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Fondazione Pirelli a MuseoCity 2019 con la cultura d’impresa sostenibile
Domenica 3 marzo Fondazione Pirelli ha partecipato con visite guidate e laboratori per bambini alla terza edizione di MuseoCity, iniziativa promossa dal Comune di Milano che ha coinvolto diversi musei e istituzioni milanesi.
“Pirelli, una storia di innovazione e passione: gomma, tecnologia, lavoro e ambiente”, il titolo dei tour guidati che hanno condotto gli oltre 250 visitatori, tra immagini e testimonianze, alla scoperta di quasi un secolo e mezzo di storia di processi, materie prime e prodotti sostenibili di Pirelli. Una storia di persone e di macchine, di ricerca, dove l’ingegno dell’uomo si incontra con la natura per trovare materiali innovativi e processi di produzione sempre più rispettosi per l’uomo e per l’ambiente. Il percorso è stato articolato in tre tappe: dall’edificio dell’Headquarters Pirelli, simbolo della precoce sensibilità dell’azienda per la riduzione dell’impiego dell’acqua, alla Fondazione Pirelli – dove si conservano preziose immagini e testimonianze della cultura sostenibile, ambientale e sociale dell’azienda – passando per la quattrocentesca Bicocca degli Arcimboldi, con le sue suggestioni leonardesche. I più piccoli hanno invece potuto scoprire come i quattro elementi naturali siano parte della creazione del pneumatico: attraverso semplici esperimenti hanno potuto capire come sia importante rispettare la natura, seguire e provare l’incredibile ricetta che porta alla creazione di un pneumatico, divertendosi poi a creare una piccola gomma da cancellare pronta per essere vulcanizzata.






Domenica 3 marzo Fondazione Pirelli ha partecipato con visite guidate e laboratori per bambini alla terza edizione di MuseoCity, iniziativa promossa dal Comune di Milano che ha coinvolto diversi musei e istituzioni milanesi.
“Pirelli, una storia di innovazione e passione: gomma, tecnologia, lavoro e ambiente”, il titolo dei tour guidati che hanno condotto gli oltre 250 visitatori, tra immagini e testimonianze, alla scoperta di quasi un secolo e mezzo di storia di processi, materie prime e prodotti sostenibili di Pirelli. Una storia di persone e di macchine, di ricerca, dove l’ingegno dell’uomo si incontra con la natura per trovare materiali innovativi e processi di produzione sempre più rispettosi per l’uomo e per l’ambiente. Il percorso è stato articolato in tre tappe: dall’edificio dell’Headquarters Pirelli, simbolo della precoce sensibilità dell’azienda per la riduzione dell’impiego dell’acqua, alla Fondazione Pirelli – dove si conservano preziose immagini e testimonianze della cultura sostenibile, ambientale e sociale dell’azienda – passando per la quattrocentesca Bicocca degli Arcimboldi, con le sue suggestioni leonardesche. I più piccoli hanno invece potuto scoprire come i quattro elementi naturali siano parte della creazione del pneumatico: attraverso semplici esperimenti hanno potuto capire come sia importante rispettare la natura, seguire e provare l’incredibile ricetta che porta alla creazione di un pneumatico, divertendosi poi a creare una piccola gomma da cancellare pronta per essere vulcanizzata.
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Da Parigi e Berlino un “Manifesto” per lo sviluppo industriale mentre il governo italiano è sempre più assente ai tavoli europei
Un Manifesto di Francia e Germania per rilanciare la politica industriale dell’Europa e investire insieme sull’innovazione, sull’Intelligenza Artificiale, sullo sviluppo di grandi imprese europee per fronteggiare la concorrenza che arriva, sempre più pesante, dagli Usa e dalla Cina. Parigi e Berlino, insomma, fanno un altro passo insieme, per indicare una via d’uscita dalla crisi che rallenta la Ue. E pongono a tutti gli altri paesi, a cominciare dall’Italia, una sfida di grande peso: o crescere secondo obiettivi comuni o ritrovarsi in seconda fila o peggio ancora ai margini di un’Europa “a due velocità” il cui motore sta lungo l’asse franco-tedesco.
Sono tempi difficili, per l’economia europea, in rallentamento, anche a causa della brusca frenata che colpisce l’industria dell’auto tedesca e, di conseguenza, l’intera filiera automotive europea (l’Italia ne risente massicciamente, essendo fornitrice di primo piano di Bmw, Audi, Volkswagen e Daimler), sotto il peso delle mosse di Trump (“L’automotive europeo è una minaccia per la sicurezza nazionale”) e dei conflitti commerciali Usa-Cina. Le incertezze legate alla Brexit aggravano il quadro. E le tensioni politiche che travagliano parecchi paesi Ue e fanno emergere i rischi legati a populismi, sovranismi e nazionalismi protezionistici dicono che, proprio alla vigilia delle elezioni di maggio per il nuovo Parlamento Europeo è necessario che i paesi e i governi che ancora credono nell’indispensabilità dell’Europa e dunque in una sua riforma e in un suo rafforzamento devono dare chiari e attivi segnali politici per cercare di fermare decrescita, crisi politica e rischi di declino.
“Fuori dall’Europa o dall’euro non c’è più sovranità”, ha detto venerdì scorso Mario Draghi, presidente della Bce, agli studenti di Bologna, durante la cerimonia per la laurea honoris causa in Giurisprudenza. Altro che sovranismi alla polacca, all’ungherese o, purtroppo, all’italiana. E altro che chiusure impaurite nel recinto delle “piccole patrie” e dei localismi miseri. L’Europa, ha aggiunto Draghi, ha bisogno naturalmente di riforme, “per adattare le istituzioni Ue al cambiamento”, per fare fronte alle sfide esterne “sempre più minacciose” e per “rispondere alla percezione che l’Unione Europea manchi di equità, fra Paesi e classi sociali”. Ma la strategia è “più Europa” e un’Europa migliore, non certo la dissoluzione dell’Europa o il suo impoverimento, come vorrebbero gli Usa di Trump e la Russia di Putin (amatissime dai nazionalisti, anche qui in Italia).
Draghi ha ricordato che la vera sovranità si riflette nel migliore controllo degli eventi, per rispondere ai bisogni fondamentali dei cittadini: “La pace, la sicurezza e il pubblico bene del popolo”, secondo le parole del filosofo liberale settecentesco John Locke, uno dei riferimenti etici e politici dell’idea europea. Un’Europa da cambiare, certo. Ma senza dimenticare che la Ue “è stata un successo”, comprese le politiche finanziarie della Bce di fronte alla Grande Crisi. Europa nonostante tutto, dunque. Una lezione da tenere a mente.
Le scelte di Parigi e Berlino vanno in questa direzione. Dopo il rinnovo del “Patto di Acquisgrana” nel gennaio scorso e l’avvio dell’elaborazione di una politica comune per il Bilancio dell’Eurozona, proprio il Manifesto per la politica industriale indica concretamente strategie e misure per fare crescere dei “campioni europei”. Come? Investire di più sull’innovazione e lo sviluppo delle tecnologie di punta dell’AI (Artificial Intellicence, appunto), la robotica e i processi digitali di applicazione alla sanità, ai trasporti, all’ambiente e all’energia. L’auto elettrica è uno dei settori comuni di crescita. Ma anche tutto ciò che riguarda Industry 4.0 (che il governo italiano, ostile all’industria, alla ricerca scientifica e all’innovazione, ha purtroppo messo ai margini dell’attenzione, ostacolando la crescita economica).
Il secondo tema cardine del Manifesto riguarda una riforma dell’Antitrust Ue. Scottati dal “no” di Bruxelles all’intesa Alstom-Siemens sui treni ad alta velocità, Parigi e Berlino vogliono modificare le regole per la concorrenza, pensando a come proteggere meglio i nuovi “campioni europei” dalle sfide che vengono da Usa e Cina, impegnatissima a fare shopping di imprese europee hi tech. La modifica della concorrenza e delle norme antitrust non è vista di buon occhio né da ambienti della Commissione né da parecchi degli Stati europei, soprattutto di quelli del Nord. Ma il tema è posto con forza. E se ne discuterà, in una dialettica certo non accademica tra “liberisti” e “interventisti”.
Il terzo tema cardine riguarda l’impegno dei singoli paesi a monitorare i propri asset industriali strategici per evitare che ogni cessione di competenze, brevetti, know how in singoli paesi metta in crisi l’intera industria europea. Tema complesso, naturalmente, perché indice sulle libertà di mercato e d’impresa. Ma questione comunque in discussione, anche per sollecitare impegni di reciprocità per gli investimenti di imprese europee negli Usa e in Cina.
E l’Italia? In tutte queste discussioni è sostanzialmente assente. Le mosse anti-Bruxelles di parecchi esponenti del governo verde-giallo, le sparate polemiche di potenti ministri contro la Ue, l’euro, e i “burocrati” europei, le simpatie filo-Putin e i contrasti accesi con la Francia e le freddezze con la Germania non aiutano.
“Germania e Francia accelerano in assenza dell’Italia”, commenta su “Il Sole24Ore” l’editorialista Attilio Geroni (20 febbraio). E, pochi giorni più tardi, ecco un secondo commento, di Giuseppe Chiellino: “L’Italia resta fuori dal disegno dell’integrazione europea”. Con una notazione preoccupante, appunto per il nostro Paese: “Nel cosiddetto Gruppo G3, che ha l’obiettivo di porsi come principale forza propositiva sui dossier più importanti – dal bilancio alle politiche dell’immigrazione alle prossime nomine comunitarie, accanto a Francia e Germania non c’è l’Italia, ma la Spagna”.
Proprio la Brexit avrebbe consentito all’Italia, seconda manifattura europea, terza economia Ue, di stare ben salda e rilevante su uno dei vertici del “triangolo europeo” con tedeschi e francesi. Le poco lungimiranti scelte del governo Conte ci hanno invece emarginati. E sono in tanti, a Bruxelles e nelle capitali degli altri principali paesi europei, a ritenere che l’Italia, colpita da una nuova recessione e politicamente poco affidabile su bilancio pubblico e politiche di sviluppo, vada considerata non come un partner strategico ma come una zavorra per l’Europa in movimento.
E’ un quadro allarmante. Cui, nella distrazione e nell’irresponsabilità governativa, provano a rispondere proprio le imprese. Con un vertice tra la Confindustria e l’omologa organizzazione imprenditoriale francese Medef, a Versailles, il 28 e il 29 febbraio. E con la preparazione di un altro incontro, in cui coinvolgere l’associazione tedesca Bdi. Un’assunzione di responsabilità industriale, che prova a mettere un freno ai guasti politici di governo e maggioranza e a ritessere una strategia di sviluppo europea.






Un Manifesto di Francia e Germania per rilanciare la politica industriale dell’Europa e investire insieme sull’innovazione, sull’Intelligenza Artificiale, sullo sviluppo di grandi imprese europee per fronteggiare la concorrenza che arriva, sempre più pesante, dagli Usa e dalla Cina. Parigi e Berlino, insomma, fanno un altro passo insieme, per indicare una via d’uscita dalla crisi che rallenta la Ue. E pongono a tutti gli altri paesi, a cominciare dall’Italia, una sfida di grande peso: o crescere secondo obiettivi comuni o ritrovarsi in seconda fila o peggio ancora ai margini di un’Europa “a due velocità” il cui motore sta lungo l’asse franco-tedesco.
Sono tempi difficili, per l’economia europea, in rallentamento, anche a causa della brusca frenata che colpisce l’industria dell’auto tedesca e, di conseguenza, l’intera filiera automotive europea (l’Italia ne risente massicciamente, essendo fornitrice di primo piano di Bmw, Audi, Volkswagen e Daimler), sotto il peso delle mosse di Trump (“L’automotive europeo è una minaccia per la sicurezza nazionale”) e dei conflitti commerciali Usa-Cina. Le incertezze legate alla Brexit aggravano il quadro. E le tensioni politiche che travagliano parecchi paesi Ue e fanno emergere i rischi legati a populismi, sovranismi e nazionalismi protezionistici dicono che, proprio alla vigilia delle elezioni di maggio per il nuovo Parlamento Europeo è necessario che i paesi e i governi che ancora credono nell’indispensabilità dell’Europa e dunque in una sua riforma e in un suo rafforzamento devono dare chiari e attivi segnali politici per cercare di fermare decrescita, crisi politica e rischi di declino.
“Fuori dall’Europa o dall’euro non c’è più sovranità”, ha detto venerdì scorso Mario Draghi, presidente della Bce, agli studenti di Bologna, durante la cerimonia per la laurea honoris causa in Giurisprudenza. Altro che sovranismi alla polacca, all’ungherese o, purtroppo, all’italiana. E altro che chiusure impaurite nel recinto delle “piccole patrie” e dei localismi miseri. L’Europa, ha aggiunto Draghi, ha bisogno naturalmente di riforme, “per adattare le istituzioni Ue al cambiamento”, per fare fronte alle sfide esterne “sempre più minacciose” e per “rispondere alla percezione che l’Unione Europea manchi di equità, fra Paesi e classi sociali”. Ma la strategia è “più Europa” e un’Europa migliore, non certo la dissoluzione dell’Europa o il suo impoverimento, come vorrebbero gli Usa di Trump e la Russia di Putin (amatissime dai nazionalisti, anche qui in Italia).
Draghi ha ricordato che la vera sovranità si riflette nel migliore controllo degli eventi, per rispondere ai bisogni fondamentali dei cittadini: “La pace, la sicurezza e il pubblico bene del popolo”, secondo le parole del filosofo liberale settecentesco John Locke, uno dei riferimenti etici e politici dell’idea europea. Un’Europa da cambiare, certo. Ma senza dimenticare che la Ue “è stata un successo”, comprese le politiche finanziarie della Bce di fronte alla Grande Crisi. Europa nonostante tutto, dunque. Una lezione da tenere a mente.
Le scelte di Parigi e Berlino vanno in questa direzione. Dopo il rinnovo del “Patto di Acquisgrana” nel gennaio scorso e l’avvio dell’elaborazione di una politica comune per il Bilancio dell’Eurozona, proprio il Manifesto per la politica industriale indica concretamente strategie e misure per fare crescere dei “campioni europei”. Come? Investire di più sull’innovazione e lo sviluppo delle tecnologie di punta dell’AI (Artificial Intellicence, appunto), la robotica e i processi digitali di applicazione alla sanità, ai trasporti, all’ambiente e all’energia. L’auto elettrica è uno dei settori comuni di crescita. Ma anche tutto ciò che riguarda Industry 4.0 (che il governo italiano, ostile all’industria, alla ricerca scientifica e all’innovazione, ha purtroppo messo ai margini dell’attenzione, ostacolando la crescita economica).
Il secondo tema cardine del Manifesto riguarda una riforma dell’Antitrust Ue. Scottati dal “no” di Bruxelles all’intesa Alstom-Siemens sui treni ad alta velocità, Parigi e Berlino vogliono modificare le regole per la concorrenza, pensando a come proteggere meglio i nuovi “campioni europei” dalle sfide che vengono da Usa e Cina, impegnatissima a fare shopping di imprese europee hi tech. La modifica della concorrenza e delle norme antitrust non è vista di buon occhio né da ambienti della Commissione né da parecchi degli Stati europei, soprattutto di quelli del Nord. Ma il tema è posto con forza. E se ne discuterà, in una dialettica certo non accademica tra “liberisti” e “interventisti”.
Il terzo tema cardine riguarda l’impegno dei singoli paesi a monitorare i propri asset industriali strategici per evitare che ogni cessione di competenze, brevetti, know how in singoli paesi metta in crisi l’intera industria europea. Tema complesso, naturalmente, perché indice sulle libertà di mercato e d’impresa. Ma questione comunque in discussione, anche per sollecitare impegni di reciprocità per gli investimenti di imprese europee negli Usa e in Cina.
E l’Italia? In tutte queste discussioni è sostanzialmente assente. Le mosse anti-Bruxelles di parecchi esponenti del governo verde-giallo, le sparate polemiche di potenti ministri contro la Ue, l’euro, e i “burocrati” europei, le simpatie filo-Putin e i contrasti accesi con la Francia e le freddezze con la Germania non aiutano.
“Germania e Francia accelerano in assenza dell’Italia”, commenta su “Il Sole24Ore” l’editorialista Attilio Geroni (20 febbraio). E, pochi giorni più tardi, ecco un secondo commento, di Giuseppe Chiellino: “L’Italia resta fuori dal disegno dell’integrazione europea”. Con una notazione preoccupante, appunto per il nostro Paese: “Nel cosiddetto Gruppo G3, che ha l’obiettivo di porsi come principale forza propositiva sui dossier più importanti – dal bilancio alle politiche dell’immigrazione alle prossime nomine comunitarie, accanto a Francia e Germania non c’è l’Italia, ma la Spagna”.
Proprio la Brexit avrebbe consentito all’Italia, seconda manifattura europea, terza economia Ue, di stare ben salda e rilevante su uno dei vertici del “triangolo europeo” con tedeschi e francesi. Le poco lungimiranti scelte del governo Conte ci hanno invece emarginati. E sono in tanti, a Bruxelles e nelle capitali degli altri principali paesi europei, a ritenere che l’Italia, colpita da una nuova recessione e politicamente poco affidabile su bilancio pubblico e politiche di sviluppo, vada considerata non come un partner strategico ma come una zavorra per l’Europa in movimento.
E’ un quadro allarmante. Cui, nella distrazione e nell’irresponsabilità governativa, provano a rispondere proprio le imprese. Con un vertice tra la Confindustria e l’omologa organizzazione imprenditoriale francese Medef, a Versailles, il 28 e il 29 febbraio. E con la preparazione di un altro incontro, in cui coinvolgere l’associazione tedesca Bdi. Un’assunzione di responsabilità industriale, che prova a mettere un freno ai guasti politici di governo e maggioranza e a ritessere una strategia di sviluppo europea.
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La buona finanza d’impresa
Un intervento di Ignazio Visco delinea le vicende che legano gli investimenti e lo sviluppo aziendali con la disponibilità di sostegni finanziari
Lo sviluppo – anche quello delle imprese – si basa sulle visioni chiare e lucide del da farsi. Vince, in altre parole, chi riesce a pianificare meglio le proprie azioni e, quindi, chi è dotato di una migliore visione del mondo rispetto agli altri. Questione di informazioni ma anche di capacità d’analisi. E poi di mezzi. E’ per questo che serve leggere, fra gli altri, l’intervento che Ignazio Visco (Governatore della Banca d’Italia) ha condotto il 13 febbraio scorso presso la Baffi Carefin Bocconi – Equita nell’ambito della sesta conferenza dedicata a The Italian Corporate Bond Market: What’s Happening to the Capital Structure of Italian Non-Financial Companies?
Visco ha in particolare affrontato il tema de “La finanza d’impresa in Italia: recente evoluzione e prospettive”: l’occasione per guardare più da vicino le relazioni fra aziende, investimenti e situazione finanziaria. Esercizio di cultura economica ma anche d’impresa.
L’autore precisa subito: “Il motore dello sviluppo di una economia è dato dalla propensione delle imprese a crescere e a innovare”. Ma per realizzare una condizione di questo genere occorre che “le imprese operino in un contesto macroeconomico favorevole in termini di livello della pressione fiscale, funzionamento del mercato del lavoro, disponibilità di infrastrutture ed efficienza della pubblica amministrazione. Un fattore essenziale per gli investimenti è la disponibilità di risorse finanziarie per le imprese, adeguate in quantità e qualità”. E’ da queste premesse che Visco parte per approfondire le ultime vicende delle imprese in Italia di fronte alle risorse finanziarie.
Il Governatore della banca centrale italiana compie quindi prima una breve carrellata storica delle condizioni del sistema finanziario “diversificato” presente in Italia dagli inizi del XX secolo per arrivare ai primi anni Duemila con l’emergere più deciso, a fianco delle banche, del mercato dei capitali quale strumenti di sostegno finanziario degli investimenti d’impresa. Poi Visco arriva a fare il punto della situazione odierna fra opportunità e rischi per le imprese alle prese fra il credito bancario e quello non bancario.
Certezza e stabilità sono infine individuati da Visco come i due elementi fondamentali per lo sviluppo degli investimenti sostenuti da una finanza diversificata e più attenta alle fonti non bancarie. Questione, come si diceva all’inizio, anche di cultura economica, così come politica e istituzionale, che possano diventare anche motori d’impresa.
La finanza d’impresa in Italia: recente evoluzione e prospettive
Ignazio Visco
Baffi Carefin Bocconi – Equita, Sesta conferenza, The Italian Corporate Bond Market: What’s Happening to the Capital Structure of Italian Non-Financial Companies?
Milano, 13 febbraio 2019
Un intervento di Ignazio Visco delinea le vicende che legano gli investimenti e lo sviluppo aziendali con la disponibilità di sostegni finanziari
Lo sviluppo – anche quello delle imprese – si basa sulle visioni chiare e lucide del da farsi. Vince, in altre parole, chi riesce a pianificare meglio le proprie azioni e, quindi, chi è dotato di una migliore visione del mondo rispetto agli altri. Questione di informazioni ma anche di capacità d’analisi. E poi di mezzi. E’ per questo che serve leggere, fra gli altri, l’intervento che Ignazio Visco (Governatore della Banca d’Italia) ha condotto il 13 febbraio scorso presso la Baffi Carefin Bocconi – Equita nell’ambito della sesta conferenza dedicata a The Italian Corporate Bond Market: What’s Happening to the Capital Structure of Italian Non-Financial Companies?
Visco ha in particolare affrontato il tema de “La finanza d’impresa in Italia: recente evoluzione e prospettive”: l’occasione per guardare più da vicino le relazioni fra aziende, investimenti e situazione finanziaria. Esercizio di cultura economica ma anche d’impresa.
L’autore precisa subito: “Il motore dello sviluppo di una economia è dato dalla propensione delle imprese a crescere e a innovare”. Ma per realizzare una condizione di questo genere occorre che “le imprese operino in un contesto macroeconomico favorevole in termini di livello della pressione fiscale, funzionamento del mercato del lavoro, disponibilità di infrastrutture ed efficienza della pubblica amministrazione. Un fattore essenziale per gli investimenti è la disponibilità di risorse finanziarie per le imprese, adeguate in quantità e qualità”. E’ da queste premesse che Visco parte per approfondire le ultime vicende delle imprese in Italia di fronte alle risorse finanziarie.
Il Governatore della banca centrale italiana compie quindi prima una breve carrellata storica delle condizioni del sistema finanziario “diversificato” presente in Italia dagli inizi del XX secolo per arrivare ai primi anni Duemila con l’emergere più deciso, a fianco delle banche, del mercato dei capitali quale strumenti di sostegno finanziario degli investimenti d’impresa. Poi Visco arriva a fare il punto della situazione odierna fra opportunità e rischi per le imprese alle prese fra il credito bancario e quello non bancario.
Certezza e stabilità sono infine individuati da Visco come i due elementi fondamentali per lo sviluppo degli investimenti sostenuti da una finanza diversificata e più attenta alle fonti non bancarie. Questione, come si diceva all’inizio, anche di cultura economica, così come politica e istituzionale, che possano diventare anche motori d’impresa.
La finanza d’impresa in Italia: recente evoluzione e prospettive
Ignazio Visco
Baffi Carefin Bocconi – Equita, Sesta conferenza, The Italian Corporate Bond Market: What’s Happening to the Capital Structure of Italian Non-Financial Companies?
Milano, 13 febbraio 2019
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Racconti Robot
L’ultimo libro di Joseph Sassoon spiega una delle frontiere più avanzate dell’Intelligenza Artificiale
L’uomo è fatto per raccontare. E’ così da sempre, e probabilmente sarà così fino a quando l’ultimo uomo e l’ultima donna potranno dirsi tali. Anche se da qualche tempo l’Intelligenza Artificiale, e le macchine conseguenti, sono in grado di raccontare storie quasi pari a quelle degli umani. Cesura storica, forse pari se non superiore a quella costituita dalla rivoluzione industriale. Cesura che vale per ogni campo d’azione umano. Anche per l’economia e l’impresa (che proprio del cosiddetto storytelling ha fatto uno dei suoi campi d’azione).
Quello dei racconti elaborati dalle macchine e non dall’uomo è un tema delicato, che va compreso a fondo e osservato con attenzione. Una buona guida in questo senso è “Storytelling e intelligenza artificiale. Quando le storie le raccontano i robot”, l‘ultimo libro di Joseph Sassoon (ricercatore, consulente, speaker e professore di Brand Storytelling presso il Master in Marketing Utilities and Storytelling Techniques dell’Università di Pavia).
Sassoon esplora davvero uno dei confini più avanzati dell’applicazione dell’Intelligenza Artificiale ai campi d’azione umani. E parte da una constatazione: raccontare storie potrebbe non essere più un’impresa soltanto umana; sebbene nella fase attuale algoritmi e Intelligenza Artificiale tendano a intervenire principalmente con funzioni di aiuto, anch’essi possono essere considerati non solo meccanismi di riproduzione, ma veri e propri artefici di nuove storie e racconti.
E’ da qui che inizia il ragionamento dell’autore condensato in circa 100 pagine che si leggono con grande facilità e che prendono il lettore – in alcuni passaggi -, come una romanzo. Sotto la lente d’ingrandimento del libro si trova quindi la transizione in cui ci troviamo, che sta portando i software, i sistemi artificiali, i robot a impadronirsi dei segreti dello storytelling. Sassoon ragiona davvero a tutto campo e per far comprendere l’argomento prende esempi da una serie di ambiti cruciali per la comunicazione contemporanea – cinema, giornalismo, marketing, pubblicità -, e lo fa enumerando casi letterari così come economici oppure dello spettacolo che fanno entrare nel delicato rapporto che esiste (e non da oggi), fra macchiane racconto dell’uomo.
Il libro cerca quindi di rispondere ad una serie di domande importanti come il livello di capacità raggiunto dalle macchine di raccontare storie, le sperimentazioni in corso, il ruolo delle macchine “capaci di raccontare” nello spettacolo e nell’economia, ma anche quali siano i problemi che si pongono sotto il profilo sociale, politico ed etico.
Sassoon non sposa alcuna causa, ma spiega e quindi compie un esercizio importante dal punto di vista culturale, che vale anche per chi, imprenditore o manager, può avere occasione di confrontarsi con questi ambiti propri ormai anche della cultura d’impresa. “Il fatto che tra poco l’AI ci potrà raggiungere anche sul piano del raccontare storie, e dare un senso al mondo – conclude l’autore -, evidenzia nel modo più chiaro che questo mondo non sarà mai più come prima”.
Storytelling e intelligenza artificiale. Quando le storie le raccontano i robot
Joseph Sassoon
Franci Angeli, 2019






L’ultimo libro di Joseph Sassoon spiega una delle frontiere più avanzate dell’Intelligenza Artificiale
L’uomo è fatto per raccontare. E’ così da sempre, e probabilmente sarà così fino a quando l’ultimo uomo e l’ultima donna potranno dirsi tali. Anche se da qualche tempo l’Intelligenza Artificiale, e le macchine conseguenti, sono in grado di raccontare storie quasi pari a quelle degli umani. Cesura storica, forse pari se non superiore a quella costituita dalla rivoluzione industriale. Cesura che vale per ogni campo d’azione umano. Anche per l’economia e l’impresa (che proprio del cosiddetto storytelling ha fatto uno dei suoi campi d’azione).
Quello dei racconti elaborati dalle macchine e non dall’uomo è un tema delicato, che va compreso a fondo e osservato con attenzione. Una buona guida in questo senso è “Storytelling e intelligenza artificiale. Quando le storie le raccontano i robot”, l‘ultimo libro di Joseph Sassoon (ricercatore, consulente, speaker e professore di Brand Storytelling presso il Master in Marketing Utilities and Storytelling Techniques dell’Università di Pavia).
Sassoon esplora davvero uno dei confini più avanzati dell’applicazione dell’Intelligenza Artificiale ai campi d’azione umani. E parte da una constatazione: raccontare storie potrebbe non essere più un’impresa soltanto umana; sebbene nella fase attuale algoritmi e Intelligenza Artificiale tendano a intervenire principalmente con funzioni di aiuto, anch’essi possono essere considerati non solo meccanismi di riproduzione, ma veri e propri artefici di nuove storie e racconti.
E’ da qui che inizia il ragionamento dell’autore condensato in circa 100 pagine che si leggono con grande facilità e che prendono il lettore – in alcuni passaggi -, come una romanzo. Sotto la lente d’ingrandimento del libro si trova quindi la transizione in cui ci troviamo, che sta portando i software, i sistemi artificiali, i robot a impadronirsi dei segreti dello storytelling. Sassoon ragiona davvero a tutto campo e per far comprendere l’argomento prende esempi da una serie di ambiti cruciali per la comunicazione contemporanea – cinema, giornalismo, marketing, pubblicità -, e lo fa enumerando casi letterari così come economici oppure dello spettacolo che fanno entrare nel delicato rapporto che esiste (e non da oggi), fra macchiane racconto dell’uomo.
Il libro cerca quindi di rispondere ad una serie di domande importanti come il livello di capacità raggiunto dalle macchine di raccontare storie, le sperimentazioni in corso, il ruolo delle macchine “capaci di raccontare” nello spettacolo e nell’economia, ma anche quali siano i problemi che si pongono sotto il profilo sociale, politico ed etico.
Sassoon non sposa alcuna causa, ma spiega e quindi compie un esercizio importante dal punto di vista culturale, che vale anche per chi, imprenditore o manager, può avere occasione di confrontarsi con questi ambiti propri ormai anche della cultura d’impresa. “Il fatto che tra poco l’AI ci potrà raggiungere anche sul piano del raccontare storie, e dare un senso al mondo – conclude l’autore -, evidenzia nel modo più chiaro che questo mondo non sarà mai più come prima”.
Storytelling e intelligenza artificiale. Quando le storie le raccontano i robot
Joseph Sassoon
Franci Angeli, 2019
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Alessandro Mendini, interprete del mondo Pirelli
“Io nacqui in via Jan nel 1931. Il nonno Francesco aveva commissionato il progetto della casa a Piero Portaluppi, e dalla cura con cui è stata disegnata si riconosce l’intesa profonda che i due ebbero nell’inventare questa mirabile dimora, una delle più raffinate dell’architetto”.
Così Alessandro Mendini ricorda la casa natale, che il nonno Francesco Di Stefano volle realizzare per ospitare tutta la famiglia e dove cominciò una importante raccolta di quadri che fanno oggi della dimora – la Casa-Museo Boschi Di Stefano – una straordinaria testimonianza della storia dell’arte contemporanea del XX secolo. Qui vissero le figlie Fulvia e Marieda con i rispettivi mariti, Vincenzo Mendini, papà di Alessandro e Antonio Boschi. Continua Mendini sul sito della Casa-Museo Boschi Di Stefano: “A quei tempi lo zio Boschi non era ancora quell’alto dirigente della Pirelli e quell’infaticabile inventore di brevetti “gomma-ferro” che divenne dopo. Era un giovane appena laureato che, con la assoluta complicità della moglie, faceva ogni sacrificio pur di frequentare gallerie come quella del Milione, e di portarsi a casa un piccolo Carrà o una statuina di Arturo Martini”. L’ingegnere Antonio Boschi entrò infatti alla Pirelli nel 1926, impiegato presso la Direzione Tecnologica gomma, all’interno della quale compì la sua carriera raggiungendo importanti posizioni nel settore degli articoli vari.
La parentela tra Mendini e Boschi è il motivo che portò Sandro a realizzare per Pirelli alcune pubblicità pubblicate su “Pirelli. Rivista d’informazione e di tecnica” nel corso del 1958. All’epoca era ancora uno studente (si sarebbe laureato al Politecnico di Milano nel 1959), che lavorava in uno studio di architettura insieme a Mario Brunati e Ferruccio Villa. È lo studio a firmare i bozzetti ma le pubblicità furono ideate e realizzate da Mendini: cinque pubblicità per vari prodotti, che spaziano dagli articoli per la pesca subacquea alla borsa per l’acqua calda fino ai pneumatici Pirelli di maggiore successo all’epoca, Cinturato e Rolle, le cui forme e segni battistrada sono utilizzati con ironia per caratterizzare divertenti personaggi. Negli anni d’oro della collaborazione tra impresa, intellettuali e artisti, accanto alle grandi firme della grafica e del design che concorsero alla realizzazione della pubblicità e dell’immagine aziendale sotto la direzione di Arrigo Castellani, anche il giovane e ancora sconosciuto Sandro Mendini, cresciuto tra i quadri di Sironi, Funi e Casorati, diede così il suo contributo. La Fondazione Pirelli incontrò Mendini in occasione della lavorazione del volume “Una musa tra le ruote. Pirelli: un secolo di arte al servizio del prodotto” (Corraini Edizioni, 2015), coronamento di un progetto di recupero e valorizzazione del fondo dei bozzetti e disegni originali, attuato tra 2011 e 2015. Alle operazioni di restauro, catalogazione e digitalizzazione dei materiali seguì un accurato lavoro di ricerca sulle opere, i loro autori, le circostanze della realizzazione e la committenza. Un lavoro riconosciuto dallo stesso Mendini nel corso della presentazione del libro alla Triennale nel giugno 2015, che lo vide illustre ospite. Mendini definì il volume “un libro incredibile, una documentazione culturalmente molto impegnativa, di grande qualità documentaria e critica metodologica” , testimonianza della “forza d’urto nella qualità sociale di un’impresa”. Un lavoro grazie al quale si è fatta luce sulla collaborazione tra Pirelli e uno dei più grandi architetti e designer italiani del Novecento.






“Io nacqui in via Jan nel 1931. Il nonno Francesco aveva commissionato il progetto della casa a Piero Portaluppi, e dalla cura con cui è stata disegnata si riconosce l’intesa profonda che i due ebbero nell’inventare questa mirabile dimora, una delle più raffinate dell’architetto”.
Così Alessandro Mendini ricorda la casa natale, che il nonno Francesco Di Stefano volle realizzare per ospitare tutta la famiglia e dove cominciò una importante raccolta di quadri che fanno oggi della dimora – la Casa-Museo Boschi Di Stefano – una straordinaria testimonianza della storia dell’arte contemporanea del XX secolo. Qui vissero le figlie Fulvia e Marieda con i rispettivi mariti, Vincenzo Mendini, papà di Alessandro e Antonio Boschi. Continua Mendini sul sito della Casa-Museo Boschi Di Stefano: “A quei tempi lo zio Boschi non era ancora quell’alto dirigente della Pirelli e quell’infaticabile inventore di brevetti “gomma-ferro” che divenne dopo. Era un giovane appena laureato che, con la assoluta complicità della moglie, faceva ogni sacrificio pur di frequentare gallerie come quella del Milione, e di portarsi a casa un piccolo Carrà o una statuina di Arturo Martini”. L’ingegnere Antonio Boschi entrò infatti alla Pirelli nel 1926, impiegato presso la Direzione Tecnologica gomma, all’interno della quale compì la sua carriera raggiungendo importanti posizioni nel settore degli articoli vari.
La parentela tra Mendini e Boschi è il motivo che portò Sandro a realizzare per Pirelli alcune pubblicità pubblicate su “Pirelli. Rivista d’informazione e di tecnica” nel corso del 1958. All’epoca era ancora uno studente (si sarebbe laureato al Politecnico di Milano nel 1959), che lavorava in uno studio di architettura insieme a Mario Brunati e Ferruccio Villa. È lo studio a firmare i bozzetti ma le pubblicità furono ideate e realizzate da Mendini: cinque pubblicità per vari prodotti, che spaziano dagli articoli per la pesca subacquea alla borsa per l’acqua calda fino ai pneumatici Pirelli di maggiore successo all’epoca, Cinturato e Rolle, le cui forme e segni battistrada sono utilizzati con ironia per caratterizzare divertenti personaggi. Negli anni d’oro della collaborazione tra impresa, intellettuali e artisti, accanto alle grandi firme della grafica e del design che concorsero alla realizzazione della pubblicità e dell’immagine aziendale sotto la direzione di Arrigo Castellani, anche il giovane e ancora sconosciuto Sandro Mendini, cresciuto tra i quadri di Sironi, Funi e Casorati, diede così il suo contributo. La Fondazione Pirelli incontrò Mendini in occasione della lavorazione del volume “Una musa tra le ruote. Pirelli: un secolo di arte al servizio del prodotto” (Corraini Edizioni, 2015), coronamento di un progetto di recupero e valorizzazione del fondo dei bozzetti e disegni originali, attuato tra 2011 e 2015. Alle operazioni di restauro, catalogazione e digitalizzazione dei materiali seguì un accurato lavoro di ricerca sulle opere, i loro autori, le circostanze della realizzazione e la committenza. Un lavoro riconosciuto dallo stesso Mendini nel corso della presentazione del libro alla Triennale nel giugno 2015, che lo vide illustre ospite. Mendini definì il volume “un libro incredibile, una documentazione culturalmente molto impegnativa, di grande qualità documentaria e critica metodologica” , testimonianza della “forza d’urto nella qualità sociale di un’impresa”. Un lavoro grazie al quale si è fatta luce sulla collaborazione tra Pirelli e uno dei più grandi architetti e designer italiani del Novecento.
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Luoghi di vita industriosa
Un libro racconta fabbrica e villaggio operaio di Crespi d’Adda
Luoghi d’industria. Spazi d’impresa. Territori della memoria ancora viva. L’Italia industriale (e non solo quella), è percorsa da numerosi siti che hanno caratteristiche di “santuari” dell’ingegno umano ma che sono anche occasioni per imparare un presente fatto anche di un passato di lavoro e di fatica, istruttivo e importante. Segni tangibili di una cultura d’impresa che solo apparentemente è morta. Uno di questi luoghi è il sito di Crespi d’Adda fondato da Cristoforo Benigno Crespi nel 1878, inserito ancora in attività nell’elenco dei siti Patrimonio mondiale dell’umanità dal 1995 e, dopo diversi avvicendamenti industriali, definitivamente fermatosi con la cessazione dell’ultima attività produttiva nel 2003. L’area è però “rinata” nel 2013 con un imprenditore bergamasco che ha rilevato l’intero stabilimento, un tempo sede del Cotonificio Benigno Crespi, per ridagli vita.
Fabbrica luogo di lavoro e villaggio luogo di vita, sono i due poli attorno ai quali Crespi d’Adda è stato pensato, costruito e gestito e che adesso viene raccontato da
“Crespi d’Adda. Storia di una impresa” scritto da Giorgio Ravasio: un libro di una cinquantina di pagine dense di testo e soprattutto di immagini.
Il filo del racconto è la storia di un esperimento urbano e industriale che ha tentato (anche in buona parte riuscendoci), di coniugare “armoniosamente vita e lavoro, funzionalità e bellezza, natura e architettura”, come spiega l’autore.
Libro da leggere e da sfogliare, dunque, ma soprattutto da meditare partendo dalle immagini (70) sia recenti che storiche, queste ultime, provenienti da archivi privati e pubblici e scattate tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento.
Libro che, oltre a ricordare un esperimento di cultura industriale durato oltre cento anni, costituisce anche uno strumento per consolidare la consapevolezza del nostro presente industriale. Bella la citazione che Ravasio da del gesuita Matteo Ricci il quale “sosteneva – scrive l’autore -, che la memoria è un palazzo che si costruisce un tassello alla volta ma l’edificio poi è solido e indistruttibile. Ricordare, insomma, non solo per non dimenticare ma per costruire la terra su cui poggiare i nostri piedi”.
Crespi d’Adda. Storia di una Impresa
Giorgio Ravasio
Associazione Crespi d’Adda, Tesserememoria, 2019






Un libro racconta fabbrica e villaggio operaio di Crespi d’Adda
Luoghi d’industria. Spazi d’impresa. Territori della memoria ancora viva. L’Italia industriale (e non solo quella), è percorsa da numerosi siti che hanno caratteristiche di “santuari” dell’ingegno umano ma che sono anche occasioni per imparare un presente fatto anche di un passato di lavoro e di fatica, istruttivo e importante. Segni tangibili di una cultura d’impresa che solo apparentemente è morta. Uno di questi luoghi è il sito di Crespi d’Adda fondato da Cristoforo Benigno Crespi nel 1878, inserito ancora in attività nell’elenco dei siti Patrimonio mondiale dell’umanità dal 1995 e, dopo diversi avvicendamenti industriali, definitivamente fermatosi con la cessazione dell’ultima attività produttiva nel 2003. L’area è però “rinata” nel 2013 con un imprenditore bergamasco che ha rilevato l’intero stabilimento, un tempo sede del Cotonificio Benigno Crespi, per ridagli vita.
Fabbrica luogo di lavoro e villaggio luogo di vita, sono i due poli attorno ai quali Crespi d’Adda è stato pensato, costruito e gestito e che adesso viene raccontato da
“Crespi d’Adda. Storia di una impresa” scritto da Giorgio Ravasio: un libro di una cinquantina di pagine dense di testo e soprattutto di immagini.
Il filo del racconto è la storia di un esperimento urbano e industriale che ha tentato (anche in buona parte riuscendoci), di coniugare “armoniosamente vita e lavoro, funzionalità e bellezza, natura e architettura”, come spiega l’autore.
Libro da leggere e da sfogliare, dunque, ma soprattutto da meditare partendo dalle immagini (70) sia recenti che storiche, queste ultime, provenienti da archivi privati e pubblici e scattate tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento.
Libro che, oltre a ricordare un esperimento di cultura industriale durato oltre cento anni, costituisce anche uno strumento per consolidare la consapevolezza del nostro presente industriale. Bella la citazione che Ravasio da del gesuita Matteo Ricci il quale “sosteneva – scrive l’autore -, che la memoria è un palazzo che si costruisce un tassello alla volta ma l’edificio poi è solido e indistruttibile. Ricordare, insomma, non solo per non dimenticare ma per costruire la terra su cui poggiare i nostri piedi”.
Crespi d’Adda. Storia di una Impresa
Giorgio Ravasio
Associazione Crespi d’Adda, Tesserememoria, 2019
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Dove nascono le nuove imprese?
Una ricerca sulle start-up aziendali cerca di fare luce sulle caratteristiche territoriali più favorevoli alle organizzazioni produttive
“Pensare” un’impresa, farla nascere e crescere non sono cose da poco. Ci vogliono l’idea e le risorse (anche e soprattutto umane), per fa funzionare tutto. Conta anche l’ambiente: insieme strano e complesso fatto di territorio, persone, legami sociali, vincoli e opportunità, istituzioni, culture che possono contribuire a sostenere una giovane impresa nei suoi primi passi.
Capire il territorio nel quale le imprese possono nascere meglio è fondamentale. Da qui l’interesse nel leggere “I luoghi fertili per l’innovazione. uno studio sulla localizzazione delle start–up innovative in Italia” scritto a quattro mani da Roberto Antonietti e da Francesca Gambarotto (del Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali dell’Università degli Studi di Padova). La ricerca, apparsa recentemente su Economia e Società Regionale, prende spunto da due considerazioni. Prima di tutto il significato dello start–up d’impresa visto – spiegano gli autori -, “come uno strumento fondamentale per trasformare la conoscenza in nuovi prodotti/servizi innovativi”. Poi la constatazione che nel nostro Paese solo da pochi anni si è “intervenuti a sostegno della nascita di nuove imprese innovative ma poca rilevanza viene data alle caratteristiche ambientali che favoriscono questo processo creativo”.
Da tutto questo nasce l’intento della ricerca: capire quale sia il “miglior territorio”, quello più “fertile” per far nascere le aziende.
L’indagine è condotta utilizzando il registro delle start–up innovative di Unioncamere e i sistemi locali del lavoro di Istat. Dalla massa di dati viene quindi analizzata la distribuzione territoriale delle start–up per capire quali siano i fattori che ne influenzano maggiormente la nascita e la localizzazione. Dall’incrocio delle informazioni, Antonietti e Gambarotto dimostrano che i centri urbani di dimensioni medio-grandi grazie alla varietà della loro economia, alla presenza di attori cruciali come i centri universitari e gli incubatori e alla performance economica aperta verso mercati internazionali caratterizzano gli habitat più fertili per sostenere la nascita di start–up innovative. Non si tratta di una conclusione scontata e, soprattutto, è un risultato dimostrato dai numeri e che pone una domanda: come fare per aumentare la capacità d’accoglienza di nuove imprese anche in altri ambiti territoriali?
Roberto Antonietti, Francesca Gambarotto
Economia e Società Regionale, 2018, Fascicolo 3
Una ricerca sulle start-up aziendali cerca di fare luce sulle caratteristiche territoriali più favorevoli alle organizzazioni produttive
“Pensare” un’impresa, farla nascere e crescere non sono cose da poco. Ci vogliono l’idea e le risorse (anche e soprattutto umane), per fa funzionare tutto. Conta anche l’ambiente: insieme strano e complesso fatto di territorio, persone, legami sociali, vincoli e opportunità, istituzioni, culture che possono contribuire a sostenere una giovane impresa nei suoi primi passi.
Capire il territorio nel quale le imprese possono nascere meglio è fondamentale. Da qui l’interesse nel leggere “I luoghi fertili per l’innovazione. uno studio sulla localizzazione delle start–up innovative in Italia” scritto a quattro mani da Roberto Antonietti e da Francesca Gambarotto (del Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali dell’Università degli Studi di Padova). La ricerca, apparsa recentemente su Economia e Società Regionale, prende spunto da due considerazioni. Prima di tutto il significato dello start–up d’impresa visto – spiegano gli autori -, “come uno strumento fondamentale per trasformare la conoscenza in nuovi prodotti/servizi innovativi”. Poi la constatazione che nel nostro Paese solo da pochi anni si è “intervenuti a sostegno della nascita di nuove imprese innovative ma poca rilevanza viene data alle caratteristiche ambientali che favoriscono questo processo creativo”.
Da tutto questo nasce l’intento della ricerca: capire quale sia il “miglior territorio”, quello più “fertile” per far nascere le aziende.
L’indagine è condotta utilizzando il registro delle start–up innovative di Unioncamere e i sistemi locali del lavoro di Istat. Dalla massa di dati viene quindi analizzata la distribuzione territoriale delle start–up per capire quali siano i fattori che ne influenzano maggiormente la nascita e la localizzazione. Dall’incrocio delle informazioni, Antonietti e Gambarotto dimostrano che i centri urbani di dimensioni medio-grandi grazie alla varietà della loro economia, alla presenza di attori cruciali come i centri universitari e gli incubatori e alla performance economica aperta verso mercati internazionali caratterizzano gli habitat più fertili per sostenere la nascita di start–up innovative. Non si tratta di una conclusione scontata e, soprattutto, è un risultato dimostrato dai numeri e che pone una domanda: come fare per aumentare la capacità d’accoglienza di nuove imprese anche in altri ambiti territoriali?
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Economia e Società Regionale, 2018, Fascicolo 3
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Torna la voglia di Stato padrone, anche se il Governo ha promesso alla Ue 17 miliardi di privatizzazioni
Sull’Italia in recessione (unico tra i grandi paesi europei) e con “il motore inceppato” (definizione del professor Sabino Cassese) s’allunga sempre più incombente un’ombra: quella della crescente presenza dello Stato nell’economia, da gestore di aziende e non da legislatore e controllore (come sarebbe giusto e opportuno). Nelle stanze di Palazzo Chigi e dei ministeri economici c’è una gran voglia di nazionalizzazioni. Si progetta di arrivare alla maggioranza del capitale di Alitalia, tra intervento diretto del Mef (il ministero dell’Economia) e quote della Cassa Depositi e Prestiti e delle Ferrovie (dimenticando che sinora lo Stato, nei pasticci Alitalia, ha già bruciato quasi 10 miliardi di euro). Si punta al raddoppio della presenza della Cassa Depositi e Prestiti, dal 4,26 al 10% circa, in Telecom, società privata, per scorporare la rete e unirla a quella di Open Fiber (dove la Cdp ha il 50%). Si chiacchiera, al ministero delle Infrastrutture, di nazionalizzare le autostrade. Ma anche di far entrare la Cdp nel nuovo colosso delle costruzioni internazionali Salini-Astaldi (imprese private, la prima eccellente, la seconda in crisi). E sempre tra grillini e leghisti s’insiste per fare diventare banca pubblica la Carige, nonostante gli attuali commissari nominati dalla Bce, che ben conoscono conti e condizioni della banca in crisi, dicano che non ce n’è alcun bisogno, cercando invece investitori privati. Si prepara una proposta di legge, da parte del M5S, sulla gestione pubblica delle acque, fatta in modo tale da bloccare gli investimenti privati in corso da anni e riportare tutto sotto il controllo di enti pubblici e comunali che tanto danno hanno fatto in passato (sprechi, clientele, disagi per il servizio, scarsa qualità delle reti).
Torna, insomma, la voglia dello Stato padrone, una dilagante pretesa del governo giallo-verde di avere direttamente mani in pasta nella gestione di grandi e piccole imprese, nelle decisioni manageriali su investimenti, assunzioni, appalti. Pretese di potere, senza tenere in alcun conto le esigenze di efficienza, economicità, produttività, qualità e costi dei servizi e delle attività d’impresa.
Pretese di potere. E contraddizioni. Perché nella legge di Bilancio approvata in extremis alla fine di dicembre dalle Camere (senza poterla nemmeno ben esaminare) dopo una faticosa trattativa con la Commissione Ue sui conti, il deficit e il debito pubblico, si prevedono nel 2019 privatizzazioni per l’equivalente di un punto di Pil, circa 17 miliardi. Ma di quelle privatizzazioni, promesse a Bruxelles per farsi approvare la manovra, non si vede l’ombra, mentre tutte le mosse del governo vanno, al contrario, verso l’aumento della mano pubblica sull’economia, verso l’ingresso statale nelle aziende private.
E lo Stato regolatore e controllore? E’ bloccato dalle contese tra M5S e Lega, i due partiti di governo, per piazzare i loro uomini. Così la Consob è stata senza presidente per mesi (con gravi incertezze dannose per i mercati), prima di arrivare finalmente alla nomina di Paolo Savona. L’Inps è senza presidente, dopo la scadenza del mandato del professor Tito Boeri, competente economista. E si pretende di mettere becco persino nelle vicende della Banca d’Italia, per la nomina del vicedirettore generale: una grave intromissione sull’autonomia dell’istituto.
Tante chiacchiere, poca competenza nel governo dei complessi processi dell’economia.
Vale la pena rileggere un po’ di storia, per ricordare come lo Stato padrone sia stato protagonista di alcune delle pagine peggiori della nostra vicenda economica. Dopo gli anni dinamici della ricostruzione e del boom, dove la mano pubblica, con la gestione di amministratori competenti, capaci e perbene, ha fornito al Paese le infrastrutture necessarie alla ripresa (acciaio, autostrade, trasporti, edilizia pubblica, industria chimica di base), dagli anni Settanta in poi, le Partecipazioni Statali sono via via degradate in un circuito di sottogoverno, bruciando soldi pubblici nel “panettone di Stato”, le banche simili a una “foresta pietrificata”, le auto di Stato, le telecomunicazioni pubbliche, i servizi energetici e postali sempre più costosi, sempre meno efficienti. Monopoli, clientele, interessi privati sotto veste pubblica, sprechi.
La stagione delle privatizzazioni, negli anni Novanta, ha riaperto l’economia, l’ha resa più efficiente (con servizi migliori e meno costosi per i cittadini, i consumatori, le famiglie, le imprese). E’ vero, le privatizzazioni sono state talvolta mal fatte e comunque poco accompagnate da un indispensabile processo di liberalizzazioni. Ma pur tra limiti e contraddizioni, l’economia italiana, ben inserita dentro i processi del mercato europeo e poi dell’euro, s’è rimessa a crescere, pur senza colmare i divari di efficienza e produttività (produttive le imprese private, poco produttivi i servizi e l’amministrazione pubblica).
Adesso, un governo ostile alle competenze, al merito professionale, alla scienza, alla ricerca, all’efficienza delle infrastrutture, alla competitività e ai confronti internazionali, torna a vagheggiare di nazionalizzazioni e statalizzazioni, in un contesto accompagnato da scarsa cura per gli investimenti privati, italiani e internazionali e di distribuzione di redditi assistiti, pensioni anzitempo, condoni fiscali, protezione di categorie a disagio (in pieno stile populista), uso distorto delle poche risorse pubbliche a disposizione.
Un orizzonte cupo. Per evitarne il pericolo, si muovono fronti crescenti di opinione pubblica, di attori d’impresa e sociali. Un appello per “sbloccare l’Italia”, lanciato da “Il Foglio”, ha raccolto autorevoli firme politiche ed economiche, compresa l’adesione dei vertici di Confindustria. “Non frenate l’Italia”, titola “La Stampa” dando ampio spazio alle opinioni di chi lavora e produce. Appelli opportuni. Perché l’Italia non merita né i “signori del no” né i sostenitori d’una “decrescita infelice” dietro cui si celano interessi di potere che non fanno bene a chi giustamente rivendica un migliore futuro di sviluppo equilibrato.






Sull’Italia in recessione (unico tra i grandi paesi europei) e con “il motore inceppato” (definizione del professor Sabino Cassese) s’allunga sempre più incombente un’ombra: quella della crescente presenza dello Stato nell’economia, da gestore di aziende e non da legislatore e controllore (come sarebbe giusto e opportuno). Nelle stanze di Palazzo Chigi e dei ministeri economici c’è una gran voglia di nazionalizzazioni. Si progetta di arrivare alla maggioranza del capitale di Alitalia, tra intervento diretto del Mef (il ministero dell’Economia) e quote della Cassa Depositi e Prestiti e delle Ferrovie (dimenticando che sinora lo Stato, nei pasticci Alitalia, ha già bruciato quasi 10 miliardi di euro). Si punta al raddoppio della presenza della Cassa Depositi e Prestiti, dal 4,26 al 10% circa, in Telecom, società privata, per scorporare la rete e unirla a quella di Open Fiber (dove la Cdp ha il 50%). Si chiacchiera, al ministero delle Infrastrutture, di nazionalizzare le autostrade. Ma anche di far entrare la Cdp nel nuovo colosso delle costruzioni internazionali Salini-Astaldi (imprese private, la prima eccellente, la seconda in crisi). E sempre tra grillini e leghisti s’insiste per fare diventare banca pubblica la Carige, nonostante gli attuali commissari nominati dalla Bce, che ben conoscono conti e condizioni della banca in crisi, dicano che non ce n’è alcun bisogno, cercando invece investitori privati. Si prepara una proposta di legge, da parte del M5S, sulla gestione pubblica delle acque, fatta in modo tale da bloccare gli investimenti privati in corso da anni e riportare tutto sotto il controllo di enti pubblici e comunali che tanto danno hanno fatto in passato (sprechi, clientele, disagi per il servizio, scarsa qualità delle reti).
Torna, insomma, la voglia dello Stato padrone, una dilagante pretesa del governo giallo-verde di avere direttamente mani in pasta nella gestione di grandi e piccole imprese, nelle decisioni manageriali su investimenti, assunzioni, appalti. Pretese di potere, senza tenere in alcun conto le esigenze di efficienza, economicità, produttività, qualità e costi dei servizi e delle attività d’impresa.
Pretese di potere. E contraddizioni. Perché nella legge di Bilancio approvata in extremis alla fine di dicembre dalle Camere (senza poterla nemmeno ben esaminare) dopo una faticosa trattativa con la Commissione Ue sui conti, il deficit e il debito pubblico, si prevedono nel 2019 privatizzazioni per l’equivalente di un punto di Pil, circa 17 miliardi. Ma di quelle privatizzazioni, promesse a Bruxelles per farsi approvare la manovra, non si vede l’ombra, mentre tutte le mosse del governo vanno, al contrario, verso l’aumento della mano pubblica sull’economia, verso l’ingresso statale nelle aziende private.
E lo Stato regolatore e controllore? E’ bloccato dalle contese tra M5S e Lega, i due partiti di governo, per piazzare i loro uomini. Così la Consob è stata senza presidente per mesi (con gravi incertezze dannose per i mercati), prima di arrivare finalmente alla nomina di Paolo Savona. L’Inps è senza presidente, dopo la scadenza del mandato del professor Tito Boeri, competente economista. E si pretende di mettere becco persino nelle vicende della Banca d’Italia, per la nomina del vicedirettore generale: una grave intromissione sull’autonomia dell’istituto.
Tante chiacchiere, poca competenza nel governo dei complessi processi dell’economia.
Vale la pena rileggere un po’ di storia, per ricordare come lo Stato padrone sia stato protagonista di alcune delle pagine peggiori della nostra vicenda economica. Dopo gli anni dinamici della ricostruzione e del boom, dove la mano pubblica, con la gestione di amministratori competenti, capaci e perbene, ha fornito al Paese le infrastrutture necessarie alla ripresa (acciaio, autostrade, trasporti, edilizia pubblica, industria chimica di base), dagli anni Settanta in poi, le Partecipazioni Statali sono via via degradate in un circuito di sottogoverno, bruciando soldi pubblici nel “panettone di Stato”, le banche simili a una “foresta pietrificata”, le auto di Stato, le telecomunicazioni pubbliche, i servizi energetici e postali sempre più costosi, sempre meno efficienti. Monopoli, clientele, interessi privati sotto veste pubblica, sprechi.
La stagione delle privatizzazioni, negli anni Novanta, ha riaperto l’economia, l’ha resa più efficiente (con servizi migliori e meno costosi per i cittadini, i consumatori, le famiglie, le imprese). E’ vero, le privatizzazioni sono state talvolta mal fatte e comunque poco accompagnate da un indispensabile processo di liberalizzazioni. Ma pur tra limiti e contraddizioni, l’economia italiana, ben inserita dentro i processi del mercato europeo e poi dell’euro, s’è rimessa a crescere, pur senza colmare i divari di efficienza e produttività (produttive le imprese private, poco produttivi i servizi e l’amministrazione pubblica).
Adesso, un governo ostile alle competenze, al merito professionale, alla scienza, alla ricerca, all’efficienza delle infrastrutture, alla competitività e ai confronti internazionali, torna a vagheggiare di nazionalizzazioni e statalizzazioni, in un contesto accompagnato da scarsa cura per gli investimenti privati, italiani e internazionali e di distribuzione di redditi assistiti, pensioni anzitempo, condoni fiscali, protezione di categorie a disagio (in pieno stile populista), uso distorto delle poche risorse pubbliche a disposizione.
Un orizzonte cupo. Per evitarne il pericolo, si muovono fronti crescenti di opinione pubblica, di attori d’impresa e sociali. Un appello per “sbloccare l’Italia”, lanciato da “Il Foglio”, ha raccolto autorevoli firme politiche ed economiche, compresa l’adesione dei vertici di Confindustria. “Non frenate l’Italia”, titola “La Stampa” dando ampio spazio alle opinioni di chi lavora e produce. Appelli opportuni. Perché l’Italia non merita né i “signori del no” né i sostenitori d’una “decrescita infelice” dietro cui si celano interessi di potere che non fanno bene a chi giustamente rivendica un migliore futuro di sviluppo equilibrato.
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Le biblioteche Pirelli si raccontano
Pirelli, in un continuo dialogo con la città e le sue istituzioni culturali, dopo l’apertura delle nuove biblioteche aziendali di Bicocca e Bollate ha avviato una collaborazione con il Comune di Milano, con lo scopo di integrare la biblioteca di Bicocca nel circuito delle biblioteche milanesi.
Abbiamo voluto dare voce ai protagonisti di questo progetto, che ci raccontano di come a Milano, città che ha saputo fare della sintesi tra cultura e scienza una cifra del proprio carattere, riescano a nascere nuovi scenari di sperimentazione tra enti culturali pubblici e aziende presenti sul territorio.
Dalle parole dei lettori delle nostre biblioteche emerge anche un racconto su cosa significhi avere uno spazio per i libri nel luogo di lavoro e come trovare tempo per i libri cambi la quotidianità della vita in azienda, innovando anche le modalità di lavoro e di percezione degli spazi.
Attraverso i video qui presentati vi raccontiamo come vive una biblioteca in azienda, spazio di cultura e innovazione, ma anche di creatività e felicità.






Pirelli, in un continuo dialogo con la città e le sue istituzioni culturali, dopo l’apertura delle nuove biblioteche aziendali di Bicocca e Bollate ha avviato una collaborazione con il Comune di Milano, con lo scopo di integrare la biblioteca di Bicocca nel circuito delle biblioteche milanesi.
Abbiamo voluto dare voce ai protagonisti di questo progetto, che ci raccontano di come a Milano, città che ha saputo fare della sintesi tra cultura e scienza una cifra del proprio carattere, riescano a nascere nuovi scenari di sperimentazione tra enti culturali pubblici e aziende presenti sul territorio.
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