioni d’impresa. Nella seconda parte, viene ripercorso il cammino legislativo che ha normato i diversi temi legati al lavoro agile: un modo per arrivare a sottolineare la necessità di un intervento del legislatore che riesca a rimodulare il contratto di lavoro subordinato.
Più di tutto, però, dal libro di Solari e Rotondi emerge la necessità – e quasi l’obbligatorietà -, di un cambio culturale nell’intendere il lavoro d’impresa, che implica anche una ridiscussione dei principi stessi delle relazioni tra impresa e lavoro.

Agile, smart, da casa. I nuovi mondi del lavoro
Luca Solari, Francesco Rotondi
Franco Angeli. 2021

Buoni affari e buona etica

Un articolo sulla enciclica “Fides et Ratio” aiuta a capire di più su un tema complesso e delicato

 

Cultura d’impresa attenta all’etica cristiana ed in particolare cattolica. Visione particolare del gestire le organizzazioni della produzione. Visione che deve essere ben compresa, anche per escludere, fin da subito, quelle interpretazioni da “impresa buonista” che, a ben vedere, non fanno parte dell’etica cristiana d’impresa. Leggere “Fides et Ratio: Saint John Paul II on the Ground of Business Ethics” di Jim Wishloff (della University of Lethbridge), è un buon passo per approfondire un tema certamente complesso e, tra l’altro, in costante evoluzione.

Wishloff ragiona partendo dalla questione del buon andamento degli affari e leggendo il tema attraverso l’approfondimento dell’enciclica Fides et Ratio di San Giovanni Paolo II. L’autore, viene spiegato subito, si ripromette di collegare il testo di questo documento con l’intero corpus del pensiero sociale cattolico.

L’articolo – pubblicato in uno degli ultimi numeri del Journal of Religion and Business Ethics -, approfondisce prima il contenuto di una sorta di “cassetta degli attrezzi” sull’argomento, per passare poi ad analizzare più da vicino la visione cristiana della gestione d’impresa. Successivamente Wishloff ragiona sulla “cultura degli affari” vista con gli occhi dell’etica cristiana. Nelle conclusioni Wishloff sottolinea che la cultura d’impresa che scaturisce dalla comprensione della realtà offerta da una filosofia dell’essere e della rivelazione cristiana che si contrappone a quella sviluppata dal rifiuto della mente moderna della sintesi tra fede e ragione.

Certamente di non sempre facile lettura, l’intervento di Jim Wishloff è comunque una buona lettura per chi desideri capire di più di quell’etica cristiana d’impresa che tanta parte ha ormai nel dibattito sulle  relazioni tra profitto e responsabilità sociale.

Fides et Ratio: Saint John Paul II on the Ground of Business Ethics

Jim Wishloff (University of Lethbridge), Journal of Religion and Business Ethics, Vol. 4 , Article 3

Un articolo sulla enciclica “Fides et Ratio” aiuta a capire di più su un tema complesso e delicato

 

Cultura d’impresa attenta all’etica cristiana ed in particolare cattolica. Visione particolare del gestire le organizzazioni della produzione. Visione che deve essere ben compresa, anche per escludere, fin da subito, quelle interpretazioni da “impresa buonista” che, a ben vedere, non fanno parte dell’etica cristiana d’impresa. Leggere “Fides et Ratio: Saint John Paul II on the Ground of Business Ethics” di Jim Wishloff (della University of Lethbridge), è un buon passo per approfondire un tema certamente complesso e, tra l’altro, in costante evoluzione.

Wishloff ragiona partendo dalla questione del buon andamento degli affari e leggendo il tema attraverso l’approfondimento dell’enciclica Fides et Ratio di San Giovanni Paolo II. L’autore, viene spiegato subito, si ripromette di collegare il testo di questo documento con l’intero corpus del pensiero sociale cattolico.

L’articolo – pubblicato in uno degli ultimi numeri del Journal of Religion and Business Ethics -, approfondisce prima il contenuto di una sorta di “cassetta degli attrezzi” sull’argomento, per passare poi ad analizzare più da vicino la visione cristiana della gestione d’impresa. Successivamente Wishloff ragiona sulla “cultura degli affari” vista con gli occhi dell’etica cristiana. Nelle conclusioni Wishloff sottolinea che la cultura d’impresa che scaturisce dalla comprensione della realtà offerta da una filosofia dell’essere e della rivelazione cristiana che si contrappone a quella sviluppata dal rifiuto della mente moderna della sintesi tra fede e ragione.

Certamente di non sempre facile lettura, l’intervento di Jim Wishloff è comunque una buona lettura per chi desideri capire di più di quell’etica cristiana d’impresa che tanta parte ha ormai nel dibattito sulle  relazioni tra profitto e responsabilità sociale.

Fides et Ratio: Saint John Paul II on the Ground of Business Ethics

Jim Wishloff (University of Lethbridge), Journal of Religion and Business Ethics, Vol. 4 , Article 3

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