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Sociologia della musica sulla rivista “Pirelli”

In uno dei precedenti articoli di “Storia e storie dal mondo Pirelli”, per questo mese di luglio dedicati alla musica, avevamo raccontato come tra i primi incontri-dibattito organizzati dal Centro Culturale Pirelli su temi musicali si fosse trattato nel 1950 l’argomento delle “musiche ispirate alle macchine”. Il suono come parte essenziale del complesso rapporto tra uomo e macchina non poteva sfuggire alle pagine della rivista “Pirelli”, che proprio in quei primi anni di rinascita postbellica stava contribuendo a sua volta a sviluppare il moderno concetto di Cultura d’Impresa. “Musica e macchine” s’intitola infatti l’articolo che l’illustre critico musicale Silvestro Severgnini, tra i fondatori del Centro Culturale Pirelli, scrive per la rivista n° 4 del 1949: un sintetico quanto profondo excursus sulla musica contemporanea ispirata al lavoro meccanico. Oltre ai maestri Stravinskij e Prokof’ev, oltre al “canto” della trebbiatrice del compositore Darius Milhaud e al suono della fonderia di Aleksandr Vasil’evič Mosolov, a colpire la sensibilità musicale di Severgnini è “Pacific 231” composta nel 1923 da Arthur Honegger. E’ la rappresentazione sinfonica di “un treno da 300 tonnellate lanciato nella notte a 120 kmh: un’impressione visiva, un godimento fisico”. Dalla “musica del lavoro” alla “musica per chi lavora” il passo è breve: è il titolo dell’articolo che la Rivista dedica nel n° 4 del 1952 all’influenza della musica sul rendimento del lavoratore, argomento tipicamente mutuato dalla psicologia americana degli anni Cinquanta. Il risultato è facilmente immaginabile: la musica ha un valore industriale, il suo impiego sul posto di lavoro aumenta la produttività e diminuisce gli infortuni, le percentuali di rendimento sfiorano il +25%. Mai banale o scontata e sempre aperta al sorgere dei fenomeni sociali, la rivista “Pirelli” torna sul tema musicale qualche anno dopo: siamo nel pieno degli anni Sessanta, con la loro portata di innovatività, cambiamento, anche rivoluzione. E parlando di musica, la cartina di tornasole dei cambiamenti epocali è il blues. “Gli archeologi del blues” titola l’articolo pubblicato sul numero 5 del 1965, e da subito si capisce che per l’autore  -il critico musicale Arrigo Polillo–  è finita un’era. Da New Orleans al Greenwich village di New York i buoni vecchi “old timers” – King Oliver, Louis Armstrong –  non suonano più: la “musica nera” tradizionale e armoniosa ha lasciato il posto al jazz di protesta, alla rabbia di John Coltrane, quando non agli intellettualismi d’avanguardia dei “far out cats”. Lontani, lontanissimi dalla gente comune che ormai guarda al rock. Ma secondo Polillo, “presto i ragazzi si stancheranno delle orchestrine ye-ye e dei cantanti con la lunga zazzera e le chitarre piatte a tracolla, e si rivolgeranno ancora ai musicisti di jazz”. Ancora più avanti nella dissertazione storico-sociologica attorno al blues si spingono Philippe Carles e Jean-Louis Comolli in “Black Music”, pubblicato sul n° 9 del 1971: uno degli ultimi numeri della Rivista. E’ subentrata la critica politica degli anni Settanta: la “black music” è anche una presa di coscienza politica: siamo lontani dalla “musica delle macchine” celebrata solo vent’anni prima sulle stesse pagine del periodico edito da Pirelli. Nel 1971 la Rivista ha dato il proprio contributo anche sul tema dell’istruzione musicale in Italia, in un interessante articolo che l’autore Corrado Augias conclude così: “E’ facile che essendo familiari con Bach si finisca per apprezzare anche i Beatles”.

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In uno dei precedenti articoli di “Storia e storie dal mondo Pirelli”, per questo mese di luglio dedicati alla musica, avevamo raccontato come tra i primi incontri-dibattito organizzati dal Centro Culturale Pirelli su temi musicali si fosse trattato nel 1950 l’argomento delle “musiche ispirate alle macchine”. Il suono come parte essenziale del complesso rapporto tra uomo e macchina non poteva sfuggire alle pagine della rivista “Pirelli”, che proprio in quei primi anni di rinascita postbellica stava contribuendo a sua volta a sviluppare il moderno concetto di Cultura d’Impresa. “Musica e macchine” s’intitola infatti l’articolo che l’illustre critico musicale Silvestro Severgnini, tra i fondatori del Centro Culturale Pirelli, scrive per la rivista n° 4 del 1949: un sintetico quanto profondo excursus sulla musica contemporanea ispirata al lavoro meccanico. Oltre ai maestri Stravinskij e Prokof’ev, oltre al “canto” della trebbiatrice del compositore Darius Milhaud e al suono della fonderia di Aleksandr Vasil’evič Mosolov, a colpire la sensibilità musicale di Severgnini è “Pacific 231” composta nel 1923 da Arthur Honegger. E’ la rappresentazione sinfonica di “un treno da 300 tonnellate lanciato nella notte a 120 kmh: un’impressione visiva, un godimento fisico”. Dalla “musica del lavoro” alla “musica per chi lavora” il passo è breve: è il titolo dell’articolo che la Rivista dedica nel n° 4 del 1952 all’influenza della musica sul rendimento del lavoratore, argomento tipicamente mutuato dalla psicologia americana degli anni Cinquanta. Il risultato è facilmente immaginabile: la musica ha un valore industriale, il suo impiego sul posto di lavoro aumenta la produttività e diminuisce gli infortuni, le percentuali di rendimento sfiorano il +25%. Mai banale o scontata e sempre aperta al sorgere dei fenomeni sociali, la rivista “Pirelli” torna sul tema musicale qualche anno dopo: siamo nel pieno degli anni Sessanta, con la loro portata di innovatività, cambiamento, anche rivoluzione. E parlando di musica, la cartina di tornasole dei cambiamenti epocali è il blues. “Gli archeologi del blues” titola l’articolo pubblicato sul numero 5 del 1965, e da subito si capisce che per l’autore  -il critico musicale Arrigo Polillo–  è finita un’era. Da New Orleans al Greenwich village di New York i buoni vecchi “old timers” – King Oliver, Louis Armstrong –  non suonano più: la “musica nera” tradizionale e armoniosa ha lasciato il posto al jazz di protesta, alla rabbia di John Coltrane, quando non agli intellettualismi d’avanguardia dei “far out cats”. Lontani, lontanissimi dalla gente comune che ormai guarda al rock. Ma secondo Polillo, “presto i ragazzi si stancheranno delle orchestrine ye-ye e dei cantanti con la lunga zazzera e le chitarre piatte a tracolla, e si rivolgeranno ancora ai musicisti di jazz”. Ancora più avanti nella dissertazione storico-sociologica attorno al blues si spingono Philippe Carles e Jean-Louis Comolli in “Black Music”, pubblicato sul n° 9 del 1971: uno degli ultimi numeri della Rivista. E’ subentrata la critica politica degli anni Settanta: la “black music” è anche una presa di coscienza politica: siamo lontani dalla “musica delle macchine” celebrata solo vent’anni prima sulle stesse pagine del periodico edito da Pirelli. Nel 1971 la Rivista ha dato il proprio contributo anche sul tema dell’istruzione musicale in Italia, in un interessante articolo che l’autore Corrado Augias conclude così: “E’ facile che essendo familiari con Bach si finisca per apprezzare anche i Beatles”.

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Consapevolezza d’impresa

La Teoria U illustrata dal suo inventore in un libro adesso tradotto in Italia

L’impresa che vince è quella che si adatta di più e più velocemente all’ambiente che cambia. Ma anche quella che riesce ad essere diversa – in positivo – rispetto alle altre. Occorrono organizzazione e metodo. Compito di imprenditori e manager avveduti. E compito che può essere agevolato con percorsi di gestione e organizzazione consapevoli. Leggere “Teoria U. I fondamentali. Principi e applicazioni” di Otto C. Scharmer può essere buona cosa per cambiare “tono” all’impresa.
La Teoria U di Otto Scharmer è considerata una delle metodologie più apprezzate nel cosiddetto change management contemporaneo, cioè nella gestione delle imprese che devono evolvere rapidamente per rispondere in modo efficace al cambiamento. Sostanzialmente la Teoria U cerca di rispondere alla domanda: come le nostre aziende e le nostre organizzazioni possono imparare a vedere e co-creare le possibilità emergenti nei contesti in cui operano? Oppure ancora: in un panorama segnato da volatilità, incertezza, complessità e ambiguità come possiamo imparare effettivamente dalle situazioni di crisi e co-progettare soluzioni efficaci? L’idea di Scharmer è quella di partire “dalla consapevolezza individuale per arrivare al cambiamento dei sistemi”. In particolare, ciò che conta è il rendersi conto “che la nostra capacità di orientare l’attenzione letteralmente dà forma al mondo”. Ciò che ci impedisce di esser presenti alle situazioni con efficacia, quindi, è che non siamo pienamente consapevoli della condizione interiore da cui la nostra attenzione e le nostre azioni hanno origine. Scharmer chiama questa mancanza di consapevolezza il punto cieco della leadership contemporanea. Obiettivo del libro è quindi quello di illuminare questo punto cieco e offrire strumenti concreti a leader e organizzazioni di qualsiasi industria e settore per rafforzare la loro capacità di co-creare il futuro.

Il libro inizia proprio dall’esame del “punto cieco” per passare poi passare subito alla illustrazione della Teoria U e al metodo che da questa origina.
Consapevolezza della propria persona e capacità di coinvolgimento, empatia ed emozione, sguardo lungo verso l’orizzonte dell’impresa e capacità di andare al di là degli eventi. Appaiono essere questi alcuni degli elementi portanti della Teoria U di Scharmer. Che non va presa come un dogma e nemmeno rifiutata acriticamente. Ma va affrontata e compresa.
Il libro di Scharmer ha un gran pregio: è una di quelle letture che scuotono, anche per il modo con cui viene condotto il dialogo con chi legge.

Teoria U. I fondamentali. Principi e applicazioni
Otto C. Scharmer
Guerini, 2018

La Teoria U illustrata dal suo inventore in un libro adesso tradotto in Italia

L’impresa che vince è quella che si adatta di più e più velocemente all’ambiente che cambia. Ma anche quella che riesce ad essere diversa – in positivo – rispetto alle altre. Occorrono organizzazione e metodo. Compito di imprenditori e manager avveduti. E compito che può essere agevolato con percorsi di gestione e organizzazione consapevoli. Leggere “Teoria U. I fondamentali. Principi e applicazioni” di Otto C. Scharmer può essere buona cosa per cambiare “tono” all’impresa.
La Teoria U di Otto Scharmer è considerata una delle metodologie più apprezzate nel cosiddetto change management contemporaneo, cioè nella gestione delle imprese che devono evolvere rapidamente per rispondere in modo efficace al cambiamento. Sostanzialmente la Teoria U cerca di rispondere alla domanda: come le nostre aziende e le nostre organizzazioni possono imparare a vedere e co-creare le possibilità emergenti nei contesti in cui operano? Oppure ancora: in un panorama segnato da volatilità, incertezza, complessità e ambiguità come possiamo imparare effettivamente dalle situazioni di crisi e co-progettare soluzioni efficaci? L’idea di Scharmer è quella di partire “dalla consapevolezza individuale per arrivare al cambiamento dei sistemi”. In particolare, ciò che conta è il rendersi conto “che la nostra capacità di orientare l’attenzione letteralmente dà forma al mondo”. Ciò che ci impedisce di esser presenti alle situazioni con efficacia, quindi, è che non siamo pienamente consapevoli della condizione interiore da cui la nostra attenzione e le nostre azioni hanno origine. Scharmer chiama questa mancanza di consapevolezza il punto cieco della leadership contemporanea. Obiettivo del libro è quindi quello di illuminare questo punto cieco e offrire strumenti concreti a leader e organizzazioni di qualsiasi industria e settore per rafforzare la loro capacità di co-creare il futuro.

Il libro inizia proprio dall’esame del “punto cieco” per passare poi passare subito alla illustrazione della Teoria U e al metodo che da questa origina.
Consapevolezza della propria persona e capacità di coinvolgimento, empatia ed emozione, sguardo lungo verso l’orizzonte dell’impresa e capacità di andare al di là degli eventi. Appaiono essere questi alcuni degli elementi portanti della Teoria U di Scharmer. Che non va presa come un dogma e nemmeno rifiutata acriticamente. Ma va affrontata e compresa.
Il libro di Scharmer ha un gran pregio: è una di quelle letture che scuotono, anche per il modo con cui viene condotto il dialogo con chi legge.

Teoria U. I fondamentali. Principi e applicazioni
Otto C. Scharmer
Guerini, 2018

La buona cultura del welfare d’impresa

Dalla Ca’ Foscari un approfondimento che mette ordine in uno dei temi d’attualità delle relazioni industriali

L’impresa come soggetto sociale, che lavora per il profitto e per il territorio, costituita da macchine ma soprattutto da donne e uomini d’ingegno. Modello di organizzazione ma anche di convivenza, con obiettivi che non si fermano alla buona chiusura di un bilancio contabile, ma che fa di una diversa cultura d’impresa uno dei suoi pilastri. L’impresa che fa del welfare aziendale un suo elemento fondante. Proprio sul welfare, tuttavia, si sono accumulate osservazioni e analisi disparate, che necessitano di attenzione e di ordine. Un tentativo in questo senso è stato compiuto da Alessandra Vincenti (Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia e Beni culturali dell’Università Ca’ Foscari Venezia), con “Le famiglie e i nuovi strumenti di protezione sociale: il welfare aziendale”.

L’articolo si focalizza sull’introduzione in Italia del welfare aziendale nel quadro dei processi di mutamento del sistema di welfare che a partire dagli anni Novanta è stato chiamato a far fronte ai nuovi rischi sociali cui sono esposte le famiglie. Figlio di una stagione nella quale la crisi ha spinto al cambiamento il sistema delle relazioni industriali, il welfare aziendale viene affrontato ricostruendo sinteticamente il quadro legislativo che ne ha promosso la diffusione, con particolare attenzione alle peculiarità del sistema delle piccole imprese e all’aumento della contrattazione territoriale.

Vincenti scrive con linguaggio piano ed ottiene un risultato indubbio: fa comprendere un tema per certi versi ostico e arido, almeno nella saggistica corrente.

Ne emerge un welfare del quale sono poste in risalto le opportunità ma anche i rischi di accentuazione dei dualismi territoriale, settoriale, relativo alle dimensioni aziendali; con il profilarsi  di un rischio diffuso: la rinuncia all’universalismo.

Scrive Alessandra Vincenti quasi alla fine del suo lavoro: “(…) il welfare aziendale rappresenta per alcuni aspetti un’opportunità (per famiglie sempre meno in grado di acquisire servizi sul mercato), ma rischia di accentuare il welfare categoriale e lavoristico così che i margini dell’esclusione e l’area della partecipazione si definiscono in dipendenza sempre più dal rapporto di lavoro (…). In un’epoca di dibattito su come sganciare il reddito dal lavoro anche perché il problema strutturale del mercato del lavoro italiano è da sempre il basso tasso di occupazione, si rischia di aumentare la frammentazione del welfare italiano segnando e avviando la rinuncia all’universalismo”.

Le famiglie e i nuovi strumenti di protezione sociale: il welfare aziendale

Alessandra Vincenti

Argomenti, terza serie, 9/2018

Dalla Ca’ Foscari un approfondimento che mette ordine in uno dei temi d’attualità delle relazioni industriali

L’impresa come soggetto sociale, che lavora per il profitto e per il territorio, costituita da macchine ma soprattutto da donne e uomini d’ingegno. Modello di organizzazione ma anche di convivenza, con obiettivi che non si fermano alla buona chiusura di un bilancio contabile, ma che fa di una diversa cultura d’impresa uno dei suoi pilastri. L’impresa che fa del welfare aziendale un suo elemento fondante. Proprio sul welfare, tuttavia, si sono accumulate osservazioni e analisi disparate, che necessitano di attenzione e di ordine. Un tentativo in questo senso è stato compiuto da Alessandra Vincenti (Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia e Beni culturali dell’Università Ca’ Foscari Venezia), con “Le famiglie e i nuovi strumenti di protezione sociale: il welfare aziendale”.

L’articolo si focalizza sull’introduzione in Italia del welfare aziendale nel quadro dei processi di mutamento del sistema di welfare che a partire dagli anni Novanta è stato chiamato a far fronte ai nuovi rischi sociali cui sono esposte le famiglie. Figlio di una stagione nella quale la crisi ha spinto al cambiamento il sistema delle relazioni industriali, il welfare aziendale viene affrontato ricostruendo sinteticamente il quadro legislativo che ne ha promosso la diffusione, con particolare attenzione alle peculiarità del sistema delle piccole imprese e all’aumento della contrattazione territoriale.

Vincenti scrive con linguaggio piano ed ottiene un risultato indubbio: fa comprendere un tema per certi versi ostico e arido, almeno nella saggistica corrente.

Ne emerge un welfare del quale sono poste in risalto le opportunità ma anche i rischi di accentuazione dei dualismi territoriale, settoriale, relativo alle dimensioni aziendali; con il profilarsi  di un rischio diffuso: la rinuncia all’universalismo.

Scrive Alessandra Vincenti quasi alla fine del suo lavoro: “(…) il welfare aziendale rappresenta per alcuni aspetti un’opportunità (per famiglie sempre meno in grado di acquisire servizi sul mercato), ma rischia di accentuare il welfare categoriale e lavoristico così che i margini dell’esclusione e l’area della partecipazione si definiscono in dipendenza sempre più dal rapporto di lavoro (…). In un’epoca di dibattito su come sganciare il reddito dal lavoro anche perché il problema strutturale del mercato del lavoro italiano è da sempre il basso tasso di occupazione, si rischia di aumentare la frammentazione del welfare italiano segnando e avviando la rinuncia all’universalismo”.

Le famiglie e i nuovi strumenti di protezione sociale: il welfare aziendale

Alessandra Vincenti

Argomenti, terza serie, 9/2018

I numeri chiari su export, spread e crescita delle imprese, evitando chiacchiere e scelte che gettano ombre sull’euro

Per ragionare sull’Italia, fuori da retorica e propaganda (purtroppo sempre più diffuse) vale la pena guardare bene qualche numero. Dalle cronache dei giorni scorsi ne prendiamo alcuni: 5, 47, 31 e 8 (ma anche, ben collegato, 0,91). Si potrebbe provare a giocarli al lotto, un bella quaterna. Oppure partire da lì per discutere sulla nostra situazione economica e sociale, con competenza e conoscenza (qualità, in politica, purtroppo sempre più rare).

Partiamo dal 5. Vuol dire 5 miliardi: il costo, per le casse statali, dell’aumento negli ultimi due mesi, delle spread, che determina un maggior livello di interessi per rifinanziare i titoli del nostro debito pubblico (salito, secondo i dati della Banca d’Italia, nel maggio scorso a 2.327 miliardi, 80 miliardi in più rispetto alla fine del 2017: una corsa che sembra inarrestabile). Quello spread incide anche sul costo del finanziamento delle nostre banche sui mercati internazionali e, di conseguenza, ricade sul costo del denaro per le imprese e per le famiglie. Quei 5 miliardi di maggior costo del debito pubblico, per pagarne gli interessi crescenti, sono risorse dello Stato, sottratte a riforme, investimenti pubblici, impegni per creare lavoro o migliorare sanità, pensioni, redditi. Sono, in parole povere, soldi in meno per tutti noi.

Da cosa dipende, quella crescita dello spread? Dalle insicurezze sull’Italia, valutate dai mercati internazionali, sulla qualità della politica, sugli annunci del governo, sulla affidabilità dei conti pubblici, sui costi delle riforme annunciate. Per dirla in altri termini: ogni sparata d’un governante contro l’euro, ogni rissa con l’Europa, ogni proclama contro i mercati aperti e gli scambi internazionali, ogni chiacchiera su sovranismi e protezionismi che rallentano l’economia incide sullo spread. Ne alza il livello, determinandone ricadute negative. La politica, allora, è prigioniera dei mercati? Se sei un Paese molto indebitato, non puoi non tenere conto di quel che di te pensano i creditori.

Qualcuno pensa: usciamo dall’euro, torniamo alla lira, come se fosse una soluzione. In ambienti di governo, si è parlato di “un piano B” per lasciare la moneta unica. Adesso, si parla di un “cigno nero”, un’inaspettata condizione di crisi che porterebbe altri paesi della Ue a spingerci fuori dall’euro. Responsabile, discutere di ipotesi negative e preparare strumenti per fronteggiare la crisi. Irresponsabile, chiacchierarne come se si fosse al bar o su una pagina da social media. Valga, per tutte le opinioni allarmate sulle politiche anti-euro diffuse in circoli politici di maggioranza, il giudizio di Jamie Dimon, banchiere di JP Morgan, una grande banca internazionale presente da più di un secolo nel nostro paese: “Noi siamo a fianco dell’Italia, una catastrofe lasciare l’euro” (“Il Sole24Ore, 10 luglio). Ne risentirebbero gravemente i risparmi degli italiani, i salari, il costo del debito pubblico e del denaro in generale, gli investimenti (alto, il costo di finanziamento nella debole neo-lira), la competitività di tutto il Paese. Lo hanno spiegato bene otto autorevoli economisti (Lorenzo Codogno, Giampaolo Galli, Alfredo Macchiari, Mauro Maré, Stefano Micossi, Pietro Reichlin, Guido Tabellini e Vito Tanzi) in un recente appello al governo  perché si rassicurano i mercati, gli altri paesi Ue e tutti gli italiani sulla chiara determinazione di restare nei confini dell’euro (“Il Sole24Ore”, 10 luglio). Un appello che raccoglie adesioni, da Carlo Cottarelli a Michele Bagella, da Ernesto Auci ad Antonio Patuelli. Persone serie, competenti, responsabili.

Altri fronti, purtroppo, si aprono. Qualcuno pensa, con insistenza: chiudiamo le frontiere. Non solo ai migranti. Ma anche ai capitali stranieri. Al grano canadese. Ai prodotti cinesi. E così difendiamo le nostre piccole e medie imprese. Una sorta di piccola politica dei “Trump de’ noantri”. Un protezionismo alle vongole. Boh… chissà…

Torniamo ai numeri, per capire meglio. Al 47. Sono 47 miliardi (per l’esattezza, 47 miliardi e 448 milioni) il saldo tra export italiano nel mondo nel 2017 (448 miliardi, con un aumento del 7,4%) e importazioni (400 miliardi e 659 milioni, in crescita del 9%). Erano 41 miliardi 807 milioni nell’anno precedente. Quei 47 miliardi di avanzo della bilancia commerciale confermano una delle caratteristiche fondamentali della nostra economia: l’orientamento internazionale, l’attitudine crescente a conquistare posizioni di rilievo sui mercati internazionali. Posizioni, va aggiunto, proprio nelle nicchie a maggior valore aggiunto. Quelle più ricche, innovative, di qualità. Ecco la parola: qualità. Finita per fortuna la stagione delle “svalutazioni competitive” con la fine della lira e l’ingresso nell’euro, le nostre imprese hanno imparato a competere non più sul basso prezzo ma sull’alta qualità. Hanno avuto e hanno ancora un gran successo. Hanno creato lavoro, distribuito reddito (tra salari, welfare aziendale e remunerazioni agli azionisti, per quelle quotate), migliorato la vita di migliaia di persone. Sarebbe veramente un grave errore se, tra crisi dell’euro e protezionismo, questo straordinario motore economico delle nostre imprese si inceppasse.

Il rischio c’è, attuale. Lo leggiamo, per esempio, nel terzo del numeri che abbiamo citato, 8.

È una percentuale, l’8%, che indica l’aumento delle esportazioni italiane verso il Canada, una delle principali economie globali. Un aumento favorito dall’applicazione provvisoria del Ceta, il Trattato di libero scambio tra il Canada e i paesi Ue: dazi quasi completamente abbattuti, protezione per i marchi d’origine dei prodotti. Adesso sappiamo che il ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio, quel Trattato non intende affatto ratificarlo, invitando i parlamentari dei 5Stelle a votare contro in Parlamento, sperando, si immagina, che anche i parlamentari dell’altro partito di maggioranza, la Lega, seguano il suo orientamento. Perché? Raccogliendo le proteste della Coldiretti, che non ritiene sufficientemente tutelati prodotti come il Parmigiano Reggiano e il Grana Padano, Di Maio sostiene che quel provvedimento danneggia le esportazioni italiane. Forse non lo ha letto, forse non ha fatto bene i conti.

Li hanno fatti bene, invece, un bravo economista come Giorgio Barba Navaretti su “Il Sole24Ore” (15 luglio) e un giornalista abitualmente ben documentato, Federico Fubini, sul “Corriere della Sera” (14 luglio) documentando i vantaggi per i produttori italiani di macchinari elettrici, auto e moto, moda, ceramiche, barche ma anche prosciutto, pasta e persino per gran parte dei formaggi Dop, dalla fontina all’Asiago. Sull’interscambio Italia-Canada pari a più di 50 miliardi di euro, tutti i formaggi valgono 50 milioni: lo 0,91%. Se quell’accordo non venisse ratificato, torneremmo i vecchi dazi. Perderemmo circa 400 milioni in più di fatturato, calcola sempre il “Corriere della Sera”. “Caccia al consenso più miope”, taglia corto “Il Sole24Ore”, criticando l’intesa tra Di Maio e Coldiretti, attenta solo ai produttori di Grana (che potrebbero essere meglio protetti rinegoziando alcune clausole dell’accordo). Senza contare che quel Ceta, che Di Maio definisce “trattato scellerato” è invece considerato “una grande opportunità del il made in Italy” proprio da Cesare Baldrighi, presidente del Consorzio per la tutela del Grana Padano e dell’Associazione dei Consorzi per le indicazioni geografiche. La guerra del formaggio, insomma, cela forse uno scontro tra produttori. Beghe di provincia. Così importanti per un ministro da far saltare un trattato internazionale particolarmente importante per le imprese italiane?

Meglio tornare ai numeri. E leggerne un ultimo: 31,2. Sono miliardi. E rappresentano la produzione di medicinali delle imprese italiane. Un record. Che ci fa battere la potente Germania, patria di colossi farmaceutici e ci dà il primato di maggior paese produttori di farmaci in Europa, con forte propensione all’esportazione. Negli anni Settanta e Ottanta la farmaceutica italiana sembrava prossima all’estinzione, con la chiusura o la cessione all’estero di grandi marchi, Lepetit, Sclavo, Farmindustria Carlo Erba, etc.. Poi, insistendo su ricerca, innovazione, qualità, le nostre imprese hanno ripreso terreno. Altre ne sono nate o si sono molto sviluppate (Dompé, tanto per citarne una sola). Altre ancora si sono specializzate in nicchie di altissimo valore (antitumorali). Il risultato è un grande successo. Per le imprese. Per chi ci lavora. Per chi usa i loro prodotti migliorando la nostra salute, la nostra qualità delle vita. Sono imprese da considerare con attenzione. E da sostenere nella crescita, nell’innovazione, nella ricerca, nell’espansione internazionale. Proprio quello che ci si aspetta da un buon governo. Che sappia far di conto e leggere bene i numeri veri.

Per ragionare sull’Italia, fuori da retorica e propaganda (purtroppo sempre più diffuse) vale la pena guardare bene qualche numero. Dalle cronache dei giorni scorsi ne prendiamo alcuni: 5, 47, 31 e 8 (ma anche, ben collegato, 0,91). Si potrebbe provare a giocarli al lotto, un bella quaterna. Oppure partire da lì per discutere sulla nostra situazione economica e sociale, con competenza e conoscenza (qualità, in politica, purtroppo sempre più rare).

Partiamo dal 5. Vuol dire 5 miliardi: il costo, per le casse statali, dell’aumento negli ultimi due mesi, delle spread, che determina un maggior livello di interessi per rifinanziare i titoli del nostro debito pubblico (salito, secondo i dati della Banca d’Italia, nel maggio scorso a 2.327 miliardi, 80 miliardi in più rispetto alla fine del 2017: una corsa che sembra inarrestabile). Quello spread incide anche sul costo del finanziamento delle nostre banche sui mercati internazionali e, di conseguenza, ricade sul costo del denaro per le imprese e per le famiglie. Quei 5 miliardi di maggior costo del debito pubblico, per pagarne gli interessi crescenti, sono risorse dello Stato, sottratte a riforme, investimenti pubblici, impegni per creare lavoro o migliorare sanità, pensioni, redditi. Sono, in parole povere, soldi in meno per tutti noi.

Da cosa dipende, quella crescita dello spread? Dalle insicurezze sull’Italia, valutate dai mercati internazionali, sulla qualità della politica, sugli annunci del governo, sulla affidabilità dei conti pubblici, sui costi delle riforme annunciate. Per dirla in altri termini: ogni sparata d’un governante contro l’euro, ogni rissa con l’Europa, ogni proclama contro i mercati aperti e gli scambi internazionali, ogni chiacchiera su sovranismi e protezionismi che rallentano l’economia incide sullo spread. Ne alza il livello, determinandone ricadute negative. La politica, allora, è prigioniera dei mercati? Se sei un Paese molto indebitato, non puoi non tenere conto di quel che di te pensano i creditori.

Qualcuno pensa: usciamo dall’euro, torniamo alla lira, come se fosse una soluzione. In ambienti di governo, si è parlato di “un piano B” per lasciare la moneta unica. Adesso, si parla di un “cigno nero”, un’inaspettata condizione di crisi che porterebbe altri paesi della Ue a spingerci fuori dall’euro. Responsabile, discutere di ipotesi negative e preparare strumenti per fronteggiare la crisi. Irresponsabile, chiacchierarne come se si fosse al bar o su una pagina da social media. Valga, per tutte le opinioni allarmate sulle politiche anti-euro diffuse in circoli politici di maggioranza, il giudizio di Jamie Dimon, banchiere di JP Morgan, una grande banca internazionale presente da più di un secolo nel nostro paese: “Noi siamo a fianco dell’Italia, una catastrofe lasciare l’euro” (“Il Sole24Ore, 10 luglio). Ne risentirebbero gravemente i risparmi degli italiani, i salari, il costo del debito pubblico e del denaro in generale, gli investimenti (alto, il costo di finanziamento nella debole neo-lira), la competitività di tutto il Paese. Lo hanno spiegato bene otto autorevoli economisti (Lorenzo Codogno, Giampaolo Galli, Alfredo Macchiari, Mauro Maré, Stefano Micossi, Pietro Reichlin, Guido Tabellini e Vito Tanzi) in un recente appello al governo  perché si rassicurano i mercati, gli altri paesi Ue e tutti gli italiani sulla chiara determinazione di restare nei confini dell’euro (“Il Sole24Ore”, 10 luglio). Un appello che raccoglie adesioni, da Carlo Cottarelli a Michele Bagella, da Ernesto Auci ad Antonio Patuelli. Persone serie, competenti, responsabili.

Altri fronti, purtroppo, si aprono. Qualcuno pensa, con insistenza: chiudiamo le frontiere. Non solo ai migranti. Ma anche ai capitali stranieri. Al grano canadese. Ai prodotti cinesi. E così difendiamo le nostre piccole e medie imprese. Una sorta di piccola politica dei “Trump de’ noantri”. Un protezionismo alle vongole. Boh… chissà…

Torniamo ai numeri, per capire meglio. Al 47. Sono 47 miliardi (per l’esattezza, 47 miliardi e 448 milioni) il saldo tra export italiano nel mondo nel 2017 (448 miliardi, con un aumento del 7,4%) e importazioni (400 miliardi e 659 milioni, in crescita del 9%). Erano 41 miliardi 807 milioni nell’anno precedente. Quei 47 miliardi di avanzo della bilancia commerciale confermano una delle caratteristiche fondamentali della nostra economia: l’orientamento internazionale, l’attitudine crescente a conquistare posizioni di rilievo sui mercati internazionali. Posizioni, va aggiunto, proprio nelle nicchie a maggior valore aggiunto. Quelle più ricche, innovative, di qualità. Ecco la parola: qualità. Finita per fortuna la stagione delle “svalutazioni competitive” con la fine della lira e l’ingresso nell’euro, le nostre imprese hanno imparato a competere non più sul basso prezzo ma sull’alta qualità. Hanno avuto e hanno ancora un gran successo. Hanno creato lavoro, distribuito reddito (tra salari, welfare aziendale e remunerazioni agli azionisti, per quelle quotate), migliorato la vita di migliaia di persone. Sarebbe veramente un grave errore se, tra crisi dell’euro e protezionismo, questo straordinario motore economico delle nostre imprese si inceppasse.

Il rischio c’è, attuale. Lo leggiamo, per esempio, nel terzo del numeri che abbiamo citato, 8.

È una percentuale, l’8%, che indica l’aumento delle esportazioni italiane verso il Canada, una delle principali economie globali. Un aumento favorito dall’applicazione provvisoria del Ceta, il Trattato di libero scambio tra il Canada e i paesi Ue: dazi quasi completamente abbattuti, protezione per i marchi d’origine dei prodotti. Adesso sappiamo che il ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio, quel Trattato non intende affatto ratificarlo, invitando i parlamentari dei 5Stelle a votare contro in Parlamento, sperando, si immagina, che anche i parlamentari dell’altro partito di maggioranza, la Lega, seguano il suo orientamento. Perché? Raccogliendo le proteste della Coldiretti, che non ritiene sufficientemente tutelati prodotti come il Parmigiano Reggiano e il Grana Padano, Di Maio sostiene che quel provvedimento danneggia le esportazioni italiane. Forse non lo ha letto, forse non ha fatto bene i conti.

Li hanno fatti bene, invece, un bravo economista come Giorgio Barba Navaretti su “Il Sole24Ore” (15 luglio) e un giornalista abitualmente ben documentato, Federico Fubini, sul “Corriere della Sera” (14 luglio) documentando i vantaggi per i produttori italiani di macchinari elettrici, auto e moto, moda, ceramiche, barche ma anche prosciutto, pasta e persino per gran parte dei formaggi Dop, dalla fontina all’Asiago. Sull’interscambio Italia-Canada pari a più di 50 miliardi di euro, tutti i formaggi valgono 50 milioni: lo 0,91%. Se quell’accordo non venisse ratificato, torneremmo i vecchi dazi. Perderemmo circa 400 milioni in più di fatturato, calcola sempre il “Corriere della Sera”. “Caccia al consenso più miope”, taglia corto “Il Sole24Ore”, criticando l’intesa tra Di Maio e Coldiretti, attenta solo ai produttori di Grana (che potrebbero essere meglio protetti rinegoziando alcune clausole dell’accordo). Senza contare che quel Ceta, che Di Maio definisce “trattato scellerato” è invece considerato “una grande opportunità del il made in Italy” proprio da Cesare Baldrighi, presidente del Consorzio per la tutela del Grana Padano e dell’Associazione dei Consorzi per le indicazioni geografiche. La guerra del formaggio, insomma, cela forse uno scontro tra produttori. Beghe di provincia. Così importanti per un ministro da far saltare un trattato internazionale particolarmente importante per le imprese italiane?

Meglio tornare ai numeri. E leggerne un ultimo: 31,2. Sono miliardi. E rappresentano la produzione di medicinali delle imprese italiane. Un record. Che ci fa battere la potente Germania, patria di colossi farmaceutici e ci dà il primato di maggior paese produttori di farmaci in Europa, con forte propensione all’esportazione. Negli anni Settanta e Ottanta la farmaceutica italiana sembrava prossima all’estinzione, con la chiusura o la cessione all’estero di grandi marchi, Lepetit, Sclavo, Farmindustria Carlo Erba, etc.. Poi, insistendo su ricerca, innovazione, qualità, le nostre imprese hanno ripreso terreno. Altre ne sono nate o si sono molto sviluppate (Dompé, tanto per citarne una sola). Altre ancora si sono specializzate in nicchie di altissimo valore (antitumorali). Il risultato è un grande successo. Per le imprese. Per chi ci lavora. Per chi usa i loro prodotti migliorando la nostra salute, la nostra qualità delle vita. Sono imprese da considerare con attenzione. E da sostenere nella crescita, nell’innovazione, nella ricerca, nell’espansione internazionale. Proprio quello che ci si aspetta da un buon governo. Che sappia far di conto e leggere bene i numeri veri.

La Fondazione Pirelli, dove la Ricerca e Sviluppo è storia

“Adesso ci capiremo qualcosa. Andiamo a guardarci dentro”. Fin dalla sua nascita, la Fondazione Pirelli ha adottato questa frase – l’originale è in dialetto milanese (“Adess ghe capissaremm on quaicoss: andemm a guardagh denter”), citazione dall’ingegner Luigi Emanueli che fu a lungo il capo della Ricerca e Sviluppo del Gruppo – come suo motto ad accogliere i visitatori. Nella sua semplicità, quella del “guardar dentro per capire” è un’idea che da sola riassume il concetto stesso di “scienza”, intesa come applicazione, studio, ricerca, superamento sistematico degli ostacoli. E per “fare scienza” occorre per forza aver conoscenza e coscienza dell’eredità tecnologica che il Gruppo Pirelli ha maturato nei suoi quasi centocinquant’anni di vita. La Fondazione – e in particolare l’Archivio Storico al suo interno, costituito da oltre 3 km e mezzo di documenti – è in questo senso il luogo dove questo “saper fare” viene protetto nel tempo, nel suo stratificarsi anno dopo anno per essere reso disponibile in una visione di lunga prospettiva: il grande mosaico La ricerca scientifica, realizzato nel 1961 su disegno di Renato Guttuso e oggi conservato nei locali della Fondazione Pirelli ne è la rappresentazione iconografica.

Parte integrante del patrimonio storico aziendale e inserita nel Sistema Bibliotecario Nazionale, la biblioteca tecnico-scientifica è costituita da oltre 16.000 volumi sulla tecnologia della gomma e dei cavi dall’Ottocento ai nostri giorni: un corpus pressochè unico. Solo in Fondazione, per esempio, è possibile consultare le prime copie di India Rubber Journal (1888) e India Rubber World (1889), le più antiche pubblicazioni del mondo sull’industria del caucciù. In un’altra area dell’Archivio è invece conservata una preziosissima cartellina: contiene pochi fogli dattiloscritti che hanno però un forte significato storico. È il contratto con cui, nel 1938, la Società Italiana Pirelli dà mandato al professor Giulio Natta per iniziare lo studio – presso il laboratorio di Bicocca – della gomma sintetica: è la testimonianza dell’inizio di una rivoluzione tecnologica. Si ritrovano tracce del lavoro di Natta, che sarà poi premio Nobel nel 1962 per l’invenzione della plastica, in tante delle migliaia e migliaia di specifiche di prova prodotte dalla Ricerca e Sviluppo Pneumatici: su questi documenti si può leggere per la prima volta la parola “cauccital”, cioé l’inizio della sperimentazione su quel caucciù prodotto in laboratorio che oggi è di uso comune nell’industria della gomma.

Presso l’Archivio, alle specifiche di prova si associano altrettante schede tecniche relative alle dimensioni degli stampi per la vulcanizzazione dei pneumatici, al disegno del battistrada, alle scritte originali – misure, tipo di pneumatico, logo dell’azienda – impresse sul fianco. A partire dai primi anni Trenta, questi documenti accompagnano passo dopo passo lo sviluppo e l’evoluzione di tutti i pneumatici Pirelli: dalle grandi “famiglie” come Stella Bianca e Cinturato alle versioni “Corsa” da competizione, alla sperimentazione sui tessuti “Cord”. A supporto diretto dell’odierna attività di produzione dei pneumatici “Collezione”, questo complesso di documentazione ha permesso di ricostruire quelli che nel tempo sono stati i rapporti di collaborazione tra Pirelli e le case automobilistiche, dallo sviluppo iniziale del prototipo fino al modello finale destinato al mercato. Incrociando queste informazioni tecniche con i listini prezzi del periodo – in questo caso risaliamo fino ai primi anni del Novecento – e con l’ampia produzione pubblicitaria a sua volta conservata presso l’Archivio Storico assieme ad oltre trecento disegni originali ad aerografo, è facile capire come sia stato possibile riprodurre pneumatici Pirelli d’epoca assolutamente “corretti” dal punto di vista storico e filologico, pur garantendo ovviamente gli standard di sicurezza che la moderna tecnologia offre.

La Fondazione Pirelli opera anche in campo didattico, fornendo alle giovani generazioni uno strumento di lettura del “fare industria” oggi: attingendo ad una profonda esperienza delle tappe del progresso tecnologico avvicina gli studenti a temi attuali come la robotica o l’Industria 4.0. Il massimo punto di incontro è naturalmente nella collaborazione con l’Università: dai Politecnici di Milano e Torino all’Università Bocconi fino all’Università di Milano Bicocca, nel suo decennio di vita la Fondazione Pirelli è diventata sempre di più una cerniera tra sapere e industria, tra ricerca e tecnologia.

“Adesso ci capiremo qualcosa. Andiamo a guardarci dentro”. Fin dalla sua nascita, la Fondazione Pirelli ha adottato questa frase – l’originale è in dialetto milanese (“Adess ghe capissaremm on quaicoss: andemm a guardagh denter”), citazione dall’ingegner Luigi Emanueli che fu a lungo il capo della Ricerca e Sviluppo del Gruppo – come suo motto ad accogliere i visitatori. Nella sua semplicità, quella del “guardar dentro per capire” è un’idea che da sola riassume il concetto stesso di “scienza”, intesa come applicazione, studio, ricerca, superamento sistematico degli ostacoli. E per “fare scienza” occorre per forza aver conoscenza e coscienza dell’eredità tecnologica che il Gruppo Pirelli ha maturato nei suoi quasi centocinquant’anni di vita. La Fondazione – e in particolare l’Archivio Storico al suo interno, costituito da oltre 3 km e mezzo di documenti – è in questo senso il luogo dove questo “saper fare” viene protetto nel tempo, nel suo stratificarsi anno dopo anno per essere reso disponibile in una visione di lunga prospettiva: il grande mosaico La ricerca scientifica, realizzato nel 1961 su disegno di Renato Guttuso e oggi conservato nei locali della Fondazione Pirelli ne è la rappresentazione iconografica.

Parte integrante del patrimonio storico aziendale e inserita nel Sistema Bibliotecario Nazionale, la biblioteca tecnico-scientifica è costituita da oltre 16.000 volumi sulla tecnologia della gomma e dei cavi dall’Ottocento ai nostri giorni: un corpus pressochè unico. Solo in Fondazione, per esempio, è possibile consultare le prime copie di India Rubber Journal (1888) e India Rubber World (1889), le più antiche pubblicazioni del mondo sull’industria del caucciù. In un’altra area dell’Archivio è invece conservata una preziosissima cartellina: contiene pochi fogli dattiloscritti che hanno però un forte significato storico. È il contratto con cui, nel 1938, la Società Italiana Pirelli dà mandato al professor Giulio Natta per iniziare lo studio – presso il laboratorio di Bicocca – della gomma sintetica: è la testimonianza dell’inizio di una rivoluzione tecnologica. Si ritrovano tracce del lavoro di Natta, che sarà poi premio Nobel nel 1962 per l’invenzione della plastica, in tante delle migliaia e migliaia di specifiche di prova prodotte dalla Ricerca e Sviluppo Pneumatici: su questi documenti si può leggere per la prima volta la parola “cauccital”, cioé l’inizio della sperimentazione su quel caucciù prodotto in laboratorio che oggi è di uso comune nell’industria della gomma.

Presso l’Archivio, alle specifiche di prova si associano altrettante schede tecniche relative alle dimensioni degli stampi per la vulcanizzazione dei pneumatici, al disegno del battistrada, alle scritte originali – misure, tipo di pneumatico, logo dell’azienda – impresse sul fianco. A partire dai primi anni Trenta, questi documenti accompagnano passo dopo passo lo sviluppo e l’evoluzione di tutti i pneumatici Pirelli: dalle grandi “famiglie” come Stella Bianca e Cinturato alle versioni “Corsa” da competizione, alla sperimentazione sui tessuti “Cord”. A supporto diretto dell’odierna attività di produzione dei pneumatici “Collezione”, questo complesso di documentazione ha permesso di ricostruire quelli che nel tempo sono stati i rapporti di collaborazione tra Pirelli e le case automobilistiche, dallo sviluppo iniziale del prototipo fino al modello finale destinato al mercato. Incrociando queste informazioni tecniche con i listini prezzi del periodo – in questo caso risaliamo fino ai primi anni del Novecento – e con l’ampia produzione pubblicitaria a sua volta conservata presso l’Archivio Storico assieme ad oltre trecento disegni originali ad aerografo, è facile capire come sia stato possibile riprodurre pneumatici Pirelli d’epoca assolutamente “corretti” dal punto di vista storico e filologico, pur garantendo ovviamente gli standard di sicurezza che la moderna tecnologia offre.

La Fondazione Pirelli opera anche in campo didattico, fornendo alle giovani generazioni uno strumento di lettura del “fare industria” oggi: attingendo ad una profonda esperienza delle tappe del progresso tecnologico avvicina gli studenti a temi attuali come la robotica o l’Industria 4.0. Il massimo punto di incontro è naturalmente nella collaborazione con l’Università: dai Politecnici di Milano e Torino all’Università Bocconi fino all’Università di Milano Bicocca, nel suo decennio di vita la Fondazione Pirelli è diventata sempre di più una cerniera tra sapere e industria, tra ricerca e tecnologia.

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Fondazione Pirelli o la memoria di essere industria

Un disco di gomma. Le cantanti sulla rivista “Vado e Torno”

Oggi le Storie dal mondo Pirelli vogliono parlare di musica, ripercorrendo alcuni “primi piani”che il periodico “Vado e Torno” -ideato dal Servizio Propaganda Pirelli e rivolto al mondo degli autotrasportatori- ha dedicato alle cantanti che hanno fatto un pezzo di storia della musica pop. E che, ad esempio nel caso di Patty Pravo, la storia continuano a farla ancora oggi. Quasi superfluo ricordare che Nicoletta Strambelli-Patty Pravo nasce a Venezia il 9 aprile 1948: sulla copertina di “Vado e Torno” di maggio 1970 ha i ricci vaporosi di Sanremo, dove ha portato La spada nel cuore in coppia con Little Tony ricavandone un onorevole quinto posto. Del novembre dello stesso anno è il brano Tutt’al più. A ventidue anni, Patty Pravo è universalmente conosciuta come “La ragazza del Piper” – il locale romano che l’ha lanciata nello star system canoro – e ha già collezionato successi come Ragazzo triste, Qui e là, Se perdo te. E soprattutto, da un paio d’anni il mondo intero canta La bambola: 9 milioni di copie vendute nel solo 1968, 40 milioni a tutt’oggi. Poi è praticamente impossibile continuare a elencare i successi della “ragazza del Piper”, da quella Pazza idea che fece scandalo nei primi anni Settanta alla reinterpretazione di Walk on the Wild Side di Lou Reed, a Pensiero stupendo, fino al recente Cieli immensi. Un’icona della musica pop che ancora oggi continua a stupire per la sua vitalità e per la sua capacità di non cedere al passare del tempo.

Un anno esatto prima della bionda Patty Pravo, la copertina maggio-giugno 1969 di “Vado e Torno” è affidata alla franco-bulgara Sylvie Vartan. Nata a Iskretz, sobborgo di Sofia, nel 1945 -vero nome Vartanian, origini armene – e trasferitasi a Parigi nel 1952, Sylvie sposa nel 1965 la rockstar Johnny Holliday, iniziando a spopolare in Francia come “la liceale del twist”. Ma è in Italia che diventa “la ragazza yè-yè”: i varietà televisivi di Mina e Gino Bramieri fanno a gara per contendersi la cantante francese che reinterpreta se stessa in italiano con Come un ragazzo e Irresistibilmente. Nel 1968 Sylvie resta coinvolta in un incidente stradale che la costringe ad un delicato intervento di plastica facciale che non ne sminuirà il fascino.

Due copertine, nell’ottobre del 1964 e poi nel mese di settembre del 1968 sono dedicate a Catherine Spaak, che non si può non ricordare per le interpretazioni dei brani di Burt BacharachIo non m’innamoro più e Promesse promesse (1970) – in coppia con il futuro marito Johnny Dorelli. E lei, francese naturalizzata italiana, classe 1945, è famosa già da qualche anno per altre due icone della canzone pop: L’esercito del surf (Noi siamo i giovani) e soprattutto per la versione italiana di quell’inno all’esistenzialismo musicale francese che è Tous les garçons et les filles, oltralpe cantata da Françoise Hardy.

Oggi le Storie dal mondo Pirelli vogliono parlare di musica, ripercorrendo alcuni “primi piani”che il periodico “Vado e Torno” -ideato dal Servizio Propaganda Pirelli e rivolto al mondo degli autotrasportatori- ha dedicato alle cantanti che hanno fatto un pezzo di storia della musica pop. E che, ad esempio nel caso di Patty Pravo, la storia continuano a farla ancora oggi. Quasi superfluo ricordare che Nicoletta Strambelli-Patty Pravo nasce a Venezia il 9 aprile 1948: sulla copertina di “Vado e Torno” di maggio 1970 ha i ricci vaporosi di Sanremo, dove ha portato La spada nel cuore in coppia con Little Tony ricavandone un onorevole quinto posto. Del novembre dello stesso anno è il brano Tutt’al più. A ventidue anni, Patty Pravo è universalmente conosciuta come “La ragazza del Piper” – il locale romano che l’ha lanciata nello star system canoro – e ha già collezionato successi come Ragazzo triste, Qui e là, Se perdo te. E soprattutto, da un paio d’anni il mondo intero canta La bambola: 9 milioni di copie vendute nel solo 1968, 40 milioni a tutt’oggi. Poi è praticamente impossibile continuare a elencare i successi della “ragazza del Piper”, da quella Pazza idea che fece scandalo nei primi anni Settanta alla reinterpretazione di Walk on the Wild Side di Lou Reed, a Pensiero stupendo, fino al recente Cieli immensi. Un’icona della musica pop che ancora oggi continua a stupire per la sua vitalità e per la sua capacità di non cedere al passare del tempo.

Un anno esatto prima della bionda Patty Pravo, la copertina maggio-giugno 1969 di “Vado e Torno” è affidata alla franco-bulgara Sylvie Vartan. Nata a Iskretz, sobborgo di Sofia, nel 1945 -vero nome Vartanian, origini armene – e trasferitasi a Parigi nel 1952, Sylvie sposa nel 1965 la rockstar Johnny Holliday, iniziando a spopolare in Francia come “la liceale del twist”. Ma è in Italia che diventa “la ragazza yè-yè”: i varietà televisivi di Mina e Gino Bramieri fanno a gara per contendersi la cantante francese che reinterpreta se stessa in italiano con Come un ragazzo e Irresistibilmente. Nel 1968 Sylvie resta coinvolta in un incidente stradale che la costringe ad un delicato intervento di plastica facciale che non ne sminuirà il fascino.

Due copertine, nell’ottobre del 1964 e poi nel mese di settembre del 1968 sono dedicate a Catherine Spaak, che non si può non ricordare per le interpretazioni dei brani di Burt BacharachIo non m’innamoro più e Promesse promesse (1970) – in coppia con il futuro marito Johnny Dorelli. E lei, francese naturalizzata italiana, classe 1945, è famosa già da qualche anno per altre due icone della canzone pop: L’esercito del surf (Noi siamo i giovani) e soprattutto per la versione italiana di quell’inno all’esistenzialismo musicale francese che è Tous les garçons et les filles, oltralpe cantata da Françoise Hardy.

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Cultura del marketing sociale

Un confronto fra organizzazioni “nonprofit” e metodi di approccio al mercato

Strategie di vendita e cultura d’impresa, marketing e particolare approccio alla produzione proprio di imprese che non hanno solo nel profitto il loro fine ultimo. Vendere, ma non solo. Il nodo fra rapporto con il mercato e cultura del produrre è importante. E lo è ancor più quando l’impresa in questione ha connotati particolari, come l’impresa sociale.

Attenta agli altri, capace di conciliare maggiormente equilibrio di bilancio e attenzione al contesto nel quale opera, l’impresa sociale adotta le tecniche di marketing in modo particolare. E può dire molto anche al resto del sistema della produzione.

Marina Gigliotti, Antonio Picciotti e Andrea Runfola (dell’Università degli Studi di Perugia, Dipartimento di Economia) nel loro “La competitività dell’impresa sociale:  (tra) valori identitari e competenze di marketing” presentato nell’ambito del XII Colloquio Scientifico sull’impresa sociale nello scorso maggio, hanno affrontato con efficacia il tema dei collegamenti e della particolare applicazione delle tecniche di marketing da parte delle imprese sociali.

Gli autori partono da due considerazioni. Prima di tutto dalla constatazione di quanto poco siano state esplorate le relazioni tra impresa sociale e marketing, e poi dalla progressiva apertura al mercato delle imprese sociali: un fatto che costringe anche questa tipologia d’aziende a confrontarsi proprio con il marketing.

La ricerca riassume prima l’approccio teorico al tema e poi lo verifica con lo studio di due casi importanti di impresa sociale: il Progetto Quid (attiva nel settore dell’abbigliamento) e Libera Terra (che lavora nel settore agricolo e agroalimentare).

Obiettivo dell’indagine è quello di identificare in che modo vengano attivati e gestiti processi di internalizzazione e di integrazione di nuove competenze di marketing in realtà apparentemente molto lontane da questo ambito di gestione aziendale.

Dall’indagine emergono alcune considerazioni importanti. Come per esempio che il concetto di marketing delle aziende nonprofit evolve e, dalla semplice ricerca di finanziamenti, si arricchisce – spiegano gli autori -, “di componenti strategiche ed operative e diventa parte integrante delle modalità di funzionamento della stessa impresa sociale”.

Ma i ricercatori dell’Università di Perugia indicano soprattutto un rischio. “Il marketing  – scrivono -, rappresenta, e deve continuare ad essere, un mezzo per ottenere una maggiore diffusione dei valori etici e per la sopravvivenza dell’impresa”; ma l’alternanza fra valori etici e necessità di far quadrare i bilanci, pone queste organizzazioni di fronte al difficile equilibrio fra un marketing usato per sensibilizzare il mercato nei confronti del significato etico dell’impresa sociale, e un marketing che invece vede soprattutto il suo fine utilitaristico e commerciale.

La competitività dell’impresa sociale:  (tra) valori identitari e competenze di marketing

Marina Gigliotti, Antonio Picciotti, Andrea Runfola

Paper presentato in occasione del XII Colloquio Scientifico sull’impresa sociale,  25-25 maggio 2018, Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, Università degli Studi di Trento

Un confronto fra organizzazioni “nonprofit” e metodi di approccio al mercato

Strategie di vendita e cultura d’impresa, marketing e particolare approccio alla produzione proprio di imprese che non hanno solo nel profitto il loro fine ultimo. Vendere, ma non solo. Il nodo fra rapporto con il mercato e cultura del produrre è importante. E lo è ancor più quando l’impresa in questione ha connotati particolari, come l’impresa sociale.

Attenta agli altri, capace di conciliare maggiormente equilibrio di bilancio e attenzione al contesto nel quale opera, l’impresa sociale adotta le tecniche di marketing in modo particolare. E può dire molto anche al resto del sistema della produzione.

Marina Gigliotti, Antonio Picciotti e Andrea Runfola (dell’Università degli Studi di Perugia, Dipartimento di Economia) nel loro “La competitività dell’impresa sociale:  (tra) valori identitari e competenze di marketing” presentato nell’ambito del XII Colloquio Scientifico sull’impresa sociale nello scorso maggio, hanno affrontato con efficacia il tema dei collegamenti e della particolare applicazione delle tecniche di marketing da parte delle imprese sociali.

Gli autori partono da due considerazioni. Prima di tutto dalla constatazione di quanto poco siano state esplorate le relazioni tra impresa sociale e marketing, e poi dalla progressiva apertura al mercato delle imprese sociali: un fatto che costringe anche questa tipologia d’aziende a confrontarsi proprio con il marketing.

La ricerca riassume prima l’approccio teorico al tema e poi lo verifica con lo studio di due casi importanti di impresa sociale: il Progetto Quid (attiva nel settore dell’abbigliamento) e Libera Terra (che lavora nel settore agricolo e agroalimentare).

Obiettivo dell’indagine è quello di identificare in che modo vengano attivati e gestiti processi di internalizzazione e di integrazione di nuove competenze di marketing in realtà apparentemente molto lontane da questo ambito di gestione aziendale.

Dall’indagine emergono alcune considerazioni importanti. Come per esempio che il concetto di marketing delle aziende nonprofit evolve e, dalla semplice ricerca di finanziamenti, si arricchisce – spiegano gli autori -, “di componenti strategiche ed operative e diventa parte integrante delle modalità di funzionamento della stessa impresa sociale”.

Ma i ricercatori dell’Università di Perugia indicano soprattutto un rischio. “Il marketing  – scrivono -, rappresenta, e deve continuare ad essere, un mezzo per ottenere una maggiore diffusione dei valori etici e per la sopravvivenza dell’impresa”; ma l’alternanza fra valori etici e necessità di far quadrare i bilanci, pone queste organizzazioni di fronte al difficile equilibrio fra un marketing usato per sensibilizzare il mercato nei confronti del significato etico dell’impresa sociale, e un marketing che invece vede soprattutto il suo fine utilitaristico e commerciale.

La competitività dell’impresa sociale:  (tra) valori identitari e competenze di marketing

Marina Gigliotti, Antonio Picciotti, Andrea Runfola

Paper presentato in occasione del XII Colloquio Scientifico sull’impresa sociale,  25-25 maggio 2018, Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, Università degli Studi di Trento

Il buon futuro digitale

Un libro scritto a più mani racconta le prospettive della digitalizzazione della produzione con un approccio diverso dal consueto

Digitale contro manuale. Macchine contro uomini. Di fronte alla digitalizzazione sempre più spinta dei processi produttivi, queste contrapposizioni sono all’ordine del giorno e appaiono i veri termini della discussione sul futuro del lavoro e della produzione. Contrapponendo – come all’epoca delle altre rivoluzioni industriali –, chi, nei confronti del futuro e in particolare del lavoro, ha una visione ottimistica della situazione e chi , invece, vede arrivare un inesorabile declino del ruolo dell’uomo di fronte alle macchine.

“Uomini 4.0: ritorno al futuro. Creare valore esplorando la complessità” il libro curato da Alberto F. De Toni e da Enzo Rullani appena pubblicato e posto il libera lettura, affronta con franchezza l’argomento  partendo da una domanda. Che cosa dobbiamo aspettarci da un futuro popolato da robot, algoritmi e sensori che – affidando ad anonimi automatismi la maggior parte dei problemi – rischiano di controllare la nostra vita e il nostro lavoro? Due le risposte tradizionali. I tecno-pessimisti si aspettano da questo scenario una perdita massiccia dei posti di lavoro a favore di macchine e dispositivi digitali, dando via libera ad un destino di disoccupazione tecnologica. I tecno-ottimisti, al contrario, credono ancora nella marcia trionfale della rivoluzione digitale in corso, capace di superare ogni ostacolo e di rimediare – con la sua potenza produttiva – ad ogni inconveniente.

De Toni e Rullani – basandosi su una ricerca congiunta portata avanti da CFMT (Centro di Formazione Management del Terziario) e dal Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Udine –, raccontano invece della possibilità di una via di mezzo.

Secondo gli autori del libro occorre cioè fare i conti con la crescita esponenziale della complessità che sta trasformando il senso stesso del vivere e del lavorare. Ma dal libro emerge la constatazione che in un mondo che moltiplica i livelli della varietà, della variabilità, delle interdipendenze e dei gradi di libertà di ciascuno, gli automatismi sono essenziali per rendere fluida e scontata la gestione dei problemi più facilmente codificabili e prevedibili. Ma non sostituiscono le persone, il cui apporto creativo è indispensabile per gestire i livelli di complessità eccedenti le capacità delle macchine.
Detto in altri termini, gli uomini, affiancando gli automatismi, dovranno quindi tornare al centro della scena produttiva, utilizzando la loro intelligenza fluida, per guidare la trasformazione in corso. Un po’ come accadeva prima dell’avvento della meccanizzazione standard, pre-digitale. Anzi, secondo i curatori, la rivoluzione digitale è un viaggio che apre nuove possibilità riscoprendo le capacità simboliche, artistiche e professionali di persone che fanno leva sulla propria creatività distintiva e sulla collaborazione diretta, interattiva, con gli altri.

Il pregio del libro tuttavia non sta solo nell’individuazione di una “terza via” di fronte al digitale, ma anche nell’illustrazione di una serie di storie d’impresa che vengono poste ad esempio di quanto può accadere. Scorrono nelle pagine così i casi di 11 aziende, tra cui 8 dei servizi e 3 del manifatturiero. Nel gruppo le storie di grandi aziende, come quella di IBM Italia, ma anche di imprese meno note e di dimensioni molto più contenute eppure significative, come quelle di Ceccarelli Group, Zanardo spa, Ideal Service, Lago spa, Danieli Automation e altre ancora.

Il libro curato da De Toni e Rullani è un’utile lettura per approfondire per davvero cosa aspetta imprese e lavoratori nei prossimi decenni.

Uomini 4.0: ritorno al futuro. Creare valore esplorando la complessità

Alberto F. De Toni, Enzo Rullani

Franco Angeli, 2018

Libro in open access da http://ojs.francoangeli.it/_omp/index.php/oa/catalog/book/315

Un libro scritto a più mani racconta le prospettive della digitalizzazione della produzione con un approccio diverso dal consueto

Digitale contro manuale. Macchine contro uomini. Di fronte alla digitalizzazione sempre più spinta dei processi produttivi, queste contrapposizioni sono all’ordine del giorno e appaiono i veri termini della discussione sul futuro del lavoro e della produzione. Contrapponendo – come all’epoca delle altre rivoluzioni industriali –, chi, nei confronti del futuro e in particolare del lavoro, ha una visione ottimistica della situazione e chi , invece, vede arrivare un inesorabile declino del ruolo dell’uomo di fronte alle macchine.

“Uomini 4.0: ritorno al futuro. Creare valore esplorando la complessità” il libro curato da Alberto F. De Toni e da Enzo Rullani appena pubblicato e posto il libera lettura, affronta con franchezza l’argomento  partendo da una domanda. Che cosa dobbiamo aspettarci da un futuro popolato da robot, algoritmi e sensori che – affidando ad anonimi automatismi la maggior parte dei problemi – rischiano di controllare la nostra vita e il nostro lavoro? Due le risposte tradizionali. I tecno-pessimisti si aspettano da questo scenario una perdita massiccia dei posti di lavoro a favore di macchine e dispositivi digitali, dando via libera ad un destino di disoccupazione tecnologica. I tecno-ottimisti, al contrario, credono ancora nella marcia trionfale della rivoluzione digitale in corso, capace di superare ogni ostacolo e di rimediare – con la sua potenza produttiva – ad ogni inconveniente.

De Toni e Rullani – basandosi su una ricerca congiunta portata avanti da CFMT (Centro di Formazione Management del Terziario) e dal Dipartimento di Ingegneria dell’Università di Udine –, raccontano invece della possibilità di una via di mezzo.

Secondo gli autori del libro occorre cioè fare i conti con la crescita esponenziale della complessità che sta trasformando il senso stesso del vivere e del lavorare. Ma dal libro emerge la constatazione che in un mondo che moltiplica i livelli della varietà, della variabilità, delle interdipendenze e dei gradi di libertà di ciascuno, gli automatismi sono essenziali per rendere fluida e scontata la gestione dei problemi più facilmente codificabili e prevedibili. Ma non sostituiscono le persone, il cui apporto creativo è indispensabile per gestire i livelli di complessità eccedenti le capacità delle macchine.
Detto in altri termini, gli uomini, affiancando gli automatismi, dovranno quindi tornare al centro della scena produttiva, utilizzando la loro intelligenza fluida, per guidare la trasformazione in corso. Un po’ come accadeva prima dell’avvento della meccanizzazione standard, pre-digitale. Anzi, secondo i curatori, la rivoluzione digitale è un viaggio che apre nuove possibilità riscoprendo le capacità simboliche, artistiche e professionali di persone che fanno leva sulla propria creatività distintiva e sulla collaborazione diretta, interattiva, con gli altri.

Il pregio del libro tuttavia non sta solo nell’individuazione di una “terza via” di fronte al digitale, ma anche nell’illustrazione di una serie di storie d’impresa che vengono poste ad esempio di quanto può accadere. Scorrono nelle pagine così i casi di 11 aziende, tra cui 8 dei servizi e 3 del manifatturiero. Nel gruppo le storie di grandi aziende, come quella di IBM Italia, ma anche di imprese meno note e di dimensioni molto più contenute eppure significative, come quelle di Ceccarelli Group, Zanardo spa, Ideal Service, Lago spa, Danieli Automation e altre ancora.

Il libro curato da De Toni e Rullani è un’utile lettura per approfondire per davvero cosa aspetta imprese e lavoratori nei prossimi decenni.

Uomini 4.0: ritorno al futuro. Creare valore esplorando la complessità

Alberto F. De Toni, Enzo Rullani

Franco Angeli, 2018

Libro in open access da http://ojs.francoangeli.it/_omp/index.php/oa/catalog/book/315

Tutti i rischi d’una politica ostile per imprese e investimenti internazionali

Tira un’aria sgradevole, per le imprese e per lo sviluppo economico fondato sulla cultura del buon mercato. Dirigismo, nazionalismo, protezionismo da tentazioni di frontiere chiuse, eccessi d’amore per la spesa pubblica assistenziale, ostilità per un euro che, nonostante grandi limiti, ha contribuito in modo determinante alla stabilità dell’Europa e delle nostre economie. I segnali che vengono dalle stanze di governo su lavoro, infrastrutture, risorse umane, commercio estero, Europa, sono guardati con grande preoccupazione dal mondo delle imprese, le multinazionali che volentieri hanno investito e continuerebbero a investire nel nostro Paese ma anche le imprese medie e piccole, i commercianti, gli artigiani. E sono in tanti a domandarsi se l’Italia, uscita finalmente da una lunga e pesante recessione, non debba ricominciare a preoccuparsi.

L’economia rallenta: l’autorevole agenzia di rating S&P ha corretto al ribasso le stime di crescita dell’Italia per il 2018 da 1,5% a 1,3% (analoghe le previsioni dell’Istat) e ha confermato un debole 1,2% per il 2019, parlando, oltre che di tensioni internazionali, anche di incertezze legate al “processo politico interno” e ha sottolineato che l’aumento dello spread si traduce in un maggior costo del denaro per l’economia reale e in un ulteriore freno alla crescita: un elemento che dovrebbe far riflettere certi propagandisti in area di governo che mostrano di considerare quello spread non un termometro importante ma un dato irrilevante, il frutto d’un maligno complotto…

Servirebbero scelte economiche forti e chiare, capaci di legare stabilità dei conti pubblici e sviluppo, sostegni alla ricerca e all’innovazione (confermando i provvedimenti positivi dei governi precedenti per “Industria 4.0” e il rinnovamento digitale degli impianti) e riforme per creare lavoro. Parecchie delle scelte recenti di governo vanno invece in tutt’altra direzione. Il cosiddetto “decreto dignità” del ministro Di Maio ingessa il mercato del lavoro, aumenta i rischi di contenzioso e mette in crisi un’economia in cerca non di precarietà ma di flessibilità. E l’annuncio, già il puro e semplice annuncio di un atteggiamento punitivo per le imprese che delocalizzano rischia di rallentare fortemente gli investimenti esteri in Italia, di cui la nostra economia avrebbe grandissimo bisogno.

Le reazioni critiche di tutto il mondo economico confermano l’impatto negativo dei provvedimenti annunciati. Critiche – vale la pena chiarire – che vengono dalle grandi ma soprattutto dalle piccole e medie imprese, dell’industria, del commercio, dei servizi, dell’artigianato. Nel Nord industriale, da Assolombarda alle Confindustrie territoriali del Veneto, le proteste hanno trovato orecchie attente negli ambienti della Lega, da gran tempo forza di governo locale quanto mai sensibile alle buone ragioni dell’economia produttiva. Ed è possibile che il decreto, in Parlamento, venga giustamente sottoposto a radicali modifiche.

Resta comunque la sensazione del clima anti-imprese, di una cultura economica (soprattutto in ambienti dei Cinquestelle), che ignora la stretta relazione tra dinamiche di mercato, imprese come motore di sviluppo, creazione di lavoro fuori da logiche assistenziali, welfare legato sia a esigenze sociali che a ragioni di miglioramento della produttività (una dimensione responsabile cui, peraltro, sono sensibili anche i sindacati, come si ricava dagli ultimi contratti di lavoro, a cominciare da quello dei metalmeccanici).

Giocano negativamente, nel clima ostile allo sviluppo, anche le enunciazioni di chiusura protezionistica (in questo, Lega e Cinquestelle camminano in sintonia). Tutto il contrario di quello di cui avrebbe bisogno l’Italia, paese esportatore, economia aperta che proprio sulla platea internazionale dà il meglio di sé.

Un dato, per riflettere su quanto pesano le multinazionali estere, sull’economia italiana: sono 11.039, occupano 973.000 dipendenti e generano 519 miliardi di fatturato. Un terzo sono concentrate a Milano (città metropolitana): sono per l’esattezza 3.599 con 279.000 dipendenti e 168 miliardi di fatturato. La prospettiva di fondo: continuare ad attrarle in una città leader per servizi, manifattura hi tech, formazione di qualità (le grandi università oramai presenti nei ranking internazionali, dal Politecnico alla Bocconi), cultura, salute, qualità della vita. Milano, da locomotiva dello sviluppo italiano, ha bisogno di continuare a essere, come nella sua storia migliore, città aperta, attrattiva, inclusiva. Tutto il contrario, appunto, del gretto protezionismo impaurito che connota purtroppo tanta retorica negli ambienti di governo.

Chiusure, rigidità, incertezze, ostilità per la cultura del mercato e delle imprese. E tensioni sull’Europa. Le preoccupazioni economiche hanno purtroppo un certo fondamento. E se temono conseguenze.

In ambienti finanziari circola l’idea di una clausola, da introdurre nei contratti di finanziamento e di acquisizione di aziende italiane da parte di investitori internazionali. Ne dà conto, compiutamente, Il Sole24Ore (4 luglio). Si chiama “Quitaly”, sintesi allarmata tra “quit” (abbandono) e Italy e, se introdotta, servirebbe a proteggere gli investitori esteri quando finanziano imprese italiane o quando le acquisiscono dall’eventualità che l’Italia abbandoni la moneta unica, l’euro. Il Sole24Ore chiarisce che non ci sono ancora contratti firmati con questa clausola. Ma già il fatto che se ne parli, tra banche e grandi studi legali internazionali, è termometro di incertezza, instabilità, giudizio di scarsa fiducia sulla gestione del nostro Paese. Condizioni negative, per lo sviluppo. Che avrebbe bisogno di stabilità, chiarezza sul buon governo, fiducia lungo la strada europea, competenza e senso di responsabilità.

Tira un’aria sgradevole, per le imprese e per lo sviluppo economico fondato sulla cultura del buon mercato. Dirigismo, nazionalismo, protezionismo da tentazioni di frontiere chiuse, eccessi d’amore per la spesa pubblica assistenziale, ostilità per un euro che, nonostante grandi limiti, ha contribuito in modo determinante alla stabilità dell’Europa e delle nostre economie. I segnali che vengono dalle stanze di governo su lavoro, infrastrutture, risorse umane, commercio estero, Europa, sono guardati con grande preoccupazione dal mondo delle imprese, le multinazionali che volentieri hanno investito e continuerebbero a investire nel nostro Paese ma anche le imprese medie e piccole, i commercianti, gli artigiani. E sono in tanti a domandarsi se l’Italia, uscita finalmente da una lunga e pesante recessione, non debba ricominciare a preoccuparsi.

L’economia rallenta: l’autorevole agenzia di rating S&P ha corretto al ribasso le stime di crescita dell’Italia per il 2018 da 1,5% a 1,3% (analoghe le previsioni dell’Istat) e ha confermato un debole 1,2% per il 2019, parlando, oltre che di tensioni internazionali, anche di incertezze legate al “processo politico interno” e ha sottolineato che l’aumento dello spread si traduce in un maggior costo del denaro per l’economia reale e in un ulteriore freno alla crescita: un elemento che dovrebbe far riflettere certi propagandisti in area di governo che mostrano di considerare quello spread non un termometro importante ma un dato irrilevante, il frutto d’un maligno complotto…

Servirebbero scelte economiche forti e chiare, capaci di legare stabilità dei conti pubblici e sviluppo, sostegni alla ricerca e all’innovazione (confermando i provvedimenti positivi dei governi precedenti per “Industria 4.0” e il rinnovamento digitale degli impianti) e riforme per creare lavoro. Parecchie delle scelte recenti di governo vanno invece in tutt’altra direzione. Il cosiddetto “decreto dignità” del ministro Di Maio ingessa il mercato del lavoro, aumenta i rischi di contenzioso e mette in crisi un’economia in cerca non di precarietà ma di flessibilità. E l’annuncio, già il puro e semplice annuncio di un atteggiamento punitivo per le imprese che delocalizzano rischia di rallentare fortemente gli investimenti esteri in Italia, di cui la nostra economia avrebbe grandissimo bisogno.

Le reazioni critiche di tutto il mondo economico confermano l’impatto negativo dei provvedimenti annunciati. Critiche – vale la pena chiarire – che vengono dalle grandi ma soprattutto dalle piccole e medie imprese, dell’industria, del commercio, dei servizi, dell’artigianato. Nel Nord industriale, da Assolombarda alle Confindustrie territoriali del Veneto, le proteste hanno trovato orecchie attente negli ambienti della Lega, da gran tempo forza di governo locale quanto mai sensibile alle buone ragioni dell’economia produttiva. Ed è possibile che il decreto, in Parlamento, venga giustamente sottoposto a radicali modifiche.

Resta comunque la sensazione del clima anti-imprese, di una cultura economica (soprattutto in ambienti dei Cinquestelle), che ignora la stretta relazione tra dinamiche di mercato, imprese come motore di sviluppo, creazione di lavoro fuori da logiche assistenziali, welfare legato sia a esigenze sociali che a ragioni di miglioramento della produttività (una dimensione responsabile cui, peraltro, sono sensibili anche i sindacati, come si ricava dagli ultimi contratti di lavoro, a cominciare da quello dei metalmeccanici).

Giocano negativamente, nel clima ostile allo sviluppo, anche le enunciazioni di chiusura protezionistica (in questo, Lega e Cinquestelle camminano in sintonia). Tutto il contrario di quello di cui avrebbe bisogno l’Italia, paese esportatore, economia aperta che proprio sulla platea internazionale dà il meglio di sé.

Un dato, per riflettere su quanto pesano le multinazionali estere, sull’economia italiana: sono 11.039, occupano 973.000 dipendenti e generano 519 miliardi di fatturato. Un terzo sono concentrate a Milano (città metropolitana): sono per l’esattezza 3.599 con 279.000 dipendenti e 168 miliardi di fatturato. La prospettiva di fondo: continuare ad attrarle in una città leader per servizi, manifattura hi tech, formazione di qualità (le grandi università oramai presenti nei ranking internazionali, dal Politecnico alla Bocconi), cultura, salute, qualità della vita. Milano, da locomotiva dello sviluppo italiano, ha bisogno di continuare a essere, come nella sua storia migliore, città aperta, attrattiva, inclusiva. Tutto il contrario, appunto, del gretto protezionismo impaurito che connota purtroppo tanta retorica negli ambienti di governo.

Chiusure, rigidità, incertezze, ostilità per la cultura del mercato e delle imprese. E tensioni sull’Europa. Le preoccupazioni economiche hanno purtroppo un certo fondamento. E se temono conseguenze.

In ambienti finanziari circola l’idea di una clausola, da introdurre nei contratti di finanziamento e di acquisizione di aziende italiane da parte di investitori internazionali. Ne dà conto, compiutamente, Il Sole24Ore (4 luglio). Si chiama “Quitaly”, sintesi allarmata tra “quit” (abbandono) e Italy e, se introdotta, servirebbe a proteggere gli investitori esteri quando finanziano imprese italiane o quando le acquisiscono dall’eventualità che l’Italia abbandoni la moneta unica, l’euro. Il Sole24Ore chiarisce che non ci sono ancora contratti firmati con questa clausola. Ma già il fatto che se ne parli, tra banche e grandi studi legali internazionali, è termometro di incertezza, instabilità, giudizio di scarsa fiducia sulla gestione del nostro Paese. Condizioni negative, per lo sviluppo. Che avrebbe bisogno di stabilità, chiarezza sul buon governo, fiducia lungo la strada europea, competenza e senso di responsabilità.

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