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Il “moplen” del Nobel Natta, per ripensare ricerca e sviluppo

Vitalissima, l’Italia di cinquant’anni fa. Per giocare con gli anniversari, ecco il  boom economico, che ha il suo apice proprio nel 1963. E, nello stesso anno, il premio Nobel per la chimica dato a Giulio Natta, per le ricerche che portano alla scoperta del “polipropilene isolattico”, una plastica che avrebbe rivoluzionato la vita quotidiana di milioni di persone: il Moplen. Nuovi prodotti, nuovi consumi, nuovi costumi. Celebrati dall’attor comico Gino Bramieri che, nei popolarissimi “Caroselli” in Tv, si dava da fare con una lunga serie di oggetti, bacinelle e scolapasta, bottiglie e giocattoli, comodi, pratici, puliti, infrangibili, raccomandando, alla fine: “Ma signora / badi ben / che sia fatto / di Moplen”.

Binomio virtuoso, quel Moplen. Frutto della collaborazione avviata già nei primi anni Cinquantra tra il Politecnico di Milano e la Montecatini. Sintesi tra ricerca accademica d’avanguardia e applicazione industriale, sulla scia delle sperimentazioni già avviate, verso la fine degli anni Trenta, appunto da Natta, sulla gomma sintetica (in collaborazione, allora, tra il Politecnico e la Pirelli). Sintesi importante. Ed esemplare. Perché era stata proprio la strategia di confronto tra laboratorio universitario e fabbrica a consentire a Natta e ai suoi collaboratori di far fare radicali passi avanti alle ricerche del tedesco Carl Ziegler (cinvitore del Nobel insieme a Natta), che altrimenti sarebbero rimaste teoria. Italia manifatturiera d’eccellenza, dunque. Terra adatta allo sviluppo del “bello e ben fatto”. Luodo di sintesi di culture d’impresa che univano creatività originale a produzione industriale di massa. Tecnologia d’avanguardia. Desing. Mercati. Successo economico. Tutto attorno a un solido cardine: cultura e ricerca creano sviluppo, ricchezza, occupazione, miglioramento della qualità della vita.

Nel tempo, l’Italia ha perso l’abbrivio positivo della ricerca applicata, sprecando opportunità, tagliando risorse, determinando anche il fallimento di grandi istituzioni d’avanguardia, come il Laboratorio internazionale di genetica e biofisica, nato a Napoli nel 1961, su impulso di grandi scienziati come Adriano Buzzati, Luca Cavalli Sforza e Franco Graziosi, ma poi chiuso per insopportabile ostilità di accademie e burocrazie (la vicenda viene ricordata in un bel libro di Francesco Cassata, “L’Italia intelligente”, pubblicato da Donzelli).

Le statistcihe dicono che oggi l’Italia, con l’1% di investimenti pubblici e privati in ricerca, è fanalino di coda in Europa. E proprio la miope scelta di sacrificare ricerca, innovazione e cultura (per non tagliare la spesa pubblica improduttiva e clientelare) contribuisce in modo determinante alla crescita piatta del Paese negli ultimi vent’anni e alla drammatica recessione attuale.

Ripensare alla stagione del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, alle attività di Natta e al dinamismo delle imprese italiane, dunque, non è fare “amarcord”. Ma provare a rintracciare, sull’esempio di quegli anni dinamici e densi di intraprendenza e speranza, strategie di sviluppo sensate, dimaniche, internazionali, sostenibili nel tempo. Fare, cioè, scelte lungimiranti di politiche economiche e industriali. Ricostruire ragioni di competitività. Nessuno, naturalmente, si illude che l’Italia possa fare come Israele, che destina a ricerca e sviluppo il 5% del Pil (e vanta dunque un’economia florida, competitiva, hi tech). Ma certo, rappoppiare l’attuale misero 1% si può. E si deve. “Non accetterò tagli alla cultura e alla ricerca, altrimenti mi dimetterò”, ha proclamato il presidente del Consiglio Enrico Letta, nei suoi primi discorsi da premier. Bene. O, piuttosto, meglio di niente. All’Italia, però, servirebbe un po’ di più. E cioè il contrario del tagli. Nuovi investimenti, di lungo periodo. E una nuova culura dello sviluppo.

Vitalissima, l’Italia di cinquant’anni fa. Per giocare con gli anniversari, ecco il  boom economico, che ha il suo apice proprio nel 1963. E, nello stesso anno, il premio Nobel per la chimica dato a Giulio Natta, per le ricerche che portano alla scoperta del “polipropilene isolattico”, una plastica che avrebbe rivoluzionato la vita quotidiana di milioni di persone: il Moplen. Nuovi prodotti, nuovi consumi, nuovi costumi. Celebrati dall’attor comico Gino Bramieri che, nei popolarissimi “Caroselli” in Tv, si dava da fare con una lunga serie di oggetti, bacinelle e scolapasta, bottiglie e giocattoli, comodi, pratici, puliti, infrangibili, raccomandando, alla fine: “Ma signora / badi ben / che sia fatto / di Moplen”.

Binomio virtuoso, quel Moplen. Frutto della collaborazione avviata già nei primi anni Cinquantra tra il Politecnico di Milano e la Montecatini. Sintesi tra ricerca accademica d’avanguardia e applicazione industriale, sulla scia delle sperimentazioni già avviate, verso la fine degli anni Trenta, appunto da Natta, sulla gomma sintetica (in collaborazione, allora, tra il Politecnico e la Pirelli). Sintesi importante. Ed esemplare. Perché era stata proprio la strategia di confronto tra laboratorio universitario e fabbrica a consentire a Natta e ai suoi collaboratori di far fare radicali passi avanti alle ricerche del tedesco Carl Ziegler (cinvitore del Nobel insieme a Natta), che altrimenti sarebbero rimaste teoria. Italia manifatturiera d’eccellenza, dunque. Terra adatta allo sviluppo del “bello e ben fatto”. Luodo di sintesi di culture d’impresa che univano creatività originale a produzione industriale di massa. Tecnologia d’avanguardia. Desing. Mercati. Successo economico. Tutto attorno a un solido cardine: cultura e ricerca creano sviluppo, ricchezza, occupazione, miglioramento della qualità della vita.

Nel tempo, l’Italia ha perso l’abbrivio positivo della ricerca applicata, sprecando opportunità, tagliando risorse, determinando anche il fallimento di grandi istituzioni d’avanguardia, come il Laboratorio internazionale di genetica e biofisica, nato a Napoli nel 1961, su impulso di grandi scienziati come Adriano Buzzati, Luca Cavalli Sforza e Franco Graziosi, ma poi chiuso per insopportabile ostilità di accademie e burocrazie (la vicenda viene ricordata in un bel libro di Francesco Cassata, “L’Italia intelligente”, pubblicato da Donzelli).

Le statistcihe dicono che oggi l’Italia, con l’1% di investimenti pubblici e privati in ricerca, è fanalino di coda in Europa. E proprio la miope scelta di sacrificare ricerca, innovazione e cultura (per non tagliare la spesa pubblica improduttiva e clientelare) contribuisce in modo determinante alla crescita piatta del Paese negli ultimi vent’anni e alla drammatica recessione attuale.

Ripensare alla stagione del boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, alle attività di Natta e al dinamismo delle imprese italiane, dunque, non è fare “amarcord”. Ma provare a rintracciare, sull’esempio di quegli anni dinamici e densi di intraprendenza e speranza, strategie di sviluppo sensate, dimaniche, internazionali, sostenibili nel tempo. Fare, cioè, scelte lungimiranti di politiche economiche e industriali. Ricostruire ragioni di competitività. Nessuno, naturalmente, si illude che l’Italia possa fare come Israele, che destina a ricerca e sviluppo il 5% del Pil (e vanta dunque un’economia florida, competitiva, hi tech). Ma certo, rappoppiare l’attuale misero 1% si può. E si deve. “Non accetterò tagli alla cultura e alla ricerca, altrimenti mi dimetterò”, ha proclamato il presidente del Consiglio Enrico Letta, nei suoi primi discorsi da premier. Bene. O, piuttosto, meglio di niente. All’Italia, però, servirebbe un po’ di più. E cioè il contrario del tagli. Nuovi investimenti, di lungo periodo. E una nuova culura dello sviluppo.

Cooperare per crescere

Far ripartire le aziende, soffiare sulla crescita e sullo sviluppo, guardare con occhi diversi alla gestione aziendale, al profitto, al lavoro. Tutti traguardi che molti tentano di raggiungere e che sono allacciati a filo doppio all’etica delle imprese e della produzione, alla responsabilità sociale degli imprenditori e, in definitiva, ad un approccio ai temi della produzione e della società che guardi meno al materiale e più all’uomo.

Si tratta del nocciolo di questioni che Laura Salvan (tesista di Ca’ Foscari), ha affrontato in “Cultural responsibility. Small steps to restore anthropology in economic behaviour. Interviews and best practices”, un lavoro che, come spiega la stessa Salvan, “riflette sul concetto di  Responsabilità Culturale (RC), che coniuga i due termini di responsabilità e cultura.  Responsabilità è il dovere etico di garantire tanto alle generazioni presenti quanto a quelle future la possibilità di soddisfare i propri bisogni, le proprie aspirazioni, e di vivere le vite che hanno ragione di apprezzare. Cultura in senso antropologico considera gli individui come sistemi di credenze, simboli, spiritualità, immaginazione e razionalità che permette loro di rappresentare il mondo che li circonda all’interno dei diversi contesti di socializzazione in cui sono inseriti”.

Quello della Salvan, però, non un lavoro meramente accademico, ma un’esplorazione fatta di teoria e pratica che cerca di mettere insieme la Responsabilità Culturale, appunto, e  la consuetudine – dove già esiste – della Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI).

“Si potrebbe affermare che la RC – dice Salvan – è  un’implicazione della RSI nel momento in cui si pone lo sviluppo culturale degli individui quale fine primario di ogni comportamento economico”. Una condizione che può essere considerata avveniristica  se si guarda a molte aree produttive italiane e non, e se ci si ferma alla attuale difficile congiuntura, ma che assume connotati diversi se ci si sforza di andare oltre il contingente.

Salvan si basa quindi su una serie di principi ed esempi concreti tratti da una serie di interviste e dall’analisi di alcuni casi aziendali e sociali come quelli di Libera e di Banca Popolare Etica spa, oltre che di varie Fondazioni.

La conclusione è una proposta. “Fondare il comportamento economico moderno sull’antropologia, attraverso forme di cooperazione sociale, potrebbe essere una delle possibili vie di uscita dalla crisi che stiamo vivendo”.

Cultural Responsibility. Small steps to restore anthropology in economic behaviour. Interviews and best practices

Laura Salvan

Ca’ Foscari – Corso di Laurea magistrale in Economia e Gestione delle Arti e delle attività culturali (EGArt), 2011/2012.

Far ripartire le aziende, soffiare sulla crescita e sullo sviluppo, guardare con occhi diversi alla gestione aziendale, al profitto, al lavoro. Tutti traguardi che molti tentano di raggiungere e che sono allacciati a filo doppio all’etica delle imprese e della produzione, alla responsabilità sociale degli imprenditori e, in definitiva, ad un approccio ai temi della produzione e della società che guardi meno al materiale e più all’uomo.

Si tratta del nocciolo di questioni che Laura Salvan (tesista di Ca’ Foscari), ha affrontato in “Cultural responsibility. Small steps to restore anthropology in economic behaviour. Interviews and best practices”, un lavoro che, come spiega la stessa Salvan, “riflette sul concetto di  Responsabilità Culturale (RC), che coniuga i due termini di responsabilità e cultura.  Responsabilità è il dovere etico di garantire tanto alle generazioni presenti quanto a quelle future la possibilità di soddisfare i propri bisogni, le proprie aspirazioni, e di vivere le vite che hanno ragione di apprezzare. Cultura in senso antropologico considera gli individui come sistemi di credenze, simboli, spiritualità, immaginazione e razionalità che permette loro di rappresentare il mondo che li circonda all’interno dei diversi contesti di socializzazione in cui sono inseriti”.

Quello della Salvan, però, non un lavoro meramente accademico, ma un’esplorazione fatta di teoria e pratica che cerca di mettere insieme la Responsabilità Culturale, appunto, e  la consuetudine – dove già esiste – della Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI).

“Si potrebbe affermare che la RC – dice Salvan – è  un’implicazione della RSI nel momento in cui si pone lo sviluppo culturale degli individui quale fine primario di ogni comportamento economico”. Una condizione che può essere considerata avveniristica  se si guarda a molte aree produttive italiane e non, e se ci si ferma alla attuale difficile congiuntura, ma che assume connotati diversi se ci si sforza di andare oltre il contingente.

Salvan si basa quindi su una serie di principi ed esempi concreti tratti da una serie di interviste e dall’analisi di alcuni casi aziendali e sociali come quelli di Libera e di Banca Popolare Etica spa, oltre che di varie Fondazioni.

La conclusione è una proposta. “Fondare il comportamento economico moderno sull’antropologia, attraverso forme di cooperazione sociale, potrebbe essere una delle possibili vie di uscita dalla crisi che stiamo vivendo”.

Cultural Responsibility. Small steps to restore anthropology in economic behaviour. Interviews and best practices

Laura Salvan

Ca’ Foscari – Corso di Laurea magistrale in Economia e Gestione delle Arti e delle attività culturali (EGArt), 2011/2012.

Come creare il Made in Italy

Made in Italy è sempre più bello, incarna la vera cultura d’impresa nazionale, quella che vince nel mondo. Ma occorre chiedersi quali siano i passi concreti per arrivare al traguardo, perché solo con gli ideali non si fanno buoni bilanci. Ancora una volta servono delle guide avvedute.

E’ quanto hanno provato a fare Cristiano Ciappei (ordinario di Strategia e Valore d’Impresa all’Università degli Studi di Firenze) e Giovanni Padroni (ordinario di Organizzazione Aziendale all’Università di Pisa) nel loro “Le imprese nel rilancio competitivo del Made e Service in Italy: settori a confronto”: un vero manuale scritto a più voci che individua le competenze imprenditoriali necessarie a definire le strategie e gli assetti organizzativi  per il rilancio competitivo della produzione nazionale nei settori che le sono più tipici.

“L’espressione Made e Service in Italy – spiegano i due curatori -, aggrega le imprese che sono strettamente legate all’idea di Italian Style, espressione di gusto, arte, bellezza del territorio, cultura, creatività, senso estetico ed esclusività. Ai classici prodotti del Made in Italy si collegano quelli sempre più importanti del Service, che comprende sia il comparto della cultura e quindi anche i beni artistici culturali ed il turismo, sia i servizi più legati all’insediamento territoriale che come tali non possono essere de localizzati”.

Su questa base si sviluppa l’intero volume, articolato in tre parti. La prima studia le strade che le imprese della moda e dell’agroalimentare – assunte come casi studio -, hanno intrapreso per il loro rinnovamento. La seconda, analizza le applicazioni d’impresa del “sistema culturale integrale” e di cosa accade quindi quando in un determinato territorio nascono e si sviluppano dei sistemi turistico-artistico-culturali in cui però le imprese hanno un ruolo di primo piano. Il volume poi si chiude con un approfondimento del ruolo che i processi di outsourcing e la gestione delle relazioni all’interno della supply chain hanno nella prospettiva di un rilancio dell’economia italiana, fondato sempre sul Made e sul Service in Italy.

Il lavoro di Ciappei e Padroni è denso e complesso, ma tutto da leggere per darsi strumenti conoscitivi migliori sulla cultura italiana d’impresa.

Le imprese nel rilancio competitivo del Made e Service in Italy: settori a confronto

Cristiano Ciappei e Giovanni Padroni

Franco Angeli, 2013

Made in Italy è sempre più bello, incarna la vera cultura d’impresa nazionale, quella che vince nel mondo. Ma occorre chiedersi quali siano i passi concreti per arrivare al traguardo, perché solo con gli ideali non si fanno buoni bilanci. Ancora una volta servono delle guide avvedute.

E’ quanto hanno provato a fare Cristiano Ciappei (ordinario di Strategia e Valore d’Impresa all’Università degli Studi di Firenze) e Giovanni Padroni (ordinario di Organizzazione Aziendale all’Università di Pisa) nel loro “Le imprese nel rilancio competitivo del Made e Service in Italy: settori a confronto”: un vero manuale scritto a più voci che individua le competenze imprenditoriali necessarie a definire le strategie e gli assetti organizzativi  per il rilancio competitivo della produzione nazionale nei settori che le sono più tipici.

“L’espressione Made e Service in Italy – spiegano i due curatori -, aggrega le imprese che sono strettamente legate all’idea di Italian Style, espressione di gusto, arte, bellezza del territorio, cultura, creatività, senso estetico ed esclusività. Ai classici prodotti del Made in Italy si collegano quelli sempre più importanti del Service, che comprende sia il comparto della cultura e quindi anche i beni artistici culturali ed il turismo, sia i servizi più legati all’insediamento territoriale che come tali non possono essere de localizzati”.

Su questa base si sviluppa l’intero volume, articolato in tre parti. La prima studia le strade che le imprese della moda e dell’agroalimentare – assunte come casi studio -, hanno intrapreso per il loro rinnovamento. La seconda, analizza le applicazioni d’impresa del “sistema culturale integrale” e di cosa accade quindi quando in un determinato territorio nascono e si sviluppano dei sistemi turistico-artistico-culturali in cui però le imprese hanno un ruolo di primo piano. Il volume poi si chiude con un approfondimento del ruolo che i processi di outsourcing e la gestione delle relazioni all’interno della supply chain hanno nella prospettiva di un rilancio dell’economia italiana, fondato sempre sul Made e sul Service in Italy.

Il lavoro di Ciappei e Padroni è denso e complesso, ma tutto da leggere per darsi strumenti conoscitivi migliori sulla cultura italiana d’impresa.

Le imprese nel rilancio competitivo del Made e Service in Italy: settori a confronto

Cristiano Ciappei e Giovanni Padroni

Franco Angeli, 2013

60 anni fa la Mille Miglia del Conte Giannino

Il 16 maggio prenderà il via da Brescia la 31esima Mille Miglia storica: oltre trecento le auto che si lanceranno ancora una volta verso Roma, caracollando su e giù per l’Italia. Ancora una volta, saranno le più belle vetture della storia dell’automobile a rievocare quella che Enzo Ferrari chiamava “la corsa più bella del mondo”. E proprio alla Mille Miglia di sessant’anni fa, il conte Marzotto…

Ostenta impeccabile nonchalance il conte Giannino Marzotto nella foto che lo ritrae sulla rivista “Pirelli” del giugno 1953, nell’articolo dedicato alla sua fresca vittoria nella Mille Miglia con la Ferrari 340 Spyder Vignale, naturalmente equipaggiata Pirelli Stelvio. Viene portato in trionfo, il Conte, e lui resta elegantissimo anche dopo i fatidici 1600 chilometri a 142 di media e le oltre 10 ore e mezza filate di guida. Giubbotto sulla spalla, pullover di cachemire, cravatta ben annodata e bottiglia di champagne: era “il pilota in doppiopetto”. Tutti piloti i quattro fratelli Marzotto – detti con strepitosa battuta “i conti correnti” – ma Giannino era speciale: lui le Ferrari le aveva proprio nel sangue.

La Mille Miglia l’aveva già vinta nel 1950 con una Ferrari 195 S Berlinetta, ma questa volta c’era da battere la nuova Alfa 3500 affidata a Fangio. Ligio al suo status di gentleman driver, il Conte Marzotto doveva accontentarsi di correre con quello che gli passavano le Case: alla peggio, avrebbe rispolverato la Ferrari 2560 “uovo” da lui progettata nel Cinquantuno. E invece, grazie ai buoni uffici del copilota Marco Crosara, il Conte ottenne da Enzo Ferrari in persona di correre la Mille Miglia con la stessa – ammaccatissima – 12 cilindri 4100 con cui Villoresi aveva corso il Giro di Sicilia un mese prima.

Giannino Marzotto partì da Brescia alle 5.47 del mattino del 25 aprile 1953, con buone possibilità di stare dietro ad almeno una dozzina di superpiloti strafavoriti. E invece, il giorno dopo, al traguardo del ritorno a Brescia fu prima proprio la rossa Ferrari 340 Spyder Vignale numero 547 del “pilota in doppiopetto”, che a domanda su cosa significasse per lui la vittoria rispose: “la fine del divertimento”. Secondo classificato il “top driver” Fangio con l’Alfa Romeo, e poi Tom Cole, sempre su Ferrari.

Tripletta Pirelli, in ogni caso. Perchè quella di vincere era una vocazione che lo Stelvio aveva ereditato dallo Stella Bianca diventando a sua volta -in quell’anno 1953- dopo la vittoria di Ascari nel Mondiale di F1-il “pneumatico delle vittorie”. Qualche settimana dopo aver corso la Mille Miglia, Giannino Marzotto volle continuare a divertirsi: in coppia con il fratello Paolo – i conti correnti! – affrontò la 24 ore di Le Mans sempre a bordo di una Ferrari 340, questa volta in versione base Berlinetta America. Il quinto posto finale – unica Ferrari e unico equipaggio tutto italiano all’arrivo, dietro lo squadrone Jaguar – fu considerato onorevolissimo per i fratelli Marzotto. E Giannino, il “pilota in doppiopetto”, quella strepitosa vittoria alla Mille Miglia del ’53 se l’è ricordata fino al 14 luglio del 2012.

Il 16 maggio prenderà il via da Brescia la 31esima Mille Miglia storica: oltre trecento le auto che si lanceranno ancora una volta verso Roma, caracollando su e giù per l’Italia. Ancora una volta, saranno le più belle vetture della storia dell’automobile a rievocare quella che Enzo Ferrari chiamava “la corsa più bella del mondo”. E proprio alla Mille Miglia di sessant’anni fa, il conte Marzotto…

Ostenta impeccabile nonchalance il conte Giannino Marzotto nella foto che lo ritrae sulla rivista “Pirelli” del giugno 1953, nell’articolo dedicato alla sua fresca vittoria nella Mille Miglia con la Ferrari 340 Spyder Vignale, naturalmente equipaggiata Pirelli Stelvio. Viene portato in trionfo, il Conte, e lui resta elegantissimo anche dopo i fatidici 1600 chilometri a 142 di media e le oltre 10 ore e mezza filate di guida. Giubbotto sulla spalla, pullover di cachemire, cravatta ben annodata e bottiglia di champagne: era “il pilota in doppiopetto”. Tutti piloti i quattro fratelli Marzotto – detti con strepitosa battuta “i conti correnti” – ma Giannino era speciale: lui le Ferrari le aveva proprio nel sangue.

La Mille Miglia l’aveva già vinta nel 1950 con una Ferrari 195 S Berlinetta, ma questa volta c’era da battere la nuova Alfa 3500 affidata a Fangio. Ligio al suo status di gentleman driver, il Conte Marzotto doveva accontentarsi di correre con quello che gli passavano le Case: alla peggio, avrebbe rispolverato la Ferrari 2560 “uovo” da lui progettata nel Cinquantuno. E invece, grazie ai buoni uffici del copilota Marco Crosara, il Conte ottenne da Enzo Ferrari in persona di correre la Mille Miglia con la stessa – ammaccatissima – 12 cilindri 4100 con cui Villoresi aveva corso il Giro di Sicilia un mese prima.

Giannino Marzotto partì da Brescia alle 5.47 del mattino del 25 aprile 1953, con buone possibilità di stare dietro ad almeno una dozzina di superpiloti strafavoriti. E invece, il giorno dopo, al traguardo del ritorno a Brescia fu prima proprio la rossa Ferrari 340 Spyder Vignale numero 547 del “pilota in doppiopetto”, che a domanda su cosa significasse per lui la vittoria rispose: “la fine del divertimento”. Secondo classificato il “top driver” Fangio con l’Alfa Romeo, e poi Tom Cole, sempre su Ferrari.

Tripletta Pirelli, in ogni caso. Perchè quella di vincere era una vocazione che lo Stelvio aveva ereditato dallo Stella Bianca diventando a sua volta -in quell’anno 1953- dopo la vittoria di Ascari nel Mondiale di F1-il “pneumatico delle vittorie”. Qualche settimana dopo aver corso la Mille Miglia, Giannino Marzotto volle continuare a divertirsi: in coppia con il fratello Paolo – i conti correnti! – affrontò la 24 ore di Le Mans sempre a bordo di una Ferrari 340, questa volta in versione base Berlinetta America. Il quinto posto finale – unica Ferrari e unico equipaggio tutto italiano all’arrivo, dietro lo squadrone Jaguar – fu considerato onorevolissimo per i fratelli Marzotto. E Giannino, il “pilota in doppiopetto”, quella strepitosa vittoria alla Mille Miglia del ’53 se l’è ricordata fino al 14 luglio del 2012.

“Be foolish” e innovativi tra etica e buone imprese

Be foolish” (oltre che “hungry”), raccomandava Steve Jobs ai giovani, per costruire il proprio futuro, anche da innovatori, da imprenditori. E di “follia visionaria” parla il presidente del Consiglio Enrico Letta per indicare l’indispensabile attitudine del suo difficile e controverso governo per affrontare la drammatica crisi italiana, un intreccio tremendo di politica ed economia. Follia, dunque. L’altra faccia, non conformista, della verità. E la capacità di avere uno sguardo inconsueto, spiazzante, eccentrico, radicalmente originale: tutti aggettivi che si adattano benissimo all’imprenditore, la cui chiave d’azione è “innovare”. Cultura d’impresa come intelligente e audace coltivazione di una positiva follia? La riflessione è aperta. Così come è un fantastico cantiere di idee quello della critica radicale a una ideologia che ha segnato il mondo dagli anni Ottanta a ieri: l’individualismo estremo. Giovanni Gozzini, nel bel libro “La mutazione individualista – Gli italiani e la televisione 1954-2011” racconta la deriva negativa di un paese in cui lo spirito civico e la tendenza a fare comunità (già comunque fragili) sono stati lacerati da familismi, spiriti di clan e clientela e individualismi privi di etica pubblica, incentivati da certi processi comunicativi. E Aldo Bonomi, nella sua sempre acuta rubrica domenicale del Sole24Ore, “Microcosmi”, ricorda la definizione critica di Tom Wolfe sul “decennio dell’Io” e suggerisce, per la ripresa economica italiana, la rivalutazione dell’attitudine delle piccole e medie imprese a fare sistema, ritrovarsi in distretti e filiere produttive, a creare originali sinergie tra capitale umano segnato dall’intraprendenza individuale e capitale sociale delle reti, vecchie e nuove. Una buona strada. Da seguire ripensando anche il mestiere dell’imprenditore, con saggezza e follia (non sembri un’ossimoro). Una testimonianza? Quella di Brunello Cucinelli, imprenditore tessile e dell’abbigliamento tra i più innovativi e prestigiosi, che sempre sul Sole24Ore (domenica 5 maggio 2013) ha ricordato la sua passione per Marco Aurelio, imperatore e filosofo e per san Benedetto, nei suoi consigli a un suo Abate: “Sii rigoroso e dolce. Sii un Padre amabile ma anche un Maestro esigente”. E i precetti per fare bene l’imprenditore? Ecco la risposta di Cucinelli. “Il rispetto per gli altri e la moralizzazione della vita pubblica. Ma anche l’esigenza di affiancare alla razionalità una dose sempre più massiccia di passione, di inventiva”. Be foolish, appunto.

Be foolish” (oltre che “hungry”), raccomandava Steve Jobs ai giovani, per costruire il proprio futuro, anche da innovatori, da imprenditori. E di “follia visionaria” parla il presidente del Consiglio Enrico Letta per indicare l’indispensabile attitudine del suo difficile e controverso governo per affrontare la drammatica crisi italiana, un intreccio tremendo di politica ed economia. Follia, dunque. L’altra faccia, non conformista, della verità. E la capacità di avere uno sguardo inconsueto, spiazzante, eccentrico, radicalmente originale: tutti aggettivi che si adattano benissimo all’imprenditore, la cui chiave d’azione è “innovare”. Cultura d’impresa come intelligente e audace coltivazione di una positiva follia? La riflessione è aperta. Così come è un fantastico cantiere di idee quello della critica radicale a una ideologia che ha segnato il mondo dagli anni Ottanta a ieri: l’individualismo estremo. Giovanni Gozzini, nel bel libro “La mutazione individualista – Gli italiani e la televisione 1954-2011” racconta la deriva negativa di un paese in cui lo spirito civico e la tendenza a fare comunità (già comunque fragili) sono stati lacerati da familismi, spiriti di clan e clientela e individualismi privi di etica pubblica, incentivati da certi processi comunicativi. E Aldo Bonomi, nella sua sempre acuta rubrica domenicale del Sole24Ore, “Microcosmi”, ricorda la definizione critica di Tom Wolfe sul “decennio dell’Io” e suggerisce, per la ripresa economica italiana, la rivalutazione dell’attitudine delle piccole e medie imprese a fare sistema, ritrovarsi in distretti e filiere produttive, a creare originali sinergie tra capitale umano segnato dall’intraprendenza individuale e capitale sociale delle reti, vecchie e nuove. Una buona strada. Da seguire ripensando anche il mestiere dell’imprenditore, con saggezza e follia (non sembri un’ossimoro). Una testimonianza? Quella di Brunello Cucinelli, imprenditore tessile e dell’abbigliamento tra i più innovativi e prestigiosi, che sempre sul Sole24Ore (domenica 5 maggio 2013) ha ricordato la sua passione per Marco Aurelio, imperatore e filosofo e per san Benedetto, nei suoi consigli a un suo Abate: “Sii rigoroso e dolce. Sii un Padre amabile ma anche un Maestro esigente”. E i precetti per fare bene l’imprenditore? Ecco la risposta di Cucinelli. “Il rispetto per gli altri e la moralizzazione della vita pubblica. Ma anche l’esigenza di affiancare alla razionalità una dose sempre più massiccia di passione, di inventiva”. Be foolish, appunto.

Imprenditori ovunque

Gli imprenditori sono uguali in tutto il mondo. Certo, non ci sono imprese-fotocopia. Ma lo spirito imprenditoriale esaltato da numerosi teorici e concretizzato in migliaia di aziende, effettivamente ha dei tratti comuni, che travalicano i confini e i continenti. “Prove” in questo senso, tuttavia, non ve ne sono molte.

Per questo è interessante leggere “Achievement Motivation, Strategic Orientations, and Business Performance in Entrepreneurial Firms: How Different are Japanese and Americans Founders?”, uno studio condotto da quattro autori sparzi in tre centri di ricerca: Rohit Deshpandé, Amir Grinstein della Ben-Gurion University, Sang-Hoon Kim della Seoul National University e Elie Ofek di Harvard.

La ricerca aveva l’obiettivo di capire se vi siano differenze nelle scelte strategiche e negli orientamenti, oltre che negli esiti, fra imprese americane e giapponesi, con una particolare attenzione sulle motivazioni dei cosiddetti “fondatori” delle imprese stesse. Niente di teorico, però, visto che l’analisi è stata condotta con un sondaggio fra 397 “fondatori” giapponesi e 189 americani.

I risultati per certi versi sono sorprendenti. Pur se collocati in Paesi culturalmente diversi, gli imprenditori giapponesi e quelli USA hanno di fatto stili simili che portano a scelte conseguenti.

Gli autori fanno degli esempi. In Giappone e negli USA, il successo passa sempre per la cura del cliente e per il contenimento dei costi; mentre l’attenzione ai livelli tecnologici è inversamente proporzionale ai livelli di redditività.

Soprattutto però, ciò che emerge dalle oltre 500 interviste è quello spirito imprenditoriale che conduce persone di cultura e abitudini di vita diverse alle stesse modalità di scelta e di comportante. Un fiuto, un sentire, uno scatto, un’iniziativa che connotano in maniera pressoché uguale gli imprenditori in qualsiasi parte del mondo. Una specie di magia diffusa che sorprende e che ogni giorno si ripete.

Achievement Motivation, Strategic Orientations, and Business Performance in Entrepreneurial Firms: How Different are Japanese and Americans Founders?

Rohit Deshpandé, Amir Grinstein, Sang-Hoon Kim e Elie Ofek

International Marketing Review, Volume 30/3, 2013.

Gli imprenditori sono uguali in tutto il mondo. Certo, non ci sono imprese-fotocopia. Ma lo spirito imprenditoriale esaltato da numerosi teorici e concretizzato in migliaia di aziende, effettivamente ha dei tratti comuni, che travalicano i confini e i continenti. “Prove” in questo senso, tuttavia, non ve ne sono molte.

Per questo è interessante leggere “Achievement Motivation, Strategic Orientations, and Business Performance in Entrepreneurial Firms: How Different are Japanese and Americans Founders?”, uno studio condotto da quattro autori sparzi in tre centri di ricerca: Rohit Deshpandé, Amir Grinstein della Ben-Gurion University, Sang-Hoon Kim della Seoul National University e Elie Ofek di Harvard.

La ricerca aveva l’obiettivo di capire se vi siano differenze nelle scelte strategiche e negli orientamenti, oltre che negli esiti, fra imprese americane e giapponesi, con una particolare attenzione sulle motivazioni dei cosiddetti “fondatori” delle imprese stesse. Niente di teorico, però, visto che l’analisi è stata condotta con un sondaggio fra 397 “fondatori” giapponesi e 189 americani.

I risultati per certi versi sono sorprendenti. Pur se collocati in Paesi culturalmente diversi, gli imprenditori giapponesi e quelli USA hanno di fatto stili simili che portano a scelte conseguenti.

Gli autori fanno degli esempi. In Giappone e negli USA, il successo passa sempre per la cura del cliente e per il contenimento dei costi; mentre l’attenzione ai livelli tecnologici è inversamente proporzionale ai livelli di redditività.

Soprattutto però, ciò che emerge dalle oltre 500 interviste è quello spirito imprenditoriale che conduce persone di cultura e abitudini di vita diverse alle stesse modalità di scelta e di comportante. Un fiuto, un sentire, uno scatto, un’iniziativa che connotano in maniera pressoché uguale gli imprenditori in qualsiasi parte del mondo. Una specie di magia diffusa che sorprende e che ogni giorno si ripete.

Achievement Motivation, Strategic Orientations, and Business Performance in Entrepreneurial Firms: How Different are Japanese and Americans Founders?

Rohit Deshpandé, Amir Grinstein, Sang-Hoon Kim e Elie Ofek

International Marketing Review, Volume 30/3, 2013.

Taylor addio

Una volta c’erano Taylor (Frederick) e il Taylorismo, quell’organizzazione scientifica del lavoro che – piaccia o no – ha fatto compiere molta strada all’industria e alla manifattura in particolare. Oggi ci sono il web e la globalizzazione, la collaborazione che si estende orizzontalmente, quella socializzazione dell’organizzazione  d’impresa che ne ha cambiato anche la cultura. Ma tutto va ancora studiato meglio, capito, assimilato, diffuso.

Quanto ha scritto Marco Minghetti nel suo “L’intelligenza collaborativa. Verso la social organization”, serve proprio per questo: capire e usare, diffondere.

L’idea di base è che le “nuove forme di organizzazione” ottengono il coordinamento senza la centralizzazione, mentre il potere sta nelle capacità e non nei ruoli e la cosiddetta conoscenza condivisa trionfa sull’autoritarismo. Si tratta della “social organization”, nata e diffusa in alcune industrie e comparti, ma non ancora in altri.

Il libro di Minghetti è una sorta di “guida strategica” a questo tema. Serve per affrontare il cambiamento nelle imprese che nasce dall’uso dei social media e dai processi di collaborazione emergenti dal basso. Secondo l’autore nelle aziende tutto questo costituisce prima di tutto una sfida culturale, organizzativa, strategica prima che tecnologica, che coinvolge tutti: dagli Amministratori ai fattorini. Ma “L’intelligenza collaborativa” non è solo un manuale, è anche una raccolta di testimonianze di manager appartenenti a comparti diversi che raccontano le varie fasi della trasformazione organizzativa delle aziende in cui hanno lavorato. Parlano così dirigenti di  Cisco,  Gucci, Pirelli, Nokia, Mip, Telecom Italia, HERA, Ottica Avanzi, Vodafone, Unicredit, Banca Ifis,  Microsoft, Heineken,  IBM Italia, Bosch. Le tre parti in cui si articola il libro – le fasi necessarie per la trasformazione, il cambiamento delle risorse umane e i principi chiave attorno cui ruota il tutto -, sono così tutte da leggere.

L’intelligenza collaborativa. Verso la social organization

Marco Minghetti

Egea, 2013

Una volta c’erano Taylor (Frederick) e il Taylorismo, quell’organizzazione scientifica del lavoro che – piaccia o no – ha fatto compiere molta strada all’industria e alla manifattura in particolare. Oggi ci sono il web e la globalizzazione, la collaborazione che si estende orizzontalmente, quella socializzazione dell’organizzazione  d’impresa che ne ha cambiato anche la cultura. Ma tutto va ancora studiato meglio, capito, assimilato, diffuso.

Quanto ha scritto Marco Minghetti nel suo “L’intelligenza collaborativa. Verso la social organization”, serve proprio per questo: capire e usare, diffondere.

L’idea di base è che le “nuove forme di organizzazione” ottengono il coordinamento senza la centralizzazione, mentre il potere sta nelle capacità e non nei ruoli e la cosiddetta conoscenza condivisa trionfa sull’autoritarismo. Si tratta della “social organization”, nata e diffusa in alcune industrie e comparti, ma non ancora in altri.

Il libro di Minghetti è una sorta di “guida strategica” a questo tema. Serve per affrontare il cambiamento nelle imprese che nasce dall’uso dei social media e dai processi di collaborazione emergenti dal basso. Secondo l’autore nelle aziende tutto questo costituisce prima di tutto una sfida culturale, organizzativa, strategica prima che tecnologica, che coinvolge tutti: dagli Amministratori ai fattorini. Ma “L’intelligenza collaborativa” non è solo un manuale, è anche una raccolta di testimonianze di manager appartenenti a comparti diversi che raccontano le varie fasi della trasformazione organizzativa delle aziende in cui hanno lavorato. Parlano così dirigenti di  Cisco,  Gucci, Pirelli, Nokia, Mip, Telecom Italia, HERA, Ottica Avanzi, Vodafone, Unicredit, Banca Ifis,  Microsoft, Heineken,  IBM Italia, Bosch. Le tre parti in cui si articola il libro – le fasi necessarie per la trasformazione, il cambiamento delle risorse umane e i principi chiave attorno cui ruota il tutto -, sono così tutte da leggere.

L’intelligenza collaborativa. Verso la social organization

Marco Minghetti

Egea, 2013

Scoprire Bicocca: 1450-2013 | Caccia alla Bicocca

Siete sicuri di conoscere il quartiere Bicocca? Raccogliete la nostra sfida e partecipate a “Caccia alla Bicocca“, un’entusiasmante caccia al tesoro aperta ad adulti e bambini in cui velocità, strategia e intraprendenza saranno gli ingredienti essenziali per divertirsi insieme alla scoperta delle grandi trasformazioni di quest’area di 700mila metri quadri. Un coinvolgente percorso a tappe in una corsa contro il tempo! Ricche sorprese per tutti i partecipanti!
Modalità di partecipazione
Dove: HangarBicocca (partenza)
Iscrizione obbligatoria
: esclusivamente via mail, scrivendo a info@hangarbicocca.org 
Equipaggi
: Ogni equipaggio potrà essere composto da un minimo di 4 a un massimo di 6 partecipanti (di cui almeno uno maggiorenne).
Massimo 20 equipaggi

I PREMI
Primo equipaggio qualificato:

  • 2 biglietti Area Hospitality Pirelli per il Gran Premio di F1 di Monza 2013
  • 1 automobile telecomandata F1
  • 1 buono presso l’estetista ‘Rosa nel Deserto’ per solarium e presso-terapia
  • 2 ombrelli Pirelli

Secondo equipaggio qualificato:

  • 1 edizione limitata della trilogia End di Carlos Casas
  • 1 automobile telecomandata F1
  • 1 mini I-pod
  • 1 buono presso l’estetista ‘Rosa nel Deserto’ per solarium e presso-terapia
  • 2 ombrelli Pirelli

Terzo equipaggio qualificato:

  • 1 borsone da viaggio Pzero
  • 1 automobile telecomandata F1
  • 1 mini I-pod
  • 1 buono pranzo o cena presso il Dopolavoro Bicocca
  • braccialetti in gomma Pirelli

Quarto equipaggio qualificato:

  • 1 zaino Nava – Pirelli
  • 1 beauty Case Nava – Pirelli
  • 1 buono presso Libreria Cortina
  • 1 buono presso Fiorista
  • braccialetti in gomma Pirelli

Siete sicuri di conoscere il quartiere Bicocca? Raccogliete la nostra sfida e partecipate a “Caccia alla Bicocca“, un’entusiasmante caccia al tesoro aperta ad adulti e bambini in cui velocità, strategia e intraprendenza saranno gli ingredienti essenziali per divertirsi insieme alla scoperta delle grandi trasformazioni di quest’area di 700mila metri quadri. Un coinvolgente percorso a tappe in una corsa contro il tempo! Ricche sorprese per tutti i partecipanti!
Modalità di partecipazione
Dove: HangarBicocca (partenza)
Iscrizione obbligatoria
: esclusivamente via mail, scrivendo a info@hangarbicocca.org 
Equipaggi
: Ogni equipaggio potrà essere composto da un minimo di 4 a un massimo di 6 partecipanti (di cui almeno uno maggiorenne).
Massimo 20 equipaggi

I PREMI
Primo equipaggio qualificato:

  • 2 biglietti Area Hospitality Pirelli per il Gran Premio di F1 di Monza 2013
  • 1 automobile telecomandata F1
  • 1 buono presso l’estetista ‘Rosa nel Deserto’ per solarium e presso-terapia
  • 2 ombrelli Pirelli

Secondo equipaggio qualificato:

  • 1 edizione limitata della trilogia End di Carlos Casas
  • 1 automobile telecomandata F1
  • 1 mini I-pod
  • 1 buono presso l’estetista ‘Rosa nel Deserto’ per solarium e presso-terapia
  • 2 ombrelli Pirelli

Terzo equipaggio qualificato:

  • 1 borsone da viaggio Pzero
  • 1 automobile telecomandata F1
  • 1 mini I-pod
  • 1 buono pranzo o cena presso il Dopolavoro Bicocca
  • braccialetti in gomma Pirelli

Quarto equipaggio qualificato:

  • 1 zaino Nava – Pirelli
  • 1 beauty Case Nava – Pirelli
  • 1 buono presso Libreria Cortina
  • 1 buono presso Fiorista
  • braccialetti in gomma Pirelli

Per il “patto dei produttori” meno tasse su imprese e lavoro

Si chiama “patto dei produttori”. Ed è una scelta importante nel panorama delle relazioni industriali italiane. Una indicazione politica, di imprenditori e sindacati dei lavoratori, ma anche una precisa volontà di avviare accordi aziendali per rafforzare la competitività delle imprese, migliorare la produttività, impegnarsi in crescita, qualità e innovazione. C’è anche un altro fronte di impegno: fare azione di pressione, di lobbying su governo, Parlamento, forze politiche, perché vengano avviate politiche economiche che privilegino chi produce veramente ricchezza: le imprese.

La formula del “patto dei produttori”, per la verità, non è nuova: aveva segnato il dibattito politico italiano nei difficili anni Settanta soprattutto nelle analisi e nelle proposte, pur differenti, del Pci di Enrico Berlinguer e del Pri di Ugo La Malfa, in polemica con le tendenze, già allora molto diffuse, a dare retta, nelle scelte politiche, a corporazioni e clientele (alimentate soprattutto da ambienti Dc). Adesso il tema si ripropone. E assume vesti nuove. A pronunciare la frase, sono Confindustria e Cgil, Cisl e Uil (i rappresentanti dei produttori, appunto, pur tra limiti e contraddizioni). E se ne è avuta una rappresentazione anche fisica proprio durante le manifestazioni del Primo Maggio, a Bologna e a Treviso, quando sui palchi delle manifestazioni, accanto ai leader sindacali, si sono schierati i rappresentanti di Confindustria, Confartigianato, Cna e Lega delle cooperative, gli uomini delle imprese, insomma.

Cosa si chiede, da parte del “patto dei produttori”? Misure per fare ripartire la macchina dell’economia, puntando sulle imprese produttive, sulle manifatture, innzanzitutto e dunque usando bene la leva fiscale per favorire l’innovazione, la ricerca, l’internazionalizzazione, l’export, la competitività. Un fisco più leggero e semplice per chi intraprende e produce. E non tagli fiscali generali e generici, ma una strategia di politica industriale che abbia nel fisco intelligente e selettivo il suo strumento. Il consenso viene anche dall’Ocse: “La priorità per l’Italia – sostiene il segretario generale Ocse Angel Gurruia – è ridurre le tasse per le imprese e il lavoro”. Attenzione ai produttori, appunto.

Si chiama “patto dei produttori”. Ed è una scelta importante nel panorama delle relazioni industriali italiane. Una indicazione politica, di imprenditori e sindacati dei lavoratori, ma anche una precisa volontà di avviare accordi aziendali per rafforzare la competitività delle imprese, migliorare la produttività, impegnarsi in crescita, qualità e innovazione. C’è anche un altro fronte di impegno: fare azione di pressione, di lobbying su governo, Parlamento, forze politiche, perché vengano avviate politiche economiche che privilegino chi produce veramente ricchezza: le imprese.

La formula del “patto dei produttori”, per la verità, non è nuova: aveva segnato il dibattito politico italiano nei difficili anni Settanta soprattutto nelle analisi e nelle proposte, pur differenti, del Pci di Enrico Berlinguer e del Pri di Ugo La Malfa, in polemica con le tendenze, già allora molto diffuse, a dare retta, nelle scelte politiche, a corporazioni e clientele (alimentate soprattutto da ambienti Dc). Adesso il tema si ripropone. E assume vesti nuove. A pronunciare la frase, sono Confindustria e Cgil, Cisl e Uil (i rappresentanti dei produttori, appunto, pur tra limiti e contraddizioni). E se ne è avuta una rappresentazione anche fisica proprio durante le manifestazioni del Primo Maggio, a Bologna e a Treviso, quando sui palchi delle manifestazioni, accanto ai leader sindacali, si sono schierati i rappresentanti di Confindustria, Confartigianato, Cna e Lega delle cooperative, gli uomini delle imprese, insomma.

Cosa si chiede, da parte del “patto dei produttori”? Misure per fare ripartire la macchina dell’economia, puntando sulle imprese produttive, sulle manifatture, innzanzitutto e dunque usando bene la leva fiscale per favorire l’innovazione, la ricerca, l’internazionalizzazione, l’export, la competitività. Un fisco più leggero e semplice per chi intraprende e produce. E non tagli fiscali generali e generici, ma una strategia di politica industriale che abbia nel fisco intelligente e selettivo il suo strumento. Il consenso viene anche dall’Ocse: “La priorità per l’Italia – sostiene il segretario generale Ocse Angel Gurruia – è ridurre le tasse per le imprese e il lavoro”. Attenzione ai produttori, appunto.

Impresa familiare e territorio: legame a filo doppio

L’impresa, soprattutto se familiare, guarda anche al territorio. Anzi, di più: uno dei connotati, dei tratti caratteristici dell’impresa familiare e della sua cultura, pare consista proprio nell’attenzione ai legami locali, “personali”, storici con l’area nella quale è nata. Non si tratta di una questione di dimensioni occupazionali, quanto di origine e approccio gestionale.

Ciò che ne nasce è un assetto particolare della produzione che risponde in maniera particolare alle sollecitazioni esterne: le crisi, i mercati, i costi di produzione, la concorrenza.

Ne è prova quanto evidenziato da Leandro D’Aurizio (Banca d’Italia) e Livio Romano (Istituto Universitario Europeo), in un acuto studio appena pubblicato da Banca d’Italia – “Le imprese familiari nella Grande Recessione” -, che analizza il comportamento delle imprese familiari cosiddetti multi-stabilimento nel periodo definito della “Grande recessione” cioè dal 2007 al 2009.

In particolare, il lavoro – usando i dati dell’indagine sulle imprese condotta dalla Banca d’Italia (Invind) -, studia l’adattamento, avvenuto a seguito della crisi economica, dei livelli di occupazione delle imprese familiari italiane.

Il risultato è chiaro: “Durante la crisi – spiegano i due economisti -, le imprese familiari multi-stabilimento hanno privilegiato l’occupazione nella sede principale rispetto alle sedi periferiche. In particolare, l’aggiustamento all’interno delle imprese (within firm) ha comportato per le aziende familiari un lieve aumento dei lavoratori nella sede principale, contro una diminuzione per le imprese non familiari”.

Perché questo? Probabilmente – spiegano i due -, per la concreta applicazione del “concetto di riconoscibilità sociale” basata sul legame di natura affettiva e psicologica esistente tra l’imprenditore e la comunità alla quale appartiene.

Un’importanza talmente grande da essere colta statisticamente e da rappresentare il segno tangibile di una cultura d’impresa ancora molto radicata in Italia, al di là della recessione e delle difficoltà contingenti.

Le imprese familiari nella Grande Recessione (Family firms and the Great Recession: out of sight, out of mind?) 

Leandro D’Aurizio e Livio Romano 

Tema di discussione n. 905, aprile 2013

L’impresa, soprattutto se familiare, guarda anche al territorio. Anzi, di più: uno dei connotati, dei tratti caratteristici dell’impresa familiare e della sua cultura, pare consista proprio nell’attenzione ai legami locali, “personali”, storici con l’area nella quale è nata. Non si tratta di una questione di dimensioni occupazionali, quanto di origine e approccio gestionale.

Ciò che ne nasce è un assetto particolare della produzione che risponde in maniera particolare alle sollecitazioni esterne: le crisi, i mercati, i costi di produzione, la concorrenza.

Ne è prova quanto evidenziato da Leandro D’Aurizio (Banca d’Italia) e Livio Romano (Istituto Universitario Europeo), in un acuto studio appena pubblicato da Banca d’Italia – “Le imprese familiari nella Grande Recessione” -, che analizza il comportamento delle imprese familiari cosiddetti multi-stabilimento nel periodo definito della “Grande recessione” cioè dal 2007 al 2009.

In particolare, il lavoro – usando i dati dell’indagine sulle imprese condotta dalla Banca d’Italia (Invind) -, studia l’adattamento, avvenuto a seguito della crisi economica, dei livelli di occupazione delle imprese familiari italiane.

Il risultato è chiaro: “Durante la crisi – spiegano i due economisti -, le imprese familiari multi-stabilimento hanno privilegiato l’occupazione nella sede principale rispetto alle sedi periferiche. In particolare, l’aggiustamento all’interno delle imprese (within firm) ha comportato per le aziende familiari un lieve aumento dei lavoratori nella sede principale, contro una diminuzione per le imprese non familiari”.

Perché questo? Probabilmente – spiegano i due -, per la concreta applicazione del “concetto di riconoscibilità sociale” basata sul legame di natura affettiva e psicologica esistente tra l’imprenditore e la comunità alla quale appartiene.

Un’importanza talmente grande da essere colta statisticamente e da rappresentare il segno tangibile di una cultura d’impresa ancora molto radicata in Italia, al di là della recessione e delle difficoltà contingenti.

Le imprese familiari nella Grande Recessione (Family firms and the Great Recession: out of sight, out of mind?) 

Leandro D’Aurizio e Livio Romano 

Tema di discussione n. 905, aprile 2013

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