Accedi all’Archivio online
Esplora l’Archivio online per trovare fonti e materiali. Seleziona la tipologia di supporto documentale che più ti interessa e inserisci le parole chiave della tua ricerca.
    Seleziona una delle seguenti categorie:
  • Documenti
  • Fotografie
  • Disegni e manifesti
  • Audiovisivi
  • Pubblicazioni e riviste
  • Tutti
Assistenza alla consultazione
Per richiedere la consultazione del materiale conservato nell’Archivio Storico e nelle Biblioteche della Fondazione Pirelli al fine di studi e ricerche e conoscere le modalità di utilizzo dei materiali per prestiti e mostre, compila il seguente modulo.
Riceverai una mail di conferma dell'avvenuta ricezione della richiesta e sarai ricontattato.
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Seleziona il grado di istruzione della scuola di appartenenza
Back
Scuola Primaria
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.

Dichiaro di avere preso visione dell’informativa relativa al trattamento dei miei dati personali, e autorizzo la Fondazione Pirelli al trattamento dei miei dati personali per l’invio, anche a mezzo e-mail, di comunicazioni relative ad iniziative/convegni organizzati dalla Fondazione Pirelli.

Back
Scuole secondarie di I grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Scuole secondarie di II grado
Percorsi Fondazione Pirelli Educational
Lasciate i vostri dati per essere ricontattati dallo staff di Fondazione Pirelli Educational e concordare le date del percorso.
Back
Università
Percorsi Fondazione Pirelli Educational

Vuoi organizzare un percorso personalizzato con i tuoi studenti? Per informazioni e prenotazioni scrivi a universita@fondazionepirelli.org

Visita la Fondazione
Per informazioni sulle attività della Fondazione, visite guidate e l'accessibilità agli spazi
contattare il numero 0264423971 o compilare il form qui sotto anticipando nel campo note i dettagli nella richiesta.

Icone di cultura d’impresa

Appena pubblicato il racconto in dieci passi del meglio dell’industria del design italiano

 

L’eccellenza e la sua cultura d’impresa. L’inimitabilità del prodotto. La storia che si fa risorsa per il presente. Ecco alcuni dei tratti raccontati in “Icone. Mito, storie e personaggi del design italiano”, libro scritto da Giovanna Mancini e appena pubblicato: una raccolta di istantanee d’impresa, dedicate ad aziende che fanno grande il design nazionale.

“Icone” prende le mosse da una considerazione: nel panorama internazionale del design le imprese italiane rappresentano da oltre mezzo secolo un’eccellenza globalmente riconosciuta, tanto dal mercato, quanto dal mondo della cultura e della progettazione. A provarlo è la quantità enorme di prodotti che hanno posti d’onore in collezioni e raccolte di design e arte applicata. Senza dire del significato economico che questo comparto ha assunto ormai da tempo.

Ma cosa c’è dietro tutto questo? La risposta, anzi le dieci risposte, a questa domanda le si trova nelle pagine che Mancini ha scritto andando in giro per alcune delle aziende migliori del settore come Alessi, Artemide, B&B Italia, Caimi Brevetti, Cassina, Driade, Gufram, Kartell, Molteni&C e Zanotta. Un viaggio dentro e dietro l’inventiva italiana che dimostra come ogni volta il successo sia il risultato di un insieme complesso di elementi: non semplicemente la qualità del prodotto, ma l’avventura dello sperimentare, la voglia di esplorare, il gusto dell’innovare e anche – perché no -, la capacità di rischiare. Tutto senza scordare la capacità di unire ogni volta in modi diversi la tradizione con l’innovazione. Arte rara e non solo grande capacità gestionale e produttiva.

Giovanna Mancini racconta tutto questo, e fa comprendere come non vi sia formula matematica che serva per spiegare l’imponderabile della creatività imprenditoriale italiana applicata al design.

Scrive l’autrice a proposito di due dei protagonisti del suo libro: “Entrambi appassionati di bellezza, creatività, sostenibilità, unicità del saper fare italiano, sostegno ai giovani talenti e sguardo al futuro. A unirli è proprio questo: la visione condivisa di un fare impresa che si fonda su due pilastri fondamentali e imprescindibili, scienza e umanesimo”.

“Icone” è fatto da meno di duecento pagine, tutte da leggere con attenzione.

Icone. Mito, storie e personaggi del design italiano

Giovanna Mancini

Luiss University Press, 2021

Appena pubblicato il racconto in dieci passi del meglio dell’industria del design italiano

 

L’eccellenza e la sua cultura d’impresa. L’inimitabilità del prodotto. La storia che si fa risorsa per il presente. Ecco alcuni dei tratti raccontati in “Icone. Mito, storie e personaggi del design italiano”, libro scritto da Giovanna Mancini e appena pubblicato: una raccolta di istantanee d’impresa, dedicate ad aziende che fanno grande il design nazionale.

“Icone” prende le mosse da una considerazione: nel panorama internazionale del design le imprese italiane rappresentano da oltre mezzo secolo un’eccellenza globalmente riconosciuta, tanto dal mercato, quanto dal mondo della cultura e della progettazione. A provarlo è la quantità enorme di prodotti che hanno posti d’onore in collezioni e raccolte di design e arte applicata. Senza dire del significato economico che questo comparto ha assunto ormai da tempo.

Ma cosa c’è dietro tutto questo? La risposta, anzi le dieci risposte, a questa domanda le si trova nelle pagine che Mancini ha scritto andando in giro per alcune delle aziende migliori del settore come Alessi, Artemide, B&B Italia, Caimi Brevetti, Cassina, Driade, Gufram, Kartell, Molteni&C e Zanotta. Un viaggio dentro e dietro l’inventiva italiana che dimostra come ogni volta il successo sia il risultato di un insieme complesso di elementi: non semplicemente la qualità del prodotto, ma l’avventura dello sperimentare, la voglia di esplorare, il gusto dell’innovare e anche – perché no -, la capacità di rischiare. Tutto senza scordare la capacità di unire ogni volta in modi diversi la tradizione con l’innovazione. Arte rara e non solo grande capacità gestionale e produttiva.

Giovanna Mancini racconta tutto questo, e fa comprendere come non vi sia formula matematica che serva per spiegare l’imponderabile della creatività imprenditoriale italiana applicata al design.

Scrive l’autrice a proposito di due dei protagonisti del suo libro: “Entrambi appassionati di bellezza, creatività, sostenibilità, unicità del saper fare italiano, sostegno ai giovani talenti e sguardo al futuro. A unirli è proprio questo: la visione condivisa di un fare impresa che si fonda su due pilastri fondamentali e imprescindibili, scienza e umanesimo”.

“Icone” è fatto da meno di duecento pagine, tutte da leggere con attenzione.

Icone. Mito, storie e personaggi del design italiano

Giovanna Mancini

Luiss University Press, 2021

Le strategie di Draghi sull’ambiente e l’economia green e blue delle imprese

“America’s better future. No carbon and no blackouts”, è il titolo dell’inchiesta di copertina di “The Economist”, per un’inchiesta sui temi dell’energia pulita e affidabile e sulla scelta della presidenza Biden di avviare un ambizioso tentativo di affrontare il cambiamento climatico. Finalmente. Nel momento in cui lo slogan di sintesi della nuova politica Usa è “America is back” al posto dell’arrogante e conflittuale “Maga” (“Make America Great Again”) dell’era Trump e quel “back” ha subito indicato il ritorno agli accordi di Parigi sulla sostenibilità, ecco che si ripropongono sistematicamente, sulla scena internazionale, i grandi temi dell’ambiente e dell’abbattimento degli squilibri economici e sociali.

L’eco del nuovo corso sta anche nella concordanza dei discorsi tra il presidente Usa Joe Biden, il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi e la Cancelliera tedesca Angela Merkel al G7 della scorsa settimana. Salute e clima sono in primo piano. E c’è un riconoscimento corale sull’importanza del nuovo corso politico in Italia per rafforzare le strategie della Ue in questa direzione. “Con Draghi l’Italia è più virtuosa e può spostare gli equilibri in Europa”, ha confermato il Commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni (”La Stampa”, 22 febbraio). D’altronde, Mario Draghi, nelle sue dichiarazioni programmatiche in Parlamento, è stato esemplare sulle responsabilità europee verso le nuove generazioni: “Vogliamo lasciare un buon pianeta, non solo una buona moneta”.

Le scelte di governo per il Recovery Plan sono abbastanza coerenti, sia nelle indicazioni strategiche sia nella definizione dell’apparato operativo per decidere come investire su green economy e digital economy e come affrontare, dopo una troppo lunga stagione di disattenzione politica e di scarso senso di responsabilità, i temi delle riforme (pubblica amministrazione, fisco, giustizia, lavoro, scuola, ricerca). Proprio quei cambiamenti necessari a fermare il ciclo della bassa crescita italiana e a costruire le basi di un futuro migliore per le generazioni dei nostri figli e nipoti.

La riprova sta in alcune scelte chiave che riguardano i ruoli di governo. L’attuazione del Recovery Plan ben incardinato negli uffici, densi di competenze, del Ministero dell’Economia affidato alle salde e affidabili mani di un ministro come Daniele Franco. Il ministero della Transizione Digitale affidato a Vittorio Colao, manager di esperienza internazionale e quello della Transizione Ecologica a Roberto Cingolani, scienziato con grandi capacità di gestione (lo ha dimostrato all’Istituto Italiano di Tecnologia) e una solida cultura d’impresa (un’esperienza ai vertici di Leonardo). E, infine il ministero alle Infrastrutture e ai Trasporti affidato a Enrico Giovannini, grande esperto di sviluppo sostenibile e già con una solida esperienza di governo. Sono tutte scelte che dicono che possiamo ragionevolmente aspettarci una stagione riformista chiara ed efficace. Alle forze politiche, la responsabilità di agevolare e, perché no?, arricchire questo tentativo.

Per quel che riguarda le imprese italiane, siamo di fronte a un’occasione straordinaria, per insistere sulle strategie già avviate da tempo sulla sostenibilità come leva fondamentale per rafforzare la propria competitività e accelerarne l’implementazione, adesso in un quadro politico finalmente favorevole.

I dati del Rapporto GreenItaly, curato dalla Fondazione Symbola e da Unioncamere, documentano che negli ultimi cinque anni 435mila imprese, pur avendo il core business in attività tradizionali, hanno avviato un “riconversione verde”, insistendo sulle energie rinnovabili (proprio quelle ricordate anche per gli Usa dall’inchiesta di “The Economist” citata all’inizio), sul basso impatto ambientale sui territori, sul riciclo dei rifiuti e su altre indicazioni da “economia circolare”. E “ci sono più di tre milioni di italiane e italiani che lavorano nell’industria che rispetta l’ambiente, la sicurezza, la qualità della vita”, aggiunge Ermete Realacci, presidente di Symbola.

Il percorso di sostenibilità, appunto, consente a parecchie aziende di stare ai primi posti delle classifiche internazionali e di rafforzare la propria competitività sui mercati globali. Ci sono, per esempio, cinque grandi italiane tra le Top 50 dei Seal Business Award: Enel, Leonardo, Pirelli, Snam e Terna (la classifica misura le prestazioni in termini di “Sustainability, Enviromental Achievement e Leadership”). E sempre Pirelli è “Gold Class” per il settore automotive del Sustainability Year Book 2021 di S&P, mentre in altri settori sono premiate Enel, Poste Italiane, Prysmian, Telecom, Moncler, Hera e, ancora, Leonardo, Saipem e Terna.

Per tutte, ognuna secondo la propria storia, le specializzazioni tecnologiche e la particolare cultura d’impresa, vale una scelta fatta da tempo: insistere sull’innovazione, legando in modo originale la dimensione del “digitale” con quella della sostenibilità ambientale e sociale. Proprio quel percorso che adesso il governo Draghi mette al centro della propria attenzione, con la collaborazione aperta dei ministeri della Transizione, sia ecologica e digitale.

L’incrocio tra digital e green economy, tra green e blue, può consentire, grazie anche agli investimenti sostenuti dai fondi del Recovery Plan, di affrontare con nuove speranze di successo alcuni dei nodi più complessi della struttura industriale italiana. La questione dell’acciaio e della crisi dell’Ilva, per esempio. Danieli, Leonardo e Saipem hanno appena stretto un’alleanza (“Il Sole24Ore”, 19 febbraio) per avviare processi di “siderurgia green”, senza l’uso del carbone. Una strategia che può migliorare anche la posizione competitiva dell’acciaio italiano sui mercati globali.

Sta proprio qui un’indicazione interessante che sta maturando durante i lavori del B20 presieduto da Emma Marcegaglia, l’organizzazione del mondo imprenditoriale e finanziario legato al G20 in corso, a guida italiana.  Il contributo delle nostre imprese agli ambienti internazionali del business sta negli esempi delle pratiche virtuose che nel tempo hanno rafforzato la nostra manifattura e i servizi collegati: impegnarsi nella sostenibilità ambientale e sociale non per un’operazione opportunistica di green washing o per operazioni di comunicazione e di marketing, ma come parte essenziale di una lungimirante strategia produttiva, di una scelta di qualità che guarda ai mercati ricchi di consumatori sensibili ai temi ambientali, alla finanza attenta agli investimenti sostenibili e ai valori e agli interessi di tutti gli stakeholders che hanno rapporti con l’impresa e incidono sul suo valore, la credibilità, l’attendibilità, la reputazione. L’Italia delle imprese che sanno fare, e fare bene.

“America’s better future. No carbon and no blackouts”, è il titolo dell’inchiesta di copertina di “The Economist”, per un’inchiesta sui temi dell’energia pulita e affidabile e sulla scelta della presidenza Biden di avviare un ambizioso tentativo di affrontare il cambiamento climatico. Finalmente. Nel momento in cui lo slogan di sintesi della nuova politica Usa è “America is back” al posto dell’arrogante e conflittuale “Maga” (“Make America Great Again”) dell’era Trump e quel “back” ha subito indicato il ritorno agli accordi di Parigi sulla sostenibilità, ecco che si ripropongono sistematicamente, sulla scena internazionale, i grandi temi dell’ambiente e dell’abbattimento degli squilibri economici e sociali.

L’eco del nuovo corso sta anche nella concordanza dei discorsi tra il presidente Usa Joe Biden, il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi e la Cancelliera tedesca Angela Merkel al G7 della scorsa settimana. Salute e clima sono in primo piano. E c’è un riconoscimento corale sull’importanza del nuovo corso politico in Italia per rafforzare le strategie della Ue in questa direzione. “Con Draghi l’Italia è più virtuosa e può spostare gli equilibri in Europa”, ha confermato il Commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni (”La Stampa”, 22 febbraio). D’altronde, Mario Draghi, nelle sue dichiarazioni programmatiche in Parlamento, è stato esemplare sulle responsabilità europee verso le nuove generazioni: “Vogliamo lasciare un buon pianeta, non solo una buona moneta”.

Le scelte di governo per il Recovery Plan sono abbastanza coerenti, sia nelle indicazioni strategiche sia nella definizione dell’apparato operativo per decidere come investire su green economy e digital economy e come affrontare, dopo una troppo lunga stagione di disattenzione politica e di scarso senso di responsabilità, i temi delle riforme (pubblica amministrazione, fisco, giustizia, lavoro, scuola, ricerca). Proprio quei cambiamenti necessari a fermare il ciclo della bassa crescita italiana e a costruire le basi di un futuro migliore per le generazioni dei nostri figli e nipoti.

La riprova sta in alcune scelte chiave che riguardano i ruoli di governo. L’attuazione del Recovery Plan ben incardinato negli uffici, densi di competenze, del Ministero dell’Economia affidato alle salde e affidabili mani di un ministro come Daniele Franco. Il ministero della Transizione Digitale affidato a Vittorio Colao, manager di esperienza internazionale e quello della Transizione Ecologica a Roberto Cingolani, scienziato con grandi capacità di gestione (lo ha dimostrato all’Istituto Italiano di Tecnologia) e una solida cultura d’impresa (un’esperienza ai vertici di Leonardo). E, infine il ministero alle Infrastrutture e ai Trasporti affidato a Enrico Giovannini, grande esperto di sviluppo sostenibile e già con una solida esperienza di governo. Sono tutte scelte che dicono che possiamo ragionevolmente aspettarci una stagione riformista chiara ed efficace. Alle forze politiche, la responsabilità di agevolare e, perché no?, arricchire questo tentativo.

Per quel che riguarda le imprese italiane, siamo di fronte a un’occasione straordinaria, per insistere sulle strategie già avviate da tempo sulla sostenibilità come leva fondamentale per rafforzare la propria competitività e accelerarne l’implementazione, adesso in un quadro politico finalmente favorevole.

I dati del Rapporto GreenItaly, curato dalla Fondazione Symbola e da Unioncamere, documentano che negli ultimi cinque anni 435mila imprese, pur avendo il core business in attività tradizionali, hanno avviato un “riconversione verde”, insistendo sulle energie rinnovabili (proprio quelle ricordate anche per gli Usa dall’inchiesta di “The Economist” citata all’inizio), sul basso impatto ambientale sui territori, sul riciclo dei rifiuti e su altre indicazioni da “economia circolare”. E “ci sono più di tre milioni di italiane e italiani che lavorano nell’industria che rispetta l’ambiente, la sicurezza, la qualità della vita”, aggiunge Ermete Realacci, presidente di Symbola.

Il percorso di sostenibilità, appunto, consente a parecchie aziende di stare ai primi posti delle classifiche internazionali e di rafforzare la propria competitività sui mercati globali. Ci sono, per esempio, cinque grandi italiane tra le Top 50 dei Seal Business Award: Enel, Leonardo, Pirelli, Snam e Terna (la classifica misura le prestazioni in termini di “Sustainability, Enviromental Achievement e Leadership”). E sempre Pirelli è “Gold Class” per il settore automotive del Sustainability Year Book 2021 di S&P, mentre in altri settori sono premiate Enel, Poste Italiane, Prysmian, Telecom, Moncler, Hera e, ancora, Leonardo, Saipem e Terna.

Per tutte, ognuna secondo la propria storia, le specializzazioni tecnologiche e la particolare cultura d’impresa, vale una scelta fatta da tempo: insistere sull’innovazione, legando in modo originale la dimensione del “digitale” con quella della sostenibilità ambientale e sociale. Proprio quel percorso che adesso il governo Draghi mette al centro della propria attenzione, con la collaborazione aperta dei ministeri della Transizione, sia ecologica e digitale.

L’incrocio tra digital e green economy, tra green e blue, può consentire, grazie anche agli investimenti sostenuti dai fondi del Recovery Plan, di affrontare con nuove speranze di successo alcuni dei nodi più complessi della struttura industriale italiana. La questione dell’acciaio e della crisi dell’Ilva, per esempio. Danieli, Leonardo e Saipem hanno appena stretto un’alleanza (“Il Sole24Ore”, 19 febbraio) per avviare processi di “siderurgia green”, senza l’uso del carbone. Una strategia che può migliorare anche la posizione competitiva dell’acciaio italiano sui mercati globali.

Sta proprio qui un’indicazione interessante che sta maturando durante i lavori del B20 presieduto da Emma Marcegaglia, l’organizzazione del mondo imprenditoriale e finanziario legato al G20 in corso, a guida italiana.  Il contributo delle nostre imprese agli ambienti internazionali del business sta negli esempi delle pratiche virtuose che nel tempo hanno rafforzato la nostra manifattura e i servizi collegati: impegnarsi nella sostenibilità ambientale e sociale non per un’operazione opportunistica di green washing o per operazioni di comunicazione e di marketing, ma come parte essenziale di una lungimirante strategia produttiva, di una scelta di qualità che guarda ai mercati ricchi di consumatori sensibili ai temi ambientali, alla finanza attenta agli investimenti sostenibili e ai valori e agli interessi di tutti gli stakeholders che hanno rapporti con l’impresa e incidono sul suo valore, la credibilità, l’attendibilità, la reputazione. L’Italia delle imprese che sanno fare, e fare bene.

Fondazione Pirelli a MuseoCity 2021
Pirelli: storia di un’impresa nella sua città

Anche quest’anno Fondazione Pirelli partecipa a Museocity, la manifestazione promossa dal Comune di Milano che dal 2 al 7 marzo 2021 coinvolgerà oltre 90 musei. “I Musei curano la città” è il tema di questa edizione che sarà sviluppato con due iniziative per raccontare, attraverso percorsi virtuali e grazie ai materiali dell’Archivio Storico, lo stretto legame che unisce Pirelli alla città di Milano.

Tra le vie di Milano,
antiche ville, fabbriche e grattacieli

Itinerario virtuale online per bambini 8-11 anni
Sabato 6 marzo 2021 ore 14.30

Un percorso interattivo virtuale attraverso le strade di Milano per conoscere alcuni dei principali luoghi legati alla storia di Pirelli. Grazie a indovinelli, illustrazioni, fotografie e filmati di ieri e di oggi i bambini potranno creare una personale mappa che li porterà a scoprire i segreti del grattacielo Pirelli, e del nuovo Headquarters dell’azienda dove ha sede anche la Bicocca degli Arcimboldi, antichissima villa che dà il nome a un intero quartiere.

Durata dell’iniziativa: 50 minuti

 

L’impresa costruisce la città:
le architetture dell’industria a Milano

Tour virtuale online
Sabato 6 marzo 2021 ore 15.30

Un viaggio virtuale alla scoperta dei luoghi simbolo della storia di Pirelli a Milano, dal primo stabilimento in via Ponte Seveso al quartiere Bicocca, paradigma della trasformazione delle architetture industriali, da fabbrica di prodotti a fabbrica di idee e conoscenza. Ripercorreremo attraverso documenti inediti, filmati di repertorio, progetti, illustrazioni e fotografie originali conservate nel nostro Archivio Storico il legame tra l’azienda e la città di Milano.

Durata dell’iniziativa: 50 minuti

Per entrambi gli eventi la prenotazione è obbligatoria. Per iscriversi inviare un’e-mail all’indirizzo visite@fondazionepirelli.org

Tutte le informazioni dettagliate per la partecipazione agli eventi online saranno comunicate nella e-mail di conferma della prenotazione.

Le iscrizioni si chiuderanno martedì 2 marzo 2021

Sempre nell’ambito di MuseoCity 2021 Fondazione Pirelli, partecipa a Museo Segreto 2021, l’iniziativa volta a valorizzare opere meno conosciute dei musei e degli archivi della città.

Per evidenziare il contributo positivo che gli artisti e le diverse istituzioni hanno offerto alla comunità, Fondazione Pirelli propone la riscoperta delle fotografie del Museo Storico delle Industrie Pirelli, aperto nel 1922 nell’Headquarters dell’azienda a Milano Bicocca e rimasto attivo fino al secondo conflitto mondiale, uno dei primi esempi in città di museo storico aziendale.

Per vedere le immagini e conoscere la storia di questo museo clicca qui.

Anche quest’anno Fondazione Pirelli partecipa a Museocity, la manifestazione promossa dal Comune di Milano che dal 2 al 7 marzo 2021 coinvolgerà oltre 90 musei. “I Musei curano la città” è il tema di questa edizione che sarà sviluppato con due iniziative per raccontare, attraverso percorsi virtuali e grazie ai materiali dell’Archivio Storico, lo stretto legame che unisce Pirelli alla città di Milano.

Tra le vie di Milano,
antiche ville, fabbriche e grattacieli

Itinerario virtuale online per bambini 8-11 anni
Sabato 6 marzo 2021 ore 14.30

Un percorso interattivo virtuale attraverso le strade di Milano per conoscere alcuni dei principali luoghi legati alla storia di Pirelli. Grazie a indovinelli, illustrazioni, fotografie e filmati di ieri e di oggi i bambini potranno creare una personale mappa che li porterà a scoprire i segreti del grattacielo Pirelli, e del nuovo Headquarters dell’azienda dove ha sede anche la Bicocca degli Arcimboldi, antichissima villa che dà il nome a un intero quartiere.

Durata dell’iniziativa: 50 minuti

 

L’impresa costruisce la città:
le architetture dell’industria a Milano

Tour virtuale online
Sabato 6 marzo 2021 ore 15.30

Un viaggio virtuale alla scoperta dei luoghi simbolo della storia di Pirelli a Milano, dal primo stabilimento in via Ponte Seveso al quartiere Bicocca, paradigma della trasformazione delle architetture industriali, da fabbrica di prodotti a fabbrica di idee e conoscenza. Ripercorreremo attraverso documenti inediti, filmati di repertorio, progetti, illustrazioni e fotografie originali conservate nel nostro Archivio Storico il legame tra l’azienda e la città di Milano.

Durata dell’iniziativa: 50 minuti

Per entrambi gli eventi la prenotazione è obbligatoria. Per iscriversi inviare un’e-mail all’indirizzo visite@fondazionepirelli.org

Tutte le informazioni dettagliate per la partecipazione agli eventi online saranno comunicate nella e-mail di conferma della prenotazione.

Le iscrizioni si chiuderanno martedì 2 marzo 2021

Sempre nell’ambito di MuseoCity 2021 Fondazione Pirelli, partecipa a Museo Segreto 2021, l’iniziativa volta a valorizzare opere meno conosciute dei musei e degli archivi della città.

Per evidenziare il contributo positivo che gli artisti e le diverse istituzioni hanno offerto alla comunità, Fondazione Pirelli propone la riscoperta delle fotografie del Museo Storico delle Industrie Pirelli, aperto nel 1922 nell’Headquarters dell’azienda a Milano Bicocca e rimasto attivo fino al secondo conflitto mondiale, uno dei primi esempi in città di museo storico aziendale.

Per vedere le immagini e conoscere la storia di questo museo clicca qui.

Quale etica per quale impresa?

L’analisi critica e attenta del profitto quale scopo finale delle organizzazioni della produzione

Profitto prima di tutto. Dal quale poi discenderà anche altro. Sempre che la conduzione dell’impresa sia secondo etica e regole di buona convivenza civile. E’ la tesi che Franco Debenedetti – amministratore di diverse società ma soprattutto acuto osservatore della realtà dell’economia e non solo -, propone nel suo “Fare profitti. Etica dell’impresa” appena pubblicato. Un libro che raggiunge l’obiettivo: quello di far pensare e ragionare su un tema: le relazioni tra profitto d’impresa e ruolo della stessa all’interno della società d’oggi nella quale il capitalismo è nuovamente posto sotto i riflettori della critica.

Debenedetti ragiona nell’ambito del vasto argomento che mette insieme le regole della buona impresa con quelle dettate dalla constatazione dei molti problemi che il capitalismo pare generare. L’autore mette così a confronto il profitto come fine ultimo delle organizzazioni della produzione e gli altri scopi che a queste sempre di più vengono dati (quasi in maniera esclusiva). A partire dalla responsabilità sociale d’impresa. Tutto sulla traccia indicata da un anniversario, i cinquant’anni dalla pubblicazione di un celeberrimo articolo di Milton Friedman che scrisse: “L’unica vera responsabilità delle imprese è fare profitti”.

Debenedetti, in particolare, prende come punto focale del suo argomentare la società per azioni, ma quanto scrive è valido per l’insieme dell’attuale sistema dell’economia e della finanza.  E si chiede se, di fronte alla crisi ed ai problemi generati da questa, occorra buttare tutto all’aria. La risposta è chiara: l’impresa deve continuare ad essere tale, mentre per correggere le distorsioni occorrono certezza delle leggi e l’agire delle democrazie.

Il libro si legge quasi come un racconto. Ad iniziare dalla messa a punto del perché secondo l’autore fare profitti sia etica d’impresa, per passare alla messa a fuoco del perché fare profitti debba essere attività condotta nel rispetto delle regole fondamentali della società. Successivamente il libro ragiona sulle diseguaglianze in atto e quindi sulle caratteristiche più importanti dell’attuale sistema sociale: la connettività e la digitalizzazione delle relazioni. Tutto si chiude poi con un approfondimento relativo agli ultimi mesi toccati dalla pandemia di Covid-19, nei quali il ruolo delle imprese pare essere rivalutato e considerato.

Il libro di Franco Debenedetti è certamente da leggere con attenzione pur se scritto in modo denso e fitto. E’ un libro che fa pensare, non si è obbligati ad esser d’accordo con ogni sua riga, ma certamente si deve apprezzarne lo sforzo d’analisi e di interpretazione della storia e della realtà.

Fare profitti. Etica dell’impresa

Franco Debenedetti

Marsilio, 2021

L’analisi critica e attenta del profitto quale scopo finale delle organizzazioni della produzione

Profitto prima di tutto. Dal quale poi discenderà anche altro. Sempre che la conduzione dell’impresa sia secondo etica e regole di buona convivenza civile. E’ la tesi che Franco Debenedetti – amministratore di diverse società ma soprattutto acuto osservatore della realtà dell’economia e non solo -, propone nel suo “Fare profitti. Etica dell’impresa” appena pubblicato. Un libro che raggiunge l’obiettivo: quello di far pensare e ragionare su un tema: le relazioni tra profitto d’impresa e ruolo della stessa all’interno della società d’oggi nella quale il capitalismo è nuovamente posto sotto i riflettori della critica.

Debenedetti ragiona nell’ambito del vasto argomento che mette insieme le regole della buona impresa con quelle dettate dalla constatazione dei molti problemi che il capitalismo pare generare. L’autore mette così a confronto il profitto come fine ultimo delle organizzazioni della produzione e gli altri scopi che a queste sempre di più vengono dati (quasi in maniera esclusiva). A partire dalla responsabilità sociale d’impresa. Tutto sulla traccia indicata da un anniversario, i cinquant’anni dalla pubblicazione di un celeberrimo articolo di Milton Friedman che scrisse: “L’unica vera responsabilità delle imprese è fare profitti”.

Debenedetti, in particolare, prende come punto focale del suo argomentare la società per azioni, ma quanto scrive è valido per l’insieme dell’attuale sistema dell’economia e della finanza.  E si chiede se, di fronte alla crisi ed ai problemi generati da questa, occorra buttare tutto all’aria. La risposta è chiara: l’impresa deve continuare ad essere tale, mentre per correggere le distorsioni occorrono certezza delle leggi e l’agire delle democrazie.

Il libro si legge quasi come un racconto. Ad iniziare dalla messa a punto del perché secondo l’autore fare profitti sia etica d’impresa, per passare alla messa a fuoco del perché fare profitti debba essere attività condotta nel rispetto delle regole fondamentali della società. Successivamente il libro ragiona sulle diseguaglianze in atto e quindi sulle caratteristiche più importanti dell’attuale sistema sociale: la connettività e la digitalizzazione delle relazioni. Tutto si chiude poi con un approfondimento relativo agli ultimi mesi toccati dalla pandemia di Covid-19, nei quali il ruolo delle imprese pare essere rivalutato e considerato.

Il libro di Franco Debenedetti è certamente da leggere con attenzione pur se scritto in modo denso e fitto. E’ un libro che fa pensare, non si è obbligati ad esser d’accordo con ogni sua riga, ma certamente si deve apprezzarne lo sforzo d’analisi e di interpretazione della storia e della realtà.

Fare profitti. Etica dell’impresa

Franco Debenedetti

Marsilio, 2021

Imprese sociali, non solo profitto

Presso il Politecnico di Torino discussa una tesi che fa il punto sulle relazioni tra possibili diversi obiettivi delle organizzazioni della produzione

 

Non solo profitto tra gli obiettivi d’impresa. Concetto che pare ormai acquisito, ma che deve essere approfondito e ben circostanziato. Perché un’impresa che non sia in grado di reggersi da sola (e cioè far profitto), è destinata prima o poi a chiudere. E’ d’altra parte vero che da solo il profitto non basta più. Questione complessa, quindi, quella delle relazioni tra profitto e obiettivi delle organizzazioni della produzione. Questione che Elisa Tramontana affronta con “Analisi delle imprese a significativo impatto sociale: studio qualitativo con analisi dell’ecosistema”, tesi discussa presso il Collegio di Ingegneria Gestionale del Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Gestionale del Politecnico di Torino.

Tramontana ragiona partendo dalla constatazione di come negli ultimi tempi si stia “assistendo alla nascita ed alla diffusione di un nuovo paradigma economico che si affianca a quello consolidato in cui l’impresa, nucleo centrale, esiste per creare profitto”. E’ opinione di Tramontana che “l’eccesso di ricerca del profitto fine a sé stesso” si sia rivelato dannoso per il sistema economico. E’ l’emergere di esternalità negative ciò che ha messo in crisi il modello. Effetti deleteri per l’uomo nella sua integrità, per l’ambiente, per la società nel suo complesso. E’ per tentare di arginare questi effetti che nei diversi sistemi economici sono state introdotte misure diverse basate comunque su nuovi vincoli e nuove imposizioni fiscali.

“Negli ultimi anni – spiega però Elisa Tramontana  -, si è fatta sempre più strada una nuova visione dell’imprenditoria, che prende forma e si sviluppa nell’ambito della crescente rilevanza dell’innovazione sociale.”. E poi ancora: “In una declinazione di questo fenomeno, l’impresa fa parte di un processo volto alla creazione di valore che affianca alla ricerca del profitto il perseguimento di un beneficio per la società”.

E’ per indagare attorno a questa situazione che Tramontana prima analizza lungamente la letteratura a disposizione e, poi, passa ad approfondire l’atteggiamento e l’evoluzione delle nuove aziende innovative che si affacciano al mercato dell’imprenditoria sociale e che, per questo, hanno comunque un approccio più favorevole a coniugare il profitto con altri obiettivi d’impresa.

Elisa Tramontana ha condotto una ricerca interessante e rigorosa, che può contribuire ad aggiungere validi elementi di conoscenza per un tema ancora in evoluzione e definizione.

Analisi delle imprese a significativo impatto sociale: studio qualitativo con analisi dell’ecosistema

Elisa Tramontana

Tesi, Politecnico di Torino, Collegio di Ingegneria Gestionale Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Gestionale, 2020

Presso il Politecnico di Torino discussa una tesi che fa il punto sulle relazioni tra possibili diversi obiettivi delle organizzazioni della produzione

 

Non solo profitto tra gli obiettivi d’impresa. Concetto che pare ormai acquisito, ma che deve essere approfondito e ben circostanziato. Perché un’impresa che non sia in grado di reggersi da sola (e cioè far profitto), è destinata prima o poi a chiudere. E’ d’altra parte vero che da solo il profitto non basta più. Questione complessa, quindi, quella delle relazioni tra profitto e obiettivi delle organizzazioni della produzione. Questione che Elisa Tramontana affronta con “Analisi delle imprese a significativo impatto sociale: studio qualitativo con analisi dell’ecosistema”, tesi discussa presso il Collegio di Ingegneria Gestionale del Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Gestionale del Politecnico di Torino.

Tramontana ragiona partendo dalla constatazione di come negli ultimi tempi si stia “assistendo alla nascita ed alla diffusione di un nuovo paradigma economico che si affianca a quello consolidato in cui l’impresa, nucleo centrale, esiste per creare profitto”. E’ opinione di Tramontana che “l’eccesso di ricerca del profitto fine a sé stesso” si sia rivelato dannoso per il sistema economico. E’ l’emergere di esternalità negative ciò che ha messo in crisi il modello. Effetti deleteri per l’uomo nella sua integrità, per l’ambiente, per la società nel suo complesso. E’ per tentare di arginare questi effetti che nei diversi sistemi economici sono state introdotte misure diverse basate comunque su nuovi vincoli e nuove imposizioni fiscali.

“Negli ultimi anni – spiega però Elisa Tramontana  -, si è fatta sempre più strada una nuova visione dell’imprenditoria, che prende forma e si sviluppa nell’ambito della crescente rilevanza dell’innovazione sociale.”. E poi ancora: “In una declinazione di questo fenomeno, l’impresa fa parte di un processo volto alla creazione di valore che affianca alla ricerca del profitto il perseguimento di un beneficio per la società”.

E’ per indagare attorno a questa situazione che Tramontana prima analizza lungamente la letteratura a disposizione e, poi, passa ad approfondire l’atteggiamento e l’evoluzione delle nuove aziende innovative che si affacciano al mercato dell’imprenditoria sociale e che, per questo, hanno comunque un approccio più favorevole a coniugare il profitto con altri obiettivi d’impresa.

Elisa Tramontana ha condotto una ricerca interessante e rigorosa, che può contribuire ad aggiungere validi elementi di conoscenza per un tema ancora in evoluzione e definizione.

Analisi delle imprese a significativo impatto sociale: studio qualitativo con analisi dell’ecosistema

Elisa Tramontana

Tesi, Politecnico di Torino, Collegio di Ingegneria Gestionale Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Gestionale, 2020

Un governo “politico” di competenti per la ripresa
Addio propaganda: adesso bisognerà studiare

“La conoscenza e i suoi nemici”, di Tom Nichols, professore alla Harvard University, pubblicato dalla Oxford University Press nel 2017 e l’anno dopo, in Italia, dalla Luiss, ha animato per qualche tempo il discorso pubblico internazionale, su “l’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia”. Negli Usa di Trump e nel Regno Unito di Johnson, nell’Europa dei populismi e dei sovranismi insidiosi, il libro è stato letto, discusso, contestato ma anche e soprattutto apprezzato da parte di tutti coloro che non volevano cedere all’illusione dell’”uno vale uno” e alle contestazioni ignoranti contro le competenze. Adesso la portata devastante della crisi determinata dall’incrocio tra pandemia da Covid19 e recessione economica ha rafforzato la necessità di risposte serie e lungimiranti, per affrontare e provare a risolvere i grandi temi della salute, della sicurezza e dello sviluppo.

Si prende finalmente atto che il mondo è troppo complesso per essere ridotto a uno slogan, a un tweet, a un proclama da un balcone o a una chiacchiera da bar trasformata in atto di governo. E così finalmente si ritorna alla “conoscenza e ai suoi amici” e dunque a dare spazio e responsabilità a chi sa, sa fare e può fare del bene. Il governo Draghi ne è un chiaro esempio.

“Se ora è il popolo a volere un’élite”, ha scritto Antonio Polito sul “Corriere della Sera” (9 febbraio), documentando come “il sostegno a Draghi di quasi tutte le forze politiche è una conseguenza dell’ampio favore dei cittadini”. E il governo che ha giurato al Quirinale e adesso si presenta alle Camere ha un forte sogno di svolta rispetto al passato, ricco com’è di personalità di solida competenza, credibilità internazionale, capacità maturata nella gestione di problemi complessi, a cavallo tra l’economia, la pubblica amministrazione, la scienza, la ricerca, la cultura politecnica. Conoscenze e competenze che s’incrociano, costruiscono sintesi originali in grado di decrittare le nuove dimensioni del mondo, scrivono mappe aggiornate per governare realtà in radicale cambiamento, quasi una metamorfosi. Tutti i cosiddetti “tecnici” scelti dal presidente del Consiglio Draghi, con il sostegno del quirinale, hanno queste fondamentali caratteristiche.

Il governo Draghi non ha, naturalmente, la bacchetta magica. Né potrà rispondere a tutte le aspettative (perfino un po’ eccessive) maturate in questi giorni di entusiasmo per il cambiamento: è un gabinetto guidato da un riformista d’esperienza e dunque senza alcuna inclinazione alla palingenesi. Ma sappiamo fin d’ora che si muoverà scegliendo e decidendo, senza proclami né illusorie promesse.

Ora facciamo parlare i fatti”, ha detto il premier ai suoi ministri, durante la prima riunione di governo, sabato mattina. Nessun “faremo”. Piuttosto, ascolteremo gli “abbiamo fatto”. Il passo di un nuovo stile di guida del Paese, dopo anni di chiacchiere, passerelle vanitose, battute, comparsate in tv, inondazioni di twitt e post sui social media, furbe “location” e sovrabbondanza di eventi luccicosi, insomma trucchi di abile comunicazione per velare la povertà delle idee.

E’ uno stile che, naturalmente, rivela anche un cambio di sostanza: niente liste della spesa, con sussidi e contributi, ma un vero e proprio piano di azione per investire i 200 miliardi del Recovery Plan e gli altri fondi del bilancio della Ue e dello Stato, in modo da rimettere in movimento la macchina economica e sociale italiana inceppata dalla pandemia ma già in affanno da moltissimo tempo (la produttività è ferma da vent’anni).

Siamo di fronte, infatti, a un governo molto “politico”, che arriva dopo l’evidenza di una profonda e preoccupante incapacità dei partiti e dei movimenti organizzati (i 5Stelle) di portare l’Italia fuori dalla crisi. “Politico” nel senso delle esperienze e delle competenze delle personalità chiamate a guidare l’economia, la transizione ecologica e digitale, le infrastrutture, la giustizia e la sicurezza (tutti “tecnici” con una visione ampia dei problemi da affrontare, una visione appunto “politica”).

“Politico” perché deve definire e decidere “policy” e cioè indirizzi, progetti, programmi da tradurre in “politics”.

“Politico” perché, come ci hanno insegnato Max Weber e John Maynard Keynes, si muoverà secondo l’idea forte di un interesse generale del Paese: lo sviluppo sostenibile, l’ambiente, la scuola, il lavoro, l’abbattimento delle diseguaglianze di genere, il futuro per la “Next Generation” messa al centro dell’attenzione di tutta l’Europa: i nostri figli e nipoti.

Ecco perché, dopo gli anni dei mediocri e degli incompetenti e il loro fallimento come ceto di governo, tornano le élites: per farsi carico di una migliore condizione economica e sociale, di una più articolata e sicura navigazione della nostra democrazia.

Élites ma non casta. Piuttosto, un insieme di donne e uomini che hanno maturato, nel corso della loro storia di impegno professionale e civile (basta leggerne le biografie, per trovarne ampio riscontro) un forte senso di responsabilità da classe dirigente, una acuta consapevolezza dell’intreccio dei diritti e dei doveri, la consapevolezza dell’urgenza, proprio nella notte della crisi, di ritessere la trama del destino generale di un’Italia che merita molto di più di quanto le sue rappresentanze politiche siano state finora in grado di darle. Tutt’altro che gli “uomini nuovi” carichi di ambizioni personali e generosi di illusioni che hanno animato una troppo lunga stagione della recente storia italiana.

Semmai, ecco un insieme di personalità che ricordano i grandi civil servants alla Ciampi e alla Carli, i banchieri alla Raffaele Mattioli, gli uomini d’impresa come Olivetti, Agnelli, Pirelli e Mattei, gli scienziati come Giulio Natta e Rita Levi Montalcini che hanno saputo fare rinascere questo Paese dopo il disastro del fascismo e della guerra e farlo crescere nelle nuove dinamiche della democrazia liberale e dello sviluppo.

Un governo di competenti, ma non di tecnocrati. Ha colto bene il punto Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, quando ha avvertito i suoi colleghi sindacalisti: adesso bisognerà studiare. Poca propaganda, molta concretezza.

Le caratteristiche e le qualità della squadra guidata da Mario Draghi interpellano direttamente anche le rappresentanze sociali, le organizzazioni dell’impresa e del lavoro, chiedendo un linguaggio migliore e più in sintonia con le sfide che ci tocca affrontare e una maggiore e migliore pertinenza nelle analisi e nelle proposte. Stare ai fatti, guardare agli interessi di parte ma solo nell’orizzonte dell’interesse generale, approfondire i dossier dei problemi e avanzare proposte concrete. Come peraltro è già successo negli snodi cruciali, nelle pagine più drammatiche della nostra storia.

Nell’immediato dopoguerra, quando il presidente della Confindustria Costa e il segretario della Cgil Di Vittorio trovarono l’accordo su “prima le fabbriche e poi le case”, per fare ripartire il Paese, davanti all’impegno del governo guidato da Alcide De Gasperi. Poi negli anni bui del terrorismo e delle drammatiche tensioni politiche e sociali, con i dialoghi tra Gianni Agnelli per le imprese e Luciano Lama per le organizzazioni dei lavoratori. Con la “concertazione” di Carlo Azeglio Ciampi dopo quel drammatico 1992 all’incrocio tra crisi politica (Tangentopoli), finanziaria (il crollo della lira) e istituzionale (le stragi mafiose contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino). E con le intese generali per entrare nell’euro.

Anche adesso, è tempo di svolte e intese lungimiranti, di un impegno comune sullo sviluppo e la sicurezza, nella grande prospettiva europea. Un passaggio drammatico, eppur carico di speranze, proprio grazie al senso di responsabilità mostrato dal Quirinale e dai nuovi abitanti di Palazzo Chigi. E a quello che sapranno fare gli italiani.

Fuori dalle angustie del populismo, bisogna sentirsi di nuovo cittadini. Saper essere persone, non gente. Assumere la consapevolezza che non si è più pubblico degli show del potere e nemmeno soltanto consumatori. Cittadini consapevoli, appunto. D’altronde, non avevamo dato ragione a Francesco De Gregori, in una delle sue più struggenti e civili canzoni? “La storia siamo noi”.

“La conoscenza e i suoi nemici”, di Tom Nichols, professore alla Harvard University, pubblicato dalla Oxford University Press nel 2017 e l’anno dopo, in Italia, dalla Luiss, ha animato per qualche tempo il discorso pubblico internazionale, su “l’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia”. Negli Usa di Trump e nel Regno Unito di Johnson, nell’Europa dei populismi e dei sovranismi insidiosi, il libro è stato letto, discusso, contestato ma anche e soprattutto apprezzato da parte di tutti coloro che non volevano cedere all’illusione dell’”uno vale uno” e alle contestazioni ignoranti contro le competenze. Adesso la portata devastante della crisi determinata dall’incrocio tra pandemia da Covid19 e recessione economica ha rafforzato la necessità di risposte serie e lungimiranti, per affrontare e provare a risolvere i grandi temi della salute, della sicurezza e dello sviluppo.

Si prende finalmente atto che il mondo è troppo complesso per essere ridotto a uno slogan, a un tweet, a un proclama da un balcone o a una chiacchiera da bar trasformata in atto di governo. E così finalmente si ritorna alla “conoscenza e ai suoi amici” e dunque a dare spazio e responsabilità a chi sa, sa fare e può fare del bene. Il governo Draghi ne è un chiaro esempio.

“Se ora è il popolo a volere un’élite”, ha scritto Antonio Polito sul “Corriere della Sera” (9 febbraio), documentando come “il sostegno a Draghi di quasi tutte le forze politiche è una conseguenza dell’ampio favore dei cittadini”. E il governo che ha giurato al Quirinale e adesso si presenta alle Camere ha un forte sogno di svolta rispetto al passato, ricco com’è di personalità di solida competenza, credibilità internazionale, capacità maturata nella gestione di problemi complessi, a cavallo tra l’economia, la pubblica amministrazione, la scienza, la ricerca, la cultura politecnica. Conoscenze e competenze che s’incrociano, costruiscono sintesi originali in grado di decrittare le nuove dimensioni del mondo, scrivono mappe aggiornate per governare realtà in radicale cambiamento, quasi una metamorfosi. Tutti i cosiddetti “tecnici” scelti dal presidente del Consiglio Draghi, con il sostegno del quirinale, hanno queste fondamentali caratteristiche.

Il governo Draghi non ha, naturalmente, la bacchetta magica. Né potrà rispondere a tutte le aspettative (perfino un po’ eccessive) maturate in questi giorni di entusiasmo per il cambiamento: è un gabinetto guidato da un riformista d’esperienza e dunque senza alcuna inclinazione alla palingenesi. Ma sappiamo fin d’ora che si muoverà scegliendo e decidendo, senza proclami né illusorie promesse.

Ora facciamo parlare i fatti”, ha detto il premier ai suoi ministri, durante la prima riunione di governo, sabato mattina. Nessun “faremo”. Piuttosto, ascolteremo gli “abbiamo fatto”. Il passo di un nuovo stile di guida del Paese, dopo anni di chiacchiere, passerelle vanitose, battute, comparsate in tv, inondazioni di twitt e post sui social media, furbe “location” e sovrabbondanza di eventi luccicosi, insomma trucchi di abile comunicazione per velare la povertà delle idee.

E’ uno stile che, naturalmente, rivela anche un cambio di sostanza: niente liste della spesa, con sussidi e contributi, ma un vero e proprio piano di azione per investire i 200 miliardi del Recovery Plan e gli altri fondi del bilancio della Ue e dello Stato, in modo da rimettere in movimento la macchina economica e sociale italiana inceppata dalla pandemia ma già in affanno da moltissimo tempo (la produttività è ferma da vent’anni).

Siamo di fronte, infatti, a un governo molto “politico”, che arriva dopo l’evidenza di una profonda e preoccupante incapacità dei partiti e dei movimenti organizzati (i 5Stelle) di portare l’Italia fuori dalla crisi. “Politico” nel senso delle esperienze e delle competenze delle personalità chiamate a guidare l’economia, la transizione ecologica e digitale, le infrastrutture, la giustizia e la sicurezza (tutti “tecnici” con una visione ampia dei problemi da affrontare, una visione appunto “politica”).

“Politico” perché deve definire e decidere “policy” e cioè indirizzi, progetti, programmi da tradurre in “politics”.

“Politico” perché, come ci hanno insegnato Max Weber e John Maynard Keynes, si muoverà secondo l’idea forte di un interesse generale del Paese: lo sviluppo sostenibile, l’ambiente, la scuola, il lavoro, l’abbattimento delle diseguaglianze di genere, il futuro per la “Next Generation” messa al centro dell’attenzione di tutta l’Europa: i nostri figli e nipoti.

Ecco perché, dopo gli anni dei mediocri e degli incompetenti e il loro fallimento come ceto di governo, tornano le élites: per farsi carico di una migliore condizione economica e sociale, di una più articolata e sicura navigazione della nostra democrazia.

Élites ma non casta. Piuttosto, un insieme di donne e uomini che hanno maturato, nel corso della loro storia di impegno professionale e civile (basta leggerne le biografie, per trovarne ampio riscontro) un forte senso di responsabilità da classe dirigente, una acuta consapevolezza dell’intreccio dei diritti e dei doveri, la consapevolezza dell’urgenza, proprio nella notte della crisi, di ritessere la trama del destino generale di un’Italia che merita molto di più di quanto le sue rappresentanze politiche siano state finora in grado di darle. Tutt’altro che gli “uomini nuovi” carichi di ambizioni personali e generosi di illusioni che hanno animato una troppo lunga stagione della recente storia italiana.

Semmai, ecco un insieme di personalità che ricordano i grandi civil servants alla Ciampi e alla Carli, i banchieri alla Raffaele Mattioli, gli uomini d’impresa come Olivetti, Agnelli, Pirelli e Mattei, gli scienziati come Giulio Natta e Rita Levi Montalcini che hanno saputo fare rinascere questo Paese dopo il disastro del fascismo e della guerra e farlo crescere nelle nuove dinamiche della democrazia liberale e dello sviluppo.

Un governo di competenti, ma non di tecnocrati. Ha colto bene il punto Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, quando ha avvertito i suoi colleghi sindacalisti: adesso bisognerà studiare. Poca propaganda, molta concretezza.

Le caratteristiche e le qualità della squadra guidata da Mario Draghi interpellano direttamente anche le rappresentanze sociali, le organizzazioni dell’impresa e del lavoro, chiedendo un linguaggio migliore e più in sintonia con le sfide che ci tocca affrontare e una maggiore e migliore pertinenza nelle analisi e nelle proposte. Stare ai fatti, guardare agli interessi di parte ma solo nell’orizzonte dell’interesse generale, approfondire i dossier dei problemi e avanzare proposte concrete. Come peraltro è già successo negli snodi cruciali, nelle pagine più drammatiche della nostra storia.

Nell’immediato dopoguerra, quando il presidente della Confindustria Costa e il segretario della Cgil Di Vittorio trovarono l’accordo su “prima le fabbriche e poi le case”, per fare ripartire il Paese, davanti all’impegno del governo guidato da Alcide De Gasperi. Poi negli anni bui del terrorismo e delle drammatiche tensioni politiche e sociali, con i dialoghi tra Gianni Agnelli per le imprese e Luciano Lama per le organizzazioni dei lavoratori. Con la “concertazione” di Carlo Azeglio Ciampi dopo quel drammatico 1992 all’incrocio tra crisi politica (Tangentopoli), finanziaria (il crollo della lira) e istituzionale (le stragi mafiose contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino). E con le intese generali per entrare nell’euro.

Anche adesso, è tempo di svolte e intese lungimiranti, di un impegno comune sullo sviluppo e la sicurezza, nella grande prospettiva europea. Un passaggio drammatico, eppur carico di speranze, proprio grazie al senso di responsabilità mostrato dal Quirinale e dai nuovi abitanti di Palazzo Chigi. E a quello che sapranno fare gli italiani.

Fuori dalle angustie del populismo, bisogna sentirsi di nuovo cittadini. Saper essere persone, non gente. Assumere la consapevolezza che non si è più pubblico degli show del potere e nemmeno soltanto consumatori. Cittadini consapevoli, appunto. D’altronde, non avevamo dato ragione a Francesco De Gregori, in una delle sue più struggenti e civili canzoni? “La storia siamo noi”.

“Un collaudo senza precedenti”:
la Itala gommata Pirelli di Scipione Borghese
alla Pechino-Parigi del 1907

Il 31 gennaio 1907 il quotidiano francese “Le matin” pubblica uno stravagante annuncio: “C’è qualcuno che accetti di andare, nell’estate prossima, da Pechino a Parigi in automobile?” Alla sfida rispondono in venticinque, ma a presentarsi a Pechino, il 10 giugno, sono solo in cinque: un triciclo Contal da sei cavalli e due De Diou-Bouton da dieci cavalli, con equipaggio francese, una Spyker da 15 cavalli con equipaggio olandese e una Itala da 40 cavalli con equipaggio italiano, composto dal principe Scipione Borghese, dal meccanico e chauffeur Ettore Guizzardi e dal giornalista del “Corriere della Sera” Luigi Barzini. Alpinista e viaggiatore nato a Castello di Migliarino, in provincia di  Pisa, l’11 febbraio 1871, da Paolo Borghese, IX principe di Sulmona, e dalla contessa ungherese Ilona Apponyi, nel 1900 Borghese compie un viaggio dal Golfo Persico al Pacifico, attraversando Siria, Mesopotamia e Persia. Eletto deputato nel 1904, fonda l’anno seguente la rivista politica “Lo Spettatore”. Appassionato di automobili, nel 1907 decide di partecipare all’impresa della Pechino-Parigi. Come ricorda egli stesso nell’introduzione al libro scritto da Luigi Barzini al termine del viaggio – intitolato La metà del mondo vista da un’automobile – “quando io rilevai la sfida del Matin avevo dinanzi agli occhi questo scopo: dimostrare che l’automobile di buona fabbricazione, condotta con prudenza e con cura, è capace di sostituire, praticamente, nei lunghi viaggi, con o senza strade, la trazione animale. […] E la Pechino-Parigi mi diede ragione”.

Contrariamente agli avversari, Scipione Borghese sceglie una vettura di grande potenza e molto pesante – 2.000 kg mentre la più pesante delle altre vetture, la Spyker, ne pesa 1.400 – convinto, grazie alla sua esperienza, che avrebbe potuto sopportare meglio le difficoltà di una tale traversata. Il principe tiene a che tutto sia di fabbricazione italiana e i pneumatici vengono richiesti alla Pirelli: del massimo diametro, per offrire una maggiore resistenza agli affondamenti, e delle stesse dimensioni per le ruote anteriori e per quelle posteriori, in modo da facilitare i cambi. La Pirelli, dopo l’avvio nel 1890 della produzione di pneumatici per bicicletta, inizia la produzione sperimentale di “guarniture pneumatiche per automobili” nel 1899. Pur trattandosi di un ramo derivato da quello dei pneumatici per bicicletta, le difficoltà tecniche da superare sono molte, dovendo stare al passo con i continui progressi raggiunti dalle auto, delle quali il pneumatico è considerato il “tallone d’Achille”. Dopo anni di ricerca e diversi brevetti, nel 1905 la produzione di pneumatici Pirelli esce dalla fase sperimentale e il successo ottenuto nelle condizioni estreme della Pechino-Parigi sancisce di fronte a tutto il mondo la loro qualità. Ricorda Borghese: “L’Itala ha compiuto senza usure anormali il lungo tragitto su strade quasi sempre cattive, spesso pessime, in condizioni di clima e di temperatura nelle quali tutto l’organismo meccanco era messo a durissimo cimento […]. Tutte le parti […] erano messe alla prova ad oltranza. Fu un collaudo senza precedenti”.

Il principe studia meticolosamente il percorso, che avrebbe attraversato la Mongolia e la Siberia, grazie ad alcuni passi sufficientemente ampi per il passaggio delle automobili, e organizza la parte logistica senza lasciare nulla al caso. A bordo è possibile incamerare trecento chili di benzina e cento di olio, sufficienti a percorrere circa mille chilometri. Lungo il percorso vengono posizionati i rifornimenti – a distanze studiate in modo da riempire completamente il carico della vettura – e dalla Pirelli vengono inviati i pneumatici alle tappe prestabilite. Ma il cambio si rende necessario pochissime volte e la Itala giunge per prima a Parigi il 10 agosto 1907 avendo utilizzato in tutto, su un percorso di 16.000 chilometri, sedici pneumatici, dei quali i quattro con cui arriva a destinazione sono in grado di compiere ancora molta strada, tanto che a bordo della Itala Borghese prosegue il viaggio fino a Milano. Un risultato eccellente, del quale Scipione Borghese si congratula personalmente con Giovanni Battista Pirelli, e che proietta l’azienda in una lunga storia di successi sportivi.

Il 31 gennaio 1907 il quotidiano francese “Le matin” pubblica uno stravagante annuncio: “C’è qualcuno che accetti di andare, nell’estate prossima, da Pechino a Parigi in automobile?” Alla sfida rispondono in venticinque, ma a presentarsi a Pechino, il 10 giugno, sono solo in cinque: un triciclo Contal da sei cavalli e due De Diou-Bouton da dieci cavalli, con equipaggio francese, una Spyker da 15 cavalli con equipaggio olandese e una Itala da 40 cavalli con equipaggio italiano, composto dal principe Scipione Borghese, dal meccanico e chauffeur Ettore Guizzardi e dal giornalista del “Corriere della Sera” Luigi Barzini. Alpinista e viaggiatore nato a Castello di Migliarino, in provincia di  Pisa, l’11 febbraio 1871, da Paolo Borghese, IX principe di Sulmona, e dalla contessa ungherese Ilona Apponyi, nel 1900 Borghese compie un viaggio dal Golfo Persico al Pacifico, attraversando Siria, Mesopotamia e Persia. Eletto deputato nel 1904, fonda l’anno seguente la rivista politica “Lo Spettatore”. Appassionato di automobili, nel 1907 decide di partecipare all’impresa della Pechino-Parigi. Come ricorda egli stesso nell’introduzione al libro scritto da Luigi Barzini al termine del viaggio – intitolato La metà del mondo vista da un’automobile – “quando io rilevai la sfida del Matin avevo dinanzi agli occhi questo scopo: dimostrare che l’automobile di buona fabbricazione, condotta con prudenza e con cura, è capace di sostituire, praticamente, nei lunghi viaggi, con o senza strade, la trazione animale. […] E la Pechino-Parigi mi diede ragione”.

Contrariamente agli avversari, Scipione Borghese sceglie una vettura di grande potenza e molto pesante – 2.000 kg mentre la più pesante delle altre vetture, la Spyker, ne pesa 1.400 – convinto, grazie alla sua esperienza, che avrebbe potuto sopportare meglio le difficoltà di una tale traversata. Il principe tiene a che tutto sia di fabbricazione italiana e i pneumatici vengono richiesti alla Pirelli: del massimo diametro, per offrire una maggiore resistenza agli affondamenti, e delle stesse dimensioni per le ruote anteriori e per quelle posteriori, in modo da facilitare i cambi. La Pirelli, dopo l’avvio nel 1890 della produzione di pneumatici per bicicletta, inizia la produzione sperimentale di “guarniture pneumatiche per automobili” nel 1899. Pur trattandosi di un ramo derivato da quello dei pneumatici per bicicletta, le difficoltà tecniche da superare sono molte, dovendo stare al passo con i continui progressi raggiunti dalle auto, delle quali il pneumatico è considerato il “tallone d’Achille”. Dopo anni di ricerca e diversi brevetti, nel 1905 la produzione di pneumatici Pirelli esce dalla fase sperimentale e il successo ottenuto nelle condizioni estreme della Pechino-Parigi sancisce di fronte a tutto il mondo la loro qualità. Ricorda Borghese: “L’Itala ha compiuto senza usure anormali il lungo tragitto su strade quasi sempre cattive, spesso pessime, in condizioni di clima e di temperatura nelle quali tutto l’organismo meccanco era messo a durissimo cimento […]. Tutte le parti […] erano messe alla prova ad oltranza. Fu un collaudo senza precedenti”.

Il principe studia meticolosamente il percorso, che avrebbe attraversato la Mongolia e la Siberia, grazie ad alcuni passi sufficientemente ampi per il passaggio delle automobili, e organizza la parte logistica senza lasciare nulla al caso. A bordo è possibile incamerare trecento chili di benzina e cento di olio, sufficienti a percorrere circa mille chilometri. Lungo il percorso vengono posizionati i rifornimenti – a distanze studiate in modo da riempire completamente il carico della vettura – e dalla Pirelli vengono inviati i pneumatici alle tappe prestabilite. Ma il cambio si rende necessario pochissime volte e la Itala giunge per prima a Parigi il 10 agosto 1907 avendo utilizzato in tutto, su un percorso di 16.000 chilometri, sedici pneumatici, dei quali i quattro con cui arriva a destinazione sono in grado di compiere ancora molta strada, tanto che a bordo della Itala Borghese prosegue il viaggio fino a Milano. Un risultato eccellente, del quale Scipione Borghese si congratula personalmente con Giovanni Battista Pirelli, e che proietta l’azienda in una lunga storia di successi sportivi.

Multimedia

Images

Social media d’impresa

In una tesi discussa alla Cattolica di Milano, la fotografia delle relazioni delle aziende con una parte importante del web

 

Immagine d’impresa e strumenti digitali con i quali diffonderla insieme alla sua attività. Traguardo ormai raggiunto da gran parte delle aziende. Eppure, traguardo ancora tutto da esplorare e comprendere. E’ quanto ha provato a fare Glenda Corbo con “Social Media e imprese: stato dell’arte e implicazioni psicologiche”, il suo lavoro di tesi discusso all’Università Cattolica del Sacro Cuore, che, come indica lo stesso titolo, prende in considerazione le relazioni tra i social media e le organizzazioni della produzione.

Corbo spiega che l’idea della ricerca è nata a partire dall’interesse personale per i Social Media (SM) e il loro utilizzo da parte delle imprese. L’indagine ragiona quindi partendo dalla constatazione che l’uso di queste tecnologie è determinato da diverse strategie di gestione, che a loro volta provocano un impatto positivo sulla produttività, sulla competitività e sulle prestazioni innovative. D’altro canto, dice Corbo, i SM sono diventati uno strumento per comunicare e interagire con i clienti a costi inferiori e in modo più efficace rispetto ai canali tradizionali.

La base conoscitiva della tesi è quindi la constatazione che nella generalità dei casi gli scopi per i quali si utilizzano i social media possono essere diversi: sviluppare l’immagine aziendale, rispondere ai clienti, collaborare con altre aziende, reclutare e scambiare opinioni. Il lavoro di Glenda Corbo, tuttavia, si concentra sugli aspetti economici e psicologici della presenza dei SM nelle imprese.

In concreto, l’indagine prende quindi le mosse da una fotografia del livello attuale di uso dei SM da parte delle imprese europee partendo da macro-dati provenienti da una indagine Eurostat. In un secondo capitolo, Corbo cerca di comprendere quali siano le variabili psicologiche che spingono gli imprenditori verso l’utilizzo dei SM. Nel terzo capitolo, l’attenzione è invece poste sulle strategie di web marketing.

La ricerca di Glenda Corbo ha la caratteristica di concentrare in uno spazio limitato una serie di informazioni utili a delineare il quadro delle relazioni tra i SM e la generalità delle imprese italiane ed europee. Una buona base di conoscenza di una parte dell’attuale assetto economico e produttivo che deve essere conosciuta meglio per capire di più l’evoluzione dell’attuale rete d’imprese.

Social Media e imprese: stato dell’arte e implicazioni psicologiche

Glenda Corbo

Tesi, Università Cattolica del sacro Cuore, Milano, 2020-2021

In una tesi discussa alla Cattolica di Milano, la fotografia delle relazioni delle aziende con una parte importante del web

 

Immagine d’impresa e strumenti digitali con i quali diffonderla insieme alla sua attività. Traguardo ormai raggiunto da gran parte delle aziende. Eppure, traguardo ancora tutto da esplorare e comprendere. E’ quanto ha provato a fare Glenda Corbo con “Social Media e imprese: stato dell’arte e implicazioni psicologiche”, il suo lavoro di tesi discusso all’Università Cattolica del Sacro Cuore, che, come indica lo stesso titolo, prende in considerazione le relazioni tra i social media e le organizzazioni della produzione.

Corbo spiega che l’idea della ricerca è nata a partire dall’interesse personale per i Social Media (SM) e il loro utilizzo da parte delle imprese. L’indagine ragiona quindi partendo dalla constatazione che l’uso di queste tecnologie è determinato da diverse strategie di gestione, che a loro volta provocano un impatto positivo sulla produttività, sulla competitività e sulle prestazioni innovative. D’altro canto, dice Corbo, i SM sono diventati uno strumento per comunicare e interagire con i clienti a costi inferiori e in modo più efficace rispetto ai canali tradizionali.

La base conoscitiva della tesi è quindi la constatazione che nella generalità dei casi gli scopi per i quali si utilizzano i social media possono essere diversi: sviluppare l’immagine aziendale, rispondere ai clienti, collaborare con altre aziende, reclutare e scambiare opinioni. Il lavoro di Glenda Corbo, tuttavia, si concentra sugli aspetti economici e psicologici della presenza dei SM nelle imprese.

In concreto, l’indagine prende quindi le mosse da una fotografia del livello attuale di uso dei SM da parte delle imprese europee partendo da macro-dati provenienti da una indagine Eurostat. In un secondo capitolo, Corbo cerca di comprendere quali siano le variabili psicologiche che spingono gli imprenditori verso l’utilizzo dei SM. Nel terzo capitolo, l’attenzione è invece poste sulle strategie di web marketing.

La ricerca di Glenda Corbo ha la caratteristica di concentrare in uno spazio limitato una serie di informazioni utili a delineare il quadro delle relazioni tra i SM e la generalità delle imprese italiane ed europee. Una buona base di conoscenza di una parte dell’attuale assetto economico e produttivo che deve essere conosciuta meglio per capire di più l’evoluzione dell’attuale rete d’imprese.

Social Media e imprese: stato dell’arte e implicazioni psicologiche

Glenda Corbo

Tesi, Università Cattolica del sacro Cuore, Milano, 2020-2021

Cultura del lavoro

Appena pubblicato un libro che cerca di unire buona impresa e buona attività lavorativa, organizzazione della produzione e persone

Cultura del produrre e cultura del lavorare. Entrambe senza limiti, ma da coltivare con misura e avvedutezza. Culture responsabili, dunque. Che possono far del bene anche ben al di là dei loro perimetri consueti d’azione. Culture che, tuttavia, vanno ben assimilate e prima ancora comprese per coglierne tutti gli aspetti possibili. E’ quanto hanno cercato di fare – sul fronte del lavoro – Eva Giudicatti (consulente ed esperta di culture organizzative) e Marco Grazioli (presidente di The European House-Ambrosetti) nell’interessante libro “Il lavoro non ha età. Stili vocazionali e leadership in azione” appena pubblicato.

La base del ragionamento di Giudicatti (sostenuto da una serie di contributi di Grazioli) è la constatazione, come recita anche il titolo del libro, che il lavoro non ha età e che la sua motivazione non dipende dall’età anagrafica ma da molteplici fattori biografici e culturali, combinati al legame tra il singolo e l’organizzazione. Alchimia particolare, dunque, quella che avvicina prima e combina poi la persona all’impresa per tramite, appunto, del lavoro. I due ne esplorano caratteristiche e tendenze per arrivare così ad individuare 8 stili di approccio al lavoro a loro volta espressione di differenti assetti motivazionali. Vengono così messi a punto dei modelli che possono fornire a chi legge “occhiali” particolari con i quali mettere a fuoco comportamenti, scelte e aspettative dei lavoratori. Modelli che, tra l’altro, paiono più che utili in un periodo complesso e incerto come quello che si sta attraversando.

Nel dettaglio, il libro inizia con una istantanea delle relazioni tra lavoro e organizzazioni per poi proseguire con una serie di approfondimenti delle motivazioni al lavoro e quindi arrivare ad analizzare gli stili di lavoro attualmente presenti (con attenzione particolare all’Italia). Si arriva così all’indicazione degli 8 stili lavorativi, ognuno individuato da nomi evocativi e non consueti che ne caratterizzano tratti e contenuti. Nomi che vale la pena riportare: “Eroi in tutte le stagioni”, “Salvatori del mondo”, “Ingegneri sociali”, “Artigiani del possibile”, “Controllori della sorte”, “Seminatori di abbondanza”, “Maghi dell’organizzazione”, “Guerrieri della conoscenza”.

Tutto, nel libro di Giudicatti (e Grazioli), serve per dimostrare quanta cura occorra nel mettere mano alla costruzione di proficui (non solo dal punto  di vista economico) rapporti di lavoro. Leggere il libro che racconta di questo intento, non è sempre facile e lineare, ma è certamente utile. Per tutti.

Il lavoro non ha età. Stili vocazionali e leadership in azione

Eva Giudicatti

Guerini Next, 2021

Appena pubblicato un libro che cerca di unire buona impresa e buona attività lavorativa, organizzazione della produzione e persone

Cultura del produrre e cultura del lavorare. Entrambe senza limiti, ma da coltivare con misura e avvedutezza. Culture responsabili, dunque. Che possono far del bene anche ben al di là dei loro perimetri consueti d’azione. Culture che, tuttavia, vanno ben assimilate e prima ancora comprese per coglierne tutti gli aspetti possibili. E’ quanto hanno cercato di fare – sul fronte del lavoro – Eva Giudicatti (consulente ed esperta di culture organizzative) e Marco Grazioli (presidente di The European House-Ambrosetti) nell’interessante libro “Il lavoro non ha età. Stili vocazionali e leadership in azione” appena pubblicato.

La base del ragionamento di Giudicatti (sostenuto da una serie di contributi di Grazioli) è la constatazione, come recita anche il titolo del libro, che il lavoro non ha età e che la sua motivazione non dipende dall’età anagrafica ma da molteplici fattori biografici e culturali, combinati al legame tra il singolo e l’organizzazione. Alchimia particolare, dunque, quella che avvicina prima e combina poi la persona all’impresa per tramite, appunto, del lavoro. I due ne esplorano caratteristiche e tendenze per arrivare così ad individuare 8 stili di approccio al lavoro a loro volta espressione di differenti assetti motivazionali. Vengono così messi a punto dei modelli che possono fornire a chi legge “occhiali” particolari con i quali mettere a fuoco comportamenti, scelte e aspettative dei lavoratori. Modelli che, tra l’altro, paiono più che utili in un periodo complesso e incerto come quello che si sta attraversando.

Nel dettaglio, il libro inizia con una istantanea delle relazioni tra lavoro e organizzazioni per poi proseguire con una serie di approfondimenti delle motivazioni al lavoro e quindi arrivare ad analizzare gli stili di lavoro attualmente presenti (con attenzione particolare all’Italia). Si arriva così all’indicazione degli 8 stili lavorativi, ognuno individuato da nomi evocativi e non consueti che ne caratterizzano tratti e contenuti. Nomi che vale la pena riportare: “Eroi in tutte le stagioni”, “Salvatori del mondo”, “Ingegneri sociali”, “Artigiani del possibile”, “Controllori della sorte”, “Seminatori di abbondanza”, “Maghi dell’organizzazione”, “Guerrieri della conoscenza”.

Tutto, nel libro di Giudicatti (e Grazioli), serve per dimostrare quanta cura occorra nel mettere mano alla costruzione di proficui (non solo dal punto  di vista economico) rapporti di lavoro. Leggere il libro che racconta di questo intento, non è sempre facile e lineare, ma è certamente utile. Per tutti.

Il lavoro non ha età. Stili vocazionali e leadership in azione

Eva Giudicatti

Guerini Next, 2021

L’impegno di Draghi per la scuola e il ricordo del riformismo del suo maestro Federico Caffè

Nella stagione dell’economia della conoscenza e della competizione internazionale basata su qualità e innovazione, la risorsa fondamentale su cui insistere sono le persone, il “capitale umano” di un paese che ha grande cura anche del suo “capitale sociale”, le relazioni positive fra i valori di una comunità aperta, la responsabilità civile, l’intraprendenza, l’impegno per i beni comuni, la solidarietà. Un nuovo, ambizioso orizzonte politico e culturale. Mario Draghi, incaricato di formare un nuovo governo per tirarci fuori dalla crisi tra pandemia e recessione, lo sa bene, come dimostrano le cose scritte e fatte nel corso degli anni, con intelligenza, lungimiranza, capacità di fare. Ha chiaro, per esempio, che il Recovery Fund, ha un obiettivo prioritario, verso cui muoversi con rapidità ed efficacia: la Next Generation, i nostri figli e nipoti, per i quali costruire condizioni migliori di sviluppo sostenibile. E i due valori di fondo cui inspirare le scelte di investimento, green economy e digital economy, sono assolutamente coerenti con questa prospettiva.

Riforme, dunque, per spendere bene i 209 miliardi: pubblica amministrazione, fisco, giustizia, scuola, lavoro, welfare. E investimenti sulle infrastrutture, tecnologiche e materiali, in linea con le strategie di sviluppo sostenibile. Né sussidi né protezioni settoriali, dunque. Semmai, iniziative per creare un ambiente favorevole alla crescita competitiva delle imprese, alla produttività. Una politica economica in cui, keynesianamente, lo Stato incide sui processi che migliorano le condizioni economiche generali e la qualità della vita delle persone e stimola le imprese private perché siano creative, innovative, competitive. Secondo Draghi, serve un “piano di coesione sociale” e di sviluppo economico. La sfida non solo per il nuovo governo ma soprattutto per l’Italia.

“Istruzione e capitale umano: saranno i giovani il vero partito di Draghi”, ha notato giustamente Alberto Orioli su “Il Sole24Ore” (6 febbraio). “Il capitale umano da tutelare: giovani, donne, formazione”, ha precisato Ferruccio de Bortoli sul “Corriere della Sera”, parlando di priorità programmatiche (7 febbraio). “Il futuro dei giovani”, ha raccomandato Elsa Fornero, contro “i divari geografici, generazionali e di genere, la scarsa mobilità sociale, l’insufficiente valorizzazione dell’istruzione, della formazione professionale e della ricerca, lo scarso riconoscimento del merito”.

Chi ha avuto l’accortezza e la pazienza di rileggere i discorsi e gli interventi pubblici di Mario Draghi, da Governatore della Banca d’Italia, poi da presidente della Bce e, in tempi recenti, dismessa ogni carica da civil servant, da cittadino sensibile ai nodi sociali e alle necessità di adeguate risposte politiche, ha trovato riferimenti chiari su cui riflettere, con la consapevolezza che ce li ritroveremo nei programmi di governo.

“I giovani – aveva detto in un discorso del settembre 2017 al Trinity College di Dublino – non vogliono vivere di sussidi. Vogliono lavorare e accrescere le opportunità della loro vita”. E l’impegno di chi governa è fare fronte, responsabilmente “a un’eredità di speranze deluse, rabbia e, in definitiva, sfiducia nei valori della nostra società e nell’identità della democrazia”. Fiducia da ricostruire, senza “alimentare false speranze” ma con indicazioni e scelte per speranze concrete”. Torniamo così al Recovery Fund e agli impegni di governo in linea con l’Europa.

La scuola, di queste speranze, è cardine. Nel blog della scorsa settimana abbiamo parlato della “povertà educativa” che pesa sull’Italia (13 milioni di persone che hanno al massimo la licenza di scuola media inferiore; un drammatico analfabetismo funzionale, un numero di laureati che ci mette agli ultimi posti in Europa: il 19,6% appena, contro una media europea del 33,2%) e di una scuola trascurata da anni di disattenzione politica e di scelte sbagliate, con gravi cadute corporative e una colpevole disattenzione per la qualità dell’insegnamento. Oggi il nodo si ripropone con evidenza ancora maggiore. E tutta la questione della formazione, lungo l’intero arco della vita di una persona, è tra gli obiettivi fondamentali per la ripresa e per la costruzione di una società più equilibrata, giusta, messa al riparo da rabbie, frustrazioni, rancori.

Serve una spesa pubblica di qualità. L’uso lungimirante di quel “debito buono” caro a Draghi. E l’affermazione politica che sia proprio la conoscenza la leva fondamentale per uscire dalla crisi. Tutto il contrario delle retoriche populiste, della propaganda dei sussidi, dei bonus per soddisfare richieste immediate, compromettendo però il futuro delle nuove generazioni.

Nelle scelte su giovani, formazione e lavoro, c’è un altro tema che sta a cuore a Draghi: quello delle donne. Aumentando il loro tasso di occupazione (appena il 48,5%, contro il 62, 4% della media europea), facendo di tutto per sanare i divari di stipendio, carriera, responsabilità e dunque dando al Paese l’opportunità di godere pienamente di uno straordinario capitale umano e sociale, ricco di intelligenza, competenza, passione, volontà di crescita.

Draghi conosce bene il peso di quattro donne al cui impegno si devono alcuni dei migliori risultati per l’economia e le società occidentali: Angela Merkel, Ursula von der Leyen, Christine Lagard e Janet Yellen, a lungo presidente della Federal Reserve prima di diventare Segretario al Tesoro nel governo Usa del presidente Biden. Anche di questa idea del mondo e delle capacità femminili troveremo tracce nel nuovo governo italiano. E saranno uno stimolo fondamentale per la crescita di milioni di giovani donne italiane.

Ancora Draghi: “Privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza”. E dunque “la scuola è la prima spesa produttiva su cui investire”.

Non sono, naturalmente, parole da proclama (ne abbiamo viste fin troppe, peraltro, nel corso degli anni recenti). Ma indicazioni politiche. Che Draghi sa bene quanto e come vadano tradotte in scelte di governo, leggi, provvedimenti, misure rapide e concrete di attuazione.

L’orizzonte politico-culturale di riferimento è, come sappiano, definito dai valori democratici liberali dell’Europa. E il pensiero è quello di un vero riformista. Torna alla mente la lezione del suo maestro Federico Caffè: “Il riformista preferisce il poco al tutto, il realizzabile all’utopico, il gradualismo delle trasformazioni a una sempre rinviata trasformazione del ‘sistema’”.

Nella stagione dell’economia della conoscenza e della competizione internazionale basata su qualità e innovazione, la risorsa fondamentale su cui insistere sono le persone, il “capitale umano” di un paese che ha grande cura anche del suo “capitale sociale”, le relazioni positive fra i valori di una comunità aperta, la responsabilità civile, l’intraprendenza, l’impegno per i beni comuni, la solidarietà. Un nuovo, ambizioso orizzonte politico e culturale. Mario Draghi, incaricato di formare un nuovo governo per tirarci fuori dalla crisi tra pandemia e recessione, lo sa bene, come dimostrano le cose scritte e fatte nel corso degli anni, con intelligenza, lungimiranza, capacità di fare. Ha chiaro, per esempio, che il Recovery Fund, ha un obiettivo prioritario, verso cui muoversi con rapidità ed efficacia: la Next Generation, i nostri figli e nipoti, per i quali costruire condizioni migliori di sviluppo sostenibile. E i due valori di fondo cui inspirare le scelte di investimento, green economy e digital economy, sono assolutamente coerenti con questa prospettiva.

Riforme, dunque, per spendere bene i 209 miliardi: pubblica amministrazione, fisco, giustizia, scuola, lavoro, welfare. E investimenti sulle infrastrutture, tecnologiche e materiali, in linea con le strategie di sviluppo sostenibile. Né sussidi né protezioni settoriali, dunque. Semmai, iniziative per creare un ambiente favorevole alla crescita competitiva delle imprese, alla produttività. Una politica economica in cui, keynesianamente, lo Stato incide sui processi che migliorano le condizioni economiche generali e la qualità della vita delle persone e stimola le imprese private perché siano creative, innovative, competitive. Secondo Draghi, serve un “piano di coesione sociale” e di sviluppo economico. La sfida non solo per il nuovo governo ma soprattutto per l’Italia.

“Istruzione e capitale umano: saranno i giovani il vero partito di Draghi”, ha notato giustamente Alberto Orioli su “Il Sole24Ore” (6 febbraio). “Il capitale umano da tutelare: giovani, donne, formazione”, ha precisato Ferruccio de Bortoli sul “Corriere della Sera”, parlando di priorità programmatiche (7 febbraio). “Il futuro dei giovani”, ha raccomandato Elsa Fornero, contro “i divari geografici, generazionali e di genere, la scarsa mobilità sociale, l’insufficiente valorizzazione dell’istruzione, della formazione professionale e della ricerca, lo scarso riconoscimento del merito”.

Chi ha avuto l’accortezza e la pazienza di rileggere i discorsi e gli interventi pubblici di Mario Draghi, da Governatore della Banca d’Italia, poi da presidente della Bce e, in tempi recenti, dismessa ogni carica da civil servant, da cittadino sensibile ai nodi sociali e alle necessità di adeguate risposte politiche, ha trovato riferimenti chiari su cui riflettere, con la consapevolezza che ce li ritroveremo nei programmi di governo.

“I giovani – aveva detto in un discorso del settembre 2017 al Trinity College di Dublino – non vogliono vivere di sussidi. Vogliono lavorare e accrescere le opportunità della loro vita”. E l’impegno di chi governa è fare fronte, responsabilmente “a un’eredità di speranze deluse, rabbia e, in definitiva, sfiducia nei valori della nostra società e nell’identità della democrazia”. Fiducia da ricostruire, senza “alimentare false speranze” ma con indicazioni e scelte per speranze concrete”. Torniamo così al Recovery Fund e agli impegni di governo in linea con l’Europa.

La scuola, di queste speranze, è cardine. Nel blog della scorsa settimana abbiamo parlato della “povertà educativa” che pesa sull’Italia (13 milioni di persone che hanno al massimo la licenza di scuola media inferiore; un drammatico analfabetismo funzionale, un numero di laureati che ci mette agli ultimi posti in Europa: il 19,6% appena, contro una media europea del 33,2%) e di una scuola trascurata da anni di disattenzione politica e di scelte sbagliate, con gravi cadute corporative e una colpevole disattenzione per la qualità dell’insegnamento. Oggi il nodo si ripropone con evidenza ancora maggiore. E tutta la questione della formazione, lungo l’intero arco della vita di una persona, è tra gli obiettivi fondamentali per la ripresa e per la costruzione di una società più equilibrata, giusta, messa al riparo da rabbie, frustrazioni, rancori.

Serve una spesa pubblica di qualità. L’uso lungimirante di quel “debito buono” caro a Draghi. E l’affermazione politica che sia proprio la conoscenza la leva fondamentale per uscire dalla crisi. Tutto il contrario delle retoriche populiste, della propaganda dei sussidi, dei bonus per soddisfare richieste immediate, compromettendo però il futuro delle nuove generazioni.

Nelle scelte su giovani, formazione e lavoro, c’è un altro tema che sta a cuore a Draghi: quello delle donne. Aumentando il loro tasso di occupazione (appena il 48,5%, contro il 62, 4% della media europea), facendo di tutto per sanare i divari di stipendio, carriera, responsabilità e dunque dando al Paese l’opportunità di godere pienamente di uno straordinario capitale umano e sociale, ricco di intelligenza, competenza, passione, volontà di crescita.

Draghi conosce bene il peso di quattro donne al cui impegno si devono alcuni dei migliori risultati per l’economia e le società occidentali: Angela Merkel, Ursula von der Leyen, Christine Lagard e Janet Yellen, a lungo presidente della Federal Reserve prima di diventare Segretario al Tesoro nel governo Usa del presidente Biden. Anche di questa idea del mondo e delle capacità femminili troveremo tracce nel nuovo governo italiano. E saranno uno stimolo fondamentale per la crescita di milioni di giovani donne italiane.

Ancora Draghi: “Privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza”. E dunque “la scuola è la prima spesa produttiva su cui investire”.

Non sono, naturalmente, parole da proclama (ne abbiamo viste fin troppe, peraltro, nel corso degli anni recenti). Ma indicazioni politiche. Che Draghi sa bene quanto e come vadano tradotte in scelte di governo, leggi, provvedimenti, misure rapide e concrete di attuazione.

L’orizzonte politico-culturale di riferimento è, come sappiano, definito dai valori democratici liberali dell’Europa. E il pensiero è quello di un vero riformista. Torna alla mente la lezione del suo maestro Federico Caffè: “Il riformista preferisce il poco al tutto, il realizzabile all’utopico, il gradualismo delle trasformazioni a una sempre rinviata trasformazione del ‘sistema’”.

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?