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L’impresa aumentata e i suoi rischi

Velocità, globalizzazione, accelerazione. Passa anche da questi vocaboli la vita dell’impresa moderna. Una vita frenetica, che rischia di schiacciare più di un’azienda (come effettivamente è), e che mette a dura prova i metodi di gestione, le pianificazioni, la stessa identità delle aziende e la cultura del produrre sulla quale sono nate e cresciute. Nascono addirittura nuove espressioni come quella che fa riferimento alla “impresa aumentata”, cioè a quelle entità che fanno del web, della rete, i loro veri mercati di caccia, quei territori che un tempo avevano una delimitazione fisica e che oggi sono di fatto senza confini.

Accanto alla produzione reale, alla cosiddetta manifattura, sempre più spazio acquistano poi altri aspetti d’impresa che hanno a che fare con la comunicazione, con la reti d’informazione, con la responsabilità che ne deriva.

Indagare sulla realtà di queste imprese, capirne i metodi di azione, significa approfondire non solo il presente dell’economia ma anche i possibili sviluppi. E’ ciò che fa Gian Paolo Bonani (del Dipartimento di comunicazione e ricerca sociale della Sapienza di Roma), nel suo “L’impresa aumentata. Caos e responsabilità della comunicazione d’impresa nell’età social”: un volume pensato per gli universitari ma utile per chi, anche nelle aziende, voglia capire di più della situazione in cui è immerso.

L’attività economica delle aziende e di tutte le organizzazioni – è la tesi di Bonani -, si estende, si accelera, si intensifica e rende gli obiettivi produttivi e sociali più articolati, complessi e carichi di responsabilità. E non solo, perché per l’autore l’impresa che si avvale della rete per arricchire il proprio territorio di azione e di influenza, commerciale e culturale, si trova dentro un ambiente economico e di fronte a una popolazione di consumatori completamente trasformati negli ultimi 20 anni.

Bonani analizza, studia, spiega, esemplifica percorrendo quindi un tema complicato e denso. Guarda anche agli errori e alle distorsioni che la situazione porta con se’. Arrivando a confezionare una “guida” per muoversi meglio in una giungla che si fa sempre più fitta.

L’impresa aumentata. Caos e responsabilità della comunicazione d’impresa nell’età social

G. Paolo Bonani

Franco Angeli, 2013

Velocità, globalizzazione, accelerazione. Passa anche da questi vocaboli la vita dell’impresa moderna. Una vita frenetica, che rischia di schiacciare più di un’azienda (come effettivamente è), e che mette a dura prova i metodi di gestione, le pianificazioni, la stessa identità delle aziende e la cultura del produrre sulla quale sono nate e cresciute. Nascono addirittura nuove espressioni come quella che fa riferimento alla “impresa aumentata”, cioè a quelle entità che fanno del web, della rete, i loro veri mercati di caccia, quei territori che un tempo avevano una delimitazione fisica e che oggi sono di fatto senza confini.

Accanto alla produzione reale, alla cosiddetta manifattura, sempre più spazio acquistano poi altri aspetti d’impresa che hanno a che fare con la comunicazione, con la reti d’informazione, con la responsabilità che ne deriva.

Indagare sulla realtà di queste imprese, capirne i metodi di azione, significa approfondire non solo il presente dell’economia ma anche i possibili sviluppi. E’ ciò che fa Gian Paolo Bonani (del Dipartimento di comunicazione e ricerca sociale della Sapienza di Roma), nel suo “L’impresa aumentata. Caos e responsabilità della comunicazione d’impresa nell’età social”: un volume pensato per gli universitari ma utile per chi, anche nelle aziende, voglia capire di più della situazione in cui è immerso.

L’attività economica delle aziende e di tutte le organizzazioni – è la tesi di Bonani -, si estende, si accelera, si intensifica e rende gli obiettivi produttivi e sociali più articolati, complessi e carichi di responsabilità. E non solo, perché per l’autore l’impresa che si avvale della rete per arricchire il proprio territorio di azione e di influenza, commerciale e culturale, si trova dentro un ambiente economico e di fronte a una popolazione di consumatori completamente trasformati negli ultimi 20 anni.

Bonani analizza, studia, spiega, esemplifica percorrendo quindi un tema complicato e denso. Guarda anche agli errori e alle distorsioni che la situazione porta con se’. Arrivando a confezionare una “guida” per muoversi meglio in una giungla che si fa sempre più fitta.

L’impresa aumentata. Caos e responsabilità della comunicazione d’impresa nell’età social

G. Paolo Bonani

Franco Angeli, 2013

“La Fabbrica Sospesa”: a colloquio con Silvio Soldini

Tra le iniziative di “Scoprire Bicocca 1450-2013”, giovedì 9 maggio verrà proiettato il documentario “La Fabbrica Sospesa”, commissionato da Pirelli a Silvio Soldini nel 1987. Vi proponiamo uno stralcio dell’intervista di Andrea Kerbaker al regista, pubblicata sulla rivista “Fatti e Notizie”.

A colloquio con Silvio Soldini

IN UN FILM LA STORIA DELLA BICOCCA

Studi di cinema a New York, in un primo cortometraggio in bianco e nero, Drimage, apprezzato dai critici e vincitore di un premio milanese nel 1982, poi due lungometraggi, Paesaggio con figure (1983) e Giulia in Ottobre (1985) […]. A lui la Pirelli ha commissionato un film sulla Bicocca, prima che le ristrutturazioni, cui porterà il progetto Bicocca, facciano scomparire per sempre molti edifici dell’area. Le riprese sono cominciate a giugno; abbiamo approfittato di una pausa del lavoro per rivolgere a Soldini qualche domanda.

Il documentario industriale per te rappresenta un campo ancora inesplorato. Raccontaci come ti si è presentata questa opportunità.

Tutto è nato quando Gavino Manca, amministratore delegato delle Industrie Pirelli, ha visto il mio documentario Voci celate, apprezzandone l’approccio umano, il peso emotivo, il modo in cui avevo cercato di fare emergere le personalità dei singoli personaggi, facendoli divenire i veri protagonisti del film. A quel punto mi è stato chiesto se mi interessante ricordare la Bicocca come un posto in cui si sono intrecciate esistenze umane di lavoro, un posto con un vissuto e una storia. Era un taglio che condividevo pienamente, e perciò ho accettato volentieri.

Mi pare che da questa collaborazione nasca quindi qualche cosa di nuovo nell’ambito del documentario industriale.

Si, l’intenzione è questa. La mia impressione è che il documentario industriale, così come è concepito oggi, sia una forma di espressione largamente insoddisfacente. La maggior parte di quelli che ho visto sono uguali e monotoni: riprese più o meno belle, musichetta piacevole di sottofondo, un montaggio raffazzonato, testi agiografici in cui si esaltano le magnifiche sorti e progressive del committente. Chiaro che un lavoro fatto così, in questo caso, non interessava Pirelli, e tanto meno me […].

Questi intenti come si tradurranno praticamente in sede di esecuzione del film?

Visto che il filo conduttore del discorso non sarà costituito dagli edifici in quanto tali ma dalle presenze umane che sono esistite tra questi muri, ho cominciato con delle interviste: ho incontrato una trentina di persone che hanno lavorato o ancora lavorano in Bicocca e sceglierò sette/otto tra le testimonianze più significative. Le riprese dei luoghi (che sono durate tre settimane) saranno inoltre supportate dal suono in presa diretta, come sempre dei nei miei lavori […].

Proiezione; giovedì 9 maggio presso HangarBicocca

Entrata libera fino ad esaurimento posti

Tra le iniziative di “Scoprire Bicocca 1450-2013”, giovedì 9 maggio verrà proiettato il documentario “La Fabbrica Sospesa”, commissionato da Pirelli a Silvio Soldini nel 1987. Vi proponiamo uno stralcio dell’intervista di Andrea Kerbaker al regista, pubblicata sulla rivista “Fatti e Notizie”.

A colloquio con Silvio Soldini

IN UN FILM LA STORIA DELLA BICOCCA

Studi di cinema a New York, in un primo cortometraggio in bianco e nero, Drimage, apprezzato dai critici e vincitore di un premio milanese nel 1982, poi due lungometraggi, Paesaggio con figure (1983) e Giulia in Ottobre (1985) […]. A lui la Pirelli ha commissionato un film sulla Bicocca, prima che le ristrutturazioni, cui porterà il progetto Bicocca, facciano scomparire per sempre molti edifici dell’area. Le riprese sono cominciate a giugno; abbiamo approfittato di una pausa del lavoro per rivolgere a Soldini qualche domanda.

Il documentario industriale per te rappresenta un campo ancora inesplorato. Raccontaci come ti si è presentata questa opportunità.

Tutto è nato quando Gavino Manca, amministratore delegato delle Industrie Pirelli, ha visto il mio documentario Voci celate, apprezzandone l’approccio umano, il peso emotivo, il modo in cui avevo cercato di fare emergere le personalità dei singoli personaggi, facendoli divenire i veri protagonisti del film. A quel punto mi è stato chiesto se mi interessante ricordare la Bicocca come un posto in cui si sono intrecciate esistenze umane di lavoro, un posto con un vissuto e una storia. Era un taglio che condividevo pienamente, e perciò ho accettato volentieri.

Mi pare che da questa collaborazione nasca quindi qualche cosa di nuovo nell’ambito del documentario industriale.

Si, l’intenzione è questa. La mia impressione è che il documentario industriale, così come è concepito oggi, sia una forma di espressione largamente insoddisfacente. La maggior parte di quelli che ho visto sono uguali e monotoni: riprese più o meno belle, musichetta piacevole di sottofondo, un montaggio raffazzonato, testi agiografici in cui si esaltano le magnifiche sorti e progressive del committente. Chiaro che un lavoro fatto così, in questo caso, non interessava Pirelli, e tanto meno me […].

Questi intenti come si tradurranno praticamente in sede di esecuzione del film?

Visto che il filo conduttore del discorso non sarà costituito dagli edifici in quanto tali ma dalle presenze umane che sono esistite tra questi muri, ho cominciato con delle interviste: ho incontrato una trentina di persone che hanno lavorato o ancora lavorano in Bicocca e sceglierò sette/otto tra le testimonianze più significative. Le riprese dei luoghi (che sono durate tre settimane) saranno inoltre supportate dal suono in presa diretta, come sempre dei nei miei lavori […].

Proiezione; giovedì 9 maggio presso HangarBicocca

Entrata libera fino ad esaurimento posti

Si torna negli Usa e in Europa per riaprire le fabbriche

Tra “local” e “global” si definiscono nuove strade. Il “glocal”, un impasto, noto da qualche tempo, di globale e locale, per parlare di attività imprenditoriali con salde radici sul territorio d’origine e occhi attenti ai mercati internazionali. E, di recente, ecco un nuovo fenomeno: la “rilocalizzazione” e cioè il ritorno di attività industriali nelle aree d’origine, dopo la fortunata stagione della “delocalizzazione”. Si fa di nuovo industria in Europa. E soprattutto negli Usa. Proprio lì, negli ultimi tre anni, il manifatturiero ha creato circa 500mila nuovi posti di lavoro. E le politiche economiche del presidente Obama hanno sostenuto la rinascita o il rafforzamento dell’industria dell’auto (e di tutto il comparto “automotive”) e di parecchi altri settori.

Contrordine, insomma. Fare vivere le fabbriche, nei paesi di antica tradizione industriale e ad alto costo del lavoro, si può. E si deve. Viene dalla manifattura, infatti, un contributo solido e di lunga durata sia al Pil sia agli equilibri sociali ed economici diffusi (una struttura industriale che innerva ampi territori è come un reticolo di radici che tengono compatto e solido il terreno, evitando frane, fratture, smottamenti). E attorno alla manifattura maturano nuove competenze, saperi, culture che sono motore di ricchezza diffusa, continuamente rinnovabile (a patto naturalmente di investire su formazione e ricerca, sul capitale umano e la diffusione tecnologica).

La manifattura è fonte di conoscenza”, sostiene Luca Paolazzi, direttore del Centro Studi Confindustria, in un libro recente, “L’Europa e l’Italia nel secolo asiatico: integrazione e forza industriale a difesa di libertà e benessere”, pubblicato dalla Luiss University Press. E spiega: “Dalle imprese manifatturiere viene effettuata la maggior parte della ricerca, di base e applicata. E lo stesso ‘fare’, cioè il produrre, propone miglioramenti e avanza soluzioni nei processi e nei prodotti”. Fabbrica come cultura. E fabbrica come trama dei tessuti sociali. Fonte di ricchezza (appunto il Pil). Ma anche di relazioni dense di solidarietà e futuro (quel buon “capitale sociale” che contribuisce al nuovo indice Bes, benessere equo e sostenibile).

Aprire fabbriche, dunque. E riaprirle. Tornando a produrre negli Usa, in Europa, in Italia. Buone relazioni di distretto e di filiera. Una intelligente “supply chain”. Tecnologie sofisticate per produzioni di nicchia, solida qualità e alto valore aggiunto. Su questo terreno l’Italia industriale ha molte carte in regola. Da giocare meglio che in passato.

Tra “local” e “global” si definiscono nuove strade. Il “glocal”, un impasto, noto da qualche tempo, di globale e locale, per parlare di attività imprenditoriali con salde radici sul territorio d’origine e occhi attenti ai mercati internazionali. E, di recente, ecco un nuovo fenomeno: la “rilocalizzazione” e cioè il ritorno di attività industriali nelle aree d’origine, dopo la fortunata stagione della “delocalizzazione”. Si fa di nuovo industria in Europa. E soprattutto negli Usa. Proprio lì, negli ultimi tre anni, il manifatturiero ha creato circa 500mila nuovi posti di lavoro. E le politiche economiche del presidente Obama hanno sostenuto la rinascita o il rafforzamento dell’industria dell’auto (e di tutto il comparto “automotive”) e di parecchi altri settori.

Contrordine, insomma. Fare vivere le fabbriche, nei paesi di antica tradizione industriale e ad alto costo del lavoro, si può. E si deve. Viene dalla manifattura, infatti, un contributo solido e di lunga durata sia al Pil sia agli equilibri sociali ed economici diffusi (una struttura industriale che innerva ampi territori è come un reticolo di radici che tengono compatto e solido il terreno, evitando frane, fratture, smottamenti). E attorno alla manifattura maturano nuove competenze, saperi, culture che sono motore di ricchezza diffusa, continuamente rinnovabile (a patto naturalmente di investire su formazione e ricerca, sul capitale umano e la diffusione tecnologica).

La manifattura è fonte di conoscenza”, sostiene Luca Paolazzi, direttore del Centro Studi Confindustria, in un libro recente, “L’Europa e l’Italia nel secolo asiatico: integrazione e forza industriale a difesa di libertà e benessere”, pubblicato dalla Luiss University Press. E spiega: “Dalle imprese manifatturiere viene effettuata la maggior parte della ricerca, di base e applicata. E lo stesso ‘fare’, cioè il produrre, propone miglioramenti e avanza soluzioni nei processi e nei prodotti”. Fabbrica come cultura. E fabbrica come trama dei tessuti sociali. Fonte di ricchezza (appunto il Pil). Ma anche di relazioni dense di solidarietà e futuro (quel buon “capitale sociale” che contribuisce al nuovo indice Bes, benessere equo e sostenibile).

Aprire fabbriche, dunque. E riaprirle. Tornando a produrre negli Usa, in Europa, in Italia. Buone relazioni di distretto e di filiera. Una intelligente “supply chain”. Tecnologie sofisticate per produzioni di nicchia, solida qualità e alto valore aggiunto. Su questo terreno l’Italia industriale ha molte carte in regola. Da giocare meglio che in passato.

Perché un’impresa nasce in un certo luogo e non in un altro?

Nascita, progressione e sviluppo delle imprese derivano anche dalle condizioni storiche, istituzionali e sociali nelle quali si ritrovano gli imprenditori. Anzi, la particolare natura delle imprese, la loro cultura, il modo di essere e le possibilità che hanno di svilupparsi, pare siano strettamente collegate all’epoca storica che le vede sorgere. Per capire meglio, però, occorre organizzare le informazioni e le interpretazioni secondo un filo logico. Servono guide come quella predisposta da Geoffrey Jones (della Harvard University – Entrepreneurial Management Unit), che in poco più di 70 pagine racconta l’evoluzione dei rapporti fra imprenditorialità, aziende e sviluppo dal 1850 ad oggi.

Lo studio  integra le conoscenze sul ruolo dell’imprenditorialità e delle imprese nelle analisi del perché l’Asia, l’America Latina e l’Africa siano state così lente a raggiungere l’Occidente dopo la rivoluzione industriale e l’avvento della crescita economica moderna e di come, invece, oggi alcune aree del mondo stiano crescendo molto più dell’Europa e dell’America del Nord.

Per condurre il lettore lungo oltre cento anni di storia economica e d’impresa, Jones divide il tutto in grandi passaggi: la creazione della ricchezza e della povertà all’epoca della “prima economia globale” e fino al primo conflitto mondale, lo sconquasso determinato dalla Seconda Guerra Mondiale e l’evoluzione del dopoguerra, la fase della “seconda economia globale” fino ad oggi. Tutto raccontato piuttosto che esposto, in modo tale da costruire una storia e non solamente un saggio accademico.

La conclusione secondo Jones, è che le spiegazioni che si concentrano sulle istituzioni carenti, sulla scarsa propensione allo sviluppo del capitale umano, sulla geografia e sulla cultura sono importanti, ma non sufficienti per capire la crescita delle imprese e il loro modo di affrontare la realtà. Oggi, poi, il radicamento sociale e culturale delle nuove tecnologie pone importanti sfide imprenditoriali e culturali che le diverse aree del globo affrontano in maniera diversa e con risultati differenti. “Pratiche manageriali spesso locali e occidentali – dice ad un certo punto Jones -, sono state combinate per la produzione di forme ibride di impresa”.

Entrepreneurs, Firms and Global Wealth Since 1850

Geoffrey Jones 

Harvard Business School – General Management Unit, Working Paper No. 13-076, 2013.

Nascita, progressione e sviluppo delle imprese derivano anche dalle condizioni storiche, istituzionali e sociali nelle quali si ritrovano gli imprenditori. Anzi, la particolare natura delle imprese, la loro cultura, il modo di essere e le possibilità che hanno di svilupparsi, pare siano strettamente collegate all’epoca storica che le vede sorgere. Per capire meglio, però, occorre organizzare le informazioni e le interpretazioni secondo un filo logico. Servono guide come quella predisposta da Geoffrey Jones (della Harvard University – Entrepreneurial Management Unit), che in poco più di 70 pagine racconta l’evoluzione dei rapporti fra imprenditorialità, aziende e sviluppo dal 1850 ad oggi.

Lo studio  integra le conoscenze sul ruolo dell’imprenditorialità e delle imprese nelle analisi del perché l’Asia, l’America Latina e l’Africa siano state così lente a raggiungere l’Occidente dopo la rivoluzione industriale e l’avvento della crescita economica moderna e di come, invece, oggi alcune aree del mondo stiano crescendo molto più dell’Europa e dell’America del Nord.

Per condurre il lettore lungo oltre cento anni di storia economica e d’impresa, Jones divide il tutto in grandi passaggi: la creazione della ricchezza e della povertà all’epoca della “prima economia globale” e fino al primo conflitto mondale, lo sconquasso determinato dalla Seconda Guerra Mondiale e l’evoluzione del dopoguerra, la fase della “seconda economia globale” fino ad oggi. Tutto raccontato piuttosto che esposto, in modo tale da costruire una storia e non solamente un saggio accademico.

La conclusione secondo Jones, è che le spiegazioni che si concentrano sulle istituzioni carenti, sulla scarsa propensione allo sviluppo del capitale umano, sulla geografia e sulla cultura sono importanti, ma non sufficienti per capire la crescita delle imprese e il loro modo di affrontare la realtà. Oggi, poi, il radicamento sociale e culturale delle nuove tecnologie pone importanti sfide imprenditoriali e culturali che le diverse aree del globo affrontano in maniera diversa e con risultati differenti. “Pratiche manageriali spesso locali e occidentali – dice ad un certo punto Jones -, sono state combinate per la produzione di forme ibride di impresa”.

Entrepreneurs, Firms and Global Wealth Since 1850

Geoffrey Jones 

Harvard Business School – General Management Unit, Working Paper No. 13-076, 2013.

Viaggio nell’Italia delle imprese

Per capire la cultura d’impresa in Italia oggi, occorre guardarsi attorno, ma anche indietro. Cercare nel passato e nel presente, parlare con gli imprenditori. Indagare sulle scelte fatte, sulle strade intraprese, su quanto è accaduto e sta accadendo dentro e fuori dalle fabbriche e dagli uffici. Compito difficile ma affascinante, non solamente “accademico” ma tremendamente pratico e utile.

Ci ha provato, e bene, Aldo Bonomi nel suo ultimo saggio “Il capitalismo in-finito” in uscita in questi giorni. Si tratta di un viaggio denso ed emozionante che parte da alcune domande. Che cosa è cambiato, per esempio, rispetto agli anni del trionfo del modello della piccola e media azienda italiana rampante? E che cosa da quando centinaia, migliaia di imprenditori del Nord-Est investivano denaro pur sapendo di correre un rischio e si lanciavano in nuove sfide, mossi dalla voglia di affermarsi sul mercato e di guadagnarsi il proprio posto al sole?

La risposta è “tutto”. E la dimostrazione di Bonomi passa da una serie corposa di dati e interviste che percorrono tutto lo Stivale industriale nazionale: dalla Torino del postfordismo alla Pedemontana veneta con Padova e Vicenza, da Modena alle aree adriatiche di Pesaro e Urbino, da Firenze fino a Siracusa.

Bonomi, occorre notarlo, ha messo insieme non un saggio di ricerca e basta, ma una serie di racconti e di storie di vita che aiutano a capire meglio cosa è stato fatto, quale sia il modello culturale d’impresa che ha accompagnato la crescita dell’economia italiana fino ad oggi e, adesso, la sua stagnazione e i tanti dubbi sul futuro che assillano imprenditori, politici e cittadini.

Un libro e un viaggio che ricordano – in un certo modo -, altre imprese simili come quelle compiute da Guido Piovene (“Viaggio in Italia”) e da Giorgio Bocca (“Miracolo all’italiana”), che hanno però raccontato un Paese che oggi sembra distante secoli da quello attuale.

Per capire la cultura d’impresa in Italia oggi, occorre guardarsi attorno, ma anche indietro. Cercare nel passato e nel presente, parlare con gli imprenditori. Indagare sulle scelte fatte, sulle strade intraprese, su quanto è accaduto e sta accadendo dentro e fuori dalle fabbriche e dagli uffici. Compito difficile ma affascinante, non solamente “accademico” ma tremendamente pratico e utile.

Ci ha provato, e bene, Aldo Bonomi nel suo ultimo saggio “Il capitalismo in-finito” in uscita in questi giorni. Si tratta di un viaggio denso ed emozionante che parte da alcune domande. Che cosa è cambiato, per esempio, rispetto agli anni del trionfo del modello della piccola e media azienda italiana rampante? E che cosa da quando centinaia, migliaia di imprenditori del Nord-Est investivano denaro pur sapendo di correre un rischio e si lanciavano in nuove sfide, mossi dalla voglia di affermarsi sul mercato e di guadagnarsi il proprio posto al sole?

La risposta è “tutto”. E la dimostrazione di Bonomi passa da una serie corposa di dati e interviste che percorrono tutto lo Stivale industriale nazionale: dalla Torino del postfordismo alla Pedemontana veneta con Padova e Vicenza, da Modena alle aree adriatiche di Pesaro e Urbino, da Firenze fino a Siracusa.

Bonomi, occorre notarlo, ha messo insieme non un saggio di ricerca e basta, ma una serie di racconti e di storie di vita che aiutano a capire meglio cosa è stato fatto, quale sia il modello culturale d’impresa che ha accompagnato la crescita dell’economia italiana fino ad oggi e, adesso, la sua stagnazione e i tanti dubbi sul futuro che assillano imprenditori, politici e cittadini.

Un libro e un viaggio che ricordano – in un certo modo -, altre imprese simili come quelle compiute da Guido Piovene (“Viaggio in Italia”) e da Giorgio Bocca (“Miracolo all’italiana”), che hanno però raccontato un Paese che oggi sembra distante secoli da quello attuale.

A scuola di gomma in Bicocca. R&D e Fondazione Pirelli aprono le porte alla scuola G. B. Pirelli

Anche quest’anno la Fondazione Pirelli ha aperto le porte ai bambini di terza elementare della scuola Giovanni Battista Pirelli, riservando loro una lezione molto speciale.

Dopo una breve introduzione sulla storia della gomma e sulle proprietà di questo materiale, i bambini hanno potuto apprendere le principali fasi di lavorazione del pneumatico. Dalla teoria alla pratica: armati di plastilina (rigorosamente nera!) e bastoncini di legno, i bambini hanno dato sfogo alla loro fantasia disegnando e realizzando il loro battistrada… disegni geometrici, forme riprese dal mondo della natura e anche qualche cuoricino. Nascono così i nuovi battistrada ‘Fantasia’, ‘DNA’, ‘Cielo gommoso’, ‘Vai’ e tanti altri.

La mattinata è proseguita con una visita ai laboratori di R&D. Guidati dai colleghi del laboratorio, i bambini hanno scoperto tutti i segreti del processo di creazione del battistrada: dal tracciato del laser al delicato lavoro della sgorbiatura per poi passare alla camera semianecoica, dove, rigorosamente in silenzio, hanno testato le performance dei pneumatici Pirelli.

Questo percorso è parte integrante del programma formativo proposto da Fondazione Pirelli con lo scopo di far conoscere il mondo della fabbrica e del lavoro e avvicinare anche i più piccoli verso i valori della nostra azienda.

Per chi fosse interessato a conoscere la nostra proposta formativa per le scuole può scrivere a info@fondazionepirelli.org o telefonare al numero 02/644270613.

Anche quest’anno la Fondazione Pirelli ha aperto le porte ai bambini di terza elementare della scuola Giovanni Battista Pirelli, riservando loro una lezione molto speciale.

Dopo una breve introduzione sulla storia della gomma e sulle proprietà di questo materiale, i bambini hanno potuto apprendere le principali fasi di lavorazione del pneumatico. Dalla teoria alla pratica: armati di plastilina (rigorosamente nera!) e bastoncini di legno, i bambini hanno dato sfogo alla loro fantasia disegnando e realizzando il loro battistrada… disegni geometrici, forme riprese dal mondo della natura e anche qualche cuoricino. Nascono così i nuovi battistrada ‘Fantasia’, ‘DNA’, ‘Cielo gommoso’, ‘Vai’ e tanti altri.

La mattinata è proseguita con una visita ai laboratori di R&D. Guidati dai colleghi del laboratorio, i bambini hanno scoperto tutti i segreti del processo di creazione del battistrada: dal tracciato del laser al delicato lavoro della sgorbiatura per poi passare alla camera semianecoica, dove, rigorosamente in silenzio, hanno testato le performance dei pneumatici Pirelli.

Questo percorso è parte integrante del programma formativo proposto da Fondazione Pirelli con lo scopo di far conoscere il mondo della fabbrica e del lavoro e avvicinare anche i più piccoli verso i valori della nostra azienda.

Per chi fosse interessato a conoscere la nostra proposta formativa per le scuole può scrivere a info@fondazionepirelli.org o telefonare al numero 02/644270613.

Una finanza da riportare al servizio dell’impresa

Dire “finanza”, nella stagione della Grande Crisi, evoca disvalori. L’avidità. La rapacità. Un mondo misterioso e incomprensibile. Montagne di carta che producono soldi, senza lavoro, senza produzione di beni e servizi utili. Speculazione. I predoni di Wall Street portati sullo schermo dal Gordon Gekko di Michael Douglas (un film profetico). Gli affaristi senza scrupoli del “Falò delle vanità” di Tom Wolfe (un libro bello, lucido, lettissimo ma inascoltato). I grandi banchieri dalle stock options e dai bonus scandalosamente elevati. Il volto peggiore del capitalismo. Ma l’economia non tollera giudizi manichei. E la finanza non è certo la sintesi del male. Riconsiderare criticamente i processi economici porta oggi a dire, proprio per rispondere alle sfide della Crisi, che la finanza va ricondotta al suo ruolo di “finanza d’impresa” e cioè di teorie e tecniche, strumenti e scelte, per facilitare la migliore allocazione del capitale (il risparmio, gli utili) verso le attività produttive. Una buona finanza al servizio dell’economia reale, insomma. Lo suggeriscono anche tre buoni libri appena usciti, le “Lezioni dalla crisi” di Giuliano Amato (un uomo di governo e di studi di rilievo internazionale) e Fabrizio Forquet, vicedirettore del Sole24Ore; “Il prezzo della diseguaglianza” del premio Nobel Joseph Stiglitz (l’obiettivo è “plasmare i mercati e portarli verso una maggiore eguaglianza di opportunità”); e soprattutto “L’ascesa della finanza internazionale” di Giuseppe Berta, uno dei migliori storici italiani dell’economia, che nota: “Occorre cambiare le istituzioni finanziarie. La chiave di volta per riformarle nell’interesse della giustizia sociale sta nella loro democratizzazione, nello spezzarne l’involucro elitario per integrarle meglio all’interno dell’economia reale e della società”. Fare seria ed efficace cultura d’impresa significa proprio oggi riflettere sulle funzioni e sul miglior coordinamento di tutti gli strumenti della produzione, sul coinvolgimento di tutti gli attori economici e sociali. Banche e strutture della finanza comprese, naturalmente.

Dire “finanza”, nella stagione della Grande Crisi, evoca disvalori. L’avidità. La rapacità. Un mondo misterioso e incomprensibile. Montagne di carta che producono soldi, senza lavoro, senza produzione di beni e servizi utili. Speculazione. I predoni di Wall Street portati sullo schermo dal Gordon Gekko di Michael Douglas (un film profetico). Gli affaristi senza scrupoli del “Falò delle vanità” di Tom Wolfe (un libro bello, lucido, lettissimo ma inascoltato). I grandi banchieri dalle stock options e dai bonus scandalosamente elevati. Il volto peggiore del capitalismo. Ma l’economia non tollera giudizi manichei. E la finanza non è certo la sintesi del male. Riconsiderare criticamente i processi economici porta oggi a dire, proprio per rispondere alle sfide della Crisi, che la finanza va ricondotta al suo ruolo di “finanza d’impresa” e cioè di teorie e tecniche, strumenti e scelte, per facilitare la migliore allocazione del capitale (il risparmio, gli utili) verso le attività produttive. Una buona finanza al servizio dell’economia reale, insomma. Lo suggeriscono anche tre buoni libri appena usciti, le “Lezioni dalla crisi” di Giuliano Amato (un uomo di governo e di studi di rilievo internazionale) e Fabrizio Forquet, vicedirettore del Sole24Ore; “Il prezzo della diseguaglianza” del premio Nobel Joseph Stiglitz (l’obiettivo è “plasmare i mercati e portarli verso una maggiore eguaglianza di opportunità”); e soprattutto “L’ascesa della finanza internazionale” di Giuseppe Berta, uno dei migliori storici italiani dell’economia, che nota: “Occorre cambiare le istituzioni finanziarie. La chiave di volta per riformarle nell’interesse della giustizia sociale sta nella loro democratizzazione, nello spezzarne l’involucro elitario per integrarle meglio all’interno dell’economia reale e della società”. Fare seria ed efficace cultura d’impresa significa proprio oggi riflettere sulle funzioni e sul miglior coordinamento di tutti gli strumenti della produzione, sul coinvolgimento di tutti gli attori economici e sociali. Banche e strutture della finanza comprese, naturalmente.

Proctoids, ovvero quando l’impresa diventa vita

La cultura d’impresa può arrivare ad essere talmente vissuta da chi nell’impresa agisce, da dare vita ad un’identità fortissima, tanto da far coniare un nome proprio per chi in quell’impresa lavora e, di fatto, vive buona parte della sua vita attiva. Niente di autoritario, ma molto di pervasivo; un’identità che permea il vissuto dei singoli e ne caratterizza l’essere. E’ il caso della Procter & Gamble, multinazionale storica con 170 anni di vita, oltre 130mila dipendenti in 80 paesi che ha dato vita ad una “corporate culture” che si concretizza negli stessi dipendenti: i “proctoids”, membri, appunto, di una vera cultura d’impresa, unica nel suo genere e  autocostruita nel tempo.

Per capire meglio, Isabel Cristina Parra  –  dell’Università EAFIT della Colombia -, ha provato ad indagare fra gli stessi lavoratori della multinazionale arrivando alla conferma dell’esistenza di una “cultura omogenea all’interno dell’organizzazione analizzata”.

Secondo questa ricerca – prima teorica e poi empirica -, per arrivare sempre all’eccellenza produttiva la P&G è organizzata in team multifunzionali che offrono una gamma ampliata di incarichi e opportunità di carriera. “Questa struttura – spiega la Parra -, ha aumentato il livello di diversità ed è arrivata alla necessità di uniformare i comportamenti. La cultura aziendale di oggi è l’evoluzione di questo modello organizzativo che è iniziato molti anni fa. Nel tempo Procter ha capito che una cultura comune doveva essere creata al fine di mantenere un buon ambiente”. E non solo: “I valori aziendali, i principi e le pratiche divennero più forti perché hanno cominciato a passare da un dipendente ad un altro, da una generazione all’altra”.

La conclusione del lavoro è chiara: “Ogni individuo ha il proprio profilo culturale unico. Allo stesso modo, un dato gruppo di persone ha un profilo culturale che riflette gli orientamenti culturali generali delle persone all’interno di quel gruppo. Possiamo parlare di norme culturali dominanti in Procter & Gamble, e possiamo parlare di un profilo di P&G individuale”.

Proctoids: Are they a Myth or Reality A Holistic Analysis of Procter & Gamble Corporate Culture

Isabel Cristina Parra

Revista de Negocios Internacionales. Vol. 2 Nº 2 Pp. 126 – 144

La cultura d’impresa può arrivare ad essere talmente vissuta da chi nell’impresa agisce, da dare vita ad un’identità fortissima, tanto da far coniare un nome proprio per chi in quell’impresa lavora e, di fatto, vive buona parte della sua vita attiva. Niente di autoritario, ma molto di pervasivo; un’identità che permea il vissuto dei singoli e ne caratterizza l’essere. E’ il caso della Procter & Gamble, multinazionale storica con 170 anni di vita, oltre 130mila dipendenti in 80 paesi che ha dato vita ad una “corporate culture” che si concretizza negli stessi dipendenti: i “proctoids”, membri, appunto, di una vera cultura d’impresa, unica nel suo genere e  autocostruita nel tempo.

Per capire meglio, Isabel Cristina Parra  –  dell’Università EAFIT della Colombia -, ha provato ad indagare fra gli stessi lavoratori della multinazionale arrivando alla conferma dell’esistenza di una “cultura omogenea all’interno dell’organizzazione analizzata”.

Secondo questa ricerca – prima teorica e poi empirica -, per arrivare sempre all’eccellenza produttiva la P&G è organizzata in team multifunzionali che offrono una gamma ampliata di incarichi e opportunità di carriera. “Questa struttura – spiega la Parra -, ha aumentato il livello di diversità ed è arrivata alla necessità di uniformare i comportamenti. La cultura aziendale di oggi è l’evoluzione di questo modello organizzativo che è iniziato molti anni fa. Nel tempo Procter ha capito che una cultura comune doveva essere creata al fine di mantenere un buon ambiente”. E non solo: “I valori aziendali, i principi e le pratiche divennero più forti perché hanno cominciato a passare da un dipendente ad un altro, da una generazione all’altra”.

La conclusione del lavoro è chiara: “Ogni individuo ha il proprio profilo culturale unico. Allo stesso modo, un dato gruppo di persone ha un profilo culturale che riflette gli orientamenti culturali generali delle persone all’interno di quel gruppo. Possiamo parlare di norme culturali dominanti in Procter & Gamble, e possiamo parlare di un profilo di P&G individuale”.

Proctoids: Are they a Myth or Reality A Holistic Analysis of Procter & Gamble Corporate Culture

Isabel Cristina Parra

Revista de Negocios Internacionales. Vol. 2 Nº 2 Pp. 126 – 144

Quando l’impresa è “sociale”

Uno sguardo, un sorriso, un’idea, un progetto. La cultura di un’impresa si capisce anche da questi elementi apparentemente slegati dal mercato, dal prodotto, dal bilancio, dai numeri. Se cultura è, per esempio, ciò che l’azienda ha in sé come principi d’azione, modo di essere e di approcciarsi al mercato e ai dipendenti, la descrizione di questa passa anche per strade che possono essere inusuali e inaspettate.

E’ accaduto così che l’idea d’impresa che permea un’organizzazione produttiva, si sia costruita in passato anche attraverso gli asili per i figli dei dipendenti, le colonie marine e montane, le casse mutua, i pacchi dono, l’immagine stessa della fabbrica. Oggi c’è la globalizzazione a dettare legge, ma per le aziende che fanno della loro cultura uno dei perni della crescita, è di fatto la stessa cosa, solo in termini più vasti.

E’ importante, oltre che interessante, capire allora cosa può accadere in questi casi. Ed è per questo che è bello leggere e guardare “Imprese Sociali Ferrero”, un volume di poco più di 300 pagine, dense si foto e di storie che raccontano come la Ferrero – partita da Alba in Piemonte nel 1946 – sia riuscita a coniugare affari e responsabilità sociale attraverso la creazione di realtà produttive in India, Camerun e Sudafrica.

La raccolta di immagini e racconti – curata da Caterina Ginzburg -, è organizzata per persone (uomini e donne che a vario titolo lavorano negli stabilimenti Ferrero), luoghi (India, Camerun e Sudafrica appunto), e prodotti (cacao, latte e canna da zucchero). Un alternarsi di scatti e di storie di lavoro, di vite vissute, di gioie e di lutti, di scoperte e conquiste: un insieme che compone il quadro unico della cultura d’impresa sociale che la Ferrero ha costruito nel tempo.

Il libro compone così una trilogia di sensazioni, un viaggio inaspettato in luoghi, ambienti e abitazioni che non nasconde nulla, ma che delinea – appunto – l’idea di un’impresa che basa la sua cultura sul profitto e sulla qualità, ma anche sul territorio e sulle persone. Un’entità sola, fatta da più luoghi permeati dalla stessa idea di produzione.

Imprese Sociali Ferrero

a cura di Caterina Ginzburg

Skira, 2012

Uno sguardo, un sorriso, un’idea, un progetto. La cultura di un’impresa si capisce anche da questi elementi apparentemente slegati dal mercato, dal prodotto, dal bilancio, dai numeri. Se cultura è, per esempio, ciò che l’azienda ha in sé come principi d’azione, modo di essere e di approcciarsi al mercato e ai dipendenti, la descrizione di questa passa anche per strade che possono essere inusuali e inaspettate.

E’ accaduto così che l’idea d’impresa che permea un’organizzazione produttiva, si sia costruita in passato anche attraverso gli asili per i figli dei dipendenti, le colonie marine e montane, le casse mutua, i pacchi dono, l’immagine stessa della fabbrica. Oggi c’è la globalizzazione a dettare legge, ma per le aziende che fanno della loro cultura uno dei perni della crescita, è di fatto la stessa cosa, solo in termini più vasti.

E’ importante, oltre che interessante, capire allora cosa può accadere in questi casi. Ed è per questo che è bello leggere e guardare “Imprese Sociali Ferrero”, un volume di poco più di 300 pagine, dense si foto e di storie che raccontano come la Ferrero – partita da Alba in Piemonte nel 1946 – sia riuscita a coniugare affari e responsabilità sociale attraverso la creazione di realtà produttive in India, Camerun e Sudafrica.

La raccolta di immagini e racconti – curata da Caterina Ginzburg -, è organizzata per persone (uomini e donne che a vario titolo lavorano negli stabilimenti Ferrero), luoghi (India, Camerun e Sudafrica appunto), e prodotti (cacao, latte e canna da zucchero). Un alternarsi di scatti e di storie di lavoro, di vite vissute, di gioie e di lutti, di scoperte e conquiste: un insieme che compone il quadro unico della cultura d’impresa sociale che la Ferrero ha costruito nel tempo.

Il libro compone così una trilogia di sensazioni, un viaggio inaspettato in luoghi, ambienti e abitazioni che non nasconde nulla, ma che delinea – appunto – l’idea di un’impresa che basa la sua cultura sul profitto e sulla qualità, ma anche sul territorio e sulle persone. Un’entità sola, fatta da più luoghi permeati dalla stessa idea di produzione.

Imprese Sociali Ferrero

a cura di Caterina Ginzburg

Skira, 2012

Scoprire Bicocca: 1450-2013

Per la durata di due settimane dal 4 a19 maggio, Fondazione Pirelli e HangarBicocca trasformano il quartiere Bicocca in un territorio da esplorare attraverso lo spazio e il tempo.

Scoprire Bicocca 1450-2013 è un progetto che propone tour in bicicletta, visite guidate, proiezioni di filmati inediti che provengono dall’Archivio Storico Pirelli, attività e giochi per grandi e piccoli in grado di coinvolgere gli abitanti della città in un appassionante viaggio che offrirà prospettive nuove di un’area di Milano ancora non abbastanza esplorata.

La storia del quartiere Bicocca è lunga più di 500 anni: dalla costruzione della Bicocca degli Arcimboldi, che dà nome al quartiere, alle trasformazioni dell’età industriale e post-industriale, questa zona della città si è trasformata in un territorio che offre stimoli, servizi, cultura. Grazie alla presenza di un importante centro di arte contemporanea come HangarBicocca, della Fondazione Pirelli che custodisce e promuove la memoria dei luoghi e dell’impresa, dell’Università e del Teatro degli Arcimboldi, il quartiere Bicocca è attraversato e vissuto ogni giorno da decine di migliaia di persone. Non tutti, però, ne conoscono veramente l’identità e la storia.

Tutte le attività sono completamente gratuite.

Per la durata di due settimane dal 4 a19 maggio, Fondazione Pirelli e HangarBicocca trasformano il quartiere Bicocca in un territorio da esplorare attraverso lo spazio e il tempo.

Scoprire Bicocca 1450-2013 è un progetto che propone tour in bicicletta, visite guidate, proiezioni di filmati inediti che provengono dall’Archivio Storico Pirelli, attività e giochi per grandi e piccoli in grado di coinvolgere gli abitanti della città in un appassionante viaggio che offrirà prospettive nuove di un’area di Milano ancora non abbastanza esplorata.

La storia del quartiere Bicocca è lunga più di 500 anni: dalla costruzione della Bicocca degli Arcimboldi, che dà nome al quartiere, alle trasformazioni dell’età industriale e post-industriale, questa zona della città si è trasformata in un territorio che offre stimoli, servizi, cultura. Grazie alla presenza di un importante centro di arte contemporanea come HangarBicocca, della Fondazione Pirelli che custodisce e promuove la memoria dei luoghi e dell’impresa, dell’Università e del Teatro degli Arcimboldi, il quartiere Bicocca è attraversato e vissuto ogni giorno da decine di migliaia di persone. Non tutti, però, ne conoscono veramente l’identità e la storia.

Tutte le attività sono completamente gratuite.

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