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Investimenti esteri e sintesi di nuove culture

General Electric compra Avio da Finmeccanica, il colosso americano Mohawk prende il controllo della Marazzi, marchio storico delle ceramiche nel cuore del distretto di Sassuolo. Pochi mesi fa, l’Audi aveva messo in portafoglio la maggioranza della Ducati, motociclette di prestigio. Tre storie tra tante. “Il made in Italy conquistato dalle multinazionali straniere”, si stracciano le vesti i provinciali difensori di un nazionalismo economico che, miope, invoca protezionismi e sussidi impossibili, in tempi di mercati aperti e globalizzazione. L’ideale, per un Paese, è attrarre molti investimenti internazionali e contemporaneamente avere aziende nazionali che conquistino spazi sui mercati esteri. Il limite dell’Italia è purtroppo quello di essere in coda ai paesi Ue per attrazione di investimenti e avere poche multinazionali italiane forti nel mondo. Un grave freno alla crescita.

Gli investimenti industriali esteri (tranne eccezioni segnate da rapacità post-coloniale) hanno un grande vantaggio: portano non solo ricchezza, lavoro, continuità di aziende storiche prive di solido azionariato (Ducati, appunto), ma anche nuove culture, ricerca, competenze, relazioni. E stimolano fertili ibridazioni con competenze locali. La cultura tedesca o anglosassone dell’organizzazione efficiente in sintesi con la cultura italiana della flessibilità, dell’adattabilità, della creatività, della sintonia tra “bello e ben fatto” (il nostro migliore design). In altri termini, può nascere una cultura d’impresa che metta insieme l’attitudine cosmopolita del “big business” e le specificità nazionali capaci di saldare tradizione e innovazione, secondo il miglior stile italiano. Ne emergono aziende italiane con azionariato internazionale più competitive. E che stimolano alla competitività globale anche le migliori imprese che di italiano mantengono non solo il nome ma la proprietà e il management. Dal protezionismo non nasce niente. Dai confronti, nasce lo sviluppo.

General Electric compra Avio da Finmeccanica, il colosso americano Mohawk prende il controllo della Marazzi, marchio storico delle ceramiche nel cuore del distretto di Sassuolo. Pochi mesi fa, l’Audi aveva messo in portafoglio la maggioranza della Ducati, motociclette di prestigio. Tre storie tra tante. “Il made in Italy conquistato dalle multinazionali straniere”, si stracciano le vesti i provinciali difensori di un nazionalismo economico che, miope, invoca protezionismi e sussidi impossibili, in tempi di mercati aperti e globalizzazione. L’ideale, per un Paese, è attrarre molti investimenti internazionali e contemporaneamente avere aziende nazionali che conquistino spazi sui mercati esteri. Il limite dell’Italia è purtroppo quello di essere in coda ai paesi Ue per attrazione di investimenti e avere poche multinazionali italiane forti nel mondo. Un grave freno alla crescita.

Gli investimenti industriali esteri (tranne eccezioni segnate da rapacità post-coloniale) hanno un grande vantaggio: portano non solo ricchezza, lavoro, continuità di aziende storiche prive di solido azionariato (Ducati, appunto), ma anche nuove culture, ricerca, competenze, relazioni. E stimolano fertili ibridazioni con competenze locali. La cultura tedesca o anglosassone dell’organizzazione efficiente in sintesi con la cultura italiana della flessibilità, dell’adattabilità, della creatività, della sintonia tra “bello e ben fatto” (il nostro migliore design). In altri termini, può nascere una cultura d’impresa che metta insieme l’attitudine cosmopolita del “big business” e le specificità nazionali capaci di saldare tradizione e innovazione, secondo il miglior stile italiano. Ne emergono aziende italiane con azionariato internazionale più competitive. E che stimolano alla competitività globale anche le migliori imprese che di italiano mantengono non solo il nome ma la proprietà e il management. Dal protezionismo non nasce niente. Dai confronti, nasce lo sviluppo.

IT, la formula segreta per il successo

Per le aziende l’IT (l’Information Tecnhology) sembra essere vitale per crescere negli affari. Ma occorre saperla applicare con giudizio. Cosa non semplice, anzi piuttosto complicata, tant’è che c’è chi sta dedicando una vita di studi a capire come, dove, quando e perché l’IT riesce davvero nel suo compito. E’ il caso di Kristina Steffenson Mc Elheran, professore di Business Administration  presso la Harvard Business School, ma soprattutto appassionata studiosa empirica delle interazioni  tra tecnologia dell’informazione, prestazioni aziendali e strategie competitive. Tutto con un obiettivo: comprendere come le imprese utilizzano le tecnologie dell’informazione per collaborare e competere sul mercato.

Ricerche interessanti e soprattutto utili per chi deve governare per davvero le imprese.

La summa del pensiero e dei risultati della Steffenson Mc Elheran  la si trova in un articolo apparso su Working Knowledge della HBS – “Why business IT innovation is so difficult” di Maggie Starvish -, che in due pagine condensa principi teorici e conclusioni pratiche di anni di indagini.

La base del ragionamento è apparentemente semplice: l’IT  ha il potere di appiattire le gerarchie, ridurre le catene logistiche, velocizzare le comunicazioni. Nei casi riusciti, il risultato è sintetizzato in una frase: “La gente spende più tempo a pensare ai nuovi prodotti e a servire i clienti e meno tempo a controllare le scatole”. Uno degli esempi cari alla Steffenson Mc Elheran è Walmart, la catena americana di distribuzione che oggi dice di essere – probabilmente con ragione – la più grande catena operante nel settore della distribuzione organizzata.

Ma nel mondo di Walmart ne esiste una sola, molte di più sono le aziende che arrancano in fatto di IT e quelle che, pensando di applicare davvero le tecnologie dell’informazione, sbagliano  clamorosamente. Per la Steffenson Mc Elheran c’è “un salto tremendo tra le più importanti imprese esperte in IT e quelle in ritardo”. Per capire, basta pensare che le prime riescono a far crescere il loro giro d’affari in maniera radicale, le secondo solamente per apporti incrementali.

Ma quali sono gli “ingredienti mancanti” nelle imprese che falliscono nelle applicazioni IT? Per la Steffenson Mc Elheran vi sono almeno tre condizioni irrinunciabili: la cosiddetta “comprensione organizzativa”, poi un “supporto esecutivo” efficace e, infine, la capacità di guardare a lungo termine, anzi di vivere l’ignoto piuttosto che cercare soluzioni rapide.  L’IT si traduce veramente in un vantaggio competitivo, solo quando l’impresa riesce anche a cambiare organizzazione. Cosa non facile per molti.

Why Business IT Innovation is So Difficult

Maggie Starvish

Harvard Business School Working Knowledge

Ottobre 2012

Per le aziende l’IT (l’Information Tecnhology) sembra essere vitale per crescere negli affari. Ma occorre saperla applicare con giudizio. Cosa non semplice, anzi piuttosto complicata, tant’è che c’è chi sta dedicando una vita di studi a capire come, dove, quando e perché l’IT riesce davvero nel suo compito. E’ il caso di Kristina Steffenson Mc Elheran, professore di Business Administration  presso la Harvard Business School, ma soprattutto appassionata studiosa empirica delle interazioni  tra tecnologia dell’informazione, prestazioni aziendali e strategie competitive. Tutto con un obiettivo: comprendere come le imprese utilizzano le tecnologie dell’informazione per collaborare e competere sul mercato.

Ricerche interessanti e soprattutto utili per chi deve governare per davvero le imprese.

La summa del pensiero e dei risultati della Steffenson Mc Elheran  la si trova in un articolo apparso su Working Knowledge della HBS – “Why business IT innovation is so difficult” di Maggie Starvish -, che in due pagine condensa principi teorici e conclusioni pratiche di anni di indagini.

La base del ragionamento è apparentemente semplice: l’IT  ha il potere di appiattire le gerarchie, ridurre le catene logistiche, velocizzare le comunicazioni. Nei casi riusciti, il risultato è sintetizzato in una frase: “La gente spende più tempo a pensare ai nuovi prodotti e a servire i clienti e meno tempo a controllare le scatole”. Uno degli esempi cari alla Steffenson Mc Elheran è Walmart, la catena americana di distribuzione che oggi dice di essere – probabilmente con ragione – la più grande catena operante nel settore della distribuzione organizzata.

Ma nel mondo di Walmart ne esiste una sola, molte di più sono le aziende che arrancano in fatto di IT e quelle che, pensando di applicare davvero le tecnologie dell’informazione, sbagliano  clamorosamente. Per la Steffenson Mc Elheran c’è “un salto tremendo tra le più importanti imprese esperte in IT e quelle in ritardo”. Per capire, basta pensare che le prime riescono a far crescere il loro giro d’affari in maniera radicale, le secondo solamente per apporti incrementali.

Ma quali sono gli “ingredienti mancanti” nelle imprese che falliscono nelle applicazioni IT? Per la Steffenson Mc Elheran vi sono almeno tre condizioni irrinunciabili: la cosiddetta “comprensione organizzativa”, poi un “supporto esecutivo” efficace e, infine, la capacità di guardare a lungo termine, anzi di vivere l’ignoto piuttosto che cercare soluzioni rapide.  L’IT si traduce veramente in un vantaggio competitivo, solo quando l’impresa riesce anche a cambiare organizzazione. Cosa non facile per molti.

Why Business IT Innovation is So Difficult

Maggie Starvish

Harvard Business School Working Knowledge

Ottobre 2012

Imparare e vincere collaborando, si può

Non è più il tempo del filosofico “piccolo è bello”, ma certamente quel concetto ha ancora qualche significato utile. Anche nelle grandi realtà industriali. Basta non farsi prendere eccessivamente dalla filosofia ma dare ascolto alla pratica e all’osservazione. Partendo, come fa per esempio Amy C. Edmondson (della Harvard Business School), da una serie di indagini empiriche in realtà diverse: dalla Toyota alla GM, dalla sanità USA all’IRS, passando dai fallimenti di “imprese” come il salvataggio impossibile dei minatori in Cile alla tragedia dello Shuttle Columbia.

Il suo “Teaming. How Organizations Learn, Innovate, and Compete in the Knowledge Economy” dimostra che le organizzazioni prosperano, o non riescono a prosperare, in base a quanto bene i piccoli gruppi lavorano al proprio interno e fra di loro. Che non è una banalità, ma un’indicazione operativa spesso difficile da mettere in pratica. Perché i gruppi, le squadre che compongono ogni organizzazione, non imparano naturalmente a collaborare.

Il libro però è scritto da una professoressa americana di management – pratica e concreta -, pensando anche a chi deve gestire i gruppi e farli lavorare fra di loro. Nel testo è così possibile trovare la spiegazione chiara di come la psicologia individuale e organizzativa, la realtà delle gerarchie, le differenze culturali possano impedire il successo d’impresa. E nel volume si ritrovano anche concetti importanti da “metabolizzare” nella realtà quotidiana della gestione d’impresa. Secondo Edmondson, per esempio, per massimizzare l’apprendimento, sono necessari anche il conflitto e il fallimento. Per questo nel testo sono descritti i fattori che impediscono una collaborazione efficace negli ambienti di lavoro, come la paura interpersonale, le credenze irrazionali circa il fallimento, il cosiddetto “pensiero di gruppo”, le dinamiche di potere fra gli individui e l’accaparramento informazioni. E i leader – è l’indicazione che emerge da tutto il volume -, possono colmare le lacune attraverso la comprensione dell’esistenza di questi ostacoli, modificando anche il loro stile di leadership per sostenere e facilitare il lavoro dei gruppi.

Ma uno dei passaggi più significativi dell’intero volume spiega che la “moneta del futuro” è la capacità di generare idee per risolvere problemi e che la “collaborazione è il modo per sviluppare, implementare e migliorare quelle idee”.

Teaming

How Organizations Learn, Innovate, and Compete in the Knowledge Economy 

Amy C. Edmondson

Jossey-Bass, 2012

Non è più il tempo del filosofico “piccolo è bello”, ma certamente quel concetto ha ancora qualche significato utile. Anche nelle grandi realtà industriali. Basta non farsi prendere eccessivamente dalla filosofia ma dare ascolto alla pratica e all’osservazione. Partendo, come fa per esempio Amy C. Edmondson (della Harvard Business School), da una serie di indagini empiriche in realtà diverse: dalla Toyota alla GM, dalla sanità USA all’IRS, passando dai fallimenti di “imprese” come il salvataggio impossibile dei minatori in Cile alla tragedia dello Shuttle Columbia.

Il suo “Teaming. How Organizations Learn, Innovate, and Compete in the Knowledge Economy” dimostra che le organizzazioni prosperano, o non riescono a prosperare, in base a quanto bene i piccoli gruppi lavorano al proprio interno e fra di loro. Che non è una banalità, ma un’indicazione operativa spesso difficile da mettere in pratica. Perché i gruppi, le squadre che compongono ogni organizzazione, non imparano naturalmente a collaborare.

Il libro però è scritto da una professoressa americana di management – pratica e concreta -, pensando anche a chi deve gestire i gruppi e farli lavorare fra di loro. Nel testo è così possibile trovare la spiegazione chiara di come la psicologia individuale e organizzativa, la realtà delle gerarchie, le differenze culturali possano impedire il successo d’impresa. E nel volume si ritrovano anche concetti importanti da “metabolizzare” nella realtà quotidiana della gestione d’impresa. Secondo Edmondson, per esempio, per massimizzare l’apprendimento, sono necessari anche il conflitto e il fallimento. Per questo nel testo sono descritti i fattori che impediscono una collaborazione efficace negli ambienti di lavoro, come la paura interpersonale, le credenze irrazionali circa il fallimento, il cosiddetto “pensiero di gruppo”, le dinamiche di potere fra gli individui e l’accaparramento informazioni. E i leader – è l’indicazione che emerge da tutto il volume -, possono colmare le lacune attraverso la comprensione dell’esistenza di questi ostacoli, modificando anche il loro stile di leadership per sostenere e facilitare il lavoro dei gruppi.

Ma uno dei passaggi più significativi dell’intero volume spiega che la “moneta del futuro” è la capacità di generare idee per risolvere problemi e che la “collaborazione è il modo per sviluppare, implementare e migliorare quelle idee”.

Teaming

How Organizations Learn, Innovate, and Compete in the Knowledge Economy 

Amy C. Edmondson

Jossey-Bass, 2012

Bicocca una volta, quando l’Università era il “Fabbricato 45”

Il Quartiere Bicocca a Milano, sorto attorno alla Pirelli a partire dal 1908, è oggi profondamente  diverso da come era all’origine. La fabbrica di un tempo è diventata sede dell’Università Statale, e dove c’erano vulcanizzatori e macchinari di produzione, oggi ci sono piazze e moderni uffici. Nuove strade sono state aperte, e tanti viali interni del complesso industriale sono oggi trafficate vie cittadine. Solo il Borgo Pirelli – sorto negli anni Venti del Novecento come complesso di abitazioni per i dipendenti – è rimasto pressoché intatto, punto di partenza per una breve passeggiata tra la Bicocca di ieri e la Bicocca di oggi.

Il Borgo Pirelli è tuttora racchiuso nell’angolo tra viale Sarca e via Emanueli, che a quei tempi però si chiamava ancora via Rodi: il nuovo nome arriverà soltanto nel 1971, a commemorare la scomparsa -avvenuta nel 1959 – di quell’ingegner Luigi Emanueli che per quarant’anni fu il vero e proprio genio della Ricerca e Sviluppo in casa Pirelli. Le villette liberty del Borgo sono raggruppate attorno al cosiddetto Casone, il palazzotto a quattro piani che storicamente ha ospitato i negozi del quartiere, dagli alimentari all’ortolano, alla macelleria. E l’attuale bar tabaccheria affacciato su via Emanueli è lì da novant’anni…

Nella nostra passeggiata verso l’Università, scendiamo dunque lungo via Emanueli – in direzione della stazione di Greco – costeggiando a destra quella che un tempo era l’area industriale di Segnanino. Lì c’era la fabbrica dell’Azienda Articoli Tecnici, gravitante attorno al Fabbricato 184, che negli anni Novanta fu il primo embrione dell’Università. Al semaforo imbocchiamo a sinistra l’ampio e alberato viale Piero e Alberto Pirelli, tra i negozi e i locali di piazza della Trivulziana e il modernissimo condominio di piazza dei Daini. Ci troviamo in quella che un tempo era la via n°13, tra i reparti di finitura pneumatici e i binari della ferrovia interna, con tanto di locomotiva sbuffante…

Sulle nostre teste incombe la mole della torre di raffreddamento, costruita nel 1950 per il riutilizzo del vapore di lavorazione: oggi è “inscatolata” e protetta dentro il grande cubo grigio che vediamo sulla sinistra: l’Headquarter 1, sede del Gruppo Pirelli.

Ci siamo, ecco l’ultimo blocco arancione, con le sue passerelle aeree che sovrastano l’entrata, le lunghe file di finestroni incorniciati di bianco e la grande scritta “Università degli Studi di Milano Bicocca”. È la torre U6, ricavata negli storici fabbricati 45 e 66, che nella storia dell’azienda ha sempre rappresentato la sede strategica della Pirelli Pneumatici in Italia e all’estero. Certo, i fabbricati allora non erano arancioni: erano di un naturalissimo color “giallino fabbrica”, e le vetrate della passerella erano incastonate in una foltissima foresta di edera…

E salendo la rampa che ci porta verso l’entrata della Facoltà di Psicologia, proviamo per un attimo ad immaginarci la monumentale piazza dell’Ateneo Nuovo popolata di operai e di macchinari di produzione, di lunghe file di postazioni per il controllo e la finitura delle coperture. E la piazza tornerà ad essere il Fabbricato 262

Il Quartiere Bicocca a Milano, sorto attorno alla Pirelli a partire dal 1908, è oggi profondamente  diverso da come era all’origine. La fabbrica di un tempo è diventata sede dell’Università Statale, e dove c’erano vulcanizzatori e macchinari di produzione, oggi ci sono piazze e moderni uffici. Nuove strade sono state aperte, e tanti viali interni del complesso industriale sono oggi trafficate vie cittadine. Solo il Borgo Pirelli – sorto negli anni Venti del Novecento come complesso di abitazioni per i dipendenti – è rimasto pressoché intatto, punto di partenza per una breve passeggiata tra la Bicocca di ieri e la Bicocca di oggi.

Il Borgo Pirelli è tuttora racchiuso nell’angolo tra viale Sarca e via Emanueli, che a quei tempi però si chiamava ancora via Rodi: il nuovo nome arriverà soltanto nel 1971, a commemorare la scomparsa -avvenuta nel 1959 – di quell’ingegner Luigi Emanueli che per quarant’anni fu il vero e proprio genio della Ricerca e Sviluppo in casa Pirelli. Le villette liberty del Borgo sono raggruppate attorno al cosiddetto Casone, il palazzotto a quattro piani che storicamente ha ospitato i negozi del quartiere, dagli alimentari all’ortolano, alla macelleria. E l’attuale bar tabaccheria affacciato su via Emanueli è lì da novant’anni…

Nella nostra passeggiata verso l’Università, scendiamo dunque lungo via Emanueli – in direzione della stazione di Greco – costeggiando a destra quella che un tempo era l’area industriale di Segnanino. Lì c’era la fabbrica dell’Azienda Articoli Tecnici, gravitante attorno al Fabbricato 184, che negli anni Novanta fu il primo embrione dell’Università. Al semaforo imbocchiamo a sinistra l’ampio e alberato viale Piero e Alberto Pirelli, tra i negozi e i locali di piazza della Trivulziana e il modernissimo condominio di piazza dei Daini. Ci troviamo in quella che un tempo era la via n°13, tra i reparti di finitura pneumatici e i binari della ferrovia interna, con tanto di locomotiva sbuffante…

Sulle nostre teste incombe la mole della torre di raffreddamento, costruita nel 1950 per il riutilizzo del vapore di lavorazione: oggi è “inscatolata” e protetta dentro il grande cubo grigio che vediamo sulla sinistra: l’Headquarter 1, sede del Gruppo Pirelli.

Ci siamo, ecco l’ultimo blocco arancione, con le sue passerelle aeree che sovrastano l’entrata, le lunghe file di finestroni incorniciati di bianco e la grande scritta “Università degli Studi di Milano Bicocca”. È la torre U6, ricavata negli storici fabbricati 45 e 66, che nella storia dell’azienda ha sempre rappresentato la sede strategica della Pirelli Pneumatici in Italia e all’estero. Certo, i fabbricati allora non erano arancioni: erano di un naturalissimo color “giallino fabbrica”, e le vetrate della passerella erano incastonate in una foltissima foresta di edera…

E salendo la rampa che ci porta verso l’entrata della Facoltà di Psicologia, proviamo per un attimo ad immaginarci la monumentale piazza dell’Ateneo Nuovo popolata di operai e di macchinari di produzione, di lunghe file di postazioni per il controllo e la finitura delle coperture. E la piazza tornerà ad essere il Fabbricato 262

Leggi romanzi se vuoi fare l’ingegnere

“Leggi romanzi se vuoi fare l’ingegnere”. Così, in un bel titolo a effetto, “La Stampa” del 10 gennaio sintetizza le scelte recenti fatte da prestigiose università americane, Harvard e Princeton, Stanford e Yale, di introdurre dei corsi di letteratura per gli studenti di economia, ingegneria, medicina e materie scientifiche varie. Rivalutazione della letteratura, dunque, per capire un po’ meglio le persone, le civiltà diverse, il mondo. E stimolo a cercare nuove sintesi, tra culture umanistiche e culture scientifiche. Se è vero, come sosteneva Mallarmè, che “il mondo è fatto per finire in un bel libro”, allora proprio alla buona letteratura bisogna imparare a guardare con maggior attenzione e rispetto, anche per gestire un’impresa, portare avanti un progetto di ricerca, costruire nuovi paradigmi economici e scientifici, in tempi di sperimentazione di originali strade d’uscita dalla Grande Crisi. E’ importante, la scelta, proprio perché viene dagli Usa, paese attratto dalle tendenze alla iperspecializzazione settoriale. Ne risulta confermata la qualità della cultura europea, abituata alla complessità e della sua stessa cultura d’impresa, più incline ad adattarsi in modo creativo alle pieghe di ambienti diversi, rispetto alla rigida determinazione al dominio delle culture angosassoni. E d’altronde i Politecnici di Milano e Torino e le “grandes écoles” francesi hanno scelto da tempo di fare studiare, accanto alle materie specialistiche di ingegneria, anche filosofia, scrittura, teatro. Le tecnologie. E le relazioni. Il cannocchiale di Galileo e le sue riflessioni sul senso del mondo in cambiamento. L’energia atomica. E le sue implicazioni morali. Le evoluzioni del web. E le conseguenze sulla diffusione della cultura, la partecipazione o la solitudine, l’accelerazione degli affari o l’ipotetico rallentamento della consapevolezza delle mediazioni di interessi e valori, il sale di una buona democrazia. Conclude Paolo Bertinetti su “La Stampa”: “La letteratura è ‘utile’ per fare bene cose che nulla hanno a che fare con la letteratura. Ma possiamo aggiungere che è utile in sé, non solo per imparare a scrivere frasi in modo corretto, ma per imparare a conoscere l’uomo e il mondo. La letteratura è comunicazione dell’esperienza. E coloro che insegnano letteratura, insegnando a leggere ciò che forse resterebbe ignorato, aiutano la letteratura a esercitare questo suo senso profondo”.

“Leggi romanzi se vuoi fare l’ingegnere”. Così, in un bel titolo a effetto, “La Stampa” del 10 gennaio sintetizza le scelte recenti fatte da prestigiose università americane, Harvard e Princeton, Stanford e Yale, di introdurre dei corsi di letteratura per gli studenti di economia, ingegneria, medicina e materie scientifiche varie. Rivalutazione della letteratura, dunque, per capire un po’ meglio le persone, le civiltà diverse, il mondo. E stimolo a cercare nuove sintesi, tra culture umanistiche e culture scientifiche. Se è vero, come sosteneva Mallarmè, che “il mondo è fatto per finire in un bel libro”, allora proprio alla buona letteratura bisogna imparare a guardare con maggior attenzione e rispetto, anche per gestire un’impresa, portare avanti un progetto di ricerca, costruire nuovi paradigmi economici e scientifici, in tempi di sperimentazione di originali strade d’uscita dalla Grande Crisi. E’ importante, la scelta, proprio perché viene dagli Usa, paese attratto dalle tendenze alla iperspecializzazione settoriale. Ne risulta confermata la qualità della cultura europea, abituata alla complessità e della sua stessa cultura d’impresa, più incline ad adattarsi in modo creativo alle pieghe di ambienti diversi, rispetto alla rigida determinazione al dominio delle culture angosassoni. E d’altronde i Politecnici di Milano e Torino e le “grandes écoles” francesi hanno scelto da tempo di fare studiare, accanto alle materie specialistiche di ingegneria, anche filosofia, scrittura, teatro. Le tecnologie. E le relazioni. Il cannocchiale di Galileo e le sue riflessioni sul senso del mondo in cambiamento. L’energia atomica. E le sue implicazioni morali. Le evoluzioni del web. E le conseguenze sulla diffusione della cultura, la partecipazione o la solitudine, l’accelerazione degli affari o l’ipotetico rallentamento della consapevolezza delle mediazioni di interessi e valori, il sale di una buona democrazia. Conclude Paolo Bertinetti su “La Stampa”: “La letteratura è ‘utile’ per fare bene cose che nulla hanno a che fare con la letteratura. Ma possiamo aggiungere che è utile in sé, non solo per imparare a scrivere frasi in modo corretto, ma per imparare a conoscere l’uomo e il mondo. La letteratura è comunicazione dell’esperienza. E coloro che insegnano letteratura, insegnando a leggere ciò che forse resterebbe ignorato, aiutano la letteratura a esercitare questo suo senso profondo”.

Coltivare la manifattura è coltivare l’innovazione

La manifattura è ancora importante, sempre più importante. Nell’era dell’informatica e dell’immaterialità, della finanza e degli spread, quello dell’industria manifatturiera continua ad essere un comparto che c’è e ci deve essere. Il problema è avere la capacità di mantenerlo e farlo crescere.

E’ quanto affermano Gary P. Pisano e Willy C. Shih (economisti ed entrambi docenti alla Harvard Business School), nel loro “Producing Prosperity: why America Needs a Manufacturing renaissance”. 

Pisano e Shih, però, non fanno solamente un inno al saper fare industriale, alla concretezza della produzione reale contrapposta alla finanza; i due studiosi vanno più in là spiegando che  le moderne industrie hanno ancora – come una volta – “beni in comune”, sebbene questi siano immensamente più complessi rispetto al passato. Si tratta, per esempio, di knowhow tecnologico, capacità gestionale, abilità specialistiche radicate nella forza lavoro, nei concorrenti, nei fornitori, nei clienti,  nelle società cooperative, nella ricerca e sviluppo, nelle università. Tutto questo fluisce fra le imprese, le collega, crea una rete territoriale manifatturiera che diventa indispensabile per la crescita e per l’innovazione. Una situazione che prende le mosse dal locale per diventare globale e per ridiventare ancora locale. Tutto in un circolo virtuoso che, secondo i due ricercatori, non può e non deve essere mortificato ma, anzi, deve essere sostenuto e alimentato con capacità manageriali e lungimiranza politica.

Per raccontare meglio tutto ciò, Pisano e Shih adottano, fra gli altri, un esempio: quando negli anni ’80 la produzione dei semiconduttori si è spostata in Asia, ha portato con sé una moltitudine di capacità, processi di produzione di materiale elettronico, capacità di assemblaggio e test sofisticati, che hanno creato “beni comuni industriali” a loro volta necessari per produrre un’intera gamma di prodotti elettronici avanzati e con alto valore aggiunto. Non si è spostata una singola industria, ma una comunità di industrie che hanno cambiato la vita di interi territori. Esattamente come – è un altro esempio dei due autori – è accaduto  con i pascoli demaniali, un tempo diffusissimi, che hanno sostenuto e alimentato le economie rurali e contadine fino ad epoche relativamente recenti: una volta cancellati questi (equiparati ai “beni industriali comuni” di oggi), è stato spazzato via un intero assetto economico.

Le conclusioni due economisti di Harvard sono quindi tre: quando un Paese perde la capacità  manifatturiera, esso perde anche l’abilità di innovare, i “beni comuni industriali” sono quindi una sorta di piattaforma per la crescita e, infine, l’erosione di questi non è per nulla naturale e scontata.

Why America Needs a Manufacturing Renaissance

Gary P. Pisano – Willy C. Shih

Harvard Business School – Working Knowledge

Ottobre 2012

La manifattura è ancora importante, sempre più importante. Nell’era dell’informatica e dell’immaterialità, della finanza e degli spread, quello dell’industria manifatturiera continua ad essere un comparto che c’è e ci deve essere. Il problema è avere la capacità di mantenerlo e farlo crescere.

E’ quanto affermano Gary P. Pisano e Willy C. Shih (economisti ed entrambi docenti alla Harvard Business School), nel loro “Producing Prosperity: why America Needs a Manufacturing renaissance”. 

Pisano e Shih, però, non fanno solamente un inno al saper fare industriale, alla concretezza della produzione reale contrapposta alla finanza; i due studiosi vanno più in là spiegando che  le moderne industrie hanno ancora – come una volta – “beni in comune”, sebbene questi siano immensamente più complessi rispetto al passato. Si tratta, per esempio, di knowhow tecnologico, capacità gestionale, abilità specialistiche radicate nella forza lavoro, nei concorrenti, nei fornitori, nei clienti,  nelle società cooperative, nella ricerca e sviluppo, nelle università. Tutto questo fluisce fra le imprese, le collega, crea una rete territoriale manifatturiera che diventa indispensabile per la crescita e per l’innovazione. Una situazione che prende le mosse dal locale per diventare globale e per ridiventare ancora locale. Tutto in un circolo virtuoso che, secondo i due ricercatori, non può e non deve essere mortificato ma, anzi, deve essere sostenuto e alimentato con capacità manageriali e lungimiranza politica.

Per raccontare meglio tutto ciò, Pisano e Shih adottano, fra gli altri, un esempio: quando negli anni ’80 la produzione dei semiconduttori si è spostata in Asia, ha portato con sé una moltitudine di capacità, processi di produzione di materiale elettronico, capacità di assemblaggio e test sofisticati, che hanno creato “beni comuni industriali” a loro volta necessari per produrre un’intera gamma di prodotti elettronici avanzati e con alto valore aggiunto. Non si è spostata una singola industria, ma una comunità di industrie che hanno cambiato la vita di interi territori. Esattamente come – è un altro esempio dei due autori – è accaduto  con i pascoli demaniali, un tempo diffusissimi, che hanno sostenuto e alimentato le economie rurali e contadine fino ad epoche relativamente recenti: una volta cancellati questi (equiparati ai “beni industriali comuni” di oggi), è stato spazzato via un intero assetto economico.

Le conclusioni due economisti di Harvard sono quindi tre: quando un Paese perde la capacità  manifatturiera, esso perde anche l’abilità di innovare, i “beni comuni industriali” sono quindi una sorta di piattaforma per la crescita e, infine, l’erosione di questi non è per nulla naturale e scontata.

Why America Needs a Manufacturing Renaissance

Gary P. Pisano – Willy C. Shih

Harvard Business School – Working Knowledge

Ottobre 2012

L’economia a misura di persona. Ma come?

Un viaggio verso la cosiddetta economia della comunione, più vicina alla persona, più attenta all’altro senza tralasciare il profitto. Un viaggio breve nel numero di pagine impiegate per percorrerlo (nemmeno cento), ma lungo tutta la storia dell’economia, del fare impresa, del vivere in società e costellato da alcuni dei nomi che, a vario titolo, hanno fatto e fanno parlare di sé l’Occidente: Platone, Aristotele, Keynes, Darwin, Benedetto XVI, Adam Smith. Quello che Stefano Zamagni (economista cattolico impegnato da anni nel ricondurre l’economia e il management ad una visione più vicina all’uomo), compie in “Per un’economia a misura di persona” è un cammino non sempre facile ma affascinante verso un traguardo che risponde ad una domanda: “E’ possibile fare in modo che il mercato diventi civile e quindi un ambito civilizzante l’intera società?”. Che detto in altre parole significa: ha senso cercare di realizzare un’economia che riesca ad “attribuire valore a entrambe le dimensioni dell’umano, sia quella  espressiva sia quella acquisitiva, e non solamente acquisitiva come oggi accade?”.  Zamagni esplora un campo delicato e complicato dell’economia, del fare impresa, del vivere sociale, un territorio che tenta di mettere insieme concetti come quelli di “comunione”, “reciprocità”, “fraternità” , “uguaglianza” e “libertà” con quelli di “mercato” e “profitto”. E lo fa usando un vasto apparato di letteratura economica, filosofica e morale; e facendo esempi come quello di Chiara Lubich e il Movimento dei Focolarini, ma anche ricordando le storie epiche di Ulisse (che vince le sirene legandosi al palo della propria nave e quindi privandosi temporaneamente della libertà), e di Giasone (che invece riesce a vincerle senza privarsi della libertà ma unendo razionalità a ragionevolezza).

Tutto per dimostrare come  arrivare, come dice il titolo del volumetto, a quell’economia a misura di persona (fatta di libertà, uguaglianza e fraternità), che, secondo l’autore, sarebbe l’unica in grado di rilanciare la società attuale alle prese con una crisi che non è come quella del ’29 ma più complicata, profonda e strutturale.

Per un’economia a misura di persona

Stefano Zamagni

Città Nuova – Le Cattedre di Sophia, 2012

Un viaggio verso la cosiddetta economia della comunione, più vicina alla persona, più attenta all’altro senza tralasciare il profitto. Un viaggio breve nel numero di pagine impiegate per percorrerlo (nemmeno cento), ma lungo tutta la storia dell’economia, del fare impresa, del vivere in società e costellato da alcuni dei nomi che, a vario titolo, hanno fatto e fanno parlare di sé l’Occidente: Platone, Aristotele, Keynes, Darwin, Benedetto XVI, Adam Smith. Quello che Stefano Zamagni (economista cattolico impegnato da anni nel ricondurre l’economia e il management ad una visione più vicina all’uomo), compie in “Per un’economia a misura di persona” è un cammino non sempre facile ma affascinante verso un traguardo che risponde ad una domanda: “E’ possibile fare in modo che il mercato diventi civile e quindi un ambito civilizzante l’intera società?”. Che detto in altre parole significa: ha senso cercare di realizzare un’economia che riesca ad “attribuire valore a entrambe le dimensioni dell’umano, sia quella  espressiva sia quella acquisitiva, e non solamente acquisitiva come oggi accade?”.  Zamagni esplora un campo delicato e complicato dell’economia, del fare impresa, del vivere sociale, un territorio che tenta di mettere insieme concetti come quelli di “comunione”, “reciprocità”, “fraternità” , “uguaglianza” e “libertà” con quelli di “mercato” e “profitto”. E lo fa usando un vasto apparato di letteratura economica, filosofica e morale; e facendo esempi come quello di Chiara Lubich e il Movimento dei Focolarini, ma anche ricordando le storie epiche di Ulisse (che vince le sirene legandosi al palo della propria nave e quindi privandosi temporaneamente della libertà), e di Giasone (che invece riesce a vincerle senza privarsi della libertà ma unendo razionalità a ragionevolezza).

Tutto per dimostrare come  arrivare, come dice il titolo del volumetto, a quell’economia a misura di persona (fatta di libertà, uguaglianza e fraternità), che, secondo l’autore, sarebbe l’unica in grado di rilanciare la società attuale alle prese con una crisi che non è come quella del ’29 ma più complicata, profonda e strutturale.

Per un’economia a misura di persona

Stefano Zamagni

Città Nuova – Le Cattedre di Sophia, 2012

“Manifacturing the future”, dice McKinsey

“Manifacturing the future”, scrive il McKinsey Global Institute in una ricerca del novembre 2012. Rivalutare l’industria, dopo gli anni dell’ubriacatura per la finanza d’assalto, fonte della Grande Crisi. E costruire nuovi paradigmi di produzione, distribuzione e consumo, nella consapevolezza che il futuro, anche nei paesi di più antica industrializzazione, sta nell’impresa manifatturiera di qualità, socialmente e ambientalmente sostenibile. Una prospettiva chiara, per la cultura d’impresa Pirelli. E già evidenziata, nelle riflessioni periodiche di questo blog.

Manifattura, dunque, in primo piano, per una delle principali società di consulenza globali, qual è la Mckinsey. E rilanciata anche in quei paesi (gli Usa, la Gran Bretagna) che dagli anni Ottanta in poi avevano trascurato l’industria preferendo puntare sui cosiddetti “servizi innovativi”, a cominciare dalla finanza. Adesso, invece, si riparla di qualità del “fare, e fare bene”. Di cultura d’impresa del progetto e del prodotto. Forza tedesca, guardando all’Europa.  Ed eccellenza italiana, sui cui prodotti, oltre che una crescente qualità manifatturiera (sicurezza, efficienza, funzionalità, sostenibilità, performances di alto livello), gioca positivamente anche il design, disegno industriale che dà forma estetica al prodotto, sia negli oggetti dell’abbigliamento e dell’arredamento, sia in quelli della chimica e della gomma (design d’alto livello, per esempio, il battistrada di un pneumatico) e negli stessi prodotti delle meccanica d’avanguardia, dall’”automotive” alle macchine ad elevata automazione.

Quella italiana è la seconda manifattura europea, dopo la Germania. E quinta al mondo, anche se insidiata da vicino da paesi particolarmente dinamici, come il Brasile, la Turchia, la Corea del Sud. Vanno valutati positivamente i dati della Fondazione Edison che parlano (dati 2011) di 1200 prodotti in cui l’Italia esportatrice batte la Germania. Se si eccettuano dal calcolo della bilancia commerciale i prodotti petroliferi e quelli alimentari e ci si concentra invece sui prodotti manifatturieri non alimentari, secondo le statistiche dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, si scopre che l’Italia è uno dei 5 paesi del G20 (con Cina, Germania, Giappone e Corea) ad avere un surplus strutturale con l’estero dei manifatti. E, per una serie di attività, migliore di quello tedesco.

Come difendere un primato del genere, in una competizione globale sempre più selettiva? Come cioè rafforzare il contributo allo sviluppo che viene dalla migliore industria manifatturiera? E’ necessaria una “politica industriale” che stimoli ricerca, innovazione, crescita dimensionale delle imprese, tendenze alla internazionalizzazione, nella doppia dimensione dell’export e degli investimenti diretti sui mercati più dinamici, dall’Asia all’America Latina. “Un’agenda per la manifattura”, sostiene la Fondazione Edison, anche attraverso una riduzione del cuneo fiscale con priorità per gli addetti all’industria. Serve insomma un piano di sostegno mirato alle 4A del “made in Italy” (industria agro-alimentare, abbigliamento e tessile, arredamento e automazione, l’industria meccanica d’avanguardia).

“Manifacturing the future”, scrive il McKinsey Global Institute in una ricerca del novembre 2012. Rivalutare l’industria, dopo gli anni dell’ubriacatura per la finanza d’assalto, fonte della Grande Crisi. E costruire nuovi paradigmi di produzione, distribuzione e consumo, nella consapevolezza che il futuro, anche nei paesi di più antica industrializzazione, sta nell’impresa manifatturiera di qualità, socialmente e ambientalmente sostenibile. Una prospettiva chiara, per la cultura d’impresa Pirelli. E già evidenziata, nelle riflessioni periodiche di questo blog.

Manifattura, dunque, in primo piano, per una delle principali società di consulenza globali, qual è la Mckinsey. E rilanciata anche in quei paesi (gli Usa, la Gran Bretagna) che dagli anni Ottanta in poi avevano trascurato l’industria preferendo puntare sui cosiddetti “servizi innovativi”, a cominciare dalla finanza. Adesso, invece, si riparla di qualità del “fare, e fare bene”. Di cultura d’impresa del progetto e del prodotto. Forza tedesca, guardando all’Europa.  Ed eccellenza italiana, sui cui prodotti, oltre che una crescente qualità manifatturiera (sicurezza, efficienza, funzionalità, sostenibilità, performances di alto livello), gioca positivamente anche il design, disegno industriale che dà forma estetica al prodotto, sia negli oggetti dell’abbigliamento e dell’arredamento, sia in quelli della chimica e della gomma (design d’alto livello, per esempio, il battistrada di un pneumatico) e negli stessi prodotti delle meccanica d’avanguardia, dall’”automotive” alle macchine ad elevata automazione.

Quella italiana è la seconda manifattura europea, dopo la Germania. E quinta al mondo, anche se insidiata da vicino da paesi particolarmente dinamici, come il Brasile, la Turchia, la Corea del Sud. Vanno valutati positivamente i dati della Fondazione Edison che parlano (dati 2011) di 1200 prodotti in cui l’Italia esportatrice batte la Germania. Se si eccettuano dal calcolo della bilancia commerciale i prodotti petroliferi e quelli alimentari e ci si concentra invece sui prodotti manifatturieri non alimentari, secondo le statistiche dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, si scopre che l’Italia è uno dei 5 paesi del G20 (con Cina, Germania, Giappone e Corea) ad avere un surplus strutturale con l’estero dei manifatti. E, per una serie di attività, migliore di quello tedesco.

Come difendere un primato del genere, in una competizione globale sempre più selettiva? Come cioè rafforzare il contributo allo sviluppo che viene dalla migliore industria manifatturiera? E’ necessaria una “politica industriale” che stimoli ricerca, innovazione, crescita dimensionale delle imprese, tendenze alla internazionalizzazione, nella doppia dimensione dell’export e degli investimenti diretti sui mercati più dinamici, dall’Asia all’America Latina. “Un’agenda per la manifattura”, sostiene la Fondazione Edison, anche attraverso una riduzione del cuneo fiscale con priorità per gli addetti all’industria. Serve insomma un piano di sostegno mirato alle 4A del “made in Italy” (industria agro-alimentare, abbigliamento e tessile, arredamento e automazione, l’industria meccanica d’avanguardia).

Imprese e Università: collaborare è d’obbligo

Come collaborano in Italia imprese, università e i centri di ricerca pubblici?

Alla domanda – importante per capire la capacità di ricerca e innovazione del nostro sistema produttivo ma anche la vicinanza della cultura d’impresa italiana ai canoni di R&S -, hanno cercato di rispondere alcuni economisti di Banca d’Italia (Davide Fantino, Alessandra Mori e Diego Scalise), con “Collaboration between firms and universities in Italy: the role of a firm’s proximity to top-rated departments” un working paper  apparso in ottobre che parte da una constatazione: in Italia esiste un modello di “innovazione senza ricerca” che la generalità delle imprese applica e che necessita di condizioni particolari di realizzazione.

Alla base del tutto una condizione tipica del nostro Paese: la spesa in R&S in rapporto al PIL è pari all’1,26%, contro una media europea del due. All’interno della spesa complessiva, la quota sostenuta dalle imprese, solitamente la più dinamica, è pari a circa il 50%, valore inferiore alla media dei principali Paesi europei. In altre parole, l’attività di R&S in Italia è sostenuta dal settore pubblico, e soprattutto dalle università e dai centri di ricerca pubblici, che stipulano accordi di collaborazione con le imprese. Ma come?

La facilità di dialogo fra aziende ed enti di ricerca diventa determinante. Per capire meglio, i ricercatori della Banca centrale hanno usato una serie di modelli matematici applicati tenendo conto della distanza, della qualità degli enti di ricerca presenti sul territorio, delle loro politiche di valorizzazione commerciale dei risultati della ricerca, della rilevanza che i vari campi di studio assumono per i diversi settori economici e delle principali caratteristiche delle imprese.

I risultati sono semplici. La principale determinante della probabilità di un accordo fra imprese e università è la “vicinanza” delle due parti. Ma non solo. La prossimità a un’università generica non esercita alcuna influenza. Le imprese di piccola e media dimensione appaiono più sensibili alla distanza fisica, mentre quelle grandi tendono a scegliere come partner le università che meglio valorizzano i risultati della propria ricerca indipendentemente da dove esse risiedano.

Il risultato finale – non tranquillizzante – è che la ricerca pubblica non può sostituire completamente l’attività innovativa interna delle imprese.

Collaboration between firms and universities in Italy: the role of a firm’s proximity to top-rated departments

Davide Fantino, Alessandra Mori and Diego Scalise

Banca d’Italia, Temi di discussione – Working papers

n. 884 – Ottobre 2012

Come collaborano in Italia imprese, università e i centri di ricerca pubblici?

Alla domanda – importante per capire la capacità di ricerca e innovazione del nostro sistema produttivo ma anche la vicinanza della cultura d’impresa italiana ai canoni di R&S -, hanno cercato di rispondere alcuni economisti di Banca d’Italia (Davide Fantino, Alessandra Mori e Diego Scalise), con “Collaboration between firms and universities in Italy: the role of a firm’s proximity to top-rated departments” un working paper  apparso in ottobre che parte da una constatazione: in Italia esiste un modello di “innovazione senza ricerca” che la generalità delle imprese applica e che necessita di condizioni particolari di realizzazione.

Alla base del tutto una condizione tipica del nostro Paese: la spesa in R&S in rapporto al PIL è pari all’1,26%, contro una media europea del due. All’interno della spesa complessiva, la quota sostenuta dalle imprese, solitamente la più dinamica, è pari a circa il 50%, valore inferiore alla media dei principali Paesi europei. In altre parole, l’attività di R&S in Italia è sostenuta dal settore pubblico, e soprattutto dalle università e dai centri di ricerca pubblici, che stipulano accordi di collaborazione con le imprese. Ma come?

La facilità di dialogo fra aziende ed enti di ricerca diventa determinante. Per capire meglio, i ricercatori della Banca centrale hanno usato una serie di modelli matematici applicati tenendo conto della distanza, della qualità degli enti di ricerca presenti sul territorio, delle loro politiche di valorizzazione commerciale dei risultati della ricerca, della rilevanza che i vari campi di studio assumono per i diversi settori economici e delle principali caratteristiche delle imprese.

I risultati sono semplici. La principale determinante della probabilità di un accordo fra imprese e università è la “vicinanza” delle due parti. Ma non solo. La prossimità a un’università generica non esercita alcuna influenza. Le imprese di piccola e media dimensione appaiono più sensibili alla distanza fisica, mentre quelle grandi tendono a scegliere come partner le università che meglio valorizzano i risultati della propria ricerca indipendentemente da dove esse risiedano.

Il risultato finale – non tranquillizzante – è che la ricerca pubblica non può sostituire completamente l’attività innovativa interna delle imprese.

Collaboration between firms and universities in Italy: the role of a firm’s proximity to top-rated departments

Davide Fantino, Alessandra Mori and Diego Scalise

Banca d’Italia, Temi di discussione – Working papers

n. 884 – Ottobre 2012

L’egoismo è finito

Un futuro positivo, fatto di rapporti migliori fra le persone, di chiarezza d’intenti, di legami produttivi diversi. E’ la visione di una “nuova civiltà dello stare insieme” prospettata da Antonio Galdo (giornalista e scrittore, attento ai temi dello spreco e dell’evoluzione della vita pubblica), nel suo recente “L’egoismo è finito”: un libro di poco più di un centinaio di pagine che racconta il cambio di paradigma sociale  in atto: dall’egoismo, appunto, all’applicazione di nuovi principi di convivenza sociale e produttiva.

Galdo inizia con una frase secca e provocatoria – “questo è un libro sull’amore” – e prosegue citando Aristotele. Ma il volume parla di economia, di società, di produzione, di convivenza sociale diverse da quelle di oggi. E lo fa con numerosi esempi – da nuove modalità di produrre (il coworking), di vivere (il cohousing e le smart cities) – iniziando da una constatazione:  “Per decenni abbiamo rimosso il desiderio vitale di stare insieme rinunciando all’energia sprigionata da una comunità quando prendono corpo i legami che saldano persone e cose, luoghi e identità, interessi e sentimenti”. Adesso, invece, “la Grande Crisi ci spinge alla ricerca di nuovi fondamentali, non solo economici”. In azienda e nei rapporti sociali, acquista spazio un altro modo di vedere le cose. Galdo, quindi, parla di una nuova condivisione verde, dagli orti urbani agli orti verticali, del fascino efficace del baratto contro il piacere individuale del possesso, di condivisione delle idee, attraverso le tecnologie della Rete, di una nuova concezione del lavoro e dei luoghi in cui svolgerlo.

Apparentemente lontano dai problemi più impellenti della gestione aziendale, il ragionamento di Galdo si avvicina invece moltissimo ai temi di una nuova imprenditorialità, distante dal binomio che contrappone padrone e operaio, che vede fabbrica, territorio, impresa e lavoro strettamente unite in un unico destino che non necessariamente deve essere negativo.

L’egoismo è finito

La nuova civiltà dello stare insieme

Antonio Galdo

Einaudi, 2012.

Un futuro positivo, fatto di rapporti migliori fra le persone, di chiarezza d’intenti, di legami produttivi diversi. E’ la visione di una “nuova civiltà dello stare insieme” prospettata da Antonio Galdo (giornalista e scrittore, attento ai temi dello spreco e dell’evoluzione della vita pubblica), nel suo recente “L’egoismo è finito”: un libro di poco più di un centinaio di pagine che racconta il cambio di paradigma sociale  in atto: dall’egoismo, appunto, all’applicazione di nuovi principi di convivenza sociale e produttiva.

Galdo inizia con una frase secca e provocatoria – “questo è un libro sull’amore” – e prosegue citando Aristotele. Ma il volume parla di economia, di società, di produzione, di convivenza sociale diverse da quelle di oggi. E lo fa con numerosi esempi – da nuove modalità di produrre (il coworking), di vivere (il cohousing e le smart cities) – iniziando da una constatazione:  “Per decenni abbiamo rimosso il desiderio vitale di stare insieme rinunciando all’energia sprigionata da una comunità quando prendono corpo i legami che saldano persone e cose, luoghi e identità, interessi e sentimenti”. Adesso, invece, “la Grande Crisi ci spinge alla ricerca di nuovi fondamentali, non solo economici”. In azienda e nei rapporti sociali, acquista spazio un altro modo di vedere le cose. Galdo, quindi, parla di una nuova condivisione verde, dagli orti urbani agli orti verticali, del fascino efficace del baratto contro il piacere individuale del possesso, di condivisione delle idee, attraverso le tecnologie della Rete, di una nuova concezione del lavoro e dei luoghi in cui svolgerlo.

Apparentemente lontano dai problemi più impellenti della gestione aziendale, il ragionamento di Galdo si avvicina invece moltissimo ai temi di una nuova imprenditorialità, distante dal binomio che contrappone padrone e operaio, che vede fabbrica, territorio, impresa e lavoro strettamente unite in un unico destino che non necessariamente deve essere negativo.

L’egoismo è finito

La nuova civiltà dello stare insieme

Antonio Galdo

Einaudi, 2012.

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