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Tra pinne e battelli pneumatici, la gomma è in vacanza con noi

Agosto 1950. Sulla rivista Pirelli n° 4 appare il fotoservizio di Federico Patellani La gomma in vacanza. “Si potrebbe dire che, mentre noi riposiamo, la gomma lavora”, commenta il fotografo. E’ tutto un trionfo “pneumatico” che, a partire dagli anni del boom economico, comincia a popolare le nostre vacanze. Il protagonista assoluto dell’estate è il battello pneumatico, che non è più il mezzo di soccorso per soldati dispersi o contadini alluvionati ma è ora la versione acquatica della motorizzazione di massa. Il Nautilus prodotto dalla pirelliana Azienda Seregno è inconfondibilmente arancione con scalmi e sedili blu. Il suo successore, verso gli anni Settanta, si chiamerà Laros e sarà un’icona di libertà, di rispetto per l’ambiente, di scoperta di baie e spiagge deserte. Per chi preferisce i tranquilli silenzi di un lago, invece, Pirelli propone la gamma di barche in vetroresina prodotte dall’Azienda Monza: Itaca, Ninfa, Levriero. A remi o a motore, leggere, facili da caricare sul tetto della Seicento o da trainare sull’apposito carrello.

Il materassino gonfiabile è un campione di adattabilità e trasformismo: adatto per la spiaggia come sotto la tenda da campeggio, “lasciando che i propri pensieri si mescolino al canto degli uccelli e ai richiami lontani”, come filosofeggia Patellani mostrando un piede calzato da scarponi da trekking dotati di suola in gomma Pirelli. Altra gomma iconica per l’idea di vacanza italiana: quella delle maschere, che con le pinne e il fucile da caccia subacquea -tutti a listino dell’Azienda Seregno- compone la triade classica cantata da Edoardo Vianello nel 1962. La maschera Pirelli per osservare la vita di scoglio trova una testimonial d’eccezione in Ingrid Bergman, iniziata alle scoperte subacquee dallo stesso Roberto Rossellini nel 1949, durante la lavorazione del film “Stromboli”. Anche Miss Svezia, d’altra parte, mostra allo stesso tempo di apprezzare le pinne Pirelli. Ormai un po’ in disuso, dopo anni e anni di successi “marittimi”, paiono invece le cuffie da bagno, oggetto, nei lontani anni Venti, di bozzetti pubblicitari che erano piccoli capolavori di art déco.

Ha poi il suo picco di popolarità negli anni Cinquanta il costume da bagno in tessuto elastico Lastex. Lo produce l’Azienda Pirelli Revere ed è indossato nientemeno che da Marilyn Monroe, sulle spiagge californiane del 1952. Per tutti, l’Azienda Seregno propone anche il respiratore ad aria compressa Tricheco con bombole intercambiabili da 10 litri, oltre alla boa segnasub in PVC completa di sagola e bandierina. E mentre i padri scendono nel mare profondo, mamme e bambini restano a riva a giocare con i coloratissimi palloni Pirelli: degli “evergreen” che non hanno mai smesso di rimbalzare di vacanza in vacanza, di decennio in decennio.

Agosto 1950. Sulla rivista Pirelli n° 4 appare il fotoservizio di Federico Patellani La gomma in vacanza. “Si potrebbe dire che, mentre noi riposiamo, la gomma lavora”, commenta il fotografo. E’ tutto un trionfo “pneumatico” che, a partire dagli anni del boom economico, comincia a popolare le nostre vacanze. Il protagonista assoluto dell’estate è il battello pneumatico, che non è più il mezzo di soccorso per soldati dispersi o contadini alluvionati ma è ora la versione acquatica della motorizzazione di massa. Il Nautilus prodotto dalla pirelliana Azienda Seregno è inconfondibilmente arancione con scalmi e sedili blu. Il suo successore, verso gli anni Settanta, si chiamerà Laros e sarà un’icona di libertà, di rispetto per l’ambiente, di scoperta di baie e spiagge deserte. Per chi preferisce i tranquilli silenzi di un lago, invece, Pirelli propone la gamma di barche in vetroresina prodotte dall’Azienda Monza: Itaca, Ninfa, Levriero. A remi o a motore, leggere, facili da caricare sul tetto della Seicento o da trainare sull’apposito carrello.

Il materassino gonfiabile è un campione di adattabilità e trasformismo: adatto per la spiaggia come sotto la tenda da campeggio, “lasciando che i propri pensieri si mescolino al canto degli uccelli e ai richiami lontani”, come filosofeggia Patellani mostrando un piede calzato da scarponi da trekking dotati di suola in gomma Pirelli. Altra gomma iconica per l’idea di vacanza italiana: quella delle maschere, che con le pinne e il fucile da caccia subacquea -tutti a listino dell’Azienda Seregno- compone la triade classica cantata da Edoardo Vianello nel 1962. La maschera Pirelli per osservare la vita di scoglio trova una testimonial d’eccezione in Ingrid Bergman, iniziata alle scoperte subacquee dallo stesso Roberto Rossellini nel 1949, durante la lavorazione del film “Stromboli”. Anche Miss Svezia, d’altra parte, mostra allo stesso tempo di apprezzare le pinne Pirelli. Ormai un po’ in disuso, dopo anni e anni di successi “marittimi”, paiono invece le cuffie da bagno, oggetto, nei lontani anni Venti, di bozzetti pubblicitari che erano piccoli capolavori di art déco.

Ha poi il suo picco di popolarità negli anni Cinquanta il costume da bagno in tessuto elastico Lastex. Lo produce l’Azienda Pirelli Revere ed è indossato nientemeno che da Marilyn Monroe, sulle spiagge californiane del 1952. Per tutti, l’Azienda Seregno propone anche il respiratore ad aria compressa Tricheco con bombole intercambiabili da 10 litri, oltre alla boa segnasub in PVC completa di sagola e bandierina. E mentre i padri scendono nel mare profondo, mamme e bambini restano a riva a giocare con i coloratissimi palloni Pirelli: degli “evergreen” che non hanno mai smesso di rimbalzare di vacanza in vacanza, di decennio in decennio.

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Un patrimonio digitale per la comunità: l’Archivio Storico Pirelli online

Da dieci anni, presso la Fondazione Pirelli nel quartiere di Milano Bicocca, viene custodito un patrimonio di sapere e di conoscenze che giorno dopo giorno sempre di più si apre alla comunità, agli studiosi e ai tesisti grazie anche alla sua fruibilità online. È l’Archivio Storico del Gruppo Pirelli, consultabile anche online: la via d’accesso per navigare lungo gli oltre tre chilometri su cui l’archivio Pirelli si snoda. Un viaggio di scoperta che spesso risponde a esigenze didattiche o di ricerca, o intrapreso solo per curiosità o per avere uno sguardo d’insieme sui quasi centocinquant’anni di attività dell’azienda.

L’area del sito destinata all’Archivio è il primo passo per una visione globale su uno straordinario patrimonio di documenti, fotografie, disegni, filmati che è stato dichiarato Bene Culturale dello Stato Italiano. Questa sezione del sito viene costantemente implementata con l’analisi e la digitalizzazione di nuovi documenti, come la raccolta denominata “Documenti per la Storia delle Industrie Pirelli“, realizzata tra il 1942 e il 1943 in occasione dei settant’anni di vita dell’azienda: dall’Atto Costitutivo del 1872 alle foto di interni di fabbrica degli anni Venti, dalle Disposizioni Generali fino ai brevetti, materiali che consentono una visione completa e d’insieme sullo scorrere della storia industriale italiana e internazionale tra Ottocento e Novecento. Il patrimonio fotografico invece è costituito da centinaia di migliaia di pezzi tra negativi su lastra e su pellicola, stampe, diapositive, prodotte o commissionate dalla funzione della Pubblicità e Comunicazione a partire dagli anni Dieci. Gli scatti riguardano prodotti, stabilimenti, fiere ed esposizioni, eventi aziendali, veicoli cui i pneumatici erano destinati (automobili, motociclette, biciclette, aerei, macchine agricole) e gare sportive corse con pneumatici Pirelli. Ad oggi sono disponibili online i reportage delle corse automobilistiche, le gare ciclistiche e gli scatti di vita quotidiana in bicicletta, moda, esposizioni, e l’enorme patrimonio di materiali sulla costruzione del grattacielo Pirelli. Sono disponibili sul sito anche centinaia di bozzetti, schizzi e disegni originali commissionati a noti artisti, illustratori e graphic designer tra gli anni Dieci e gli anni Sessanta del secolo scorso per pubblicizzare i prodotti, celebrare i traguardi raggiunti dall’Azienda e illustrare la rivista “Pirelli”. A questi disegni originali si aggiungeranno nei prossimi mesi migliaia di materiali pubblicitari a stampa prodotti principalmente tra gli anni Cinquanta e Settanta: manifesti, cataloghi, pieghevoli, cartelli vetrina.

Sono già online anche centanaia di film su pellicola e nastro magnetico realizzati a partire dai primi anni del Novecento fino agli anni Novanta: dalle riprese del Re Vittorio Emanuele III alla Bicocca realizzate da Luca Comerio, uno dei più grandi cineasti italiani del periodo del muto, alle pubblicità per il cinema o per il programma tv “Carosello” dei grandi maestri dell’animazione italiana come i fratelli Pagot e Gavioli, fino alle più recenti pubblicità televisive.

Molteplici anche i materiali editoriali prodotti da Pirelli negli anni: ad oggi sono disponibili il periodicoVado e Torno e la rivista “Pirelli”. Quest’ultimo magazine rappresenta una possibilità pressoché unica di avere un quadro della Cultura d’Impresa del secondo Novecento. Pubblicata tra il 1948 e il 1972 a cadenza prevalentemente bimestrale e regolarmente distribuita in edicola, la rivista “Pirelli” nasce infatti con lo scopo dichiarato di unire la cultura tecnico-scientifica e la cultura umanistica. Temi relativi alla produzione industriale, alla scienza, alla tecnologia, sono affrontati accanto a interventi che spaziano dall’arte all’architettura, dalla sociologia all’economia, dall’urbanistica alla letteratura. Per facilitare il lettore nella sua fruizione, la Rivista è stata suddivisa, anche nella sua versione online, ricalcandone le sezioni originali. Oggi l’impegno di Pirelli nell’editoria continua con “Fatti e Notizie” e con “World”, pubblicazione in lingua inglese che ospita testi di grandi autori internazionali, che in futuro saranno disponibili sul catalogo digitale di fondazionepirelli.org. Restate connessi!

Da dieci anni, presso la Fondazione Pirelli nel quartiere di Milano Bicocca, viene custodito un patrimonio di sapere e di conoscenze che giorno dopo giorno sempre di più si apre alla comunità, agli studiosi e ai tesisti grazie anche alla sua fruibilità online. È l’Archivio Storico del Gruppo Pirelli, consultabile anche online: la via d’accesso per navigare lungo gli oltre tre chilometri su cui l’archivio Pirelli si snoda. Un viaggio di scoperta che spesso risponde a esigenze didattiche o di ricerca, o intrapreso solo per curiosità o per avere uno sguardo d’insieme sui quasi centocinquant’anni di attività dell’azienda.

L’area del sito destinata all’Archivio è il primo passo per una visione globale su uno straordinario patrimonio di documenti, fotografie, disegni, filmati che è stato dichiarato Bene Culturale dello Stato Italiano. Questa sezione del sito viene costantemente implementata con l’analisi e la digitalizzazione di nuovi documenti, come la raccolta denominata “Documenti per la Storia delle Industrie Pirelli“, realizzata tra il 1942 e il 1943 in occasione dei settant’anni di vita dell’azienda: dall’Atto Costitutivo del 1872 alle foto di interni di fabbrica degli anni Venti, dalle Disposizioni Generali fino ai brevetti, materiali che consentono una visione completa e d’insieme sullo scorrere della storia industriale italiana e internazionale tra Ottocento e Novecento. Il patrimonio fotografico invece è costituito da centinaia di migliaia di pezzi tra negativi su lastra e su pellicola, stampe, diapositive, prodotte o commissionate dalla funzione della Pubblicità e Comunicazione a partire dagli anni Dieci. Gli scatti riguardano prodotti, stabilimenti, fiere ed esposizioni, eventi aziendali, veicoli cui i pneumatici erano destinati (automobili, motociclette, biciclette, aerei, macchine agricole) e gare sportive corse con pneumatici Pirelli. Ad oggi sono disponibili online i reportage delle corse automobilistiche, le gare ciclistiche e gli scatti di vita quotidiana in bicicletta, moda, esposizioni, e l’enorme patrimonio di materiali sulla costruzione del grattacielo Pirelli. Sono disponibili sul sito anche centinaia di bozzetti, schizzi e disegni originali commissionati a noti artisti, illustratori e graphic designer tra gli anni Dieci e gli anni Sessanta del secolo scorso per pubblicizzare i prodotti, celebrare i traguardi raggiunti dall’Azienda e illustrare la rivista “Pirelli”. A questi disegni originali si aggiungeranno nei prossimi mesi migliaia di materiali pubblicitari a stampa prodotti principalmente tra gli anni Cinquanta e Settanta: manifesti, cataloghi, pieghevoli, cartelli vetrina.

Sono già online anche centanaia di film su pellicola e nastro magnetico realizzati a partire dai primi anni del Novecento fino agli anni Novanta: dalle riprese del Re Vittorio Emanuele III alla Bicocca realizzate da Luca Comerio, uno dei più grandi cineasti italiani del periodo del muto, alle pubblicità per il cinema o per il programma tv “Carosello” dei grandi maestri dell’animazione italiana come i fratelli Pagot e Gavioli, fino alle più recenti pubblicità televisive.

Molteplici anche i materiali editoriali prodotti da Pirelli negli anni: ad oggi sono disponibili il periodicoVado e Torno e la rivista “Pirelli”. Quest’ultimo magazine rappresenta una possibilità pressoché unica di avere un quadro della Cultura d’Impresa del secondo Novecento. Pubblicata tra il 1948 e il 1972 a cadenza prevalentemente bimestrale e regolarmente distribuita in edicola, la rivista “Pirelli” nasce infatti con lo scopo dichiarato di unire la cultura tecnico-scientifica e la cultura umanistica. Temi relativi alla produzione industriale, alla scienza, alla tecnologia, sono affrontati accanto a interventi che spaziano dall’arte all’architettura, dalla sociologia all’economia, dall’urbanistica alla letteratura. Per facilitare il lettore nella sua fruizione, la Rivista è stata suddivisa, anche nella sua versione online, ricalcandone le sezioni originali. Oggi l’impegno di Pirelli nell’editoria continua con “Fatti e Notizie” e con “World”, pubblicazione in lingua inglese che ospita testi di grandi autori internazionali, che in futuro saranno disponibili sul catalogo digitale di fondazionepirelli.org. Restate connessi!

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Tutti al mare! Le vacanze degli italiani sulla rivista “Pirelli”

Vacanze estive. Parola che irrompe nell’Italia del Dopoguerra, a scandire il passaggio verso una nuova era di benessere e di “tempo liberato”. Prima si chiamava “villeggiatura”e portava alla mente il buen ritiro degli intellettuali e la casa vacanze di famiglia. Ora tutto è cambiato: in vacanza ci si va per due settimane, caricando la Seicento e via verso la pensione familiare “tutto completo”.  La rivista “Pirelli”, che nasce alla fine del 1948, non poteva non riservare uno sguardo sempre attento e puntuale al fenomeno delle vacanze estive degli Italiani: ne seguirà l’evoluzione passo passo, dalla famiglia sull’utilitaria fino allo zaino in spalla degli anni Settanta.

Questa rubrica “Storia e storie dal mondo Pirelli” aveva tempo fa accennato al racconto Vacanze in Versilia di Eugenio Montale, sulla rivista n° 4 del 1949: il divertitente reportage del grande poeta alla prese con il crescente turismo popolare sembra il paradigma di questo passaggio epocale. Come è nello spirito precursore della Rivista, ben presto inizia sul magazine l’analisi critica del fenomeno: Turismo vena d’oro, di Ignazio Scurto (n° 4 del  1950), apre il dibattito sull’inadeguatezza delle strutture ricettive italiane di fronte al crescere della richiesta di consumo turistico. Gli italiani hanno cominciato a muoversi, e hanno voglia di “conoscere l’Italia per riconoscere se stessi”: lo si afferma in Conoscere il nostro paese e conoscersi, articolo a firma “G.P.” pubblicato sulla rivista n° 3 del 1951. Irrompono parole nuove. Una di queste è “motel“, che sta per motor-hotel ed è tanto diffuso in America quanto ancora sconosciuto in Italia; delle strutture alberghiere che facilitano il turismo itinerante su quattro ruote  -e di come da noi si chiamino all’inizio pionieristicamente “Jolly Hotels”– parla Franco Vegliani sul n° 4 del 1953. Altro ribaltamento in chiave modernista di un antico mito: il campeggio. Un tempo disciplina per pochi arditi, armati di piccozza e scarponi, ora è libertà di montare la propria “casetta di tela” in riva al mare e poter stare in costume da bagno da mattina a sera: Turismo in libertà di Giovanni Mira, sempre sul n° 4 del 1953, ne è la lampante conferma. L’Italia si accorcia, d’estate. Le isole che  – nel lungo e appassionato articolo di Bartolo Cattafi sul n° 3 del 1955 – apparivano così lontane, disperse nel Mediterraneo, ora sono a portata di una vacanza estiva in auto: Egadi, Eolie, Lipari, Marettimo… E allora perchè non andare in campeggio a Palinuro, come suggerisce sulla rivista n° 3 del 1956 Andrea Giovene, o a mangiare l’aragosta a Ponza su invito di Franco Fellini (pseudonimo di Giovanni Pirelli), che scrive sullo stesso numero del magazine? Nel frattempo sta cambiando il “costume” anche in senso letterale: complice il filato Pirelli Lastex, l’articolo Donne al mare di Gianna Manzini – sempre estate 1956 – è un inno alla vacanza in “pieno sole” e alla futura rivoluzione femminile.
La parola “vacanze” lascia il posto alla più aziendalista “ferie” nell’articolo Turismo minore in un paese del sud di Antonio Terzi, sulla rivista n° 5 del 1956. Le prime due settimane d’agosto rischiano di diventare una fonte di stress: i primi dubbi li esprime Silvio Magrini in un articolo del 1959. Profezia? Forse: lo conferma Giovanni Arpino in Come riempiremo il tempo vuoto? nel n° 6 dello stesso anno.
Chiudiamo questo breve panorama sulle vacanze degli italiani viste da Pirelli con il gioioso, colorato e appassionato articolo Un guscio per l’estate, scritto da Fausto Malcovati per le fotografie di Rodolfo Facchini e Fulvio Roiter sul n° 9 del 1968. I “gusci” sono i “bungalows”  -parola antiquatissima-  progettati dall’architetto Roberto Menghi per il villaggio Touring della Maddalena, in Sardegna. Le barche solcano il mare dorato di Caprera, mentre la comitiva a dorso di mulo attraversa la spiaggia di Cala del Cefalo, a Marina di Camerota. Le ragazze sugli scogli ricordano le protagoniste del celebre Calendario Pirelli, nel 1968.

Vacanze estive. Parola che irrompe nell’Italia del Dopoguerra, a scandire il passaggio verso una nuova era di benessere e di “tempo liberato”. Prima si chiamava “villeggiatura”e portava alla mente il buen ritiro degli intellettuali e la casa vacanze di famiglia. Ora tutto è cambiato: in vacanza ci si va per due settimane, caricando la Seicento e via verso la pensione familiare “tutto completo”.  La rivista “Pirelli”, che nasce alla fine del 1948, non poteva non riservare uno sguardo sempre attento e puntuale al fenomeno delle vacanze estive degli Italiani: ne seguirà l’evoluzione passo passo, dalla famiglia sull’utilitaria fino allo zaino in spalla degli anni Settanta.

Questa rubrica “Storia e storie dal mondo Pirelli” aveva tempo fa accennato al racconto Vacanze in Versilia di Eugenio Montale, sulla rivista n° 4 del 1949: il divertitente reportage del grande poeta alla prese con il crescente turismo popolare sembra il paradigma di questo passaggio epocale. Come è nello spirito precursore della Rivista, ben presto inizia sul magazine l’analisi critica del fenomeno: Turismo vena d’oro, di Ignazio Scurto (n° 4 del  1950), apre il dibattito sull’inadeguatezza delle strutture ricettive italiane di fronte al crescere della richiesta di consumo turistico. Gli italiani hanno cominciato a muoversi, e hanno voglia di “conoscere l’Italia per riconoscere se stessi”: lo si afferma in Conoscere il nostro paese e conoscersi, articolo a firma “G.P.” pubblicato sulla rivista n° 3 del 1951. Irrompono parole nuove. Una di queste è “motel“, che sta per motor-hotel ed è tanto diffuso in America quanto ancora sconosciuto in Italia; delle strutture alberghiere che facilitano il turismo itinerante su quattro ruote  -e di come da noi si chiamino all’inizio pionieristicamente “Jolly Hotels”– parla Franco Vegliani sul n° 4 del 1953. Altro ribaltamento in chiave modernista di un antico mito: il campeggio. Un tempo disciplina per pochi arditi, armati di piccozza e scarponi, ora è libertà di montare la propria “casetta di tela” in riva al mare e poter stare in costume da bagno da mattina a sera: Turismo in libertà di Giovanni Mira, sempre sul n° 4 del 1953, ne è la lampante conferma. L’Italia si accorcia, d’estate. Le isole che  – nel lungo e appassionato articolo di Bartolo Cattafi sul n° 3 del 1955 – apparivano così lontane, disperse nel Mediterraneo, ora sono a portata di una vacanza estiva in auto: Egadi, Eolie, Lipari, Marettimo… E allora perchè non andare in campeggio a Palinuro, come suggerisce sulla rivista n° 3 del 1956 Andrea Giovene, o a mangiare l’aragosta a Ponza su invito di Franco Fellini (pseudonimo di Giovanni Pirelli), che scrive sullo stesso numero del magazine? Nel frattempo sta cambiando il “costume” anche in senso letterale: complice il filato Pirelli Lastex, l’articolo Donne al mare di Gianna Manzini – sempre estate 1956 – è un inno alla vacanza in “pieno sole” e alla futura rivoluzione femminile.
La parola “vacanze” lascia il posto alla più aziendalista “ferie” nell’articolo Turismo minore in un paese del sud di Antonio Terzi, sulla rivista n° 5 del 1956. Le prime due settimane d’agosto rischiano di diventare una fonte di stress: i primi dubbi li esprime Silvio Magrini in un articolo del 1959. Profezia? Forse: lo conferma Giovanni Arpino in Come riempiremo il tempo vuoto? nel n° 6 dello stesso anno.
Chiudiamo questo breve panorama sulle vacanze degli italiani viste da Pirelli con il gioioso, colorato e appassionato articolo Un guscio per l’estate, scritto da Fausto Malcovati per le fotografie di Rodolfo Facchini e Fulvio Roiter sul n° 9 del 1968. I “gusci” sono i “bungalows”  -parola antiquatissima-  progettati dall’architetto Roberto Menghi per il villaggio Touring della Maddalena, in Sardegna. Le barche solcano il mare dorato di Caprera, mentre la comitiva a dorso di mulo attraversa la spiaggia di Cala del Cefalo, a Marina di Camerota. Le ragazze sugli scogli ricordano le protagoniste del celebre Calendario Pirelli, nel 1968.

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Cultura d’impresa d’alta quota

Una indagine dell’Università Cattolica affronta il tema dell’innovazione e dell’organizzazione della produzione in un contesto diverso dal consueto

 

La cultura della buona produzione vale ovunque. E’ questione “genetica” che si applica ogni volta un’idea si voglia trasformare in un’impresa, collocata in un territorio ben definito, aperta a questo, fatta di donne e uomini accomunati da un obiettivo. Il racconto del fare impresa anche in contesti diversi da quelli consueti, è quindi importante oltre che interessante da leggere. Lo è così anche “Rete locale e apertura globale: innovazione diffusa per la crescita dei territori”, ricerca scritta da Maria Chiara Cattaneo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore nell’ambito del Centro di ricerche in analisi economica e sviluppo economico internazionale.

“Il lavoro – viene subito spiegato – intende proporre riflessioni e approfondimenti sul tema della promozione dell’imprenditorialità al di fuori delle grandi aree metropolitane, nei contesti montani ed alpini, attraverso una rete diffusa a supporto dell’innovazione, dove si preveda anche coinvolgimento e inclusione comunitaria”. Impresa e innovazione in contesti diversi dal solito, dunque, ma utilizzando tutti gli strumenti a disposizione. Cattaneo spiega che anche così occorre tenere conto “di temi quali l’attrattività e le filiere di interesse per i territori, il mercato del lavoro e la formazione”.

La ricerca quindi focalizza la sua attenzione sull’arco alpino luogo di una “nuova attenzione ai territori da parte dei diversi livelli istituzionali” e in cui “coniugare innovazione, tutela e protezione dell’ambiente, mobilità e connettività diventa la via da seguire per superare confini locali e barriere settoriali”.

Il lavoro affronta il tema partendo da un riassunto delle proposte sul tavolo in tema di innovazione area alpina, per poi passare ad una descrizione prima dello scenario alpino e poi di quello italiano. Successivamente l’autrice valuta i diversi nodi d’azione più vicini all’ambiente alpino come quelli dell’ecoindustria, dei materiali avanzati, delle tecniche agricole. E’ da questa base che prende forma la proposta di innovazione d’impresa calibrata per un territorio alpino quasi sempre altro da quello industriale.

“Senza una partecipazione convinta delle Comunità in questi processi – è una delle conclusioni -, riuscire a costruire e consolidare sistemi attrattivi risulta più complesso mentre aumentano i rischi di marginalizzazione e frammentazione”. Un messaggio ripreso anche da Alberto Quadrio Curzio nella presentazione della ricerca quando scrive: “Fondamentale è il coinvolgimento del tessuto imprenditoriale, ma allo stesso tempo serve un’innovazione diffusa, articolata e messa in rete, secondo un approccio inclusivo, per costruire lo sviluppo; bisogna partire dalle vocazioni territoriali e dalle specificità per uno sviluppo di qualità, oltre particolarismi e frammentazioni, coniugando innovazione e sostenibilità”.

Rete locale e apertura globale: innovazione diffusa per la crescita dei territori

Maria Chiara Cattaneo

Centro di ricerche in analisi economica e sviluppo economico internazionale,

2017

Una indagine dell’Università Cattolica affronta il tema dell’innovazione e dell’organizzazione della produzione in un contesto diverso dal consueto

 

La cultura della buona produzione vale ovunque. E’ questione “genetica” che si applica ogni volta un’idea si voglia trasformare in un’impresa, collocata in un territorio ben definito, aperta a questo, fatta di donne e uomini accomunati da un obiettivo. Il racconto del fare impresa anche in contesti diversi da quelli consueti, è quindi importante oltre che interessante da leggere. Lo è così anche “Rete locale e apertura globale: innovazione diffusa per la crescita dei territori”, ricerca scritta da Maria Chiara Cattaneo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore nell’ambito del Centro di ricerche in analisi economica e sviluppo economico internazionale.

“Il lavoro – viene subito spiegato – intende proporre riflessioni e approfondimenti sul tema della promozione dell’imprenditorialità al di fuori delle grandi aree metropolitane, nei contesti montani ed alpini, attraverso una rete diffusa a supporto dell’innovazione, dove si preveda anche coinvolgimento e inclusione comunitaria”. Impresa e innovazione in contesti diversi dal solito, dunque, ma utilizzando tutti gli strumenti a disposizione. Cattaneo spiega che anche così occorre tenere conto “di temi quali l’attrattività e le filiere di interesse per i territori, il mercato del lavoro e la formazione”.

La ricerca quindi focalizza la sua attenzione sull’arco alpino luogo di una “nuova attenzione ai territori da parte dei diversi livelli istituzionali” e in cui “coniugare innovazione, tutela e protezione dell’ambiente, mobilità e connettività diventa la via da seguire per superare confini locali e barriere settoriali”.

Il lavoro affronta il tema partendo da un riassunto delle proposte sul tavolo in tema di innovazione area alpina, per poi passare ad una descrizione prima dello scenario alpino e poi di quello italiano. Successivamente l’autrice valuta i diversi nodi d’azione più vicini all’ambiente alpino come quelli dell’ecoindustria, dei materiali avanzati, delle tecniche agricole. E’ da questa base che prende forma la proposta di innovazione d’impresa calibrata per un territorio alpino quasi sempre altro da quello industriale.

“Senza una partecipazione convinta delle Comunità in questi processi – è una delle conclusioni -, riuscire a costruire e consolidare sistemi attrattivi risulta più complesso mentre aumentano i rischi di marginalizzazione e frammentazione”. Un messaggio ripreso anche da Alberto Quadrio Curzio nella presentazione della ricerca quando scrive: “Fondamentale è il coinvolgimento del tessuto imprenditoriale, ma allo stesso tempo serve un’innovazione diffusa, articolata e messa in rete, secondo un approccio inclusivo, per costruire lo sviluppo; bisogna partire dalle vocazioni territoriali e dalle specificità per uno sviluppo di qualità, oltre particolarismi e frammentazioni, coniugando innovazione e sostenibilità”.

Rete locale e apertura globale: innovazione diffusa per la crescita dei territori

Maria Chiara Cattaneo

Centro di ricerche in analisi economica e sviluppo economico internazionale,

2017

Imprenditori a tutto tondo

La fotografia di un’imprenditorialità intimamente legata al contesto nel quale agisce

Le indagini intorno all’imprenditore non sono ancora terminate. Ed è giusto che sia così. Essere imprenditori è cosa multiforme, una concreta avventura dello spirito, qualcosa di unico per alcuni, fonte di ricchezza per molti. E’ sempre un’attività che cambia a seconda dei soggetti e delle circostanze, della storia attorno, di quanto è accaduto prima e di quanto accade nello stesso istante dell’agire imprenditoriale.
Leggere “Imprenditorialità strategica: una nuova prospettiva” di Massimiliano Vesci da poco pubblicato, è una bella cosa da fare se si vuole capire di più e meglio dei legami fra la figura e l’agire imprenditoriale e il contesto. Il tratto dal quale il libro prende le mosse è la constatazione che stia “maturando oggi una generale crescente consapevolezza del potenziale impatto che il comportamento degli imprenditori ha, non solo sulla crescita economica, ma anche su molti altri aspetti della vita degli individui e della società nel suo complesso”. Figure importanti (sempre di più) quelle degli imprenditori dunque. Ma, è l’opinione di Vesci, occorre “(ri)pensare il modello di imprenditorialità, riconoscendo in aggiunta il ruolo del territorio (e delle comunità locali) nell’influenzare il modello di imprenditorialità stesso, soprattutto nel vasto contesto delle PMI”.
Territorio e agire d’impresa intimamente legati quindi, in un intreccio che va compreso a fondo, perché è da questo che oggi prende corpo l’importanza stessa dell’impresa.
Per affrontare questo complesso di temi, Vesci inizia dalla fotografia dell’imprenditorialità nel XXI secolo per poi passare a ragionare sulla trasformazione della figura dell’imprenditore da concetto solamente economico a qualcosa di più strategico non solo per l’organizzazione della produzione. Vesci quindi affronta il ruolo del territorio e poi quello dell’Humane Entrepreneurship quale “postura strategica imprenditoriale allargata”. E’ da questo concetto che Vesci delinea un ritratto nuovo di imprenditore come personaggio totalmente collegato al territorio, alle sue responsabilità e alla sostenibilità del suo agire.
Leggere quanto scritto da Massimiliano Vesci potrà certamente aggiungere qualcosa di buono all’idea che ognuno di noi ha dell’agire d’impresa.

Imprenditorialità strategica: una nuova prospettiva
Massimiliano Vesci
Giappichelli, giugno 2018

La fotografia di un’imprenditorialità intimamente legata al contesto nel quale agisce

Le indagini intorno all’imprenditore non sono ancora terminate. Ed è giusto che sia così. Essere imprenditori è cosa multiforme, una concreta avventura dello spirito, qualcosa di unico per alcuni, fonte di ricchezza per molti. E’ sempre un’attività che cambia a seconda dei soggetti e delle circostanze, della storia attorno, di quanto è accaduto prima e di quanto accade nello stesso istante dell’agire imprenditoriale.
Leggere “Imprenditorialità strategica: una nuova prospettiva” di Massimiliano Vesci da poco pubblicato, è una bella cosa da fare se si vuole capire di più e meglio dei legami fra la figura e l’agire imprenditoriale e il contesto. Il tratto dal quale il libro prende le mosse è la constatazione che stia “maturando oggi una generale crescente consapevolezza del potenziale impatto che il comportamento degli imprenditori ha, non solo sulla crescita economica, ma anche su molti altri aspetti della vita degli individui e della società nel suo complesso”. Figure importanti (sempre di più) quelle degli imprenditori dunque. Ma, è l’opinione di Vesci, occorre “(ri)pensare il modello di imprenditorialità, riconoscendo in aggiunta il ruolo del territorio (e delle comunità locali) nell’influenzare il modello di imprenditorialità stesso, soprattutto nel vasto contesto delle PMI”.
Territorio e agire d’impresa intimamente legati quindi, in un intreccio che va compreso a fondo, perché è da questo che oggi prende corpo l’importanza stessa dell’impresa.
Per affrontare questo complesso di temi, Vesci inizia dalla fotografia dell’imprenditorialità nel XXI secolo per poi passare a ragionare sulla trasformazione della figura dell’imprenditore da concetto solamente economico a qualcosa di più strategico non solo per l’organizzazione della produzione. Vesci quindi affronta il ruolo del territorio e poi quello dell’Humane Entrepreneurship quale “postura strategica imprenditoriale allargata”. E’ da questo concetto che Vesci delinea un ritratto nuovo di imprenditore come personaggio totalmente collegato al territorio, alle sue responsabilità e alla sostenibilità del suo agire.
Leggere quanto scritto da Massimiliano Vesci potrà certamente aggiungere qualcosa di buono all’idea che ognuno di noi ha dell’agire d’impresa.

Imprenditorialità strategica: una nuova prospettiva
Massimiliano Vesci
Giappichelli, giugno 2018

Le piazze hi tech di Milano e gli investimenti esteri: un esempio contro la retorica da “decrescita felice”

Una piazza, a Milano. Antica, nel ricordo dei milanesi più anziani, la Piazzetta Liberty con i suoi palazzi eleganti e i bar d’una volta. Ipercontemporanea, adesso, con la grande fontana in un prisma di vetro che si apre su una scalinata che porta al nuovo grande centro dell’Apple. Una sintesi straordinaria tra la tradizione europea e l’immagine che richiama New York. Milano si rinnova continuamente, città rotonda, accogliente, inclusiva. E i protagonisti sono la buona amministrazione pubblica che qualifica i luoghi e stimola le imprese, le multinazionali in rete con l’industria lombarda, i cittadini con un forte senso dell’innovazione. “Il mondo Apple nel negozio da archistar. Milano capitale della ‘app economy’”, si entusiasma Il Sole24Ore (25 luglio) insistendo sul progetto dello studio di Norman Foster e ricordando che tutta la filiera dell’economia delle app digitali dà lavoro a 25mila persone. E il sindaco Beppe Sala: “Da Apple alle periferie, così innoviamo Milano”, notando che la Siemens ha appena aperto il suo head quartier ai margini del Quartiere Adriano, periferia degradata e ricordando le tante altre novità urbanistiche da Porta Nuova a CityLife, dalla Bicocca allo Human Technopole e aspettando adesso l’inaugurazione del nuovo centro Starbucks in piazza Cordusio, uno dei maggiori investimenti del gruppo in Europa.

Ci sono più di 4.200 imprese estere, a Milano, con 208 miliardi di euro di fatturato, un terzo del totale italiano e lavoro per 431mila persone. E Assolombarda calcola che proprio grazie a queste presenze si possono fare confronti positivi tra Milano e le altre metropoli più dinamiche, da Chicago a Barcellona, da Monaco a Francoforte alle grandi Londra e Parigi.

Ecco il punto: Milano continua a crescere attirando capitali e intelligenze un po’ da tutto il mondo, nelle sue università, nelle imprese manifatturiere e dei servizi, nella straordinaria filiera delle life sciences (oramai un’eccellenza internazionale), nel settore immobiliare. E può fare da riferimento per tutto il resto del Paese e da locomotiva per la sua crescita, con respiro europeo. Non può chiudersi, dunque. Anzi, deve continuare a insistere sulla tradizione di città aperta. Come sanno bene tutti i suoi attori sociali, che guardano con fastidio le politiche attuali di protezionismo, sovranismo, scelte polemiche con la Ue (da riformare, certo, ma non da cercare irresponsabilmente di mettere di crisi e abbattere). Europa è parola cardine, del patrimonio culturale e ideale delle imprese. Su cui tenere ferma la barra del timone verso lo sviluppo.

Si pone qui, dunque, la questione essenziale della crescita o della decrescita. Equilibrata e sostenibile, la prima, secondo le condivisibili raccomandazioni di Papa Francesco e di buona parte della migliore letteratura economica e in linea con le scelte di competitività delle imprese più innovative e più attente alle questioni etiche e sociali dello sviluppo. Mai felice, invece, la seconda (con buona pace dei seguaci nostrani di Serge Latouche) e carica, semmai, di vincoli che portano verso un impoverimento complessivo. Una decrescita che – vale la pena aggiungere – si lega con l’ideologia dei “no” (alla Tav, ai metanodotti, alla Pedemontana e al Terzo Valico che dovrebbe finalmente collegare il porto di Genova alle regioni padane più produttive e all’Europa, alle opere pubbliche, alle infrastrutture, alla modernizzazione del nostro Paese), ha il sapore del provincialismo egoistico che la pubblicistica anglosassone da tempo chiama “nimby” (not in my backyard, non nel retro del mio cortile, cioè) e, ostile alle culture del mercato e dell’impresa, sembra sempre più inclinare verso la passione per il posto pubblico (sondaggio Swg-Corriere della Sera, 18 luglio).

Il problema è che la ricchezza, per poterla redistribuire, va prima prodotta, proprio grazie all’impegno di imprese e lavoratori. Ed è da quella stessa ricchezza che, attraverso le tasse, derivano le risorse per pagare anche gli stipendi dei lavoratori pubblici. Nozioni ovvie, naturalmente. Ma che val la pena ripetere, in tempi di crescente ignoranza economica e scientifica, di illusioni che esista un ideologico “paese dei balocchi”.

Le imprese, creatrici di ricchezza, lavoro, benessere e anche welfare (lo documentano anche molti dei recenti contratti di lavoro, di categoria e integrativi aziendali, di cui abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana) tornano così in primo piano. E hanno ragione quando in Veneto (terra di piccoli e medi imprenditori, non di grandi gruppi multinazionali) protestano in massa contro i nuovi vincoli sul lavoro del decreto cosiddetto “dignità”, raccogliendo l’ascolto attento del governatore della Regione Luca Zaia, leghista, inquieto per un elettorato che ha sempre considerato la Lega vicina al mondo produttivo e adesso assiste sgomento alle derive anti-industrialiste del M5S in ruoli chiave di governo.

La proteste del Veneto non è naturalmente un caso regionale isolato. In Lombardia c’è l’allarme sul clima anti-imprese del presidente di Assolombarda Carlo Bonomi e del presidente di Confindustria Lombardia Marco Bonometti (metalmeccanico di Brescia, terra di piccole e medie imprese dinamiche e aperte al mondo). In Piemonte, emergono le preoccupazioni di Dario Gallina, presidente degli industriali di Torino: “I primi provvedimenti del governo sono all’insegna degli impulsi anti-industriali”.

Si fa sentire, insomma, la parte essenziale di quello che da qualche tempo viene definito “il partito del Pil” (la brillante definizione è di Dario Di Vico, sul Corriere della Sera): Confindustrie, banche, commercianti, istituzioni finanziarie e, istituzioni di rappresentanza a parte, tutto il variegato e complesso mondo delle imprese che in questi anni difficili hanno saputo reagire alla Grande Crisi e hanno investito, innovato, conquistato spazio per l’export e gli investimenti all’estero, affrontato con un certo successo anche le difficilissime sfide della trasformazione digitale dell’economia, la svolta di Industry4.0 (ben sostenuto anche da intelligenti sostegni fiscali dei governi prima di centro destra e poi di centro sinistra). È un mondo denso di intelligenza, creatività, spirito d’intraprendenza ma anche solidi umori civili di comunità e di inclusione. Che ha tutto il diritto di essere ascoltato e tenuto in attenta considerazione. Un mondo che merita sia riconosciuta, apprezzata e sostenuta la sua “dignità”

Una piazza, a Milano. Antica, nel ricordo dei milanesi più anziani, la Piazzetta Liberty con i suoi palazzi eleganti e i bar d’una volta. Ipercontemporanea, adesso, con la grande fontana in un prisma di vetro che si apre su una scalinata che porta al nuovo grande centro dell’Apple. Una sintesi straordinaria tra la tradizione europea e l’immagine che richiama New York. Milano si rinnova continuamente, città rotonda, accogliente, inclusiva. E i protagonisti sono la buona amministrazione pubblica che qualifica i luoghi e stimola le imprese, le multinazionali in rete con l’industria lombarda, i cittadini con un forte senso dell’innovazione. “Il mondo Apple nel negozio da archistar. Milano capitale della ‘app economy’”, si entusiasma Il Sole24Ore (25 luglio) insistendo sul progetto dello studio di Norman Foster e ricordando che tutta la filiera dell’economia delle app digitali dà lavoro a 25mila persone. E il sindaco Beppe Sala: “Da Apple alle periferie, così innoviamo Milano”, notando che la Siemens ha appena aperto il suo head quartier ai margini del Quartiere Adriano, periferia degradata e ricordando le tante altre novità urbanistiche da Porta Nuova a CityLife, dalla Bicocca allo Human Technopole e aspettando adesso l’inaugurazione del nuovo centro Starbucks in piazza Cordusio, uno dei maggiori investimenti del gruppo in Europa.

Ci sono più di 4.200 imprese estere, a Milano, con 208 miliardi di euro di fatturato, un terzo del totale italiano e lavoro per 431mila persone. E Assolombarda calcola che proprio grazie a queste presenze si possono fare confronti positivi tra Milano e le altre metropoli più dinamiche, da Chicago a Barcellona, da Monaco a Francoforte alle grandi Londra e Parigi.

Ecco il punto: Milano continua a crescere attirando capitali e intelligenze un po’ da tutto il mondo, nelle sue università, nelle imprese manifatturiere e dei servizi, nella straordinaria filiera delle life sciences (oramai un’eccellenza internazionale), nel settore immobiliare. E può fare da riferimento per tutto il resto del Paese e da locomotiva per la sua crescita, con respiro europeo. Non può chiudersi, dunque. Anzi, deve continuare a insistere sulla tradizione di città aperta. Come sanno bene tutti i suoi attori sociali, che guardano con fastidio le politiche attuali di protezionismo, sovranismo, scelte polemiche con la Ue (da riformare, certo, ma non da cercare irresponsabilmente di mettere di crisi e abbattere). Europa è parola cardine, del patrimonio culturale e ideale delle imprese. Su cui tenere ferma la barra del timone verso lo sviluppo.

Si pone qui, dunque, la questione essenziale della crescita o della decrescita. Equilibrata e sostenibile, la prima, secondo le condivisibili raccomandazioni di Papa Francesco e di buona parte della migliore letteratura economica e in linea con le scelte di competitività delle imprese più innovative e più attente alle questioni etiche e sociali dello sviluppo. Mai felice, invece, la seconda (con buona pace dei seguaci nostrani di Serge Latouche) e carica, semmai, di vincoli che portano verso un impoverimento complessivo. Una decrescita che – vale la pena aggiungere – si lega con l’ideologia dei “no” (alla Tav, ai metanodotti, alla Pedemontana e al Terzo Valico che dovrebbe finalmente collegare il porto di Genova alle regioni padane più produttive e all’Europa, alle opere pubbliche, alle infrastrutture, alla modernizzazione del nostro Paese), ha il sapore del provincialismo egoistico che la pubblicistica anglosassone da tempo chiama “nimby” (not in my backyard, non nel retro del mio cortile, cioè) e, ostile alle culture del mercato e dell’impresa, sembra sempre più inclinare verso la passione per il posto pubblico (sondaggio Swg-Corriere della Sera, 18 luglio).

Il problema è che la ricchezza, per poterla redistribuire, va prima prodotta, proprio grazie all’impegno di imprese e lavoratori. Ed è da quella stessa ricchezza che, attraverso le tasse, derivano le risorse per pagare anche gli stipendi dei lavoratori pubblici. Nozioni ovvie, naturalmente. Ma che val la pena ripetere, in tempi di crescente ignoranza economica e scientifica, di illusioni che esista un ideologico “paese dei balocchi”.

Le imprese, creatrici di ricchezza, lavoro, benessere e anche welfare (lo documentano anche molti dei recenti contratti di lavoro, di categoria e integrativi aziendali, di cui abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana) tornano così in primo piano. E hanno ragione quando in Veneto (terra di piccoli e medi imprenditori, non di grandi gruppi multinazionali) protestano in massa contro i nuovi vincoli sul lavoro del decreto cosiddetto “dignità”, raccogliendo l’ascolto attento del governatore della Regione Luca Zaia, leghista, inquieto per un elettorato che ha sempre considerato la Lega vicina al mondo produttivo e adesso assiste sgomento alle derive anti-industrialiste del M5S in ruoli chiave di governo.

La proteste del Veneto non è naturalmente un caso regionale isolato. In Lombardia c’è l’allarme sul clima anti-imprese del presidente di Assolombarda Carlo Bonomi e del presidente di Confindustria Lombardia Marco Bonometti (metalmeccanico di Brescia, terra di piccole e medie imprese dinamiche e aperte al mondo). In Piemonte, emergono le preoccupazioni di Dario Gallina, presidente degli industriali di Torino: “I primi provvedimenti del governo sono all’insegna degli impulsi anti-industriali”.

Si fa sentire, insomma, la parte essenziale di quello che da qualche tempo viene definito “il partito del Pil” (la brillante definizione è di Dario Di Vico, sul Corriere della Sera): Confindustrie, banche, commercianti, istituzioni finanziarie e, istituzioni di rappresentanza a parte, tutto il variegato e complesso mondo delle imprese che in questi anni difficili hanno saputo reagire alla Grande Crisi e hanno investito, innovato, conquistato spazio per l’export e gli investimenti all’estero, affrontato con un certo successo anche le difficilissime sfide della trasformazione digitale dell’economia, la svolta di Industry4.0 (ben sostenuto anche da intelligenti sostegni fiscali dei governi prima di centro destra e poi di centro sinistra). È un mondo denso di intelligenza, creatività, spirito d’intraprendenza ma anche solidi umori civili di comunità e di inclusione. Che ha tutto il diritto di essere ascoltato e tenuto in attenta considerazione. Un mondo che merita sia riconosciuta, apprezzata e sostenuta la sua “dignità”

“Fatti e Notizie” tra Varietà e Canzoni

Luglio 1971: l’house organ Pirelli “Fatti e Notizie” ha assunto da un paio di mesi il grande formato tipico dei periodici del tempo. E proprio nel mese di luglio esordisce la rubrica Varietà: canzoni, tv, star system canoro, il Festival di Sanremo e “Canzonissima”. La prima “intervista semi-seria” della rubrica Varietà del luglio di 47 anni fa è dedicata a Virginia Ann Minoprio, in arte Minnie, una soubrette che i meno giovani non possono dimenticare, in coppia con Fred Bongusto nella sigla finale di Speciale per noi andato in onda in tv tra gennaio e febbraio di quell’anno. Ballerina professionista nata il 4 luglio del 1942 a Ware, poco fuori Londra, Minnie Minoprio è una scoperta di Walter Chiari, che in Inghilterra cercava talenti per il musical Io e la margherita. A quasi trent’anni, la Minoprio ha già fatto carriera tra musical, film, pubblicità, tv del sabato sera. Ma gli italiani la ricorderanno sempre per la sua performance con Fred Bongusto, sulle note di Quando mi dici così.

Non possiamo poi non citare la protagonista della rubrica Varietà di settembre 1971: Nicoletta Strambelli in arte Patty Pravo. Dopo tanto tempo, non sappiamo se le interviste di Varietà fossero vere o costruite a tavolino: la Patty Pravo che parla di sé a tutta pagina 19, però, è proprio come la immaginavamo. Dai giudizi sulle colleghe cantanti, alla scarsa stima nei confronti dei giornalisti, al rapporto ambivalente con il pubblico fino a rivelazioni sulla propria vita privata che nel 1971 non erano del tutto scontate. La pagina Varietà di “Fatti e Notizie” continua fino a luglio del 1972: dopo i ritratti di altre regine della canzone italiana come Mina e Ornella Vanoni, la rubrica con il passare del tempo si orienta sempre più verso gli attori. Ma la musica non lascia il periodico aziendale: a Varietà si affianca fin da subito la rubrica Canzoni: un panorama completo dell’Italia che canta, ascolta i 45 giri, segue “Cantagiro” e “Festivalbar” e soprattutto non si perde una parola del gossip canoro. Rita Pavone sta vivendo problemi familiari? La popolarità di Nada è in ribasso? Gianni Morandi diserterà anche il Festival di Sanremo del ’72?

Come Varietà, anche Canzoni esordisce sul numero di luglio 1971 di “Fatti e Notizie”. Il tema è l’insuccesso del “Cantagiro” di quell’anno, con Aretha Franklin e i Led Zeppelin, che hanno infiammato il pubblico del Vigorelli fino all’intervento della Polizia. L’ultimo Canzoni a ottobre 1972: è l’intervista a tal Cristiano Rossi, venticinquenne palermitano residente con la famiglia a Milano, ex giocatore del Palermo e del Mantova. Qualche anno prima, Mina l’ha sentito cantare e l’ha convinto non solo ad “appendere le scarpe al chiodo”, ma anche a partecipare a “Settevocidi Pippo Baudo con il nome d’arte di Christian. Nel 1972 canta la sigla del programma televisivo “Chissà chi lo sa”. “I tuoi progetti futuri?” “Tante serate, poi il Festival di Sanremo e un viaggio in Giappone per una tournée. Non ho più un giorno libero fino alla prossima estate”.

Luglio 1971: l’house organ Pirelli “Fatti e Notizie” ha assunto da un paio di mesi il grande formato tipico dei periodici del tempo. E proprio nel mese di luglio esordisce la rubrica Varietà: canzoni, tv, star system canoro, il Festival di Sanremo e “Canzonissima”. La prima “intervista semi-seria” della rubrica Varietà del luglio di 47 anni fa è dedicata a Virginia Ann Minoprio, in arte Minnie, una soubrette che i meno giovani non possono dimenticare, in coppia con Fred Bongusto nella sigla finale di Speciale per noi andato in onda in tv tra gennaio e febbraio di quell’anno. Ballerina professionista nata il 4 luglio del 1942 a Ware, poco fuori Londra, Minnie Minoprio è una scoperta di Walter Chiari, che in Inghilterra cercava talenti per il musical Io e la margherita. A quasi trent’anni, la Minoprio ha già fatto carriera tra musical, film, pubblicità, tv del sabato sera. Ma gli italiani la ricorderanno sempre per la sua performance con Fred Bongusto, sulle note di Quando mi dici così.

Non possiamo poi non citare la protagonista della rubrica Varietà di settembre 1971: Nicoletta Strambelli in arte Patty Pravo. Dopo tanto tempo, non sappiamo se le interviste di Varietà fossero vere o costruite a tavolino: la Patty Pravo che parla di sé a tutta pagina 19, però, è proprio come la immaginavamo. Dai giudizi sulle colleghe cantanti, alla scarsa stima nei confronti dei giornalisti, al rapporto ambivalente con il pubblico fino a rivelazioni sulla propria vita privata che nel 1971 non erano del tutto scontate. La pagina Varietà di “Fatti e Notizie” continua fino a luglio del 1972: dopo i ritratti di altre regine della canzone italiana come Mina e Ornella Vanoni, la rubrica con il passare del tempo si orienta sempre più verso gli attori. Ma la musica non lascia il periodico aziendale: a Varietà si affianca fin da subito la rubrica Canzoni: un panorama completo dell’Italia che canta, ascolta i 45 giri, segue “Cantagiro” e “Festivalbar” e soprattutto non si perde una parola del gossip canoro. Rita Pavone sta vivendo problemi familiari? La popolarità di Nada è in ribasso? Gianni Morandi diserterà anche il Festival di Sanremo del ’72?

Come Varietà, anche Canzoni esordisce sul numero di luglio 1971 di “Fatti e Notizie”. Il tema è l’insuccesso del “Cantagiro” di quell’anno, con Aretha Franklin e i Led Zeppelin, che hanno infiammato il pubblico del Vigorelli fino all’intervento della Polizia. L’ultimo Canzoni a ottobre 1972: è l’intervista a tal Cristiano Rossi, venticinquenne palermitano residente con la famiglia a Milano, ex giocatore del Palermo e del Mantova. Qualche anno prima, Mina l’ha sentito cantare e l’ha convinto non solo ad “appendere le scarpe al chiodo”, ma anche a partecipare a “Settevocidi Pippo Baudo con il nome d’arte di Christian. Nel 1972 canta la sigla del programma televisivo “Chissà chi lo sa”. “I tuoi progetti futuri?” “Tante serate, poi il Festival di Sanremo e un viaggio in Giappone per una tournée. Non ho più un giorno libero fino alla prossima estate”.

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Imprese e sindacati protagonisti di sviluppo e welfare con i nuovi contratti nazionali (chimici) e aziendali (Ferrero)

L’economia italiana vive soprattutto nelle fabbriche. Altrove, arranca. Dalla manifattura viene la spinta all’export, motore determinante della crescita (che adesso accusa segni di debolezza, anche per le tensioni dei commerci internazionali, condizionati negativamente dalle ondate di protezionismo che hanno nel presidente Usa Trump il principale responsabile). Dai settori industriali arrivano le maggiori e migliori novità in termini di relazioni industriali, redditi, lavoro, welfare e dunque benessere diffuso. Dalle imprese chimiche e della gomma, dalla meccatronica e dagli stabilimenti della componentistica automotive s’affermano sulla scena economica e sociale le innovazioni che dicono che, nonostante tutto, l’Italia è un paese in trasformazione, in movimento. Mai dimenticarle, insomma, le fabbriche.

Una conferma dell’innovazione arriva dal nuovo contratto dei lavoratori della chimica e della farmaceutica, firmato giovedì 19 luglio da Federchimica e Farmindustria e dai sindacati di categoria Cgil, Cisl e Uil: aumento di 97 euro sul trattamento minimo a parte, le novità maggiori riguardano la possibilità di usare il premio di produzione per ridurre gli orari e conciliare meglio vita e lavoro, le opportunità di formazione per stare al passo con le innovazioni produttive, i sostegni per favorire la staffetta generazionali tra anziani che diminuiscono l’impegno di lavoro e cedono gradualmente il passo ai giovani, cui fanno da tutor (con un fondo per le pensioni anticipate). E ancora misure sui temi della sicurezza, dell’ambiente, dell’organizzazione del lavoro e del welfare aziendale. Non un contratto “economicista”, dunque, ma uno strumento di nuove e migliori relazioni industriali, con sguardo sulla fabbrica e oltre i confini delle fabbrica.

Il contratto è stato chiuso senza un’ora di sciopero e con sei mesi d’anticipo sulla sua scadenza. “Abbiamo voluto dare un segnale di coesione tra imprese e lavoratori e, nello stesso tempo, di visione del futuro”, sintetizza Paolo Pirani, segretario dei chimici della Uil, uno dei migliori sindacalisti italiani. Con un messaggio politico forte, che Pirani sintetizza: “Invece di occuparsi di finte emergenze come l’arrivo dei barconi, chi governa dovrebbe affrontare i problemi veri. Il consolidamento di questa ripresa economica fragilissima. La definizione di una politica industriale che ci porti nell’era del digitale mantenendoci competitivi sui mercati internazionali” (Corriere della Sera, 22 luglio).

Ecco il punto: imprese e sindacati proprio con i contratti, a livello nazionale e aziendale, mostrano concretamente la propria capacità di essere attori sociali dello sviluppo, rivendicano un ruolo da protagonisti di cui tenere conto quando si parla di lavoro, investimenti, ricerca, sviluppo e welfare. Non per concertazioni formali. Ma per poter pesare, con competenza e senso di responsabilità, sulle scelte fondamentali per il futuro dell’Italia. Con concretezza. Senza retorica né velleità.

Una indicazione in tal senso era già venuta, con altri governi, un paio d’anni fa, nel novembre 2016, con la firma del contratto di lavoro dei metalmeccanici, settore d’avanguardia per tutte le relazioni industriali (innovazione, formazione, welfare aziendale, premi sui salari legati al miglioramento della produttività). Da allora si è andati avanti, sulla strada della maggiore e migliore competitività.

Oggi, chimici a parte, altro si deve registrare in termini di buone relazioni industriali. I contratti degli edili. E quello dei dipendenti delle aziende di commercio aderenti alla Confesercenti. E i contratti integrativi alla Lamborghini-Audi e soprattutto alla Ferrero di Alba (esemplare: oltre 9mila euro di premio in quattro anni, maggiore flessibilità con lo smart working, maggior tempo libero per stare con i figli, migliori servizi di welfare aziendale). Sono tutti segni importanti “di una vitalità delle forze della rappresentanza sociale”, nota giustamente Dario Di Vico sul Corriere della Sera (21 luglio), come una sorta di monito al governo che con il cosiddetto Decreto Dignità sta intervenendo pesantemente sulla disciplina dei rapporti di lavoro (“Una trasformazione epocale che non si governa a colpi di leggi e con le categorie del Novecento industriale”, sostiene Michele Tiraboschi, autorevole giuslavorista; e Maurizio Ferrera, economista di gran prestigio: “Decreto dignità: miopia sul lavoro precario”). Un governo, inoltre, che su alcune partite chiave di politica industriale (il futuro dell’Ilva e dell’industria italiana dell’acciaio) non mostra affatto d’avere  chiarezza di idee e di progetti.

Non si tratta, dunque, di insistere sulle contrapposizioni tra governo e Confindustria, in uno scontro mediatico di scarso interesse. Ma di saper guardare con competenza e intelligenza alle trasformazioni economiche e sociali e di rafforzare le leve fondamenti dello sviluppo. L’industria, appunto. Valga, tra le tante voci, quella di Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda, la più grande associazione territoriale di Confindustria: “Non c’è una visione industriale, il pericolo è un neo-dirigismo” (IlSole24Ore, 21 luglio).

Bonomi è preoccupato per le sorti dell’Ilva, per le tentazioni di usare la Cassa Depositi e Prestiti (il risparmio di milioni di italiani) per cercare di risolvere crisi industriali con i vecchi strumenti della nazionalizzazione, per un clima anti-impresa diffuso. Rivendica il ruolo responsabile delle parti sociali, in un dialogo costruttivo con il governo, fatto da proposte e progetti. E aggiunge: “Non capisco la visione industriale del governo, che deve trovare per il bene della manifattura italiana una sintesi tra le pulsioni anti-industriali dei Cinque Stelle e la cultura produttivistica della Lega, che governando pezzi del Nord da 25 anni conosce le esigenze del ciclo della manifattura”.

L’ondata dei nuovi contratti, di categoria e aziendali, di cui abbiamo parlato, mostrano che imprese e sindacati sanno guardare, contemporaneamente, agli interessi delle parti economiche e a quelli generali di sviluppo dell’Italia, come grande paese europeo aperto, dinamico, competitivo. Sarebbe il caso che la politica sapesse tenerne ben conto.

L’economia italiana vive soprattutto nelle fabbriche. Altrove, arranca. Dalla manifattura viene la spinta all’export, motore determinante della crescita (che adesso accusa segni di debolezza, anche per le tensioni dei commerci internazionali, condizionati negativamente dalle ondate di protezionismo che hanno nel presidente Usa Trump il principale responsabile). Dai settori industriali arrivano le maggiori e migliori novità in termini di relazioni industriali, redditi, lavoro, welfare e dunque benessere diffuso. Dalle imprese chimiche e della gomma, dalla meccatronica e dagli stabilimenti della componentistica automotive s’affermano sulla scena economica e sociale le innovazioni che dicono che, nonostante tutto, l’Italia è un paese in trasformazione, in movimento. Mai dimenticarle, insomma, le fabbriche.

Una conferma dell’innovazione arriva dal nuovo contratto dei lavoratori della chimica e della farmaceutica, firmato giovedì 19 luglio da Federchimica e Farmindustria e dai sindacati di categoria Cgil, Cisl e Uil: aumento di 97 euro sul trattamento minimo a parte, le novità maggiori riguardano la possibilità di usare il premio di produzione per ridurre gli orari e conciliare meglio vita e lavoro, le opportunità di formazione per stare al passo con le innovazioni produttive, i sostegni per favorire la staffetta generazionali tra anziani che diminuiscono l’impegno di lavoro e cedono gradualmente il passo ai giovani, cui fanno da tutor (con un fondo per le pensioni anticipate). E ancora misure sui temi della sicurezza, dell’ambiente, dell’organizzazione del lavoro e del welfare aziendale. Non un contratto “economicista”, dunque, ma uno strumento di nuove e migliori relazioni industriali, con sguardo sulla fabbrica e oltre i confini delle fabbrica.

Il contratto è stato chiuso senza un’ora di sciopero e con sei mesi d’anticipo sulla sua scadenza. “Abbiamo voluto dare un segnale di coesione tra imprese e lavoratori e, nello stesso tempo, di visione del futuro”, sintetizza Paolo Pirani, segretario dei chimici della Uil, uno dei migliori sindacalisti italiani. Con un messaggio politico forte, che Pirani sintetizza: “Invece di occuparsi di finte emergenze come l’arrivo dei barconi, chi governa dovrebbe affrontare i problemi veri. Il consolidamento di questa ripresa economica fragilissima. La definizione di una politica industriale che ci porti nell’era del digitale mantenendoci competitivi sui mercati internazionali” (Corriere della Sera, 22 luglio).

Ecco il punto: imprese e sindacati proprio con i contratti, a livello nazionale e aziendale, mostrano concretamente la propria capacità di essere attori sociali dello sviluppo, rivendicano un ruolo da protagonisti di cui tenere conto quando si parla di lavoro, investimenti, ricerca, sviluppo e welfare. Non per concertazioni formali. Ma per poter pesare, con competenza e senso di responsabilità, sulle scelte fondamentali per il futuro dell’Italia. Con concretezza. Senza retorica né velleità.

Una indicazione in tal senso era già venuta, con altri governi, un paio d’anni fa, nel novembre 2016, con la firma del contratto di lavoro dei metalmeccanici, settore d’avanguardia per tutte le relazioni industriali (innovazione, formazione, welfare aziendale, premi sui salari legati al miglioramento della produttività). Da allora si è andati avanti, sulla strada della maggiore e migliore competitività.

Oggi, chimici a parte, altro si deve registrare in termini di buone relazioni industriali. I contratti degli edili. E quello dei dipendenti delle aziende di commercio aderenti alla Confesercenti. E i contratti integrativi alla Lamborghini-Audi e soprattutto alla Ferrero di Alba (esemplare: oltre 9mila euro di premio in quattro anni, maggiore flessibilità con lo smart working, maggior tempo libero per stare con i figli, migliori servizi di welfare aziendale). Sono tutti segni importanti “di una vitalità delle forze della rappresentanza sociale”, nota giustamente Dario Di Vico sul Corriere della Sera (21 luglio), come una sorta di monito al governo che con il cosiddetto Decreto Dignità sta intervenendo pesantemente sulla disciplina dei rapporti di lavoro (“Una trasformazione epocale che non si governa a colpi di leggi e con le categorie del Novecento industriale”, sostiene Michele Tiraboschi, autorevole giuslavorista; e Maurizio Ferrera, economista di gran prestigio: “Decreto dignità: miopia sul lavoro precario”). Un governo, inoltre, che su alcune partite chiave di politica industriale (il futuro dell’Ilva e dell’industria italiana dell’acciaio) non mostra affatto d’avere  chiarezza di idee e di progetti.

Non si tratta, dunque, di insistere sulle contrapposizioni tra governo e Confindustria, in uno scontro mediatico di scarso interesse. Ma di saper guardare con competenza e intelligenza alle trasformazioni economiche e sociali e di rafforzare le leve fondamenti dello sviluppo. L’industria, appunto. Valga, tra le tante voci, quella di Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda, la più grande associazione territoriale di Confindustria: “Non c’è una visione industriale, il pericolo è un neo-dirigismo” (IlSole24Ore, 21 luglio).

Bonomi è preoccupato per le sorti dell’Ilva, per le tentazioni di usare la Cassa Depositi e Prestiti (il risparmio di milioni di italiani) per cercare di risolvere crisi industriali con i vecchi strumenti della nazionalizzazione, per un clima anti-impresa diffuso. Rivendica il ruolo responsabile delle parti sociali, in un dialogo costruttivo con il governo, fatto da proposte e progetti. E aggiunge: “Non capisco la visione industriale del governo, che deve trovare per il bene della manifattura italiana una sintesi tra le pulsioni anti-industriali dei Cinque Stelle e la cultura produttivistica della Lega, che governando pezzi del Nord da 25 anni conosce le esigenze del ciclo della manifattura”.

L’ondata dei nuovi contratti, di categoria e aziendali, di cui abbiamo parlato, mostrano che imprese e sindacati sanno guardare, contemporaneamente, agli interessi delle parti economiche e a quelli generali di sviluppo dell’Italia, come grande paese europeo aperto, dinamico, competitivo. Sarebbe il caso che la politica sapesse tenerne ben conto.

Quale futuro?

Il Rapporto del Centro Einaudi scatta l’istantanea del presente per indicare cosa occorre fare dopo

 

Imprese nella tempesta eppure capaci di resistere (non tutte), ai marosi. Forti di organizzazioni varie, culture diverse, uomini e donne impegnate nell’intento di resistere e arrivare in porto. Perché oltre la crisi congiunturale (seppure lunga), c’è sempre un futuro. È anche questo il messaggio che spesso arriva nel sistema della produzione nazionale e internazionale. Comprendere la realtà entro la quale ci si muove, è ancora una volta essenziale. Per questo serve leggere “Un futuro da costruire bene” il XXII Rapporto sull’economia globale e l’Italia predisposto dal Centro Einaudi di Torino.

Il libro è come sempre scritto a più mani e curato da Mario Deaglio insieme a Giorgio Arfaras, Anna Caffarena, Gabriele Guggiola, Paolo Migliavacca, Giuseppe Russo e Giorgio Vernoni e parte da una serie di considerazioni che emergono dalla situazione internazionale oltre che italiana del 2017. Ad iniziare dalla globalizzazione che – spiegano gli autori –, pare in ritirata in un mondo “in pezzi”, per passare alla presidenza Trump che “galleggia fra colpi di scena e promesse difficili da realizzare”, per arrivare alle “fucine di instabilità” che si sono aperte dal Medio Oriente alla Corea. E senza dimenticare l’Europa in cerca un futuro e l’Italia che – nel 2017 –, si trova di fronte alle elezioni, ma con la congiuntura finalmente al giro di boa.

I contributi degli autori si dividono quindi in una parte dedicata ad una serie di approfondimenti della situazione internazionale (politica ed economica) per poi passare all’approfondimento delle condizioni dell’Italia.

La conclusione degli autori è che il 2017 è stato certamente un anno “convulso”, in cui tutto è stato in movimento, dalla società al clima. Una situazione di fronte alla quale anche l’obiettivo della sostenibilità dello sviluppo pare stia divenendo incerta. Secondo il Rapporto quindi occorre esplorare nuove vie, come l’economia circolare, per costruire un futuro “buono”. Senza dimenticare la necessità di accelerare sull’innovazione.

La fatica letteraria di Deaglio e dei suoi colleghi non è una lettura da fare distrattamente, e contiene forse anche passaggi sui quali non tutti possono essere d’accordo, ma è certamente una lettura obbligatoria per chi vuole rendersi davvero conto del sistema entro il quale agisce.

Un futuro da costruire bene. XXII Rapporto sull’economia globale e l’Italia

Deaglio Mario (a cura di)

Gierini, 2018

Il Rapporto del Centro Einaudi scatta l’istantanea del presente per indicare cosa occorre fare dopo

 

Imprese nella tempesta eppure capaci di resistere (non tutte), ai marosi. Forti di organizzazioni varie, culture diverse, uomini e donne impegnate nell’intento di resistere e arrivare in porto. Perché oltre la crisi congiunturale (seppure lunga), c’è sempre un futuro. È anche questo il messaggio che spesso arriva nel sistema della produzione nazionale e internazionale. Comprendere la realtà entro la quale ci si muove, è ancora una volta essenziale. Per questo serve leggere “Un futuro da costruire bene” il XXII Rapporto sull’economia globale e l’Italia predisposto dal Centro Einaudi di Torino.

Il libro è come sempre scritto a più mani e curato da Mario Deaglio insieme a Giorgio Arfaras, Anna Caffarena, Gabriele Guggiola, Paolo Migliavacca, Giuseppe Russo e Giorgio Vernoni e parte da una serie di considerazioni che emergono dalla situazione internazionale oltre che italiana del 2017. Ad iniziare dalla globalizzazione che – spiegano gli autori –, pare in ritirata in un mondo “in pezzi”, per passare alla presidenza Trump che “galleggia fra colpi di scena e promesse difficili da realizzare”, per arrivare alle “fucine di instabilità” che si sono aperte dal Medio Oriente alla Corea. E senza dimenticare l’Europa in cerca un futuro e l’Italia che – nel 2017 –, si trova di fronte alle elezioni, ma con la congiuntura finalmente al giro di boa.

I contributi degli autori si dividono quindi in una parte dedicata ad una serie di approfondimenti della situazione internazionale (politica ed economica) per poi passare all’approfondimento delle condizioni dell’Italia.

La conclusione degli autori è che il 2017 è stato certamente un anno “convulso”, in cui tutto è stato in movimento, dalla società al clima. Una situazione di fronte alla quale anche l’obiettivo della sostenibilità dello sviluppo pare stia divenendo incerta. Secondo il Rapporto quindi occorre esplorare nuove vie, come l’economia circolare, per costruire un futuro “buono”. Senza dimenticare la necessità di accelerare sull’innovazione.

La fatica letteraria di Deaglio e dei suoi colleghi non è una lettura da fare distrattamente, e contiene forse anche passaggi sui quali non tutti possono essere d’accordo, ma è certamente una lettura obbligatoria per chi vuole rendersi davvero conto del sistema entro il quale agisce.

Un futuro da costruire bene. XXII Rapporto sull’economia globale e l’Italia

Deaglio Mario (a cura di)

Gierini, 2018

Risposte diverse a domande uguali

Le imprese reagiscono in modo differente alle stesse sollecitazioni esterne. Una ricerca dell’Università di Parma  lo racconta

Ogni impresa risponde alle crisi e alle difficoltà di mercato a suo modo. Questione di organizzazione della produzione e delle persone, questione di cultura del produrre che può avere una stessa impronta ma che si declina in modi diversi. I comportamenti dei singoli imprenditori, poi, si riversano tutti nelle statistiche generali. Che danno il senso del tutto.

Proprio sul senso del tutto – e quindi sulla sintesi del comportamento di un intero sistema economico – si è esercitata una indagine di Alessandro Arrighetti e Fabio Landini dell’Università di Parma, Dipartimento di Scienze economiche e aziendali.

“Eterogeneità delle imprese e stagnazione del capitalismo italiano” offre una interpretazione diversa di quella che è stata indicata come la “stagnazione della produttività nel manifatturiero italiano tra gli anni Novanta e la Grande Recessione”.

Frutto del comportamento dei singoli grandi e piccoli imprenditori, il comportamento del Paese – è la tesi dei due ricercatori -, non è stato omogeneo e, anzi, è frutto di situazioni opposte, non tutte negative. “Contrariamente ad un’opinione diffusa che vuole l’Italia affetta da un declino della produttività uniforme e difficile da arrestare – spiegano infatti Arrighetti e Landini -, questo lavoro suggerisce che l’effettiva stagnazione della produttività aggregata sia in realtà la risultante di un effetto composizione tra le performance di gruppi di imprese molto diversi”.

La ricerca si dipana quindi da un inquadramento della letteratura a disposizione e dal disegno dello scenario generale, per arrivare allo studio empirico basato su due campioni diversi: 5.445 imprese selezionate da una base di dati sviluppata da ISTAT e un campione di 3.130 unità produttive costruito per la terza Community Innovation Survey (CIS3) (triennio 1998-2000).

Il risultato di tutto questo è l’individuazione di un gruppo di imprese (circa il 20% del totale) capaci di adottare “strategie proattive” volte a migliorare il livello qualitativo e l’efficienza delle produzioni; un altro gruppo (circa il 38%) che hanno scelto la compressione dei costi, riducendo sensibilmente gli investimenti in capitale fisico e capitale umano e, infine, un terzo gruppo (il restante 42%) che ha adottato orientamenti strategici misti caratterizzati da interventi, parziali, incompleti o poco coerenti tra loro. E’ da questa realtà che si delinea la sintesi dell’Italia industriale di fronte alla crisi.

Lo studio di Arrighetti e Landini è certamente da leggere con attenzione e non è sempre di facile lettura: ma è una buona chiave di lettura di una realtà che va analizza a fondo per non essere fraintesa.

Eterogeneità delle imprese e stagnazione del capitalismo italiano

Alessandro Arrighetti, Fabio Landini

Working Paper EP01/2018

Università di Parma, Dipartimento di Scienze economiche e aziendali

Le imprese reagiscono in modo differente alle stesse sollecitazioni esterne. Una ricerca dell’Università di Parma  lo racconta

Ogni impresa risponde alle crisi e alle difficoltà di mercato a suo modo. Questione di organizzazione della produzione e delle persone, questione di cultura del produrre che può avere una stessa impronta ma che si declina in modi diversi. I comportamenti dei singoli imprenditori, poi, si riversano tutti nelle statistiche generali. Che danno il senso del tutto.

Proprio sul senso del tutto – e quindi sulla sintesi del comportamento di un intero sistema economico – si è esercitata una indagine di Alessandro Arrighetti e Fabio Landini dell’Università di Parma, Dipartimento di Scienze economiche e aziendali.

“Eterogeneità delle imprese e stagnazione del capitalismo italiano” offre una interpretazione diversa di quella che è stata indicata come la “stagnazione della produttività nel manifatturiero italiano tra gli anni Novanta e la Grande Recessione”.

Frutto del comportamento dei singoli grandi e piccoli imprenditori, il comportamento del Paese – è la tesi dei due ricercatori -, non è stato omogeneo e, anzi, è frutto di situazioni opposte, non tutte negative. “Contrariamente ad un’opinione diffusa che vuole l’Italia affetta da un declino della produttività uniforme e difficile da arrestare – spiegano infatti Arrighetti e Landini -, questo lavoro suggerisce che l’effettiva stagnazione della produttività aggregata sia in realtà la risultante di un effetto composizione tra le performance di gruppi di imprese molto diversi”.

La ricerca si dipana quindi da un inquadramento della letteratura a disposizione e dal disegno dello scenario generale, per arrivare allo studio empirico basato su due campioni diversi: 5.445 imprese selezionate da una base di dati sviluppata da ISTAT e un campione di 3.130 unità produttive costruito per la terza Community Innovation Survey (CIS3) (triennio 1998-2000).

Il risultato di tutto questo è l’individuazione di un gruppo di imprese (circa il 20% del totale) capaci di adottare “strategie proattive” volte a migliorare il livello qualitativo e l’efficienza delle produzioni; un altro gruppo (circa il 38%) che hanno scelto la compressione dei costi, riducendo sensibilmente gli investimenti in capitale fisico e capitale umano e, infine, un terzo gruppo (il restante 42%) che ha adottato orientamenti strategici misti caratterizzati da interventi, parziali, incompleti o poco coerenti tra loro. E’ da questa realtà che si delinea la sintesi dell’Italia industriale di fronte alla crisi.

Lo studio di Arrighetti e Landini è certamente da leggere con attenzione e non è sempre di facile lettura: ma è una buona chiave di lettura di una realtà che va analizza a fondo per non essere fraintesa.

Eterogeneità delle imprese e stagnazione del capitalismo italiano

Alessandro Arrighetti, Fabio Landini

Working Paper EP01/2018

Università di Parma, Dipartimento di Scienze economiche e aziendali

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