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Come si è arrivati alla globalizzazione

Un saggio appena tradotto in Italia aiuta a comprendere meglio il percorso che ci ha condotti fino ad oggi

 

 Oltre 75 anni di intrecci economici, politici e sociali per arrivare fino ad oggi. Una storia per comprendere meglio non solo il percorso sociale e politico dell’Europa e del mondo, ma anche l’ambito nel quale l’industria e l’impresa in generale si sono evolute. La globalizzazione, in altri termini, iniziata “a porte chiuse” e finita “a porte aperte”, nonostante tutto. E’ fatto di tutto questo l’ultimo libro di Thomas W. Zeiler (che insegna storia alla University of Colorado Boulder e che da tempo studia i grandi movimenti globali). “Porte aperte. L’economia mondiale dal 1945 a oggi” è una buona lettura da fare per chi voglia comprendere davvero i meccanismi (non sempre lineari) dell’evoluzione dell’economia mondiale negli ultimi decenni.

Il saggio, che incrocia esemplarmente storia, geopolitica ed economia, ricostruisce la genesi e l’evoluzione dell’interdipendenza economica mondiale. Un percorso nel quale viene sottolineato (con ragione), il decisivo ruolo svolto dagli Stati Uniti nel promuovere un sistema commerciale, di investimenti e transazioni aperto e interconnesso, che si sarebbe rivelato la vera e propria anticamera della globalizzazione economica contemporanea.

L’autore spiega, così, come – di fatto -, quanto viviamo oggi non sia che il risultato di una politica, variamente intrecciata alla strategia americana dell’epoca della guerra fredda, che aveva l’obiettivo di consolidare la potenza economica degli alleati occidentali di contro alle nazioni del blocco sovietico. Anche nonostante alcuni paradossi: mentre infatti la guerra fredda favoriva la divisione del globo in blocchi, le forze economiche mondiali dopo il 1945 stavano convulsamente premendo in direzione opposta.  E non solo, perché se da una parte tutto questo è servito per rilanciare gli stati devastati dal secondo conflitto mondiale, dall’altra ha condotto anche altri paesi ad emergere così tanto da diventare agguerriti concorrenti degli Usa.

Il libro di Zeiler spiega tutto questo con un linguaggio piano e chiaro sulla base di quattro capitoli ben distinti che conducono chi legge dal disastro della seconda guerra mondiale fino alla pandemia di Covid-19. Certo, le pagine di “Porte aperte” devono essere lette con attenzione, ma arrivati in fondo certamente si sarà in grado di leggere più criticamente anche quanto accade oggi.

Porte aperte. L’economia mondiale dal 1945 a oggi

Thomas W. Zeiler

Einaudi, 2021

Un saggio appena tradotto in Italia aiuta a comprendere meglio il percorso che ci ha condotti fino ad oggi

 

 Oltre 75 anni di intrecci economici, politici e sociali per arrivare fino ad oggi. Una storia per comprendere meglio non solo il percorso sociale e politico dell’Europa e del mondo, ma anche l’ambito nel quale l’industria e l’impresa in generale si sono evolute. La globalizzazione, in altri termini, iniziata “a porte chiuse” e finita “a porte aperte”, nonostante tutto. E’ fatto di tutto questo l’ultimo libro di Thomas W. Zeiler (che insegna storia alla University of Colorado Boulder e che da tempo studia i grandi movimenti globali). “Porte aperte. L’economia mondiale dal 1945 a oggi” è una buona lettura da fare per chi voglia comprendere davvero i meccanismi (non sempre lineari) dell’evoluzione dell’economia mondiale negli ultimi decenni.

Il saggio, che incrocia esemplarmente storia, geopolitica ed economia, ricostruisce la genesi e l’evoluzione dell’interdipendenza economica mondiale. Un percorso nel quale viene sottolineato (con ragione), il decisivo ruolo svolto dagli Stati Uniti nel promuovere un sistema commerciale, di investimenti e transazioni aperto e interconnesso, che si sarebbe rivelato la vera e propria anticamera della globalizzazione economica contemporanea.

L’autore spiega, così, come – di fatto -, quanto viviamo oggi non sia che il risultato di una politica, variamente intrecciata alla strategia americana dell’epoca della guerra fredda, che aveva l’obiettivo di consolidare la potenza economica degli alleati occidentali di contro alle nazioni del blocco sovietico. Anche nonostante alcuni paradossi: mentre infatti la guerra fredda favoriva la divisione del globo in blocchi, le forze economiche mondiali dopo il 1945 stavano convulsamente premendo in direzione opposta.  E non solo, perché se da una parte tutto questo è servito per rilanciare gli stati devastati dal secondo conflitto mondiale, dall’altra ha condotto anche altri paesi ad emergere così tanto da diventare agguerriti concorrenti degli Usa.

Il libro di Zeiler spiega tutto questo con un linguaggio piano e chiaro sulla base di quattro capitoli ben distinti che conducono chi legge dal disastro della seconda guerra mondiale fino alla pandemia di Covid-19. Certo, le pagine di “Porte aperte” devono essere lette con attenzione, ma arrivati in fondo certamente si sarà in grado di leggere più criticamente anche quanto accade oggi.

Porte aperte. L’economia mondiale dal 1945 a oggi

Thomas W. Zeiler

Einaudi, 2021

L’Italia ritrova fiducia e ripresa, ma il risparmio ancora non alimenta consumi e nuovi investimenti

“La storia siamo noi. Nessuno si senta escluso”. La citazione di una delle canzoni più poetiche e intense di Francesco De Gregori segna il discorso del presidente della Repubblica Sergio Mattarella per la ricorrenza del 2 giugno, festa della Repubblica. Ed è quanto mai utile per insistere sui valori dell’impegno comune in tempi di crisi, sul senso di responsabilità necessario per costruire, come comunità, un futuro migliore, più equilibrato e sostenibile. L’Italia, nonostante cadute, ombre ed errori, ha affrontato tutto sommato bene la pandemia. Adesso bisogna fare i conti con la ripresa. E Mattarella sottolinea la necessità della fiducia, valorizza le scelte positive già fatte dagli italiani, dalle istituzioni, dalle imprese. “Il Paese non è fermo”, dice. E ancora: “L’Italia, la nostra Patria, ha le carte in regola per farcela”.

Il riferimento storico è a quel dopoguerra in cui, nonostante “le macerie materiali e morali”, si ricomincia a vivere e progettare futuro. Il 2 giugno di 75 anni fa, le votazioni per il referendum su monarca o repubblica e l’elezione dell’Assemblea Costituente. Vince la Repubblica, si archivia l’infausta stagione d’una monarchia gravemente compromessa con il fascismo, le leggi razziali e la guerra e si comincia a lavorare per una Costituzione pienamente democratica, densa di una impegnativa serie di indicazioni programmatiche sui diritti, i doveri, le responsabilità. Si avvia la ricostruzione (“Prima le fabbriche, poi le case”, concordano il presidente di Confindustria Angelo Costa e il leader della Cgil Giuseppe Di Vittorio: il primato dell’intraprendenza e del lavoro). E, pur tra pesanti conflitti politici e sociali (è tempo di “guerra fredda”) si pongono le basi di quello che, negli anni Cinquanta e Sessanta, sarà il boom economico, stimolato anche dalla nascita dell’Europa come mercato comune e come comunità ricca di valori politici, che mantengono ancora adesso una solida attualità.

Oggi il quadro economico, sociale e soprattutto politico è ben diverso dal dopoguerra. Ma l’opportuno richiamo del presidente Mattarella a quel periodo serve a sottolineare come e quanto l’Italia, in condizioni di emergenza, abbia sempre saputo dare il meglio di sé, di fronte a disastri naturali, terrorismo, violenza mafiosa, gravi recessioni.

Fiducia, dunque. Migliora l’indice di fiducia delle famiglie e quello delle imprese (ne abbiamo parlato nel blog della settimana scorsa). E la crescita economica, quest’anno, sarà del 4,7% e nel 2022 del 4,4%, secondo i calcoli dell’Istat (“Industria e consumi, l’Italia ritrova fiducia e la ripresa accelera”, scrive “la Repubblica”, 5 giugno). E non mancano previsioni di un aumento del 5%, su cui il governo Draghi mostra un certo ottimismo. Le imprese industriali da tempo hanno ricominciato a produrre ed esportare (“Ordini, export e fiducia. Dalla Lombardia la spinta per il Paese”, titola “Il Sole24Ore”, 6 giugno). E per la prossima estate le imprese del commercio e del turismo leggono segnali che fanno ben sperare in un avvio di ripresa.

Le ragioni della fiducia sono fondate. Guardando sia al quadro sanitario della risposta alla pandemia sia al quadro economico. La campagna di vaccinazione, dopo le incertezze iniziali, va avanti con determinazione, efficienza ed efficacia (utilissimo, il coordinamento del generale Figliuolo). Il governo mostra grande impegno nella definizione e nell’approvazione del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa secondo le indicazioni Ue, ritenendo che entro l’estate arriverà la prima rata dei 200 miliardi di finanziamenti e prestiti dell’Italia. Le riforme in cantiere (giustizia, pubblica amministrazione, lavoro, scuola) trovano naturalmente contrasti e ostacoli, dati anche i diversi interessi e i conflitti identitari tra i partiti delle coalizione di governo (con vecchie tentazioni di assistenzialismo e spesa pubblica per cercare consenso). Ma si è visto finora che il presidente del Consiglio Draghi riesce a trovare e imporre un punto positivo di mediazione.

Rassicurante è anche l’autorevolezza italiana, in crescita proprio nelle sedi Ue, in un momento in cui l’Europa sta ridiscutendo il proprio ruolo, le proprie regole, il senso della propria grande responsabilità sul palcoscenico mondiale (e Draghi si conferma punto di riferimento di primo piano).

Restano comunque alcuni punti di incertezza, che dicono che il recupero di fiducia è parziale e, per certi versi, timido. Un indice cui guardare con attenzione è quello del risparmio. La propensione al risparmio delle famiglie, nel 2020, è salito al 15,8%, quasi il doppio del 2019. E la tendenza è andata avanti anche nei primi mesi del ‘21: soldi fermi sottratti a consumi e piccoli investimenti, per timore di incertezze nell’immediato futuro, che riguardano lavoro, salute, avvenire dei figli (le nostre famiglie continuano a essere un gigantesco ammortizzatore sociale per le nuove generazioni).

Anche parecchie imprese, quelle attive e in buona salute, hanno molta liquidità ferma in portafoglio, in attesa di avere chiaro il quadro delle scelte di governo sulla transizione digitale e su quella ecologica, prima di investire in sostenibilità ambientale e sociale e in innovazione (asset fondamentali di competitività).

Il quadro potrebbe essere riassunto così: la ripresa è avviata, ma non sta dispiegando tutta la sua forza e, nonostante la crescita del clima di fiducia, larga parte degli italiani vorrebbero avere le idee più chiare, essere più sicuri sul proprio futuro.

Le parole di speranza e di fiducia che arrivano sia dal Quirinale che da Palazzo Chigi, da una finalmente autorevole e attiva presidenza del Consiglio, sono fondamentali. Tocca anche ai partiti fare la loro parte, nel rassicurare l’opinione pubblica. Litigiosità interne sia al centro destra che al centro sinistra e tensioni interne alle singole forze politiche non sono purtroppo in sintonia con il grave momento che stiamo attraversando e con i bisogni di fondo della grande maggioranza degli italiani.

S’intravvede comunque un altro buon segnale all’orizzonte. Il presidente del Consiglio Draghi ha fatto sapere, in più di un’occasione, di guardare all’orizzonte del 2023, come termine del proprio mandato. E’ una buona notizia, un’indicazione rassicurante. C’è il tempo di incardinare bene le riforme in programma per modernizzare l’Italia e per avviare la spesa dei fondi del Recovery Plan: investimenti per lo sviluppo e la qualità della vita e del palco, produttività e competitività. La fiducia, nonostante tutto, si può rafforzare.

“La storia siamo noi. Nessuno si senta escluso”. La citazione di una delle canzoni più poetiche e intense di Francesco De Gregori segna il discorso del presidente della Repubblica Sergio Mattarella per la ricorrenza del 2 giugno, festa della Repubblica. Ed è quanto mai utile per insistere sui valori dell’impegno comune in tempi di crisi, sul senso di responsabilità necessario per costruire, come comunità, un futuro migliore, più equilibrato e sostenibile. L’Italia, nonostante cadute, ombre ed errori, ha affrontato tutto sommato bene la pandemia. Adesso bisogna fare i conti con la ripresa. E Mattarella sottolinea la necessità della fiducia, valorizza le scelte positive già fatte dagli italiani, dalle istituzioni, dalle imprese. “Il Paese non è fermo”, dice. E ancora: “L’Italia, la nostra Patria, ha le carte in regola per farcela”.

Il riferimento storico è a quel dopoguerra in cui, nonostante “le macerie materiali e morali”, si ricomincia a vivere e progettare futuro. Il 2 giugno di 75 anni fa, le votazioni per il referendum su monarca o repubblica e l’elezione dell’Assemblea Costituente. Vince la Repubblica, si archivia l’infausta stagione d’una monarchia gravemente compromessa con il fascismo, le leggi razziali e la guerra e si comincia a lavorare per una Costituzione pienamente democratica, densa di una impegnativa serie di indicazioni programmatiche sui diritti, i doveri, le responsabilità. Si avvia la ricostruzione (“Prima le fabbriche, poi le case”, concordano il presidente di Confindustria Angelo Costa e il leader della Cgil Giuseppe Di Vittorio: il primato dell’intraprendenza e del lavoro). E, pur tra pesanti conflitti politici e sociali (è tempo di “guerra fredda”) si pongono le basi di quello che, negli anni Cinquanta e Sessanta, sarà il boom economico, stimolato anche dalla nascita dell’Europa come mercato comune e come comunità ricca di valori politici, che mantengono ancora adesso una solida attualità.

Oggi il quadro economico, sociale e soprattutto politico è ben diverso dal dopoguerra. Ma l’opportuno richiamo del presidente Mattarella a quel periodo serve a sottolineare come e quanto l’Italia, in condizioni di emergenza, abbia sempre saputo dare il meglio di sé, di fronte a disastri naturali, terrorismo, violenza mafiosa, gravi recessioni.

Fiducia, dunque. Migliora l’indice di fiducia delle famiglie e quello delle imprese (ne abbiamo parlato nel blog della settimana scorsa). E la crescita economica, quest’anno, sarà del 4,7% e nel 2022 del 4,4%, secondo i calcoli dell’Istat (“Industria e consumi, l’Italia ritrova fiducia e la ripresa accelera”, scrive “la Repubblica”, 5 giugno). E non mancano previsioni di un aumento del 5%, su cui il governo Draghi mostra un certo ottimismo. Le imprese industriali da tempo hanno ricominciato a produrre ed esportare (“Ordini, export e fiducia. Dalla Lombardia la spinta per il Paese”, titola “Il Sole24Ore”, 6 giugno). E per la prossima estate le imprese del commercio e del turismo leggono segnali che fanno ben sperare in un avvio di ripresa.

Le ragioni della fiducia sono fondate. Guardando sia al quadro sanitario della risposta alla pandemia sia al quadro economico. La campagna di vaccinazione, dopo le incertezze iniziali, va avanti con determinazione, efficienza ed efficacia (utilissimo, il coordinamento del generale Figliuolo). Il governo mostra grande impegno nella definizione e nell’approvazione del Pnrr, il Piano nazionale di ripresa secondo le indicazioni Ue, ritenendo che entro l’estate arriverà la prima rata dei 200 miliardi di finanziamenti e prestiti dell’Italia. Le riforme in cantiere (giustizia, pubblica amministrazione, lavoro, scuola) trovano naturalmente contrasti e ostacoli, dati anche i diversi interessi e i conflitti identitari tra i partiti delle coalizione di governo (con vecchie tentazioni di assistenzialismo e spesa pubblica per cercare consenso). Ma si è visto finora che il presidente del Consiglio Draghi riesce a trovare e imporre un punto positivo di mediazione.

Rassicurante è anche l’autorevolezza italiana, in crescita proprio nelle sedi Ue, in un momento in cui l’Europa sta ridiscutendo il proprio ruolo, le proprie regole, il senso della propria grande responsabilità sul palcoscenico mondiale (e Draghi si conferma punto di riferimento di primo piano).

Restano comunque alcuni punti di incertezza, che dicono che il recupero di fiducia è parziale e, per certi versi, timido. Un indice cui guardare con attenzione è quello del risparmio. La propensione al risparmio delle famiglie, nel 2020, è salito al 15,8%, quasi il doppio del 2019. E la tendenza è andata avanti anche nei primi mesi del ‘21: soldi fermi sottratti a consumi e piccoli investimenti, per timore di incertezze nell’immediato futuro, che riguardano lavoro, salute, avvenire dei figli (le nostre famiglie continuano a essere un gigantesco ammortizzatore sociale per le nuove generazioni).

Anche parecchie imprese, quelle attive e in buona salute, hanno molta liquidità ferma in portafoglio, in attesa di avere chiaro il quadro delle scelte di governo sulla transizione digitale e su quella ecologica, prima di investire in sostenibilità ambientale e sociale e in innovazione (asset fondamentali di competitività).

Il quadro potrebbe essere riassunto così: la ripresa è avviata, ma non sta dispiegando tutta la sua forza e, nonostante la crescita del clima di fiducia, larga parte degli italiani vorrebbero avere le idee più chiare, essere più sicuri sul proprio futuro.

Le parole di speranza e di fiducia che arrivano sia dal Quirinale che da Palazzo Chigi, da una finalmente autorevole e attiva presidenza del Consiglio, sono fondamentali. Tocca anche ai partiti fare la loro parte, nel rassicurare l’opinione pubblica. Litigiosità interne sia al centro destra che al centro sinistra e tensioni interne alle singole forze politiche non sono purtroppo in sintonia con il grave momento che stiamo attraversando e con i bisogni di fondo della grande maggioranza degli italiani.

S’intravvede comunque un altro buon segnale all’orizzonte. Il presidente del Consiglio Draghi ha fatto sapere, in più di un’occasione, di guardare all’orizzonte del 2023, come termine del proprio mandato. E’ una buona notizia, un’indicazione rassicurante. C’è il tempo di incardinare bene le riforme in programma per modernizzare l’Italia e per avviare la spesa dei fondi del Recovery Plan: investimenti per lo sviluppo e la qualità della vita e del palco, produttività e competitività. La fiducia, nonostante tutto, si può rafforzare.

Sguardi sull’archivio. Le giovani #generazioni raccontano
Fondazione Pirelli ad Archivissima 2021

Sei mai stato in un archivio storico? Come lo immagini? Ti piacerebbe creare un tuo archivio personale? Abbiamo posto queste e altre domande a ragazze e ragazzi di diverse d’età, che hanno così raccontato il loro rapporto con il mondo degli archivi e la loro visione della memoria storica. Alcuni di loro hanno visitato il nostro l’Archivio Storico, altri lo hanno scoperto online per la prima volta, tutti hanno potuto osservare i diversi tipi di materiali storici conservati e digitalizzati, comprendendo come un archivio possa essere ricco e vario e come innovazione e creatività possano nascere dal confronto con la memoria e con le fonti storiche.  Abbiamo mostrato ai ragazzi una selezione di documenti legati a tre filoni tematici: l’evoluzione dei luoghi produttivi, dalla fabbrica del Novecento all’Industria 4.0, la mobilità sostenibile, dal velocipede all’e-bike, la pubblicità nella storia, per analizzare la memoria dell’impresa nella comunicazione visiva.

 A partire da questa esperienza di confronto e dalle numerose testimonianze raccolte, abbiamo realizzato un video inedito per Archivissima, il Festival degli Archivi che si svolge dal 4 al 9 giugno 2021 e che per questa edizione mette al centro il tema delle #generazioni. Nel video, i giovani interpretano i documenti dell’Archivio Storico Pirelli sia attraverso le loro voci, sia attraverso personali rielaborazioni artistiche realizzate anche durante i percorsi del progetto Fondazione Pirelli Educational. E raccontano, così, una lunga storia d’impresa.

Buona visione!

Sei mai stato in un archivio storico? Come lo immagini? Ti piacerebbe creare un tuo archivio personale? Abbiamo posto queste e altre domande a ragazze e ragazzi di diverse d’età, che hanno così raccontato il loro rapporto con il mondo degli archivi e la loro visione della memoria storica. Alcuni di loro hanno visitato il nostro l’Archivio Storico, altri lo hanno scoperto online per la prima volta, tutti hanno potuto osservare i diversi tipi di materiali storici conservati e digitalizzati, comprendendo come un archivio possa essere ricco e vario e come innovazione e creatività possano nascere dal confronto con la memoria e con le fonti storiche.  Abbiamo mostrato ai ragazzi una selezione di documenti legati a tre filoni tematici: l’evoluzione dei luoghi produttivi, dalla fabbrica del Novecento all’Industria 4.0, la mobilità sostenibile, dal velocipede all’e-bike, la pubblicità nella storia, per analizzare la memoria dell’impresa nella comunicazione visiva.

 A partire da questa esperienza di confronto e dalle numerose testimonianze raccolte, abbiamo realizzato un video inedito per Archivissima, il Festival degli Archivi che si svolge dal 4 al 9 giugno 2021 e che per questa edizione mette al centro il tema delle #generazioni. Nel video, i giovani interpretano i documenti dell’Archivio Storico Pirelli sia attraverso le loro voci, sia attraverso personali rielaborazioni artistiche realizzate anche durante i percorsi del progetto Fondazione Pirelli Educational. E raccontano, così, una lunga storia d’impresa.

Buona visione!

Condottieri dell’eccellenza

La giornalista Paola Pilati racconta alcune delle migliori imprese italiane attraverso le storia dei loro manager

 

Eccellenza d’impresa italiana. Tema ormai d’abitudine in molti ambienti (e con ragione). Eppure tema mai sufficientemente percorso ed esplorato. E del quale è possibile sempre scoprire qualche anfratto ancora semisconosciuto. È il caso di quelli che ormai per convenzione vengono definiti i top manager d’impresa. Gli alti ufficiali, insomma. La schiera di donne e uomini che affiancano (in alcuni casi sostituiscono) l’imprenditore. Gente varia, con storie diverse, con caratteristiche e connotati diversificati, ma tutti accomunati dalla preziosa capacità di prendere per mano un’impresa, farla crescere, farle conquistare nuovi mondi e produrre ricchezza. È attorno a queste figure che si snoda “I generalissimi. Strategie e segreti dei top manager italiani”, scritto da Paola Pilati (giornalista acuta ed esperta proprio di imprese e di managerialità). Il libro fa parte di “Bellissima”, la collana che la Luiss University Press dedica alla cultura di impresa italiana e alle storie di successo che hanno reso il Made in Italy famoso nel mondo.

Pilati parte da una constatazione: si può raccontare il made in Italy attraverso i fatturati, le joint venture, la conquista di quote di mercato, ma anche attraverso il racconto di coloro che conducono le aziende nel realizzare i loro obiettivi, i manager che siedono al vertice: gli amministratori delegati.

Da qui dieci racconti su altrettanti manager di alcune delle più importanti realtà industriali nazionali. Ne nasce così un libro che è contemporaneamente storia di donne e uomini e storia d’imprese. Oltre che dell’attualità di entrambi. E nelle pagine leggibilissime di Pilati scorrono quindi i giganti della capitalizzazione in Borsa come Eni ed Enel , i campioni assoluti nel loro settore come Fincantieri e Snam, le storie di imprese familiari della farmaceutica Chiesi e della chimica Coim, ma anche la Brembo dei freni della Formula 1 e il gruppo Calzedonia, presenza virale nelle main street di mezzo mondo, fino ad aziende a guida femminile come Kiko e il suo fast make-up di successo e come i superyacht Bluegame della Sanlorenzo, tra i brand più riconoscibili nel settore lusso. Tutte aziende (e che aziende) accomunate dalla presenza di donne e uomini che hanno la responsabilità non solo di guidarne le scelte strategiche che le proiettano nel futuro, ma anche di preservarne la storia, i valori fondanti, la ricchezza di esperienze e di sapere. Scrive l’autrice sintetizzando tutto il contenuto della sua fatica letteraria: “Sono dieci casi diversi, ognuno esemplare del proprio settore, ma con un tratto comune: dimostrano che il capitalismo all’italiana, per quanto mortificato rispetto al passato, è perfettamente inserito nelle grandi catene del valore, intrepido sui mercati internazionali e guidato da manager aperti al nuovo “umanesimo” che percorre la società”. Tutto da leggere il libro di Paola Pilati.

I generalissimi. Strategie e segreti dei top manager italiani

Paola Pilati

Luiss University Press, 2021

La giornalista Paola Pilati racconta alcune delle migliori imprese italiane attraverso le storia dei loro manager

 

Eccellenza d’impresa italiana. Tema ormai d’abitudine in molti ambienti (e con ragione). Eppure tema mai sufficientemente percorso ed esplorato. E del quale è possibile sempre scoprire qualche anfratto ancora semisconosciuto. È il caso di quelli che ormai per convenzione vengono definiti i top manager d’impresa. Gli alti ufficiali, insomma. La schiera di donne e uomini che affiancano (in alcuni casi sostituiscono) l’imprenditore. Gente varia, con storie diverse, con caratteristiche e connotati diversificati, ma tutti accomunati dalla preziosa capacità di prendere per mano un’impresa, farla crescere, farle conquistare nuovi mondi e produrre ricchezza. È attorno a queste figure che si snoda “I generalissimi. Strategie e segreti dei top manager italiani”, scritto da Paola Pilati (giornalista acuta ed esperta proprio di imprese e di managerialità). Il libro fa parte di “Bellissima”, la collana che la Luiss University Press dedica alla cultura di impresa italiana e alle storie di successo che hanno reso il Made in Italy famoso nel mondo.

Pilati parte da una constatazione: si può raccontare il made in Italy attraverso i fatturati, le joint venture, la conquista di quote di mercato, ma anche attraverso il racconto di coloro che conducono le aziende nel realizzare i loro obiettivi, i manager che siedono al vertice: gli amministratori delegati.

Da qui dieci racconti su altrettanti manager di alcune delle più importanti realtà industriali nazionali. Ne nasce così un libro che è contemporaneamente storia di donne e uomini e storia d’imprese. Oltre che dell’attualità di entrambi. E nelle pagine leggibilissime di Pilati scorrono quindi i giganti della capitalizzazione in Borsa come Eni ed Enel , i campioni assoluti nel loro settore come Fincantieri e Snam, le storie di imprese familiari della farmaceutica Chiesi e della chimica Coim, ma anche la Brembo dei freni della Formula 1 e il gruppo Calzedonia, presenza virale nelle main street di mezzo mondo, fino ad aziende a guida femminile come Kiko e il suo fast make-up di successo e come i superyacht Bluegame della Sanlorenzo, tra i brand più riconoscibili nel settore lusso. Tutte aziende (e che aziende) accomunate dalla presenza di donne e uomini che hanno la responsabilità non solo di guidarne le scelte strategiche che le proiettano nel futuro, ma anche di preservarne la storia, i valori fondanti, la ricchezza di esperienze e di sapere. Scrive l’autrice sintetizzando tutto il contenuto della sua fatica letteraria: “Sono dieci casi diversi, ognuno esemplare del proprio settore, ma con un tratto comune: dimostrano che il capitalismo all’italiana, per quanto mortificato rispetto al passato, è perfettamente inserito nelle grandi catene del valore, intrepido sui mercati internazionali e guidato da manager aperti al nuovo “umanesimo” che percorre la società”. Tutto da leggere il libro di Paola Pilati.

I generalissimi. Strategie e segreti dei top manager italiani

Paola Pilati

Luiss University Press, 2021

Storia presente per raccontarsi meglio

Una indagine appena pubblicata unisce la necessità di innovare con le risorse che possono arrivate dal passato

 

Farsi forti della propria storia per consolidare il proprio presente e guardare con più sicurezza al futuro. Di fronte ad un’economia della velocità e della digitalizzazione, è questo uno degli approcci che promettono più risultati. Percorso certamente complesso quello dell’uso corretto del proprio patrimonio storico, che tuttavia può essere sperimentato da imprese diverse che, in fin dei conti, lavorano attorno ad una propria cultura del produrre nella quale l’eredità dal passato trova ancora utilità nel presente.

E’ attorno a questi temi che hanno lavorato Alberta Bernardi, Chiara Luisa Cantù e Elena Cedrola, focalizzando in particolare l’attenzione sul settore del tessile della moda.

“Heritage marketing e valorizzazione del territorio: il percorso verso l’innovazione sostenibile nel settore tessile e moda”, appena pubblicato in Corporate Governance and Research & Development studies – Open Access Peer Reviewed Journal, è una ricerca che si muove da una constatazione: le imprese sono chiamate ad innovare i loro processi e prodotti in chiave sostenibile per differenziarsi e raggiungere un vantaggio competitivo. Traguardo apparentemente lontano dal tema effettivamente analizzato nella ricerca. Invece no, perché l’obiettivo dell’indagine, viene spiegato, “è contribuire al crescente corpus di letteratura che si interroga su cosa realmente sia l’innovazione sostenibile e sui driver che ne consentono l’ideazione e lo sviluppo”. E’ qui che si aggancia il tema di fondo. “Vengono indagate – scrivono infatti Bernardi, Cantù e Cedrola -, le potenzialità strategiche dell’heritage marketing quale strumento per valorizzare la storia aziendale e i suoi valori, tra cui la sostenibilità e il territorio”.

Il focus della ricerca è, come si è detto, puntato sul settore tessile e della moda a ragione della sua più volte denunciata insostenibilità – a livello ambientale, sociale ed economico – e scarsa apertura verso l’innovazione – nei processi, prodotti e modelli di business.

Le tre ricercatrici non si limitano ad una analisi teorica della letteratura e delle esperienze altrui, ma analizzano anche evidenze empiriche derivanti dalla presentazione di un caso studio di un’azienda di moda italiana internazionalizzata. La conclusione del lavoro suggerisce che la gestione strategica del corporate heritage e del brand heritage (o del patrimonio storico e culturale dell’impresa e dei suoi valori) può consentire alle imprese di promuovere l’innovazione sostenibile. Ciò grazie alla valorizzazione della storia aziendale e ai valori che hanno contraddistinto lo sviluppo dell’impresa: sostenibilità ambientale e sostenibilità sociale. Le due forme di sostenibilità spingono a considerare non solo la riduzione dell’impatto della produzione sull’ambiente, ma anche le azioni propositive che un’impresa può compiere nei confronti del territorio e della comunità locale. Emerge anche con forza la necessità per la filiera tessile di orientarsi ad una maggiore, se non totale, circolarità.

Il lavoro di Bernardi, Cantù e Cedrola è una buona lettura per comprendere meglio gli stretti nessi tra componenti della realtà d’impresa che in apparenza – ma solo in apparenza -, possono sembrare lontani.

Heritage marketing e valorizzazione del territorio: il percorso verso l’innovazione sostenibile nel settore tessile e moda

Alberta Bernardi, Chiara Luisa Cantù, Elena Cedrola

Corporate Governance and Research & Development studies – Open Access Peer Reviewed Journal, 2021

Una indagine appena pubblicata unisce la necessità di innovare con le risorse che possono arrivate dal passato

 

Farsi forti della propria storia per consolidare il proprio presente e guardare con più sicurezza al futuro. Di fronte ad un’economia della velocità e della digitalizzazione, è questo uno degli approcci che promettono più risultati. Percorso certamente complesso quello dell’uso corretto del proprio patrimonio storico, che tuttavia può essere sperimentato da imprese diverse che, in fin dei conti, lavorano attorno ad una propria cultura del produrre nella quale l’eredità dal passato trova ancora utilità nel presente.

E’ attorno a questi temi che hanno lavorato Alberta Bernardi, Chiara Luisa Cantù e Elena Cedrola, focalizzando in particolare l’attenzione sul settore del tessile della moda.

“Heritage marketing e valorizzazione del territorio: il percorso verso l’innovazione sostenibile nel settore tessile e moda”, appena pubblicato in Corporate Governance and Research & Development studies – Open Access Peer Reviewed Journal, è una ricerca che si muove da una constatazione: le imprese sono chiamate ad innovare i loro processi e prodotti in chiave sostenibile per differenziarsi e raggiungere un vantaggio competitivo. Traguardo apparentemente lontano dal tema effettivamente analizzato nella ricerca. Invece no, perché l’obiettivo dell’indagine, viene spiegato, “è contribuire al crescente corpus di letteratura che si interroga su cosa realmente sia l’innovazione sostenibile e sui driver che ne consentono l’ideazione e lo sviluppo”. E’ qui che si aggancia il tema di fondo. “Vengono indagate – scrivono infatti Bernardi, Cantù e Cedrola -, le potenzialità strategiche dell’heritage marketing quale strumento per valorizzare la storia aziendale e i suoi valori, tra cui la sostenibilità e il territorio”.

Il focus della ricerca è, come si è detto, puntato sul settore tessile e della moda a ragione della sua più volte denunciata insostenibilità – a livello ambientale, sociale ed economico – e scarsa apertura verso l’innovazione – nei processi, prodotti e modelli di business.

Le tre ricercatrici non si limitano ad una analisi teorica della letteratura e delle esperienze altrui, ma analizzano anche evidenze empiriche derivanti dalla presentazione di un caso studio di un’azienda di moda italiana internazionalizzata. La conclusione del lavoro suggerisce che la gestione strategica del corporate heritage e del brand heritage (o del patrimonio storico e culturale dell’impresa e dei suoi valori) può consentire alle imprese di promuovere l’innovazione sostenibile. Ciò grazie alla valorizzazione della storia aziendale e ai valori che hanno contraddistinto lo sviluppo dell’impresa: sostenibilità ambientale e sostenibilità sociale. Le due forme di sostenibilità spingono a considerare non solo la riduzione dell’impatto della produzione sull’ambiente, ma anche le azioni propositive che un’impresa può compiere nei confronti del territorio e della comunità locale. Emerge anche con forza la necessità per la filiera tessile di orientarsi ad una maggiore, se non totale, circolarità.

Il lavoro di Bernardi, Cantù e Cedrola è una buona lettura per comprendere meglio gli stretti nessi tra componenti della realtà d’impresa che in apparenza – ma solo in apparenza -, possono sembrare lontani.

Heritage marketing e valorizzazione del territorio: il percorso verso l’innovazione sostenibile nel settore tessile e moda

Alberta Bernardi, Chiara Luisa Cantù, Elena Cedrola

Corporate Governance and Research & Development studies – Open Access Peer Reviewed Journal, 2021

L’industria italiana s’è rimessa in moto, tira una nuova aria di fiducia e ripresa

L’Italia s’è rimessa in moto, mentre i dati sulla pandemia da Covid19 continuano a documentare ricoveri e morti, comunque in costante diminuzione. La crisi sanitaria e sociale non è affatto finita. Ma soffia un vento leggero che parla di minori rischi sanitari e di ripartenza economica. La campagna per vaccinare gli italiani va avanti bene, grazie all’intelligente e competente coordinamento del generale Figliuolo. E l’attenzione dell’opinione pubblica si va spostando su due parole chiave: fiducia e ripresa.

La fiducia, innanzitutto, componente essenziale per qualunque ipotesi di crescita degli investimenti e dei consumi. L’Istat giovedì ha dichiarato che l’indice di fiducia dei consumatori, a maggio, è salito a quota 110,6, ai massimi dal gennaio 2020 (prima dell’era Covid, cioè) mentre quello delle imprese, in crescita oramai per il sesto mese consecutivo, è passato da 97,9 a 106,7 (bisogna tornare al 2017, per trovare un valore simile). “La pancia del paese regge il colpo”, commenta Dario Di Vico sul “Corriere della Sera” (28 maggio), notando che “la società civile, dall’istituzione-famiglia al terzo settore, passando per le fabbriche, ha tenuto e ha saputo metabolizzare una parte consistente del disagio causato dalla pandemia”. La società, insomma, ha fatto da ammortizzatore della crisi, ha sofferto ma non si è né piegata né spezzata, ha modificato con cautela e suoi comportamenti, ha usato i risparmi accumulati e adesso è nella condizione psicologica positiva per ricominciare.

Il buon lavoro che sta facendo il governo Draghi, tra i progetti del Pnrr (il Piano di ripresa e resilienza) e le riforme incardinate o quasi pronte a partire (semplificazioni, pubblica amministrazione, giustizia) è carburante per la fiducia. Così come gioca positivamente anche il credito crescente di cui Draghi gode come leader di dimensione europea. L’aumento del gradimento nei suoi confronti (66 punti, +8 da aprile a maggio), certificato dall’ultimo sondaggio Ipsos (Nando Pagnoncelli sul “Corriere della Sera”, 29 maggio) ne è chiara conferma.

Queste considerazioni, naturalmente, non mettono in ombra la pesantezza della crisi sanitaria e sociale ancora attuale, né il dolore per i morti, né i gravi disagi personali, economici e sociali, né le preoccupazioni diffuse sul futuro. Ma non c’è alcuna “rivolta sociale” all’orizzonte, nonostante l’attivismo dei tribuni populisti soprattutto sui social media. Semmai, è sempre più evidente l’attitudine italiana alla “resilienza” (peccato che questa parola, troppo usata e abusata dalle retoriche politiche, si stia usurando).

La seconda parola chiave è: ripresa. Anche da questo punto di vista, parlano dati e previsioni. Il governatore di Bankitalia Ignazio Visco nelle Considerazioni Finali ha precisato ieri che “l’attività produttiva si sta rafforzando” e che nella media dell’anno l’espansione del PIL potrebbe superare il 4 per cento.  Il Centro Studi Confindustria indica “un sentiero stretto ma in risalita”, con un ruolo forte di spinta da parte dell’industria. Carlo Cottarelli, presidente dell’Osservatorio sui conti pubblici, parlando domenica a “Mezz’ora in più”, prevede che “il Pil possa andare anche al 5%”, più di quanto non dicano il Fondo Monetario Internazionale e il governo. E Renato Brunetta, ministro della Pubblica Amministrazione, sostiene che “il rimbalzo, come tasso di crescita del Pil, sarà più vicino al 5% che al 4% previsto. E forse qualcosa più del 5%”. Insomma, “ho la sensazione che siamo alla vigilia di un nuovo boom economico”. “L’estate della ripresa”, titola ottimista “la Repubblica” (30 maggio).

Buone notizie arrivano proprio dai territori che tradizionalmente fanno da locomotiva della ripresa. “La Lombardia si è rialzata e le imprese assumeranno”, annuncia Alessandro Spada, presidente di Assolombarda (“Il Sole24Ore” 28 maggio e “la Repubblica”, 29 maggio), parlando di un +8,7% della produzione manifatturiera, di dinamismo nelle aree di riferimento dell’associazione (Milano, Monza e Brianza, Lodi e Pavia), di esportazioni in crescita grazie alla ripresa in Germania ma anche negli Usa e in Cina, di un momento brillante anche per i consumi sul mercato interno.

Tutto a posto, dunque? Naturalmente no. Ci sono ancora aree economiche (i servizi, il turismo, il commercio) in difficoltà. Le carenze delle infrastrutture si fanno sentire (“Due cantieri su tre sono fermi o lavorano a singhiozzo”, denuncia l’Oti Nord, l’Osservatorio infrastrutturale che riguarda le Confindustrie di Torino, Genova, Milano, Nord Est ed Emilia, 2,2 milioni di imprese, il 56% del Pil e il 70,4% dell’export nazionale). E si teme molto che il forte rincaro delle materie prima possa mettere in difficoltà la produzione industriale.

Il clima che si respira, tutto sommato, è comunque positivo. E proprio a Milano, città cardine di attrattività, al centro di flussi di persone e risorse tra l’Europa e il Mediterraneo, nessuno dei grandi investimenti immobiliari internazionali decisi prima della pandemia è stato disdetto né rinviato, il mercato immobiliare mostra valori e volumi in crescita, le università continuano ad essere predilette da 200mila studenti (parecchi, dall’estero) e ripartono le tradizionali attività di successo (il Salone del Mobile è l’esempio più evidente). “Milano ha gli anticorpi per ripartire”, conferma Spada. E, quanto alle tensioni sull’occupazione e alla fine del blocco dei licenziamenti, aggiunge: “Non ho alcuna indicazione dell’annuncio di licenziamenti di massa o di crisi a raffica. Anzi, ciò che accade è che le aziende, la cui attività è in crescita, faticano a trovare i profili professionali più adatti. Un problema peraltro non estemporaneo ma cronico in molti settori”.

Ci sono imprese che, sotto gli effetti di una crisi che ha accelerato le trasformazioni in atto, devono ristrutturarsi. E soprattutto nel mondo delle aziende piccole e medie si temono chiusure, ridimensionamenti, perdite di posti di lavoro.

Ma il quadro dell’occupazione va visto nel suo insieme, senza congelare la situazione attuale e rinviare la ristrutturazione, ma accelerando la riforma degli ammortizzatori sociali, dal sostegno a chi perde provvisoriamente il lavoro alla formazione per la riqualificazione professionale e alle politiche attive per il ricollocamento.

“L’industria meccanica è a caccia di competenze, la ripresa è in atto”, sostiene Federico Visentin, presidente designato di Federmeccanica, dichiarando che “non si trovano progettisti e programmatori di robot e altre figure dotate di esperienze e conoscenze tecniche, green e digitali”. Aggiungono gli esperti di Orientagiovani di Confindustria: “All’industria mancano 110mila profili professionali Stem (l’acronimo di science, technology, engineering e mathematics)” ma anche dotati di conoscenze umanistiche, per poter fare fronte ai bisogni dell’impresa digitale e alle applicazioni dell’Intelligenza Artificiale ai processi di produzione, distribuzione e consumo.

Una situazione in movimento, insomma. Densa di segnali contrastanti. Ma oramai orientata verso l’uscita dalla stagione peggiore della crisi e verso la ripartenza. Il Recovery Plan della Ue e il Piano italiano del governo Draghi, con investimenti pubblici e riforme, darà un impulso determinante.

L’Italia s’è rimessa in moto, mentre i dati sulla pandemia da Covid19 continuano a documentare ricoveri e morti, comunque in costante diminuzione. La crisi sanitaria e sociale non è affatto finita. Ma soffia un vento leggero che parla di minori rischi sanitari e di ripartenza economica. La campagna per vaccinare gli italiani va avanti bene, grazie all’intelligente e competente coordinamento del generale Figliuolo. E l’attenzione dell’opinione pubblica si va spostando su due parole chiave: fiducia e ripresa.

La fiducia, innanzitutto, componente essenziale per qualunque ipotesi di crescita degli investimenti e dei consumi. L’Istat giovedì ha dichiarato che l’indice di fiducia dei consumatori, a maggio, è salito a quota 110,6, ai massimi dal gennaio 2020 (prima dell’era Covid, cioè) mentre quello delle imprese, in crescita oramai per il sesto mese consecutivo, è passato da 97,9 a 106,7 (bisogna tornare al 2017, per trovare un valore simile). “La pancia del paese regge il colpo”, commenta Dario Di Vico sul “Corriere della Sera” (28 maggio), notando che “la società civile, dall’istituzione-famiglia al terzo settore, passando per le fabbriche, ha tenuto e ha saputo metabolizzare una parte consistente del disagio causato dalla pandemia”. La società, insomma, ha fatto da ammortizzatore della crisi, ha sofferto ma non si è né piegata né spezzata, ha modificato con cautela e suoi comportamenti, ha usato i risparmi accumulati e adesso è nella condizione psicologica positiva per ricominciare.

Il buon lavoro che sta facendo il governo Draghi, tra i progetti del Pnrr (il Piano di ripresa e resilienza) e le riforme incardinate o quasi pronte a partire (semplificazioni, pubblica amministrazione, giustizia) è carburante per la fiducia. Così come gioca positivamente anche il credito crescente di cui Draghi gode come leader di dimensione europea. L’aumento del gradimento nei suoi confronti (66 punti, +8 da aprile a maggio), certificato dall’ultimo sondaggio Ipsos (Nando Pagnoncelli sul “Corriere della Sera”, 29 maggio) ne è chiara conferma.

Queste considerazioni, naturalmente, non mettono in ombra la pesantezza della crisi sanitaria e sociale ancora attuale, né il dolore per i morti, né i gravi disagi personali, economici e sociali, né le preoccupazioni diffuse sul futuro. Ma non c’è alcuna “rivolta sociale” all’orizzonte, nonostante l’attivismo dei tribuni populisti soprattutto sui social media. Semmai, è sempre più evidente l’attitudine italiana alla “resilienza” (peccato che questa parola, troppo usata e abusata dalle retoriche politiche, si stia usurando).

La seconda parola chiave è: ripresa. Anche da questo punto di vista, parlano dati e previsioni. Il governatore di Bankitalia Ignazio Visco nelle Considerazioni Finali ha precisato ieri che “l’attività produttiva si sta rafforzando” e che nella media dell’anno l’espansione del PIL potrebbe superare il 4 per cento.  Il Centro Studi Confindustria indica “un sentiero stretto ma in risalita”, con un ruolo forte di spinta da parte dell’industria. Carlo Cottarelli, presidente dell’Osservatorio sui conti pubblici, parlando domenica a “Mezz’ora in più”, prevede che “il Pil possa andare anche al 5%”, più di quanto non dicano il Fondo Monetario Internazionale e il governo. E Renato Brunetta, ministro della Pubblica Amministrazione, sostiene che “il rimbalzo, come tasso di crescita del Pil, sarà più vicino al 5% che al 4% previsto. E forse qualcosa più del 5%”. Insomma, “ho la sensazione che siamo alla vigilia di un nuovo boom economico”. “L’estate della ripresa”, titola ottimista “la Repubblica” (30 maggio).

Buone notizie arrivano proprio dai territori che tradizionalmente fanno da locomotiva della ripresa. “La Lombardia si è rialzata e le imprese assumeranno”, annuncia Alessandro Spada, presidente di Assolombarda (“Il Sole24Ore” 28 maggio e “la Repubblica”, 29 maggio), parlando di un +8,7% della produzione manifatturiera, di dinamismo nelle aree di riferimento dell’associazione (Milano, Monza e Brianza, Lodi e Pavia), di esportazioni in crescita grazie alla ripresa in Germania ma anche negli Usa e in Cina, di un momento brillante anche per i consumi sul mercato interno.

Tutto a posto, dunque? Naturalmente no. Ci sono ancora aree economiche (i servizi, il turismo, il commercio) in difficoltà. Le carenze delle infrastrutture si fanno sentire (“Due cantieri su tre sono fermi o lavorano a singhiozzo”, denuncia l’Oti Nord, l’Osservatorio infrastrutturale che riguarda le Confindustrie di Torino, Genova, Milano, Nord Est ed Emilia, 2,2 milioni di imprese, il 56% del Pil e il 70,4% dell’export nazionale). E si teme molto che il forte rincaro delle materie prima possa mettere in difficoltà la produzione industriale.

Il clima che si respira, tutto sommato, è comunque positivo. E proprio a Milano, città cardine di attrattività, al centro di flussi di persone e risorse tra l’Europa e il Mediterraneo, nessuno dei grandi investimenti immobiliari internazionali decisi prima della pandemia è stato disdetto né rinviato, il mercato immobiliare mostra valori e volumi in crescita, le università continuano ad essere predilette da 200mila studenti (parecchi, dall’estero) e ripartono le tradizionali attività di successo (il Salone del Mobile è l’esempio più evidente). “Milano ha gli anticorpi per ripartire”, conferma Spada. E, quanto alle tensioni sull’occupazione e alla fine del blocco dei licenziamenti, aggiunge: “Non ho alcuna indicazione dell’annuncio di licenziamenti di massa o di crisi a raffica. Anzi, ciò che accade è che le aziende, la cui attività è in crescita, faticano a trovare i profili professionali più adatti. Un problema peraltro non estemporaneo ma cronico in molti settori”.

Ci sono imprese che, sotto gli effetti di una crisi che ha accelerato le trasformazioni in atto, devono ristrutturarsi. E soprattutto nel mondo delle aziende piccole e medie si temono chiusure, ridimensionamenti, perdite di posti di lavoro.

Ma il quadro dell’occupazione va visto nel suo insieme, senza congelare la situazione attuale e rinviare la ristrutturazione, ma accelerando la riforma degli ammortizzatori sociali, dal sostegno a chi perde provvisoriamente il lavoro alla formazione per la riqualificazione professionale e alle politiche attive per il ricollocamento.

“L’industria meccanica è a caccia di competenze, la ripresa è in atto”, sostiene Federico Visentin, presidente designato di Federmeccanica, dichiarando che “non si trovano progettisti e programmatori di robot e altre figure dotate di esperienze e conoscenze tecniche, green e digitali”. Aggiungono gli esperti di Orientagiovani di Confindustria: “All’industria mancano 110mila profili professionali Stem (l’acronimo di science, technology, engineering e mathematics)” ma anche dotati di conoscenze umanistiche, per poter fare fronte ai bisogni dell’impresa digitale e alle applicazioni dell’Intelligenza Artificiale ai processi di produzione, distribuzione e consumo.

Una situazione in movimento, insomma. Densa di segnali contrastanti. Ma oramai orientata verso l’uscita dalla stagione peggiore della crisi e verso la ripartenza. Il Recovery Plan della Ue e il Piano italiano del governo Draghi, con investimenti pubblici e riforme, darà un impulso determinante.

La percezione dell’impresa socialmente responsabile

Una ricerca appena pubblicata cerca di mettere a confronto le attività di CSR con le valutazioni da parte degli interlocutori finali dell’attività aziendale

 

Essere percepiti correttamente per quello che si fa. Condizione che vale anche per l’impresa e, in particolare, per l’impresa che fa della corporate social responsibility (CSR) uno dei cardini della sua azione. L’essere correttamente considerati, soprattutto dai consumatori finali o comunque dagli interlocutori di riferimento nei mercati, è cosa importante anche in quanto espressione della propria cultura d’impresa.

Sono tutti questi aspetti ad essere indagati da Antonella Monda e Antonio Botti nel loro intervento “I rischi della Corporate Social Responsibility per le imprese etiche e lo scetticismo del consumatore green”.

La ricerca – spiegano i due all’inizio del loro contributo -,  ragiona attorno alla condizione di un’impresa impegnata nel sociale che, tuttavia, non gode di un giudizio favorevole presso i propri consumatori. Obiettivo è verificare se ad un giudizio negativo dell’impresa corrisponde una percezione negativa anche delle pratiche di CSR.

L’obiettivo che l’indagine vuole raggiungere è però doppio. Da una parte, individuare l’esistenza di un collegamento tra gli obiettivi produttivi aziendali e le attività di CSR intraprese dall’impresa: un modo per “comprovare l’eticità dell’impresa in questione”. Dall’altra, identificare l’eventuale collegamento tra la comunicazione delle attività di CSR dell’azienda e la percezione delle attività etiche dell’impresa da parte dei consumatori.

Dopo aver inquadrato il tema della CSR, il lavoro di Monda e Botti (entrambi del Dipartimento di Scienze Aziendali – Management & Innovation Systems/DISAMIS dell’Università di Salerno), approfondisce il caso delle Ferrovie dello Stato (FS), tramite l’analisi di dati secondari e dati primari. “La responsabilità sociale d’impresa – è una delle conclusioni della ricerca -, influenza solo in minima parte il giudizio che un consumatore ha di una impresa; tuttavia è possibile che tale condizionamento sia valido solo per determinati tipi di settori merceologici”. E non solo, perché gli stessi autori prospettano, riferendosi alle FS, la possibilità di “condurre indagini empiriche sugli erogatori del servizio, ma anche sul personale aziendale, per confrontare la percezione dei manager, degli utenti e dei dipendenti in merito alle attività di CSR messe in pratica”.

La ricerca condotta da Monda e Botti è da leggere come sintesi di un caso interessante di CSR esaminato nei suoi diversi e complessi aspetti.

I rischi della Corporate Social Responsibility per le imprese etiche e lo scetticismo del consumatore green
Antonella Monda, Antonio Botti
Corporate Governance and Research & Development studies – Open Access Peer Reviewed Journal, 2021

Una ricerca appena pubblicata cerca di mettere a confronto le attività di CSR con le valutazioni da parte degli interlocutori finali dell’attività aziendale

 

Essere percepiti correttamente per quello che si fa. Condizione che vale anche per l’impresa e, in particolare, per l’impresa che fa della corporate social responsibility (CSR) uno dei cardini della sua azione. L’essere correttamente considerati, soprattutto dai consumatori finali o comunque dagli interlocutori di riferimento nei mercati, è cosa importante anche in quanto espressione della propria cultura d’impresa.

Sono tutti questi aspetti ad essere indagati da Antonella Monda e Antonio Botti nel loro intervento “I rischi della Corporate Social Responsibility per le imprese etiche e lo scetticismo del consumatore green”.

La ricerca – spiegano i due all’inizio del loro contributo -,  ragiona attorno alla condizione di un’impresa impegnata nel sociale che, tuttavia, non gode di un giudizio favorevole presso i propri consumatori. Obiettivo è verificare se ad un giudizio negativo dell’impresa corrisponde una percezione negativa anche delle pratiche di CSR.

L’obiettivo che l’indagine vuole raggiungere è però doppio. Da una parte, individuare l’esistenza di un collegamento tra gli obiettivi produttivi aziendali e le attività di CSR intraprese dall’impresa: un modo per “comprovare l’eticità dell’impresa in questione”. Dall’altra, identificare l’eventuale collegamento tra la comunicazione delle attività di CSR dell’azienda e la percezione delle attività etiche dell’impresa da parte dei consumatori.

Dopo aver inquadrato il tema della CSR, il lavoro di Monda e Botti (entrambi del Dipartimento di Scienze Aziendali – Management & Innovation Systems/DISAMIS dell’Università di Salerno), approfondisce il caso delle Ferrovie dello Stato (FS), tramite l’analisi di dati secondari e dati primari. “La responsabilità sociale d’impresa – è una delle conclusioni della ricerca -, influenza solo in minima parte il giudizio che un consumatore ha di una impresa; tuttavia è possibile che tale condizionamento sia valido solo per determinati tipi di settori merceologici”. E non solo, perché gli stessi autori prospettano, riferendosi alle FS, la possibilità di “condurre indagini empiriche sugli erogatori del servizio, ma anche sul personale aziendale, per confrontare la percezione dei manager, degli utenti e dei dipendenti in merito alle attività di CSR messe in pratica”.

La ricerca condotta da Monda e Botti è da leggere come sintesi di un caso interessante di CSR esaminato nei suoi diversi e complessi aspetti.

I rischi della Corporate Social Responsibility per le imprese etiche e lo scetticismo del consumatore green
Antonella Monda, Antonio Botti
Corporate Governance and Research & Development studies – Open Access Peer Reviewed Journal, 2021

Nuova formazione e nuova impresa

La digitalizzazione della produzione e dei sistemi sociali implica una formazione nuova ed evoluta: un libro spiega come

Trasformarsi. E quindi evolversi, esplorare nuovi campi del sapere, creare nuove occasioni di lavoro. Si tratta dell’orizzonte che viene delineato dalla cosiddetta “quarta rivoluzione industriale”. E’ la digitalizzazione della prodizione e di buona parte delle vite di tutti noi. Questione ineludibile, che va tuttavia affrontata con un buon bagaglio di conoscenze. Angelo Pasquarella e Laura Garozzo contribuiscono a questo obiettivo con il loro Competenze e formazione 4.0 appena pubblicato.

Il libro collega la necessità di affrontare la formazione in modo diverso in vista delle nuove necessità determinate dalla digitalizzazione. Tutto ha una base di partenza. La rapidissima avanzata di sistemi digitali sempre più intelligenti e pervasivi, infatti, pone una domanda: come si evolveranno le professioni, le competenze e la formazione aziendale? La risposta contenuta nel libro considera prima di tutto che le nuove tecnologie sono in grado – e lo saranno sempre di più -, di “assorbire” le mansioni routinarie e ripetitive, lasciando ai lavoratori le attività più complesse. Ci stiamo evolvendo, è l’opinione dei due autori, verso un modello organizzativo diverso, incentrato su logiche di lavoro impostate per progetti e orientate al risultato. Occorrono nuovi profili formativi. Ed è una necessità che tocca sia i singoli individui che i manager, ma anche gli imprenditori. Trasformazione digitale significa infatti – e soprattutto – trasformazione delle persone e dei loro ruoli aziendali.

E’ da queste considerazioni che si dipana tutto il libro. Ad iniziare da una efficace descrizione della “quarta rivoluzione industriale” per passare poi ad approfondire il concetto di professionalità e quindi di competenze necessarie ad affrontare il cambiamento. Il libro poi passa al tema cruciale della formazione, affrontandone anche sia il metodo che il contenuto.

Formazione sempre più determinante, quindi, ma non più tradizionale e, anzi, necessitante di nuovi metodi che si svilupperanno attraverso sistemi non formali, flessibili e personalizzati.

Competenze e formazione 4.0

Angelo Pasquarella, Laura Garozzo

Guerini NEXT, 2021

La digitalizzazione della produzione e dei sistemi sociali implica una formazione nuova ed evoluta: un libro spiega come

Trasformarsi. E quindi evolversi, esplorare nuovi campi del sapere, creare nuove occasioni di lavoro. Si tratta dell’orizzonte che viene delineato dalla cosiddetta “quarta rivoluzione industriale”. E’ la digitalizzazione della prodizione e di buona parte delle vite di tutti noi. Questione ineludibile, che va tuttavia affrontata con un buon bagaglio di conoscenze. Angelo Pasquarella e Laura Garozzo contribuiscono a questo obiettivo con il loro Competenze e formazione 4.0 appena pubblicato.

Il libro collega la necessità di affrontare la formazione in modo diverso in vista delle nuove necessità determinate dalla digitalizzazione. Tutto ha una base di partenza. La rapidissima avanzata di sistemi digitali sempre più intelligenti e pervasivi, infatti, pone una domanda: come si evolveranno le professioni, le competenze e la formazione aziendale? La risposta contenuta nel libro considera prima di tutto che le nuove tecnologie sono in grado – e lo saranno sempre di più -, di “assorbire” le mansioni routinarie e ripetitive, lasciando ai lavoratori le attività più complesse. Ci stiamo evolvendo, è l’opinione dei due autori, verso un modello organizzativo diverso, incentrato su logiche di lavoro impostate per progetti e orientate al risultato. Occorrono nuovi profili formativi. Ed è una necessità che tocca sia i singoli individui che i manager, ma anche gli imprenditori. Trasformazione digitale significa infatti – e soprattutto – trasformazione delle persone e dei loro ruoli aziendali.

E’ da queste considerazioni che si dipana tutto il libro. Ad iniziare da una efficace descrizione della “quarta rivoluzione industriale” per passare poi ad approfondire il concetto di professionalità e quindi di competenze necessarie ad affrontare il cambiamento. Il libro poi passa al tema cruciale della formazione, affrontandone anche sia il metodo che il contenuto.

Formazione sempre più determinante, quindi, ma non più tradizionale e, anzi, necessitante di nuovi metodi che si svilupperanno attraverso sistemi non formali, flessibili e personalizzati.

Competenze e formazione 4.0

Angelo Pasquarella, Laura Garozzo

Guerini NEXT, 2021

Ridisegnare le città, tra ombre e speranze e rilanciare Milano produttiva e inclusiva

L’alternativa alle città non è la campagna, ma il deserto. Fisico e affettivo”. Sono parole di Renzo Piano, uno dei maggiori architetti internazionali, che riflette sulle tante voci che, in tempi di pandemia e di crisi economiche e sociali, danno per tramontate le metropoli a vantaggio della vita nei borghi o nei paesi agricoli (“Il Foglio”, 13 maggio). Un tramonto prematuramente annunciato. Perché se è vero che non le metropoli ma le megalopoli rivelano un eccesso di fragilità economica e sociale che ne potrebbero limitare l’ulteriore espansione, è altrettanto vero che le aree metropolitane, più piccole e meno squilibrate, sono luoghi ancora vitali, segnati da una “economia di condensa” che continua ad attrarre risorse umane, finanziarie, culturali, sociali e a proporre ipotesi in cui produttività e inclusione sociale non sono antinomie obbligate.

Siamo comunque in un’epoca di cambiamenti, accelerati dalla pandemia, dalla presa d’atto delle nostre vulnerabilità, come persone e come corpi sociali. E la sfida che abbiamo di fronte è proprio quella di imparare a fare i conti con le questioni della sostenibilità, con le crescenti rivendicazioni di una migliore qualità della vita e del lavoro. Città da ripensare, dunque. E da mettere al centro di una nuova rete di relazioni, tipiche peraltro proprio di un’Italia storicamente caratterizzata dai mille comuni e campanili, ma anche da un intreccio di città grandi, medie e piccole. Città, comunque, segnate da centri storici da fare rivivere e da periferie “da rammendare”, come progetta sempre Piano. Città da conoscere meglio.

E’ questo anche il tema della 17° Biennale di Architettura di Venezia, inaugurata il 21 maggio: “How will we live togheter?”. Installazioni, progetti, ipotesi di ridisegno dello spazio urbano ma anche degli interni dei luoghi della vita e del lavoro, nel segno di una ricerca ambientalista d’avanguardia. Hashim Sarkis, il curatore, ha dato spazio ai tentativi di risposta alle tante inquietudini di questi nostri tempi ruvidi e controversi, ha raccolto testimonianze originali di ricerca sulla sostenibilità, ha ibridato progetti e linguaggi (ascoltando pure suggestioni tipiche più dell’arte contemporanea che dell’architettura). E ha comunque costruito una discussa rappresentazione dei tanti stimoli al cambiamento che agitano, tra preoccupazioni e speranze, i nostri giorni inquieti.

Vale la pena, oltre che agli architetti, di dare ascolto anche ai buoni scrittori. Prendendo per esempio Milano, ecco il suggerimento di Alessandro Robecchi: “La metropoli non è un monolite. Devi imparare a convivere con i suoi lati oscuri” (“Corriere della Sera”, 22 maggio). Robecchi è autore di una serie di noir di successo, pubblicati da Sellerio e ambientati appunto a Milano. Critico con i fondali scintillanti (e in gran parte fasulli) del design frivolo, della moda stupefacente, della ricchezza sfacciatamente esibita, va alla ricerca dell’anima nera, del cuore di tenebra, delle ombre che nascondono vite disperate. E così rende Milano molto più vera, intensa, capace di un’umanità densa su cui ricostruire fiducia, ritessere politiche urbane e scelte di gruppo e individuali che, proprio nel segno d’un migliore “live togheter”, possono riqualificare il nostro tempo. Ricostruire più equilibrati assetti economici. Legare il verde degli alberi in strade e piazze (il programma di fine legislatura dell’attuale amministrazione comunale guidata dal sindaco Beppe Sala) al miglioramento delle relazioni sociali e professionali.

Metropoli. E prossimità. Smart working e competitività. Mobilità “dolce” e sperimentazione sociale e culturale. Crisi. E ripresa.

Il punto di ripartenza sta nella presa d’atto di una condizione: Milano e più in generale la Lombardia sono da tempo un punto di riferimento europeo e un’area produttiva unica in Europa, in cui si intersecano manifattura, finanza, servizi, cultura, formazione e ricerca. Qui le imprese hanno subito uno stop drammatico e la crisi si è fatta sentire con pesantezza, ma non è certo il caso di gridare al declino. Ci sono debolezze. E settori in difficoltà, dal turismo agli eventi, dalle fiere a parte dei servizi. Ma la manifattura lombarda, che è tra le più esposte sui mercati internazionali, è in piedi, reattiva, dinamica. Ha mantenuto il suo ruolo nelle grandi catene globali delle forniture. Ed è nel bel mezzo di un processo evolutivo iniziato prima della pandemia.

I processi di digitalizzazione, sostenibilità, transizione ecologica e dell’economia della conoscenza risalgono al post-crisi del 2008, e ci accompagneranno nel corso di tutto il decennio. Ora, piuttosto, si tratta di accelerare quei processi, insistendo sul miglioramento di produttività e competitività. A partire dalla spinta del Recovery Fund accolta nel Pnrr, il Piano di ripresa e resilienza del governo Draghi: fondi da usare bene e rapidamente su ambiente, digital economy, formazione, ricerca. Nella stretta collaborazione tra istituzioni pubbliche e imprese private.

Milano, metropoli, è l’insieme delle sue industrie, delle banche, delle università, dei grandi centri di cultura e di ricerca e delle infrastrutture per la mobilità di respiro internazionale. E’ una rete di flussi, dai confini mobili e dinamici, di incroci di competenze e specializzazioni, di radici locali e rapporti globali, di cultura della responsabilità pubblica e dell’intraprendenza privata.

Storicamente, ha avuto come punti di forza le relazioni con i territori circostanti, la capacità di legare buona amministrazione e dinamica imprenditorialità, competitività e inclusione sociale, innovazione e solidarietà. E oggi i suoi asset sono in piedi: gli investimenti immobiliari internazionali, l’attrattività delle università, l’innovazione che si esplicita in primati di brevetti e start up, la finanza, la cultura. Cardini da cui ripartire, senza arroganza, senza sottovalutare fragilità e debolezze. Ma avendo un ruolo attivo, in una geografia economica lombarda policentrica, nel cambio di paradigma per l’economia sostenibile. Milano e la Lombardia, senza campanilismi, devono insistere sulla forza delle interconnessioni, fisiche e digitali. I territori produttivi sono indissolubilmente intrecciati in una serie di interdipendenze, nella quale Milano costituisce un nodo fondamentale della rete che coinvolge Torino e Genova, il Nord Est delle piccole imprese diventate cerniere di filiere dinamiche e l’Emilia automobilistica, meccanica e alimentare, l’intero Nord, insomma: un territorio complesso di città grandi e piccole, di paesi e borghi e di aree fortemente industrializzate.

C’è chi, in tempi difficili, agita ancora le contrapposizioni pro-o-contro Milano. Un errore. Perché Brescia, Bergamo, Torino e Bologna formano, insieme al capoluogo lombardo, un grande, originale corpo produttivo che s’inserisce nel più ampio disegno dell’Europa mediterranea. Luoghi intensi di flussi produttivi e civili in cui è possibile, con spirito critico e capacità costruttiva, di dare risposte concrete anche alla domanda della Biennale di Venezia: qui, sì che si può provare a vivere meglio insieme.

L’alternativa alle città non è la campagna, ma il deserto. Fisico e affettivo”. Sono parole di Renzo Piano, uno dei maggiori architetti internazionali, che riflette sulle tante voci che, in tempi di pandemia e di crisi economiche e sociali, danno per tramontate le metropoli a vantaggio della vita nei borghi o nei paesi agricoli (“Il Foglio”, 13 maggio). Un tramonto prematuramente annunciato. Perché se è vero che non le metropoli ma le megalopoli rivelano un eccesso di fragilità economica e sociale che ne potrebbero limitare l’ulteriore espansione, è altrettanto vero che le aree metropolitane, più piccole e meno squilibrate, sono luoghi ancora vitali, segnati da una “economia di condensa” che continua ad attrarre risorse umane, finanziarie, culturali, sociali e a proporre ipotesi in cui produttività e inclusione sociale non sono antinomie obbligate.

Siamo comunque in un’epoca di cambiamenti, accelerati dalla pandemia, dalla presa d’atto delle nostre vulnerabilità, come persone e come corpi sociali. E la sfida che abbiamo di fronte è proprio quella di imparare a fare i conti con le questioni della sostenibilità, con le crescenti rivendicazioni di una migliore qualità della vita e del lavoro. Città da ripensare, dunque. E da mettere al centro di una nuova rete di relazioni, tipiche peraltro proprio di un’Italia storicamente caratterizzata dai mille comuni e campanili, ma anche da un intreccio di città grandi, medie e piccole. Città, comunque, segnate da centri storici da fare rivivere e da periferie “da rammendare”, come progetta sempre Piano. Città da conoscere meglio.

E’ questo anche il tema della 17° Biennale di Architettura di Venezia, inaugurata il 21 maggio: “How will we live togheter?”. Installazioni, progetti, ipotesi di ridisegno dello spazio urbano ma anche degli interni dei luoghi della vita e del lavoro, nel segno di una ricerca ambientalista d’avanguardia. Hashim Sarkis, il curatore, ha dato spazio ai tentativi di risposta alle tante inquietudini di questi nostri tempi ruvidi e controversi, ha raccolto testimonianze originali di ricerca sulla sostenibilità, ha ibridato progetti e linguaggi (ascoltando pure suggestioni tipiche più dell’arte contemporanea che dell’architettura). E ha comunque costruito una discussa rappresentazione dei tanti stimoli al cambiamento che agitano, tra preoccupazioni e speranze, i nostri giorni inquieti.

Vale la pena, oltre che agli architetti, di dare ascolto anche ai buoni scrittori. Prendendo per esempio Milano, ecco il suggerimento di Alessandro Robecchi: “La metropoli non è un monolite. Devi imparare a convivere con i suoi lati oscuri” (“Corriere della Sera”, 22 maggio). Robecchi è autore di una serie di noir di successo, pubblicati da Sellerio e ambientati appunto a Milano. Critico con i fondali scintillanti (e in gran parte fasulli) del design frivolo, della moda stupefacente, della ricchezza sfacciatamente esibita, va alla ricerca dell’anima nera, del cuore di tenebra, delle ombre che nascondono vite disperate. E così rende Milano molto più vera, intensa, capace di un’umanità densa su cui ricostruire fiducia, ritessere politiche urbane e scelte di gruppo e individuali che, proprio nel segno d’un migliore “live togheter”, possono riqualificare il nostro tempo. Ricostruire più equilibrati assetti economici. Legare il verde degli alberi in strade e piazze (il programma di fine legislatura dell’attuale amministrazione comunale guidata dal sindaco Beppe Sala) al miglioramento delle relazioni sociali e professionali.

Metropoli. E prossimità. Smart working e competitività. Mobilità “dolce” e sperimentazione sociale e culturale. Crisi. E ripresa.

Il punto di ripartenza sta nella presa d’atto di una condizione: Milano e più in generale la Lombardia sono da tempo un punto di riferimento europeo e un’area produttiva unica in Europa, in cui si intersecano manifattura, finanza, servizi, cultura, formazione e ricerca. Qui le imprese hanno subito uno stop drammatico e la crisi si è fatta sentire con pesantezza, ma non è certo il caso di gridare al declino. Ci sono debolezze. E settori in difficoltà, dal turismo agli eventi, dalle fiere a parte dei servizi. Ma la manifattura lombarda, che è tra le più esposte sui mercati internazionali, è in piedi, reattiva, dinamica. Ha mantenuto il suo ruolo nelle grandi catene globali delle forniture. Ed è nel bel mezzo di un processo evolutivo iniziato prima della pandemia.

I processi di digitalizzazione, sostenibilità, transizione ecologica e dell’economia della conoscenza risalgono al post-crisi del 2008, e ci accompagneranno nel corso di tutto il decennio. Ora, piuttosto, si tratta di accelerare quei processi, insistendo sul miglioramento di produttività e competitività. A partire dalla spinta del Recovery Fund accolta nel Pnrr, il Piano di ripresa e resilienza del governo Draghi: fondi da usare bene e rapidamente su ambiente, digital economy, formazione, ricerca. Nella stretta collaborazione tra istituzioni pubbliche e imprese private.

Milano, metropoli, è l’insieme delle sue industrie, delle banche, delle università, dei grandi centri di cultura e di ricerca e delle infrastrutture per la mobilità di respiro internazionale. E’ una rete di flussi, dai confini mobili e dinamici, di incroci di competenze e specializzazioni, di radici locali e rapporti globali, di cultura della responsabilità pubblica e dell’intraprendenza privata.

Storicamente, ha avuto come punti di forza le relazioni con i territori circostanti, la capacità di legare buona amministrazione e dinamica imprenditorialità, competitività e inclusione sociale, innovazione e solidarietà. E oggi i suoi asset sono in piedi: gli investimenti immobiliari internazionali, l’attrattività delle università, l’innovazione che si esplicita in primati di brevetti e start up, la finanza, la cultura. Cardini da cui ripartire, senza arroganza, senza sottovalutare fragilità e debolezze. Ma avendo un ruolo attivo, in una geografia economica lombarda policentrica, nel cambio di paradigma per l’economia sostenibile. Milano e la Lombardia, senza campanilismi, devono insistere sulla forza delle interconnessioni, fisiche e digitali. I territori produttivi sono indissolubilmente intrecciati in una serie di interdipendenze, nella quale Milano costituisce un nodo fondamentale della rete che coinvolge Torino e Genova, il Nord Est delle piccole imprese diventate cerniere di filiere dinamiche e l’Emilia automobilistica, meccanica e alimentare, l’intero Nord, insomma: un territorio complesso di città grandi e piccole, di paesi e borghi e di aree fortemente industrializzate.

C’è chi, in tempi difficili, agita ancora le contrapposizioni pro-o-contro Milano. Un errore. Perché Brescia, Bergamo, Torino e Bologna formano, insieme al capoluogo lombardo, un grande, originale corpo produttivo che s’inserisce nel più ampio disegno dell’Europa mediterranea. Luoghi intensi di flussi produttivi e civili in cui è possibile, con spirito critico e capacità costruttiva, di dare risposte concrete anche alla domanda della Biennale di Venezia: qui, sì che si può provare a vivere meglio insieme.

Design e Gioco, con Fondazione Pirelli al nuovo Adi Design Museum

Questa mattina si è tenuta l’inaugurazione di ADI Design Museum – Compasso d’Oro che ospita la Collezione storica composta dagli oggetti che dal 1954 a oggi hanno ottenuto il premio considerato uno dei più antichi e importanti riconoscimenti mondiali nell’ambito del design industriale. In questa occasione non poteva mancare un racconto, realizzato attraverso la riproduzione di fotografie, copertine e articoli della Rivista Pirelli provenienti dall’archivio storico aziendale, dedicato ai giocattoli Pirelli e alla scimmiettà Zizì realizzata in gommapiuma Pirelli da Bruno Munari che, nella prima edizione del Compasso d’Oro, vince il prestigioso premio , grazie alla sua “essenzialità formale” e all’”impiego tipico della materia” – la gommapiuma articolata da un’armatura di filo metallico – che consentiva “il divertimento di una infinità di atteggiamenti”.

Pirelli, Bruno Munari e i giocattoli in gommapiuma “armata”

Già alla fine degli anni Quaranta la Pirelli si rivolge a Bruno Munari, artista poliedrico, grafico e designer, per studiare una nuova applicazione della gommapiuma, innovativo materiale brevettato dall’azienda negli anni Trenta fino a quel momento utilizzato principalmente come imbottitura di materassi e poltrone. Come ricorderà lo stesso Munari, lo studio del materiale e delle sue caratteristiche, in primo luogo la morbidezza, “che fa venire in mente la stessa sensazione che si prova a tenere in braccio un gattino o un piccolo animaletto”, lo portano a progettare una serie di animali per bambini. Nascono così i giocattoli in gommapiuma “armata”, animati cioè da filo metallico snodabile: primo tra tutti il gatto Meo Romeo, brevettato nel 1950. In mostra è esposto l’esemplare originale che fa parte del patrimonio della Fondazione Pirelli.

Pirelli e il design
I giocattoli Pirelli e Bruno Munari sono solo alcuni dei tanti prodotti e dei tanti nomi del mondo del design, raccontati ed esposti lungo il percorso allestitivo, che hanno intrecciato le loro storie a quella di Pirelli e delle sue società consociate: dall’orologio elettromeccanico Cifra 5 di Gino Valle, tra i vincitori del premio del 1956, ai teleindicatori del 1962. E ancora il premio per il progetto della linea rossa della metropolitana a cui Pirelli partecipa attraverso la produzione di articoli vari e dell’ormai storico pavimento in gomma a bolli e le collaborazioni con i celebri maestri della grafica e del design come Roberto Menghi, Giancarlo Iliprandi e Alessandro Mendini, tributati dal Compasso d’Oro con il premio alla carriera.

Questa mattina si è tenuta l’inaugurazione di ADI Design Museum – Compasso d’Oro che ospita la Collezione storica composta dagli oggetti che dal 1954 a oggi hanno ottenuto il premio considerato uno dei più antichi e importanti riconoscimenti mondiali nell’ambito del design industriale. In questa occasione non poteva mancare un racconto, realizzato attraverso la riproduzione di fotografie, copertine e articoli della Rivista Pirelli provenienti dall’archivio storico aziendale, dedicato ai giocattoli Pirelli e alla scimmiettà Zizì realizzata in gommapiuma Pirelli da Bruno Munari che, nella prima edizione del Compasso d’Oro, vince il prestigioso premio , grazie alla sua “essenzialità formale” e all’”impiego tipico della materia” – la gommapiuma articolata da un’armatura di filo metallico – che consentiva “il divertimento di una infinità di atteggiamenti”.

Pirelli, Bruno Munari e i giocattoli in gommapiuma “armata”

Già alla fine degli anni Quaranta la Pirelli si rivolge a Bruno Munari, artista poliedrico, grafico e designer, per studiare una nuova applicazione della gommapiuma, innovativo materiale brevettato dall’azienda negli anni Trenta fino a quel momento utilizzato principalmente come imbottitura di materassi e poltrone. Come ricorderà lo stesso Munari, lo studio del materiale e delle sue caratteristiche, in primo luogo la morbidezza, “che fa venire in mente la stessa sensazione che si prova a tenere in braccio un gattino o un piccolo animaletto”, lo portano a progettare una serie di animali per bambini. Nascono così i giocattoli in gommapiuma “armata”, animati cioè da filo metallico snodabile: primo tra tutti il gatto Meo Romeo, brevettato nel 1950. In mostra è esposto l’esemplare originale che fa parte del patrimonio della Fondazione Pirelli.

Pirelli e il design
I giocattoli Pirelli e Bruno Munari sono solo alcuni dei tanti prodotti e dei tanti nomi del mondo del design, raccontati ed esposti lungo il percorso allestitivo, che hanno intrecciato le loro storie a quella di Pirelli e delle sue società consociate: dall’orologio elettromeccanico Cifra 5 di Gino Valle, tra i vincitori del premio del 1956, ai teleindicatori del 1962. E ancora il premio per il progetto della linea rossa della metropolitana a cui Pirelli partecipa attraverso la produzione di articoli vari e dell’ormai storico pavimento in gomma a bolli e le collaborazioni con i celebri maestri della grafica e del design come Roberto Menghi, Giancarlo Iliprandi e Alessandro Mendini, tributati dal Compasso d’Oro con il premio alla carriera.
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