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Musica “come il pane” al Centro Culturale Pirelli

La recente pubblicazione del volume Il Canto della fabbrica a cura della Fondazione Pirelli, oggetto di dibattito il 6 luglio 2018, al Festival Il libro possibile di Polignano a Mare, ci porta a raccontare delle tante volte in cui la musica ha attraversato la vita culturale della Pirelli. Un punto d’incontro quasi obbligatorio è stato per anni il Centro Culturale Pirelli, fondato nel 1947 e a lungo diretto da Silvestro Severgnini. Il Centro Culturale, ospitato nei locali del “Ritrovo” presso il vecchio stabilimento della “Brusada” scampato ai bombardamenti del 1943, considerava “la cultura come il pane”, secondo una definizione del suo stesso ideatore nell’articolo pubblicato sulla rivista Pirelli n° 1 del 1951. “Una formula nuova, ed abbastanza indovinata, per incrementare nei lavoratori l’interesse alla cultura”: l’azienda “fornisce i mezzi affinché ai suoi dipendenti, che ne sentano il desiderio, divenga accessibile la partecipazione alle più vive e vitali manifestazioni del sapere”. Entrato in azienda nel 1939 come venditore di pneumatici, Silvestro Severgnini in breve tempo assume un ruolo cruciale nella promozione della Cultura d’Impresa della Pirelli, che nel dopoguerra comincia ad avere coscienza di sé.

Per Severgnini la musica è naturalmente una delle “manifestazioni vitali del sapere”. In una riunione del “Ritrovo” del 1950 si parla di musica ispirata alle macchine, e il rimando al Canto della fabbrica di oggi è quasi stupefacente. Già Severgnini stesso ne scrive sulla rivista Pirelli n°4 del 1949: musiche “meccaniche” che si rifanno al treno Pacific 231 per il compositore svizzero Arthur Honegger nel 1923, musiche per fonderie d’acciaio per il musicista russo Alexander Vasilyevich Mosolov nel 1927. Grazie all’attività del Centro Culturale, anno dopo anno Stravinskij e Debussy diventano “cultura come il pane” tra vulcanizzatori e mescolatori. L’azienda fa del suo meglio per facilitarne la fruizione da parte dei propri dipendenti: gli abbonamenti ai “Pomeriggi Musicali” di Milano decuplicano in tre anni, quelli al Teatro alla Scala passano dai primi 15 iscritti ai 130 del 1950. Presso il Piccolo Teatro di Milano viene riservato ai pirelliani il “concerto del mese”, mentre al “Ritrovo” si tiene regolarmente, il venerdì alle 17.45, l’Ora di Musica: conduce lo stesso Silvestro Severgnini, che ormai a Milano e diventato l’uomo che “ha aperto la Scala alla gente”. Nel solco di questa lunga tradizione di promozione e divulgazione della cultura, oggi come allora continua la collaborazione di Pirelli con queste prestigiose istituzioni culturali, anche in termini di convenzioni per i dipendenti dell’Azienda.

Nel 1953 si crea il Circolo della Musica con la geniale intuizione di organizzare un ciclo di omaggi a musicisti viventi, presso i nuovi  locali del “Ritrovo”, che si sposta in Corso Venezia: mentre la vecchia “Brusada” sta facendo posto al Grattacielo, gli autori sono invitati ad un incontro con il pubblico di operai e impiegati della Pirelli, un pubblico “che offre sempre un tale esemplare spettacolo di profondo raccoglimento e di intensa comprensione da diventare esso stesso oggetto immancabile di aperto ed incondizionato plauso”. E’ così che il lavoratore di una grande azienda può conoscere personalmente compositori del calibro di Wladimir Vogel o Roman Vlad.

Un’altra intuizione arriva l’anno successivo: l’apertura alla “musica elettronica”. Da Stockhausen a John Cage il passo è breve: “Nel corso della sua prima tournée europea  -racconta il periodico aziendale Fatti e Notizie nel numero di novembre 1954–  il musicista americano John Cage ha eseguito a Milano, per iniziativa del nostro Centro Culturale, il suo unico concerto in Italia di musiche composte per pianoforti preparati”. L’iniziativa, presentata ad un pubblico quasi incredulo dal compositore e musicologo Riccardo Malipiero, è destinata ad entrare nella storia stessa della Cultura d’Impresa moderna: un quotidiano milanese dell’epoca dichiara infatti che “il Centro Culturale Pirelli ogni giorno di più minaccia di diventare uno dei luoghi più vivi della cultura cittadina”. L’operaio dello stabilimento di Bicocca che la sera di venerdì 5 novembre 1954 assiste al Concerto per Pianoforti Preparati di John Cage -“Musica? Forse o forse qualcosa di diverso” secondo Malipierio- non immagina che una sessantina d’anni dopo un altro operaio del Polo Industriale di Settimo Torinese avrebbe seguito, direttamente nel reparto di produzione, il Canto della Fabbrica di Francesco Fiore per il violino di Salvatore Accardo. E questa non è una coincidenza e neppure “un’altra storia”: è Cultura d’Impresa.

La recente pubblicazione del volume Il Canto della fabbrica a cura della Fondazione Pirelli, oggetto di dibattito il 6 luglio 2018, al Festival Il libro possibile di Polignano a Mare, ci porta a raccontare delle tante volte in cui la musica ha attraversato la vita culturale della Pirelli. Un punto d’incontro quasi obbligatorio è stato per anni il Centro Culturale Pirelli, fondato nel 1947 e a lungo diretto da Silvestro Severgnini. Il Centro Culturale, ospitato nei locali del “Ritrovo” presso il vecchio stabilimento della “Brusada” scampato ai bombardamenti del 1943, considerava “la cultura come il pane”, secondo una definizione del suo stesso ideatore nell’articolo pubblicato sulla rivista Pirelli n° 1 del 1951. “Una formula nuova, ed abbastanza indovinata, per incrementare nei lavoratori l’interesse alla cultura”: l’azienda “fornisce i mezzi affinché ai suoi dipendenti, che ne sentano il desiderio, divenga accessibile la partecipazione alle più vive e vitali manifestazioni del sapere”. Entrato in azienda nel 1939 come venditore di pneumatici, Silvestro Severgnini in breve tempo assume un ruolo cruciale nella promozione della Cultura d’Impresa della Pirelli, che nel dopoguerra comincia ad avere coscienza di sé.

Per Severgnini la musica è naturalmente una delle “manifestazioni vitali del sapere”. In una riunione del “Ritrovo” del 1950 si parla di musica ispirata alle macchine, e il rimando al Canto della fabbrica di oggi è quasi stupefacente. Già Severgnini stesso ne scrive sulla rivista Pirelli n°4 del 1949: musiche “meccaniche” che si rifanno al treno Pacific 231 per il compositore svizzero Arthur Honegger nel 1923, musiche per fonderie d’acciaio per il musicista russo Alexander Vasilyevich Mosolov nel 1927. Grazie all’attività del Centro Culturale, anno dopo anno Stravinskij e Debussy diventano “cultura come il pane” tra vulcanizzatori e mescolatori. L’azienda fa del suo meglio per facilitarne la fruizione da parte dei propri dipendenti: gli abbonamenti ai “Pomeriggi Musicali” di Milano decuplicano in tre anni, quelli al Teatro alla Scala passano dai primi 15 iscritti ai 130 del 1950. Presso il Piccolo Teatro di Milano viene riservato ai pirelliani il “concerto del mese”, mentre al “Ritrovo” si tiene regolarmente, il venerdì alle 17.45, l’Ora di Musica: conduce lo stesso Silvestro Severgnini, che ormai a Milano e diventato l’uomo che “ha aperto la Scala alla gente”. Nel solco di questa lunga tradizione di promozione e divulgazione della cultura, oggi come allora continua la collaborazione di Pirelli con queste prestigiose istituzioni culturali, anche in termini di convenzioni per i dipendenti dell’Azienda.

Nel 1953 si crea il Circolo della Musica con la geniale intuizione di organizzare un ciclo di omaggi a musicisti viventi, presso i nuovi  locali del “Ritrovo”, che si sposta in Corso Venezia: mentre la vecchia “Brusada” sta facendo posto al Grattacielo, gli autori sono invitati ad un incontro con il pubblico di operai e impiegati della Pirelli, un pubblico “che offre sempre un tale esemplare spettacolo di profondo raccoglimento e di intensa comprensione da diventare esso stesso oggetto immancabile di aperto ed incondizionato plauso”. E’ così che il lavoratore di una grande azienda può conoscere personalmente compositori del calibro di Wladimir Vogel o Roman Vlad.

Un’altra intuizione arriva l’anno successivo: l’apertura alla “musica elettronica”. Da Stockhausen a John Cage il passo è breve: “Nel corso della sua prima tournée europea  -racconta il periodico aziendale Fatti e Notizie nel numero di novembre 1954–  il musicista americano John Cage ha eseguito a Milano, per iniziativa del nostro Centro Culturale, il suo unico concerto in Italia di musiche composte per pianoforti preparati”. L’iniziativa, presentata ad un pubblico quasi incredulo dal compositore e musicologo Riccardo Malipiero, è destinata ad entrare nella storia stessa della Cultura d’Impresa moderna: un quotidiano milanese dell’epoca dichiara infatti che “il Centro Culturale Pirelli ogni giorno di più minaccia di diventare uno dei luoghi più vivi della cultura cittadina”. L’operaio dello stabilimento di Bicocca che la sera di venerdì 5 novembre 1954 assiste al Concerto per Pianoforti Preparati di John Cage -“Musica? Forse o forse qualcosa di diverso” secondo Malipierio- non immagina che una sessantina d’anni dopo un altro operaio del Polo Industriale di Settimo Torinese avrebbe seguito, direttamente nel reparto di produzione, il Canto della Fabbrica di Francesco Fiore per il violino di Salvatore Accardo. E questa non è una coincidenza e neppure “un’altra storia”: è Cultura d’Impresa.

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La morale del buon imprenditore

La riedizione di un libro del ‘400 fornisce una guida attuale per la creazione di imprese a tutto tondo

Imprenditore accorto ma a tutto tondo, attento ai conti e all’uomo. Imprenditore umanista, insomma. E’ possibile sintetizzare sotto diverse forme l’ideale della figura imprenditoriale. Traccia lungo un cammino che molti – a dispetto delle apparenze -, si ingegnano di intraprendere seppur con alterni risultati. A far da guida serve leggere “Arricchirsi con onore. Elogio del buon imprenditore” di Benedetto Cotrugli mercante, imprenditore, filosofo e umanista nato a Ragusa (Dubrovnik) che mise su carta le sue idee sull’imprenditoria e più in generale sul fare impresa nel 1458.

Si tratta di un manuale di commercio – uno dei primi -, ma anche di un manuale d’impresa, attuale ancora oggi dopo cinque secoli di oblio. Ripresentato in italiano moderno oggi, il libro si legge quasi d’un fiato ed è denso di suggestioni ma anche di proposte che assolutamente valgono per tutti i “moderni”.

Il “Libro de l’arte de la mercatura” (questo il titolo originale del volumetto), ha un valore perché mentre la finanziarizzazione dell’economia e le susseguenti crisi sembrano aver minato le regole di base degli affari, ci ricorda che può esistere anche una maniera “sana e profittevole” di arricchirsi e arricchire la società nel contempo. Imprenditore come soggetto sociale prima ancora che come organizzatire della produzione, quindi. Alla base di tutto l’idea di Cotrugli che inquadra il mercante-imprenditore come un “uomo universale” partendo da un assunto: i conti devo essere in ordine ma quest’ordine non basta, servono anche caratteristiche intellettuali, professionali e umane che diventano imprescindibili.

Per raccontare la sua idea, Cotrugli enumera quindi 15 regole “per arricchirsi con onore” che vanno dal confidare nelle proprie forze alla capacità di reggere gli stenti e gli affanni, dalla ricerca della qualità a quella della precisione, dalla conoscenza della finanza al rispetto di soci ed impegni, dalla cultura alla capacità di stare in pubblico e poi ancora alla consapevolezza dell’importanza dei figli e della famiglia e della terra come migliore investimento. Chiudono il tutto un epilogo (nel quale fra l’altro viene in qualche modo spezzata una lancia in favore dei giovani) e venti aforismi che sintetizzano insieme il tipo di imprenditore ideale e il percorso per arrivarci.

Ma al di là delle regole dettate, leggere Cotrugli fa bene per la consapevolezza dell’importanza della missione dell’imprenditore che riesce a comunicare.  Una consapevolezza che arriva da lontano ma che è tutta assolutamente attuale.

Arricchiscono il libro un nota di Riccardo Wagner e una introduzione di Bunello Cucinelli che ricorda l’idea di “capitalismo umanistico” e il valore di un’imprenditoria che abbia morale, consapevolezza del dono, “affetto di ognuno per l’altro”, sentimento sociale e spirito di sacrificio.

Arricchirsi con onore. Elogio del buon imprenditore

Benedetto Cotrugli

Rizzoli, 2018

La riedizione di un libro del ‘400 fornisce una guida attuale per la creazione di imprese a tutto tondo

Imprenditore accorto ma a tutto tondo, attento ai conti e all’uomo. Imprenditore umanista, insomma. E’ possibile sintetizzare sotto diverse forme l’ideale della figura imprenditoriale. Traccia lungo un cammino che molti – a dispetto delle apparenze -, si ingegnano di intraprendere seppur con alterni risultati. A far da guida serve leggere “Arricchirsi con onore. Elogio del buon imprenditore” di Benedetto Cotrugli mercante, imprenditore, filosofo e umanista nato a Ragusa (Dubrovnik) che mise su carta le sue idee sull’imprenditoria e più in generale sul fare impresa nel 1458.

Si tratta di un manuale di commercio – uno dei primi -, ma anche di un manuale d’impresa, attuale ancora oggi dopo cinque secoli di oblio. Ripresentato in italiano moderno oggi, il libro si legge quasi d’un fiato ed è denso di suggestioni ma anche di proposte che assolutamente valgono per tutti i “moderni”.

Il “Libro de l’arte de la mercatura” (questo il titolo originale del volumetto), ha un valore perché mentre la finanziarizzazione dell’economia e le susseguenti crisi sembrano aver minato le regole di base degli affari, ci ricorda che può esistere anche una maniera “sana e profittevole” di arricchirsi e arricchire la società nel contempo. Imprenditore come soggetto sociale prima ancora che come organizzatire della produzione, quindi. Alla base di tutto l’idea di Cotrugli che inquadra il mercante-imprenditore come un “uomo universale” partendo da un assunto: i conti devo essere in ordine ma quest’ordine non basta, servono anche caratteristiche intellettuali, professionali e umane che diventano imprescindibili.

Per raccontare la sua idea, Cotrugli enumera quindi 15 regole “per arricchirsi con onore” che vanno dal confidare nelle proprie forze alla capacità di reggere gli stenti e gli affanni, dalla ricerca della qualità a quella della precisione, dalla conoscenza della finanza al rispetto di soci ed impegni, dalla cultura alla capacità di stare in pubblico e poi ancora alla consapevolezza dell’importanza dei figli e della famiglia e della terra come migliore investimento. Chiudono il tutto un epilogo (nel quale fra l’altro viene in qualche modo spezzata una lancia in favore dei giovani) e venti aforismi che sintetizzano insieme il tipo di imprenditore ideale e il percorso per arrivarci.

Ma al di là delle regole dettate, leggere Cotrugli fa bene per la consapevolezza dell’importanza della missione dell’imprenditore che riesce a comunicare.  Una consapevolezza che arriva da lontano ma che è tutta assolutamente attuale.

Arricchiscono il libro un nota di Riccardo Wagner e una introduzione di Bunello Cucinelli che ricorda l’idea di “capitalismo umanistico” e il valore di un’imprenditoria che abbia morale, consapevolezza del dono, “affetto di ognuno per l’altro”, sentimento sociale e spirito di sacrificio.

Arricchirsi con onore. Elogio del buon imprenditore

Benedetto Cotrugli

Rizzoli, 2018

Neoaziende innovative

L’approfondimento delle start-up e del loro ruolo d’innovazione sociale organizzativa e sul territorio

Imprese nuove e innovative. Connubio importante ma non sempre realizzato. Questione di ambiente, di capacità, ma anche di cultura d’impresa in grado di  coniugare la nuova organizzazione della produzione con l’innovazione necessaria a far intraprendere all’azienda un percorso diverso da quello normale. Quando poi si parla di piccole e medie realtà, tutto diventa ancora più complesso.

La ricerca di Rocco Reina e Marzia Ventura (dell’Università di Catanzaro “Magna Græcia”) e di Walter Vesperi (dell’Università di Messina) indaga un particolare aspetto dell’innovazione presente nelle nuove aziende: l’innovazione sciale. Gli autori partono dalla considerazione che il tessuto imprenditoriale italiano, storicamente caratterizzato da PMI  ha visto l’emergere, negli ultimi anni, di una nuova forma di imprenditorialità basata sull’innovazione tecnologica. Ma oltre a questo è stato constata come l’imprenditorialità possa divenire uno straordinario attivatore di processi di cambiamento di carattere sociale, economico e tecnologico.

L’insieme di impresa nuova (start-up), innovazione tecnologica e organizzativa costituisce un ambito di relazioni tecniche ma soprattutto umane, che va indagato a conosciuto a fondo. Soprattutto perché può delineare un metodo di lavoro da replicare in ambienti diversi.

Ed è quello che fanno i tre ricercatori partendo dalla revisione di quanto è già stato fatto sull’argomento per poi passare a delineare lo schema della ricerca e quindi all’indagine “sul campo” delle imprese strat-up  della Calabria che vengono indagate non tanto con un metodo quantitativo, ma soprattutto attraverso un “racconto” delle esperienze vissute da chi le ha create.

L’attenzione particolare degli autori è però focalizzata sull’impatto sociale che aziende neocostituite e innovative possono avere sul territorio in cui nascono e producono. Un impatto contrastato da difficoltà di vario genere e che tuttavia indica una volontà di crescita imprenditoriale anche in aree difficili.

Lo studio di Reina, Ventura e Vesperi non ha l’obiettivo di fornire un quadro esaustivo delle imprese neonate e innovative dal punto di vista del loro impatto sociale e territoriale, ma può essere preso come un tassello importante di un disegno che deve ancora essere per molti aspetti delineato.

Innovazione sociale nelle startup innovative:  un approccio narrativo

Rocco Reina, Marzia Ventura, Walter Vesperi

Paper presented at XII Scientific Colloquium on Social Enterprise, 25-25 May 2018,  Department of Sociology and Social Research, University of Trento,

ISBN 978-88-909832-7-6

L’approfondimento delle start-up e del loro ruolo d’innovazione sociale organizzativa e sul territorio

Imprese nuove e innovative. Connubio importante ma non sempre realizzato. Questione di ambiente, di capacità, ma anche di cultura d’impresa in grado di  coniugare la nuova organizzazione della produzione con l’innovazione necessaria a far intraprendere all’azienda un percorso diverso da quello normale. Quando poi si parla di piccole e medie realtà, tutto diventa ancora più complesso.

La ricerca di Rocco Reina e Marzia Ventura (dell’Università di Catanzaro “Magna Græcia”) e di Walter Vesperi (dell’Università di Messina) indaga un particolare aspetto dell’innovazione presente nelle nuove aziende: l’innovazione sciale. Gli autori partono dalla considerazione che il tessuto imprenditoriale italiano, storicamente caratterizzato da PMI  ha visto l’emergere, negli ultimi anni, di una nuova forma di imprenditorialità basata sull’innovazione tecnologica. Ma oltre a questo è stato constata come l’imprenditorialità possa divenire uno straordinario attivatore di processi di cambiamento di carattere sociale, economico e tecnologico.

L’insieme di impresa nuova (start-up), innovazione tecnologica e organizzativa costituisce un ambito di relazioni tecniche ma soprattutto umane, che va indagato a conosciuto a fondo. Soprattutto perché può delineare un metodo di lavoro da replicare in ambienti diversi.

Ed è quello che fanno i tre ricercatori partendo dalla revisione di quanto è già stato fatto sull’argomento per poi passare a delineare lo schema della ricerca e quindi all’indagine “sul campo” delle imprese strat-up  della Calabria che vengono indagate non tanto con un metodo quantitativo, ma soprattutto attraverso un “racconto” delle esperienze vissute da chi le ha create.

L’attenzione particolare degli autori è però focalizzata sull’impatto sociale che aziende neocostituite e innovative possono avere sul territorio in cui nascono e producono. Un impatto contrastato da difficoltà di vario genere e che tuttavia indica una volontà di crescita imprenditoriale anche in aree difficili.

Lo studio di Reina, Ventura e Vesperi non ha l’obiettivo di fornire un quadro esaustivo delle imprese neonate e innovative dal punto di vista del loro impatto sociale e territoriale, ma può essere preso come un tassello importante di un disegno che deve ancora essere per molti aspetti delineato.

Innovazione sociale nelle startup innovative:  un approccio narrativo

Rocco Reina, Marzia Ventura, Walter Vesperi

Paper presented at XII Scientific Colloquium on Social Enterprise, 25-25 May 2018,  Department of Sociology and Social Research, University of Trento,

ISBN 978-88-909832-7-6

Osservatorio Milano e Bilancio sociale della Giustizia: dati e fatti, per garantire buon governo e democrazia

Ragionare su dati e fatti. Decidere conoscendo il peso e il senso delle questioni e agire con responsabilità, secondo conoscenza. E’ quello che fa (meglio: quello che dovrebbe fare…) una classe dirigente che sia all’altezza del suo ruolo e dei suoi doveri. In politica. In economia. Nella società. Lo dice bene Beppe Sala, sindaco di Milano: “Assolombarda con il suo Osservatorio Milano sostiene in modo concreto il lavoro di tutto il sistema economico e sociale offrendo l’elemento più prezioso: i dati. Dati non semplicemente raccolti con puntualità, ma analizzati e letti alla luce del contesto sociale ed economico. E’ un lavoro prezioso, un argine alle semplificazioni e un gran servizio alla democrazia”.

I dati. E la democrazia. La conoscenza di come stanno davvero le cose. E le scelte conseguenti. Viviamo in tempi controversi, in cui sui fatti prevalgono i “fattoidi” (nulla che sia vero o realmente successo, ma qualcosa di verosimile, spacciato per vero da social media senza verifiche né controlli), sulla cronaca attendibile prevale la propaganda, sul confronto d’opinioni l’urlo e l’insulto. E così, per difendere verità dei fatti e, appunto, democrazia, una scelta civile di responsabilità può essere quella di ricominciare a ragionare sui dati, sui numeri. E pretendere che nel dibattito pubblico lo si faccia sempre più spesso. Molta più ragione. E meno passione e sentimento. Più domande e meno proclami saccenti. Più attenzione al dubbio, meno alla retorica. Per dirla in termini letterari, più Sciascia e meno D’Annunzio (per lasciare comunque ai margini gli analfabeti: almeno, D’Annunzio sapeva usare la punteggiatura, i modi dei verbi e la sintassi, la consecutio temporum e la forza esatta e terribile delle parole).

Pessimo segno, allora, l’atteggiamento del nuovo governo rispetto all’Istat, l’Istituto centrale di Statistica, stando almeno alle dichiarazioni della sottosegretaria del ministero dell’Economia Laura Castelli (M5S) “sulla sinergia necessaria da mettere in atto con la politica per il raggiungimento degli obiettivi del contratto di governo”. Sinergia politica? Raccordo con gli obiettivi di governo? C’è da essere molto preoccupati. Ruolo e responsabilità dell’Istat è raccogliere dati aggiornati e attendibili, “fotografare” e documentare la realtà economica e sociale, fornire ai decisori politici elementi certi e chiari su cui basare le scelte. L’unica “sinergia” è garantire all’Istat autonomia e autorevolezza. Perché lavori sui dati. Tutto il resto, è pensiero strumentale. Rischio di degrado scientifico. E dunque di degrado della politica. E delle ipotesi di buon governo.

La politica, naturalmente, non è matematica né scienza esatta. Si nutre di passioni, talvolta cupe. Dà voce a interessi, spesso partigiani. Deve giustamente tener conto di sentimenti, preoccupazioni e paure. Alimentare speranze. Ha bisogno di suggerire e costruire futuro. Alimentare una visione migliore del mondo. Cercare compromessi tra opinioni e tensioni diverse. Saper calcolare bene i contrastanti rapporti di forza e costruire programmi. E’ lavoro nobile, la politica, anche quando maneggia sostanze ignobili. Non può solo elencare numeri, ma li può ben usare per rafforzare un sogno. Con grande senso di responsabilità. E robusta sensibilità del proprio ruolo cardine. Ruling class, si dice in inglese. La classe che fa le regole e le rispetta. Niente buone regole, senza conoscenza e competenza, senza saper leggere fatti e orientamenti e senza avere sguardo lungo all’orizzonte.

Torniamo ai dati, dunque. Saperli raccogliere, mettere insieme, analizzarli, compararli è indispensabile attività scientifica. E cardine di democrazia liberale, perché in assenza di conoscenza non c’è capacità critica, non c’è scelta consapevole. Non c’è libertà né delega con chiara percezione di valori e interessi.

Nel suo piccolo, l’Osservatorio Milano è esemplare. Nato nel 2017 su un’intesa tra il Comune e l’Assolombarda, usa 221 indicatori diversi per “misurare” Milano, a paragone con città europee analoghe (Barcellona, Lione, Monaco e Stoccarda) ma anche con grandi capitali (Berlino, Londra, Parigi) e metropoli Usa (New York e Chicago) e del Far East (Shanghai e Tokyo). Alla fine di giugno, è stata presentata la nuova edizione 2018. E si andrà avanti, aggiornando periodicamente i dati. Una scelta lungimirante.

Il lavoro è frutto dell’originale collaborazione dei centri studi di Assolombarda, Banca d’Italia, Camera di Commercio, Politecnico, Confcommercio, Fondazione Ambrosianeum, Intesa San Paolo, Pim, Clas Group e d’una serie di altre istituzioni e imprese (Fondazione Fiera, Vodafone, MasterCard, Ernst&Young, Cusimano & Wakefield, Voices from the Blogs) per parlare con competenza di attrattività (di persone e capitali, talenti e investimenti internazionali) e reputazione di Milano, dinamiche sociali ed equità, accessibilità, sviluppo urbano e green, città smart, tempo libero, capitale umano qualificato, rapporti tra la pubblica amministrazione e i cittadini, innovazione e start up.

Ne emerge il racconto ben documentato di una metropoli in intensa trasformazione, la più internazionale d’Italia, tutt’altro che chiusa in se stessa e nei suoi primati e ben attenta, semmai, a non inorgoglirsi nel “modello” e ad aprirsi al resto del Paese, a fare da stimolo, indicazione, traino. Con occhi ben aperti sull’Europa e sul mondo. Usando bene le sue “vocazioni”, sempre scrupolosamente documentate dall’Osservatorio: scienze della vita, industria agro-alimentare, manifattura 4.0, arte, cultura e design, finanza.

Dati interessanti si ricavano anche dal “Rapporto sulla città – Milano 2018” curato dalla Fondazione Ambrosianeum e presentato ieri (la responsabilità è di Angela Lodigiani, studiosa ben documentata): numeri e analisi soprattutto sulle questioni economiche e sociali, con una solida memoria del passato e lo sguardo rivolto verso “Agenda 2040”: le grandi città hanno bisogno di una programmazione di interventi pubblici e investimenti privati di ampio respiro. Potrà tenerne conto proprio il nuovo governo, nel provare ad affrontare con consapevolezza gli investimenti legati al “Patto per Milano”, per sostenere l’innovazione, le infrastrutture, la ricerca, lo sviluppo di Human Technopole e quanto sarà necessario per non mettere in crisi la crescita dell’area più dinamica dell’economia italiana, la “locomotiva” che può trainare il treno dello sviluppo.

Dati, chiari e ben classificati, si trovano pure in un altro documento, reso pubblico nei giorni scorsi: il Bilancio Sociale del Palazzo di Giustizia di Milano, un rendiconto delle attività di Corte d’Appello, Tribunale, Procura Generale, Procura della Repubblica, Tribunale dei minori e Tribunale di Sorveglianza. Il “sistema giustizia” indagato (con la collaborazione della Sda Bocconi e di Assolombarda) in tutte le sue dimensioni che hanno ricadute sugli stakeholders: i cittadini, le imprese, le altre amministrazioni pubbliche. Anche qui, dati e analisi, confronti e giudizi di misurazione di efficacia, efficienza e tempestività. Il luogo comune della giustizia lente poco si addice a Milano: nonostante la carenza di magistrati e personale giudiziario, si è ridotto l’arretrato e, tanto per dare un solo dato, la durata media di un appello civile è stato di 545 giorni (un anno e sei mesi), metà dei 1.061 giorni di media nazionale e comunque meno dei 631 giorni della media del benchmark europeo.

C’è ancora molto da fare, naturalmente. Ma proprio i dati, ben raccolti e commentati, dicono che proprio a Milano c’è un nesso tra funzionamento della metropoli, sviluppo, competitività, attrattività ed equilibrio sociale, quello che una buona giustizia può garantire. Dati, non chiacchiere.

Ragionare su dati e fatti. Decidere conoscendo il peso e il senso delle questioni e agire con responsabilità, secondo conoscenza. E’ quello che fa (meglio: quello che dovrebbe fare…) una classe dirigente che sia all’altezza del suo ruolo e dei suoi doveri. In politica. In economia. Nella società. Lo dice bene Beppe Sala, sindaco di Milano: “Assolombarda con il suo Osservatorio Milano sostiene in modo concreto il lavoro di tutto il sistema economico e sociale offrendo l’elemento più prezioso: i dati. Dati non semplicemente raccolti con puntualità, ma analizzati e letti alla luce del contesto sociale ed economico. E’ un lavoro prezioso, un argine alle semplificazioni e un gran servizio alla democrazia”.

I dati. E la democrazia. La conoscenza di come stanno davvero le cose. E le scelte conseguenti. Viviamo in tempi controversi, in cui sui fatti prevalgono i “fattoidi” (nulla che sia vero o realmente successo, ma qualcosa di verosimile, spacciato per vero da social media senza verifiche né controlli), sulla cronaca attendibile prevale la propaganda, sul confronto d’opinioni l’urlo e l’insulto. E così, per difendere verità dei fatti e, appunto, democrazia, una scelta civile di responsabilità può essere quella di ricominciare a ragionare sui dati, sui numeri. E pretendere che nel dibattito pubblico lo si faccia sempre più spesso. Molta più ragione. E meno passione e sentimento. Più domande e meno proclami saccenti. Più attenzione al dubbio, meno alla retorica. Per dirla in termini letterari, più Sciascia e meno D’Annunzio (per lasciare comunque ai margini gli analfabeti: almeno, D’Annunzio sapeva usare la punteggiatura, i modi dei verbi e la sintassi, la consecutio temporum e la forza esatta e terribile delle parole).

Pessimo segno, allora, l’atteggiamento del nuovo governo rispetto all’Istat, l’Istituto centrale di Statistica, stando almeno alle dichiarazioni della sottosegretaria del ministero dell’Economia Laura Castelli (M5S) “sulla sinergia necessaria da mettere in atto con la politica per il raggiungimento degli obiettivi del contratto di governo”. Sinergia politica? Raccordo con gli obiettivi di governo? C’è da essere molto preoccupati. Ruolo e responsabilità dell’Istat è raccogliere dati aggiornati e attendibili, “fotografare” e documentare la realtà economica e sociale, fornire ai decisori politici elementi certi e chiari su cui basare le scelte. L’unica “sinergia” è garantire all’Istat autonomia e autorevolezza. Perché lavori sui dati. Tutto il resto, è pensiero strumentale. Rischio di degrado scientifico. E dunque di degrado della politica. E delle ipotesi di buon governo.

La politica, naturalmente, non è matematica né scienza esatta. Si nutre di passioni, talvolta cupe. Dà voce a interessi, spesso partigiani. Deve giustamente tener conto di sentimenti, preoccupazioni e paure. Alimentare speranze. Ha bisogno di suggerire e costruire futuro. Alimentare una visione migliore del mondo. Cercare compromessi tra opinioni e tensioni diverse. Saper calcolare bene i contrastanti rapporti di forza e costruire programmi. E’ lavoro nobile, la politica, anche quando maneggia sostanze ignobili. Non può solo elencare numeri, ma li può ben usare per rafforzare un sogno. Con grande senso di responsabilità. E robusta sensibilità del proprio ruolo cardine. Ruling class, si dice in inglese. La classe che fa le regole e le rispetta. Niente buone regole, senza conoscenza e competenza, senza saper leggere fatti e orientamenti e senza avere sguardo lungo all’orizzonte.

Torniamo ai dati, dunque. Saperli raccogliere, mettere insieme, analizzarli, compararli è indispensabile attività scientifica. E cardine di democrazia liberale, perché in assenza di conoscenza non c’è capacità critica, non c’è scelta consapevole. Non c’è libertà né delega con chiara percezione di valori e interessi.

Nel suo piccolo, l’Osservatorio Milano è esemplare. Nato nel 2017 su un’intesa tra il Comune e l’Assolombarda, usa 221 indicatori diversi per “misurare” Milano, a paragone con città europee analoghe (Barcellona, Lione, Monaco e Stoccarda) ma anche con grandi capitali (Berlino, Londra, Parigi) e metropoli Usa (New York e Chicago) e del Far East (Shanghai e Tokyo). Alla fine di giugno, è stata presentata la nuova edizione 2018. E si andrà avanti, aggiornando periodicamente i dati. Una scelta lungimirante.

Il lavoro è frutto dell’originale collaborazione dei centri studi di Assolombarda, Banca d’Italia, Camera di Commercio, Politecnico, Confcommercio, Fondazione Ambrosianeum, Intesa San Paolo, Pim, Clas Group e d’una serie di altre istituzioni e imprese (Fondazione Fiera, Vodafone, MasterCard, Ernst&Young, Cusimano & Wakefield, Voices from the Blogs) per parlare con competenza di attrattività (di persone e capitali, talenti e investimenti internazionali) e reputazione di Milano, dinamiche sociali ed equità, accessibilità, sviluppo urbano e green, città smart, tempo libero, capitale umano qualificato, rapporti tra la pubblica amministrazione e i cittadini, innovazione e start up.

Ne emerge il racconto ben documentato di una metropoli in intensa trasformazione, la più internazionale d’Italia, tutt’altro che chiusa in se stessa e nei suoi primati e ben attenta, semmai, a non inorgoglirsi nel “modello” e ad aprirsi al resto del Paese, a fare da stimolo, indicazione, traino. Con occhi ben aperti sull’Europa e sul mondo. Usando bene le sue “vocazioni”, sempre scrupolosamente documentate dall’Osservatorio: scienze della vita, industria agro-alimentare, manifattura 4.0, arte, cultura e design, finanza.

Dati interessanti si ricavano anche dal “Rapporto sulla città – Milano 2018” curato dalla Fondazione Ambrosianeum e presentato ieri (la responsabilità è di Angela Lodigiani, studiosa ben documentata): numeri e analisi soprattutto sulle questioni economiche e sociali, con una solida memoria del passato e lo sguardo rivolto verso “Agenda 2040”: le grandi città hanno bisogno di una programmazione di interventi pubblici e investimenti privati di ampio respiro. Potrà tenerne conto proprio il nuovo governo, nel provare ad affrontare con consapevolezza gli investimenti legati al “Patto per Milano”, per sostenere l’innovazione, le infrastrutture, la ricerca, lo sviluppo di Human Technopole e quanto sarà necessario per non mettere in crisi la crescita dell’area più dinamica dell’economia italiana, la “locomotiva” che può trainare il treno dello sviluppo.

Dati, chiari e ben classificati, si trovano pure in un altro documento, reso pubblico nei giorni scorsi: il Bilancio Sociale del Palazzo di Giustizia di Milano, un rendiconto delle attività di Corte d’Appello, Tribunale, Procura Generale, Procura della Repubblica, Tribunale dei minori e Tribunale di Sorveglianza. Il “sistema giustizia” indagato (con la collaborazione della Sda Bocconi e di Assolombarda) in tutte le sue dimensioni che hanno ricadute sugli stakeholders: i cittadini, le imprese, le altre amministrazioni pubbliche. Anche qui, dati e analisi, confronti e giudizi di misurazione di efficacia, efficienza e tempestività. Il luogo comune della giustizia lente poco si addice a Milano: nonostante la carenza di magistrati e personale giudiziario, si è ridotto l’arretrato e, tanto per dare un solo dato, la durata media di un appello civile è stato di 545 giorni (un anno e sei mesi), metà dei 1.061 giorni di media nazionale e comunque meno dei 631 giorni della media del benchmark europeo.

C’è ancora molto da fare, naturalmente. Ma proprio i dati, ben raccolti e commentati, dicono che proprio a Milano c’è un nesso tra funzionamento della metropoli, sviluppo, competitività, attrattività ed equilibrio sociale, quello che una buona giustizia può garantire. Dati, non chiacchiere.

La pubblicità: un unico lungo racconto di immagini e linguaggi

Nei suoi 10 anni di vita, la Fondazione Pirelli ha attivamente operato nella creazione della cultura d’impresa del Gruppo: ha potuto cioè godere di un punto d’osservazione “allargato” su certe attività che nel corso di oltre un secolo l’azienda ha portato avanti, di volta in volta in forme diverse.

ll “fare pubblicità” è sicuramente una di queste aree, fin dai primi passi che la società fondata da Giovanni Battista Pirelli cominciava a muovere a fine Ottocento per arrivare ai nostri giorni. In questo senso, la lavorazione dell’Archivio Storico ha permesso alla Fondazione di costruire una narrazione continua e globale della pubblicità a marchio Pirelli: un unico racconto capace di comprendere stili e linguaggi in continua evoluzione, materiali e forme espressive diversissime nel tempo, messaggi e immagini adattatisi nel tempo alla sempre maggior globalizzazione. Il risultato è oggi riscontrabile nei due volumi “Una musa tra le ruote” (2015) e “La Pubblicità con la P maiuscola” (2017), curati dalla Fondazione Pirelli per le edizioni Corraini: un percorso narrativo multiforme, nel tentativo di offrire una visione unica di un mondo – quello della pubblicità – di per sé dominato dalla complessità e dal cambiamento.

Sono centinaia i bozzetti pubblicitari conservati presso l’Archivio Storico: pezzi unici originali firmati dai più grandi designer del Novecento. Dagli anni Venti agli anni Sessanta consentono di ricostruire quello che è forse il periodo più fervido dal punto di vista della comunicazione visiva dell’azienda, il momento in cui si “creava” il concetto stesso di pubblicità. Che a quel tempo era detta “propaganda”. Allora però la libertà espressiva dell’artista si doveva fermare davanti alla riproduzione del pneumatico, che doveva essere immediatamente riconoscibile dal grande pubblico. Ecco allora un altro importante fondo conservato presso l’Archivio: gli oltre 300 disegni tecnici realizzati dagli ingegneri di fabbrica e destinati ad essere utilizzati per “fotografare” il pneumatico su bozzetti e poster, su listini e cartelli vetrina, su cataloghi, su dépliant. Un lunghissimo percorso di “pubblicità a stampa” che – presso la Fondazione Pirelli – si articola su tutti quelli che sono stati i core business dell’azienda nel corso degli anni, consentendo di tracciarne la storia industriale e commerciale.

La raccolta dei bozzetti prosegue idealmente nelle migliaia di esecutivi che consentono di continuare la narrazione, dagli anni Settanta alle soglie del Duemila. È il periodo delle agenzie pubblicitarie – quella interna a Pirelli si chiamava “Centro”– e dell’immagine costruita scientificamente presso gli uffici marketing per essere infinite volte riproducibile. Altri linguaggi, altre tecniche di cui dar conto. Anni in cui irrompe la fotografia: una sezione apposita dell’Archivio Storico è dedicata agli innumerevoli servizi realizzati dai più affermati fotografi internazionali per i prodotti della P Lunga. Così come altre fotografie consentono di raccontare la pubblicità da un’altra angolazione: sono gli scatti dedicati alle mostre e fiere cui Pirelli ha partecipato fin dall’inizio delle proprie attività. Ritratti che cambiano negli anni, testimoni di un flusso continuo e in perenne evoluzione.

Il primo film pubblicitario è del 1951 ed è un cartone animato di Nino Pagot per il pneumatico Pirelli Stelvio: da allora cinema e televisione hanno ampliato ancor più la complessità del messaggio. Oggi, completamente digitalizzati e consultabili online, ci sono chilometri e chilometri di pellicole dei gloriosi anni di Carosello, insieme ai film e ai documentari storici.

Ed è proprio da qui, dal digitale, che parte oggi una nuova sfida: capire, interpretare e inserire in un processo unico un altro linguaggio ancora una volta diverso.

Nei suoi 10 anni di vita, la Fondazione Pirelli ha attivamente operato nella creazione della cultura d’impresa del Gruppo: ha potuto cioè godere di un punto d’osservazione “allargato” su certe attività che nel corso di oltre un secolo l’azienda ha portato avanti, di volta in volta in forme diverse.

ll “fare pubblicità” è sicuramente una di queste aree, fin dai primi passi che la società fondata da Giovanni Battista Pirelli cominciava a muovere a fine Ottocento per arrivare ai nostri giorni. In questo senso, la lavorazione dell’Archivio Storico ha permesso alla Fondazione di costruire una narrazione continua e globale della pubblicità a marchio Pirelli: un unico racconto capace di comprendere stili e linguaggi in continua evoluzione, materiali e forme espressive diversissime nel tempo, messaggi e immagini adattatisi nel tempo alla sempre maggior globalizzazione. Il risultato è oggi riscontrabile nei due volumi “Una musa tra le ruote” (2015) e “La Pubblicità con la P maiuscola” (2017), curati dalla Fondazione Pirelli per le edizioni Corraini: un percorso narrativo multiforme, nel tentativo di offrire una visione unica di un mondo – quello della pubblicità – di per sé dominato dalla complessità e dal cambiamento.

Sono centinaia i bozzetti pubblicitari conservati presso l’Archivio Storico: pezzi unici originali firmati dai più grandi designer del Novecento. Dagli anni Venti agli anni Sessanta consentono di ricostruire quello che è forse il periodo più fervido dal punto di vista della comunicazione visiva dell’azienda, il momento in cui si “creava” il concetto stesso di pubblicità. Che a quel tempo era detta “propaganda”. Allora però la libertà espressiva dell’artista si doveva fermare davanti alla riproduzione del pneumatico, che doveva essere immediatamente riconoscibile dal grande pubblico. Ecco allora un altro importante fondo conservato presso l’Archivio: gli oltre 300 disegni tecnici realizzati dagli ingegneri di fabbrica e destinati ad essere utilizzati per “fotografare” il pneumatico su bozzetti e poster, su listini e cartelli vetrina, su cataloghi, su dépliant. Un lunghissimo percorso di “pubblicità a stampa” che – presso la Fondazione Pirelli – si articola su tutti quelli che sono stati i core business dell’azienda nel corso degli anni, consentendo di tracciarne la storia industriale e commerciale.

La raccolta dei bozzetti prosegue idealmente nelle migliaia di esecutivi che consentono di continuare la narrazione, dagli anni Settanta alle soglie del Duemila. È il periodo delle agenzie pubblicitarie – quella interna a Pirelli si chiamava “Centro”– e dell’immagine costruita scientificamente presso gli uffici marketing per essere infinite volte riproducibile. Altri linguaggi, altre tecniche di cui dar conto. Anni in cui irrompe la fotografia: una sezione apposita dell’Archivio Storico è dedicata agli innumerevoli servizi realizzati dai più affermati fotografi internazionali per i prodotti della P Lunga. Così come altre fotografie consentono di raccontare la pubblicità da un’altra angolazione: sono gli scatti dedicati alle mostre e fiere cui Pirelli ha partecipato fin dall’inizio delle proprie attività. Ritratti che cambiano negli anni, testimoni di un flusso continuo e in perenne evoluzione.

Il primo film pubblicitario è del 1951 ed è un cartone animato di Nino Pagot per il pneumatico Pirelli Stelvio: da allora cinema e televisione hanno ampliato ancor più la complessità del messaggio. Oggi, completamente digitalizzati e consultabili online, ci sono chilometri e chilometri di pellicole dei gloriosi anni di Carosello, insieme ai film e ai documentari storici.

Ed è proprio da qui, dal digitale, che parte oggi una nuova sfida: capire, interpretare e inserire in un processo unico un altro linguaggio ancora una volta diverso.

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Quando Lancia e Pirelli correvano nell’Endurance

Nell’ultimo weekend di giugno 2018 si è disputato sulla pista di Misano Adriatico il terzo round del campionato “Blancpain GT Series”, una delle più importanti gare automobilistiche di durata e velocità in circuito. Prossima tappa la celeberrima 24 Ore di Spa, da disputarsi a fine luglio in Belgio, e a seguire le gare dell’Hungaroring e del Nürburgring tedesco. Anche per la stagione 2018 Pirelli è il fornitore unico dei pneumatici P Zero per supercar come Aston Martin V12 Vantage, Audi R8, Ferrari 488, Lamborghini Huracan, McLaren 650S e altri “mostri sacri” dell’automobilismo sportivo di oggi.

Una disciplina motoristica, quella del Granturismo, a cui Pirelli ha sempre guardato con molto interesse, come massima sintesi tra prestazioni velocistiche e affidabilità sotto stress prolungato per i pneumatici: un laboratorio di grande importanza per il prodotto stradale, vista anche la derivazione delle vetture in gara dai rispettivi modelli di serie. E in questo senso c’è un passaggio, nella lunga storia dell’impegno Pirelli nelle gare endurance, che rappresenta una pagina importante per l’automobilismo sportivo: la vettura è la Lancia Beta Montecarlo Turbo, i pneumatici i Pirelli P7.

L’annuncio arriva negli ultimi giorni del 1978, come si legge sull’house organ Pirelli Fatti e Notizie: “Dopo 15 anni di presenza da protagonista, la Lancia lascerà ufficialmente i rally per dedicarsi alla velocità in pista. Parteciperà infatti al Campionato Mondiale Marche nel Gruppo 5 Silhouette con la Beta Montecarlo Turbo. La macchina, carrozzata Pininfarina ed equipaggiata con pneumatici Pirelli, sarà guidata da Riccardo Patrese e Walter Röhrl“. La vettura viene presentata sull’autodromo romano di Vallelunga nell’aprile del 1979 e tutti gli appassionati di automobilismo sono concordi nel definirla”splendida”: carrozzeria compatta, tigrata a strisce nere e arancioni, “una delle più belle uscite dalla matita di Pininfarina”. Ed è subito vittoria nel Campionato Mondiale Marche, dopo il rodaggio nelle gare di Silverstone e Brands Hatch, con un ottimo secondo posto sulla pista del Nürburgring  e un primo assoluto sulla pista siciliana di Pergusa, oggi utilizzata per testare pneumatici Pirelli per moto. Mai effettuato un cambio gomme a metà gara, come invece era da sempre comune nelle “6 Ore”. La bella storia della Lancia Beta Montecarlo prosegue per un biennio, con la conquista del Campionato Mondiale anche nel 1980.

La squadra Lancia Corse si rafforza con l’arrivo di Michele Alboreto ed Eddie Cheever: a loro si affianca la storica coppia Carlo Facetti-Martino Finotto, espertissimi di Granturismo. A loro il successo nientemeno che alla 24 Ore di Le Mans: per Pirelli una vittoria che mancava dal trionfo ottenuto nel 1954 con la Ferrari dei piloti José Froilán González e Maurice Trintignant. E poi ancora la conquista del Mondiale 1981, con la vettura “vestita” nella classica livrea bianco-rosso-azzurra del team Martini Racing. Il 1982 vede la Lancia all’esordio nel Mondiale Sport Prototipi con la nuova silhouette LC1 Gruppo 6, affidata ai “soliti” Michele Alboreto, Riccardo Patrese, Teo Fabi, Piercarlo Ghinzani: una vittoria finale sfumata per soli 2 secondi dietro la Porsche del pilota belga Jacques Bernard Ickx. Un’altra stagione esaltante, sempre con radiali Pirelli.

Nell’ultimo weekend di giugno 2018 si è disputato sulla pista di Misano Adriatico il terzo round del campionato “Blancpain GT Series”, una delle più importanti gare automobilistiche di durata e velocità in circuito. Prossima tappa la celeberrima 24 Ore di Spa, da disputarsi a fine luglio in Belgio, e a seguire le gare dell’Hungaroring e del Nürburgring tedesco. Anche per la stagione 2018 Pirelli è il fornitore unico dei pneumatici P Zero per supercar come Aston Martin V12 Vantage, Audi R8, Ferrari 488, Lamborghini Huracan, McLaren 650S e altri “mostri sacri” dell’automobilismo sportivo di oggi.

Una disciplina motoristica, quella del Granturismo, a cui Pirelli ha sempre guardato con molto interesse, come massima sintesi tra prestazioni velocistiche e affidabilità sotto stress prolungato per i pneumatici: un laboratorio di grande importanza per il prodotto stradale, vista anche la derivazione delle vetture in gara dai rispettivi modelli di serie. E in questo senso c’è un passaggio, nella lunga storia dell’impegno Pirelli nelle gare endurance, che rappresenta una pagina importante per l’automobilismo sportivo: la vettura è la Lancia Beta Montecarlo Turbo, i pneumatici i Pirelli P7.

L’annuncio arriva negli ultimi giorni del 1978, come si legge sull’house organ Pirelli Fatti e Notizie: “Dopo 15 anni di presenza da protagonista, la Lancia lascerà ufficialmente i rally per dedicarsi alla velocità in pista. Parteciperà infatti al Campionato Mondiale Marche nel Gruppo 5 Silhouette con la Beta Montecarlo Turbo. La macchina, carrozzata Pininfarina ed equipaggiata con pneumatici Pirelli, sarà guidata da Riccardo Patrese e Walter Röhrl“. La vettura viene presentata sull’autodromo romano di Vallelunga nell’aprile del 1979 e tutti gli appassionati di automobilismo sono concordi nel definirla”splendida”: carrozzeria compatta, tigrata a strisce nere e arancioni, “una delle più belle uscite dalla matita di Pininfarina”. Ed è subito vittoria nel Campionato Mondiale Marche, dopo il rodaggio nelle gare di Silverstone e Brands Hatch, con un ottimo secondo posto sulla pista del Nürburgring  e un primo assoluto sulla pista siciliana di Pergusa, oggi utilizzata per testare pneumatici Pirelli per moto. Mai effettuato un cambio gomme a metà gara, come invece era da sempre comune nelle “6 Ore”. La bella storia della Lancia Beta Montecarlo prosegue per un biennio, con la conquista del Campionato Mondiale anche nel 1980.

La squadra Lancia Corse si rafforza con l’arrivo di Michele Alboreto ed Eddie Cheever: a loro si affianca la storica coppia Carlo Facetti-Martino Finotto, espertissimi di Granturismo. A loro il successo nientemeno che alla 24 Ore di Le Mans: per Pirelli una vittoria che mancava dal trionfo ottenuto nel 1954 con la Ferrari dei piloti José Froilán González e Maurice Trintignant. E poi ancora la conquista del Mondiale 1981, con la vettura “vestita” nella classica livrea bianco-rosso-azzurra del team Martini Racing. Il 1982 vede la Lancia all’esordio nel Mondiale Sport Prototipi con la nuova silhouette LC1 Gruppo 6, affidata ai “soliti” Michele Alboreto, Riccardo Patrese, Teo Fabi, Piercarlo Ghinzani: una vittoria finale sfumata per soli 2 secondi dietro la Porsche del pilota belga Jacques Bernard Ickx. Un’altra stagione esaltante, sempre con radiali Pirelli.

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Il pendolo economico e il mito di Sisifo

Appena pubblicato in Italia un libro che racconta gli ultimi duecento anni di storia come alternanza fra mercato e stato. E fornisce una terza soluzione

 

Essere consapevoli di dove si è. Prendere le misure del mondo che ci circonda. Sono condizioni che valgono anche per gli imprenditori e i loro manager. Condizioni essenziali per collocare in modo corretto la propria attività. Imprese non avulse dal mondo, quindi, ma immerse nei movimenti economici e sociali del tempo. Leggere buoni libri che aiutino a camminare in questa direzione, è quindi essenziale. E un buon libro appena pubblicato in italiano è quello scritto da Paul De Grauwe, professore alla London School of Economics oltre che, fra il 1991 e il 2003 parlamentare in Belgio.

“I limiti del mercato. Da che parte oscilla il pendolo dell’economia?” riesce in relativamente poche pagine a fornire il senso dell’andamento generale dell’economia lungo gli ultimi duecento anni. Una storia di alti e bassi, che ha oscillato fra mercato e Stato e che deve essere compresa a fondo per capire dove si sta andando.

Scritto in un linguaggio piano, il libro di De Grauwe ragiona partendo dalla constatazione che se quel che conta è la prosperità delle persone, il mercato e lo stato, eterni poli fra cui oscilla l’economia, non sono altro che strumenti per raggiungere quell’obiettivo e a nulla valgono le prese di posizione ideologiche. Ma non basta, perché secondo l’autore oggi la contrapposizione stato-mercato appare essere superata: sarà cioè sempre necessario prevedere un insieme dei due. Ma in questa dialettica che difficilmente trova un equilibrio, spesso eventi dirompenti vengono a favorire pericolose estremizzazioni.

Quindi occorre porsi delle domande. Quali sono per esempio i limiti del mercato? Dobbiamo poi prepararci al rovesciamento del sistema capitalistico e alla supremazia dello stato? Ciò porterà prosperità? Il mercato deve preoccuparsi di creare welfare o è responsabilità dello stato assicurarlo ai cittadini?

Per rispondere a questi interrogativi il libro prende le mosse proprio dall’immagine del pendolo e delle sue oscillazioni economiche per poi passare ad approfondire prima i limiti del capitalismo (del mercato quindi) e poi quelli dello stato. De Grauwe alla fine non fornisce previsioni univoche: lascia libero il lettore di scegliere fra due alternative. La prima conferma le “oscillazioni del pendolo” e quindi il continuo alternarsi fra momenti in cui prevale il mercato e altri in cui prevale lo stato. La seconda è una sorta di salto di livello che prevede una riforma dei rapporti e delle relazioni fondata sulla collaborazione piuttosto che sulla competitività. Una prospettive che De Grauwe vede però difficilmente realizzabile adesso.

Ma per De Grauwe conta comunque provarci. Bella è l’immagine posta alla fine delle poco meno di duecento pagine del libro: il mito di Sisifo costretto a spingere ogni giorno un masso in cima alla montagna, dopo che ogni sera il masso rotolava nuovamente a valle. Mito però ricordato da Alfred Camus  con una interpretazione particolare, che De Grauwe riprende convinto scrivendo: “Camus vedeva la punizione inferta a Sisifo come una metafora dell’assurdità della vita. «Dovremmo confrontarci con questa assurdità?» – si chiedeva. Un’opzione è quella di suicidarsi. Camus respinge questa opzione. Egli suggerisce invece che dovremmo ribellarci contro l’assurdità della vita gettandoci in essa, vivendo intensamente e con creatività. L’eroe rivoluzionario è quello che nonostante l’assurdità della cosa e sapendo che la sua ribellione potrebbe potenzialmente non portare a niente, continua comunque a spingere il masso restando felice”.

I limiti del mercato. Da che parte oscilla il pendolo dell’economia?

Paul De Grauwe

il Mulino, 2018

Appena pubblicato in Italia un libro che racconta gli ultimi duecento anni di storia come alternanza fra mercato e stato. E fornisce una terza soluzione

 

Essere consapevoli di dove si è. Prendere le misure del mondo che ci circonda. Sono condizioni che valgono anche per gli imprenditori e i loro manager. Condizioni essenziali per collocare in modo corretto la propria attività. Imprese non avulse dal mondo, quindi, ma immerse nei movimenti economici e sociali del tempo. Leggere buoni libri che aiutino a camminare in questa direzione, è quindi essenziale. E un buon libro appena pubblicato in italiano è quello scritto da Paul De Grauwe, professore alla London School of Economics oltre che, fra il 1991 e il 2003 parlamentare in Belgio.

“I limiti del mercato. Da che parte oscilla il pendolo dell’economia?” riesce in relativamente poche pagine a fornire il senso dell’andamento generale dell’economia lungo gli ultimi duecento anni. Una storia di alti e bassi, che ha oscillato fra mercato e Stato e che deve essere compresa a fondo per capire dove si sta andando.

Scritto in un linguaggio piano, il libro di De Grauwe ragiona partendo dalla constatazione che se quel che conta è la prosperità delle persone, il mercato e lo stato, eterni poli fra cui oscilla l’economia, non sono altro che strumenti per raggiungere quell’obiettivo e a nulla valgono le prese di posizione ideologiche. Ma non basta, perché secondo l’autore oggi la contrapposizione stato-mercato appare essere superata: sarà cioè sempre necessario prevedere un insieme dei due. Ma in questa dialettica che difficilmente trova un equilibrio, spesso eventi dirompenti vengono a favorire pericolose estremizzazioni.

Quindi occorre porsi delle domande. Quali sono per esempio i limiti del mercato? Dobbiamo poi prepararci al rovesciamento del sistema capitalistico e alla supremazia dello stato? Ciò porterà prosperità? Il mercato deve preoccuparsi di creare welfare o è responsabilità dello stato assicurarlo ai cittadini?

Per rispondere a questi interrogativi il libro prende le mosse proprio dall’immagine del pendolo e delle sue oscillazioni economiche per poi passare ad approfondire prima i limiti del capitalismo (del mercato quindi) e poi quelli dello stato. De Grauwe alla fine non fornisce previsioni univoche: lascia libero il lettore di scegliere fra due alternative. La prima conferma le “oscillazioni del pendolo” e quindi il continuo alternarsi fra momenti in cui prevale il mercato e altri in cui prevale lo stato. La seconda è una sorta di salto di livello che prevede una riforma dei rapporti e delle relazioni fondata sulla collaborazione piuttosto che sulla competitività. Una prospettive che De Grauwe vede però difficilmente realizzabile adesso.

Ma per De Grauwe conta comunque provarci. Bella è l’immagine posta alla fine delle poco meno di duecento pagine del libro: il mito di Sisifo costretto a spingere ogni giorno un masso in cima alla montagna, dopo che ogni sera il masso rotolava nuovamente a valle. Mito però ricordato da Alfred Camus  con una interpretazione particolare, che De Grauwe riprende convinto scrivendo: “Camus vedeva la punizione inferta a Sisifo come una metafora dell’assurdità della vita. «Dovremmo confrontarci con questa assurdità?» – si chiedeva. Un’opzione è quella di suicidarsi. Camus respinge questa opzione. Egli suggerisce invece che dovremmo ribellarci contro l’assurdità della vita gettandoci in essa, vivendo intensamente e con creatività. L’eroe rivoluzionario è quello che nonostante l’assurdità della cosa e sapendo che la sua ribellione potrebbe potenzialmente non portare a niente, continua comunque a spingere il masso restando felice”.

I limiti del mercato. Da che parte oscilla il pendolo dell’economia?

Paul De Grauwe

il Mulino, 2018

Italia e Ue: il “narcisismo” della cattiva politica e la responsabilità di fare scelte di buon governo

La “democrazia del narcisismo”, carica di gesti clamorosi, dichiarazioni roboanti, frasi aggressive su Twitter, polemiche aspre e segnali forti di leader in “ipertrofia dell’io” può consentire di governare decentemente un grande paese come l’Italia, in stagioni incerte di crisi e radicali trasformazioni? E, comunicazione a parte (per non usare l’inflazionato, fastidioso vocabolo “narrazione” o peggio ancora “narrativa”), quali sono le responsabilità d’una classe dirigente in un mondo carico di vecchi e nuovi conflitti, muri e rinnovate frontiere? Se ne discute a lungo, sui giornali e in libri di lucida saggistica politica e sociale, in seminario e incontri tra studiosi (i dibattiti avviati meritoriamente dall’Aspen Institute e soprattutto dal Censis, ancora guidato da un autorevole intellettuale come Giuseppe De Rita). E anche se le discussioni tra élites (critiche e spesso pure lucidamente autocritiche) sono motivo di dileggio sui social media affollati da anatemi, approssimative conoscenze e posizioni partigiane, il tema del governo e, soprattutto, della “cultura di governo”, resta aperto. E investe in pieno alcune questioni cardine della qualità politica e del futuro della democrazia liberale, oltre che delle speranze d’uno sviluppo economico più equilibrato e sostenibile.

C’è all’opera un governo i cui ministri parlano molto, scompaginando a suon di dichiarazioni le carte tradizionali della politica, in nome di radicali “cambiamenti”. Ma ci sono anche questioni essenziali di scelte da fare (le infrastrutture, l’innovazione, la buona industria manifatturiera competitiva e le crisi industriali da affrontare, dall’Ilva in poi). E il cosiddetto “partito del Pil” (copywright di Dario Di Vico, sul Corriere della Sera del 22 giugno) chiede responsabilità e impegno reale di governo competente ed efficace: un partito immaginario, ma molto concreto, che vede all’opera grandi banche (Intesa San Paolo guidata da Carlo Messina) e associazioni d’impresa, a cominciare dall’Assolombarda presieduta da Carlo Bonomi e che, d’accordo con Assindustria Veneto Centro (Padova e Treviso) e Confindustria Emilia Centro (Bologna, Modena, Ferrara) fa da spina dorsale del “nuovo triangolo industriale” tra Milano, Nord Est e le “multinazionali tascabili” emiliane, cuore produttivo competitivo di respiro europeo, asse portante della migliore crescita economica (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana). Un “partito del Pil” che chiede politica industriale, fisco ridotto per le imprese che innovano e creano ricchezza e occupazione (e non “flat tax”), regole per fare crescere il lavoro produttivo (e non generici redditi di cittadinanza). La sfida, dunque, è politica, da classi dirigenti responsabili. E non di propaganda.

La crisi c’è, insomma. Ma non se ne esce con le chiacchiere.

Per cercare di capire meglio cosa fare, al di là della contingenza, vale la pena proprio andare alle radici della crisi. E partire dunque dalle considerazioni di un politologo di grande spessore culturale, Giovanni Orsina e dal suo ultimo libro edito da Marsilio, “La democrazia del narcisismo”, appunto, una sorta di “breve storia dell’antipolitica”.

Il titolo riecheggia quello d’un vecchio libro essenziale, “La cultura del narcisismo”, scritto nel 1979, quasi quarant’anni fa, da Christopher Lasch, acutissimo storico e sociologo di cultura liberale, un’indagine allora originale su “l’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive”. Nel 1994, poco prima di morire, Lasch aveva scritto un altro libro utilissimo per capire la nostra controversa attualità, “La ribellione delle élite / Il tradimento della democrazia”. Quei libri erano stati letti da studiosi e politici (pochi, troppo pochi) in cerca di senso delle trasformazioni in corso. Ma mai purtroppo erano diventati base d’una larga discussione pubblica.

Adesso la lezione di Lasch riecheggia nelle pagine del saggio di Orsina, che va alle radici della crisi rileggendo Alexis de Tocqueville sulla critica della neonata democrazia in America e i rischi della “dittatura della maggioranza” e poi due grandi filosofi del Novecento come José Ortega y Gasset e Johan Huizinga. Analizza la contraddizioni insita nella democrazia tra ampliamento dei diritti individuali in cerca della felicità e regole e vincoli istituzionali e sociali. Usa le analisi di “Massa e potere” di Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura, per rileggere lo sconquasso di Tangentopoli e poi quelle di un altro Nobel, Eugenio Montale, sulla solitudine e l’incertezza della modernità. E spingendosi oltre la deriva libertaria del Sessantotto (una stagione molto politica, concentrata sui “diritti” e sui valori dell’individualismo, prevalenti, nella diffusione di massa, rispetto al collettivismo doveristico e militante dei gruppuscoli della sinistra extraparlamentare), arriva sino all’attualità di Berlusconi, Renzi, Trump, Brexit, Lega di Salvini e 5Stelle e guarda ai “duri cristalli di rancore”: un lungo processo di disagi e fratture che sta radicalmente cambiando istituzioni e valori della politica e della convivenza civile. Tanto insistente parlar male della politica, nell’ultimo quarto di secolo, da leader sia di destra che di sinistra, ha prodotto i frutti avvelenati di cui oggi siamo costretti a occuparci.

Ecco un tema chiave per chi discute di politiche del “governare”, sfide europee e critica delle élite, senza cedere alle tentazioni di quella che Ilvo Diamanti e Marc Lazard chiamano “Popolocrazia”, esaminando, in un recente libro edito da Laterza “la metamorfosi della nostra democrazia”. “La dinamica politica – spiegano – è diventata elementare: il popolo contro le élite, quelli in basso contro quelli in alto, i ‘buoni’ contro i ‘cattivi’. La ‘popolizzazione’ degli spiriti e delle pratiche politiche ha disseppellito il mito della ‘vera democrazia’ forgiata dal ‘popolo autentico’, minando così la democrazia rappresentativa che si avvia a diventare popolocrazia”. Un processo che ha radici lunghe nel tempo, è amplificato dai media digitali ma va oltre le normali questioni della comunicazione e investe in pieno le ragioni delle libertà e del sentirsi parte responsabile e attiva di una comunità.

C’è un altro punto di vista su cui riflettere: quello di Yascha Mounk, professore di Teoria politica ad Harvard, in “Popolo vs Democrazia” ovvero “dalla cittadinanza alla dittatura elettorale”, Feltrinelli. Le democrazie liberali sono messe in difficoltà dal crescere delle diseguaglianze economiche, dagli sconvolgimenti dei flussi migratori che incidono sulle percezioni di sicurezza di fronte al pluralismo culturale e dall’ampiezza dei nuovi mezzi di comunicazione che stimolano la partecipazione ma non la formazione di coscienze critiche documentate. L’effetto? “Mentre le istituzioni si riempiono di milionari e tecnocrati, i cittadini conservano i propri diritti civili e le proprie libertà economiche ma vengono esclusi dalla vita politica”. Nascono proteste, contro i tradizionali ceti politici. Crisi radicale, appunto. Cui però Mounk ritiene si possa porre rimedio, cercando di fare crescere “un patriottismo inclusivo” fondato sulla “consapevolezza dei cittadini di essere parte di un’unica comunità”, con diritti e doveri. Sfida politica difficile. Ma possibile.

L’indicazione di Mounk vale, naturalmente, anche per la condizione italiana.

Fuori dal gioco facile e demagogico che fa leva su preoccupazioni, paure e problemi reali (la sicurezza, le diseguaglianze, l’immigrazione, il lavoro, i divari tra generazioni e condizioni sociali, l’incertezza del futuro) e dalle risposte date finora dalle forze di maggioranza e da singoli ministri in forma di slogan a effetto e individuazione di “nemici”, è necessario sapere che è in gioco il ruolo dell’Italia nel corso della generale ridiscussione di regole e opportunità di nuovi equilibri politici ed economici nell’ambito della Ue (ne hanno scritto pochi giorni fa, il 23 giugno, con competenza tre autorevoli economisti italiani, Francesco Giavazzi, Lucrezia Reichlin e Luigi Zingales sul Corriere della Sera: “Come proteggere l’interesse italiano in Europa”, con quattro proposte molto concrete sulla riforma dell’Eurozona, dal debito agli investimenti, dal fondo sociale alla disciplina delle banche). E ci sono risposte da dare sull’industria, le infrastrutture, la produttività delle imprese, le trasformazioni legate alle nuove tecnologie, la precarietà del lavoro dei giovani, i rischi di blocco dell’economia in tempi di chiusure nazionalisti e protezionistiche, che danneggiano soprattutto un Paese come l’Italia con forte vocazione all’export (ne scrive con competenza Ferruccio De Bortoli su “L’Economia” del Corriere della Sera, il 25 giugno: “Una guerra commerciale di tutti contro tutti può costare all’Italia un calo del 3,5% dell’export nel 2019. E la ripresa di casa nostra deve (quasi) tutto al successo delle vendite all’estero. Da soli non andiamo lontano”). Il protezionismo all’italiana, demagogfico e impossibile (sono scelte di competenza della Ue) potrebbe comunque solo farci male.

Sono questioni concrete, che chiedono capacità di policy (i progetti, le strategie politiche, la visione del futuro dell’Italia) e scelte sulle politics (provvedimenti concreti, leggi, atti di riforma, procedure amministrative: governo efficiente, insomma).

Il “narcisismo”, di fronte a tali problemi, è dannoso. Serve invece la buona politica. Si spera di vederla presto finalmente all’opera.

La “democrazia del narcisismo”, carica di gesti clamorosi, dichiarazioni roboanti, frasi aggressive su Twitter, polemiche aspre e segnali forti di leader in “ipertrofia dell’io” può consentire di governare decentemente un grande paese come l’Italia, in stagioni incerte di crisi e radicali trasformazioni? E, comunicazione a parte (per non usare l’inflazionato, fastidioso vocabolo “narrazione” o peggio ancora “narrativa”), quali sono le responsabilità d’una classe dirigente in un mondo carico di vecchi e nuovi conflitti, muri e rinnovate frontiere? Se ne discute a lungo, sui giornali e in libri di lucida saggistica politica e sociale, in seminario e incontri tra studiosi (i dibattiti avviati meritoriamente dall’Aspen Institute e soprattutto dal Censis, ancora guidato da un autorevole intellettuale come Giuseppe De Rita). E anche se le discussioni tra élites (critiche e spesso pure lucidamente autocritiche) sono motivo di dileggio sui social media affollati da anatemi, approssimative conoscenze e posizioni partigiane, il tema del governo e, soprattutto, della “cultura di governo”, resta aperto. E investe in pieno alcune questioni cardine della qualità politica e del futuro della democrazia liberale, oltre che delle speranze d’uno sviluppo economico più equilibrato e sostenibile.

C’è all’opera un governo i cui ministri parlano molto, scompaginando a suon di dichiarazioni le carte tradizionali della politica, in nome di radicali “cambiamenti”. Ma ci sono anche questioni essenziali di scelte da fare (le infrastrutture, l’innovazione, la buona industria manifatturiera competitiva e le crisi industriali da affrontare, dall’Ilva in poi). E il cosiddetto “partito del Pil” (copywright di Dario Di Vico, sul Corriere della Sera del 22 giugno) chiede responsabilità e impegno reale di governo competente ed efficace: un partito immaginario, ma molto concreto, che vede all’opera grandi banche (Intesa San Paolo guidata da Carlo Messina) e associazioni d’impresa, a cominciare dall’Assolombarda presieduta da Carlo Bonomi e che, d’accordo con Assindustria Veneto Centro (Padova e Treviso) e Confindustria Emilia Centro (Bologna, Modena, Ferrara) fa da spina dorsale del “nuovo triangolo industriale” tra Milano, Nord Est e le “multinazionali tascabili” emiliane, cuore produttivo competitivo di respiro europeo, asse portante della migliore crescita economica (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana). Un “partito del Pil” che chiede politica industriale, fisco ridotto per le imprese che innovano e creano ricchezza e occupazione (e non “flat tax”), regole per fare crescere il lavoro produttivo (e non generici redditi di cittadinanza). La sfida, dunque, è politica, da classi dirigenti responsabili. E non di propaganda.

La crisi c’è, insomma. Ma non se ne esce con le chiacchiere.

Per cercare di capire meglio cosa fare, al di là della contingenza, vale la pena proprio andare alle radici della crisi. E partire dunque dalle considerazioni di un politologo di grande spessore culturale, Giovanni Orsina e dal suo ultimo libro edito da Marsilio, “La democrazia del narcisismo”, appunto, una sorta di “breve storia dell’antipolitica”.

Il titolo riecheggia quello d’un vecchio libro essenziale, “La cultura del narcisismo”, scritto nel 1979, quasi quarant’anni fa, da Christopher Lasch, acutissimo storico e sociologo di cultura liberale, un’indagine allora originale su “l’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive”. Nel 1994, poco prima di morire, Lasch aveva scritto un altro libro utilissimo per capire la nostra controversa attualità, “La ribellione delle élite / Il tradimento della democrazia”. Quei libri erano stati letti da studiosi e politici (pochi, troppo pochi) in cerca di senso delle trasformazioni in corso. Ma mai purtroppo erano diventati base d’una larga discussione pubblica.

Adesso la lezione di Lasch riecheggia nelle pagine del saggio di Orsina, che va alle radici della crisi rileggendo Alexis de Tocqueville sulla critica della neonata democrazia in America e i rischi della “dittatura della maggioranza” e poi due grandi filosofi del Novecento come José Ortega y Gasset e Johan Huizinga. Analizza la contraddizioni insita nella democrazia tra ampliamento dei diritti individuali in cerca della felicità e regole e vincoli istituzionali e sociali. Usa le analisi di “Massa e potere” di Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura, per rileggere lo sconquasso di Tangentopoli e poi quelle di un altro Nobel, Eugenio Montale, sulla solitudine e l’incertezza della modernità. E spingendosi oltre la deriva libertaria del Sessantotto (una stagione molto politica, concentrata sui “diritti” e sui valori dell’individualismo, prevalenti, nella diffusione di massa, rispetto al collettivismo doveristico e militante dei gruppuscoli della sinistra extraparlamentare), arriva sino all’attualità di Berlusconi, Renzi, Trump, Brexit, Lega di Salvini e 5Stelle e guarda ai “duri cristalli di rancore”: un lungo processo di disagi e fratture che sta radicalmente cambiando istituzioni e valori della politica e della convivenza civile. Tanto insistente parlar male della politica, nell’ultimo quarto di secolo, da leader sia di destra che di sinistra, ha prodotto i frutti avvelenati di cui oggi siamo costretti a occuparci.

Ecco un tema chiave per chi discute di politiche del “governare”, sfide europee e critica delle élite, senza cedere alle tentazioni di quella che Ilvo Diamanti e Marc Lazard chiamano “Popolocrazia”, esaminando, in un recente libro edito da Laterza “la metamorfosi della nostra democrazia”. “La dinamica politica – spiegano – è diventata elementare: il popolo contro le élite, quelli in basso contro quelli in alto, i ‘buoni’ contro i ‘cattivi’. La ‘popolizzazione’ degli spiriti e delle pratiche politiche ha disseppellito il mito della ‘vera democrazia’ forgiata dal ‘popolo autentico’, minando così la democrazia rappresentativa che si avvia a diventare popolocrazia”. Un processo che ha radici lunghe nel tempo, è amplificato dai media digitali ma va oltre le normali questioni della comunicazione e investe in pieno le ragioni delle libertà e del sentirsi parte responsabile e attiva di una comunità.

C’è un altro punto di vista su cui riflettere: quello di Yascha Mounk, professore di Teoria politica ad Harvard, in “Popolo vs Democrazia” ovvero “dalla cittadinanza alla dittatura elettorale”, Feltrinelli. Le democrazie liberali sono messe in difficoltà dal crescere delle diseguaglianze economiche, dagli sconvolgimenti dei flussi migratori che incidono sulle percezioni di sicurezza di fronte al pluralismo culturale e dall’ampiezza dei nuovi mezzi di comunicazione che stimolano la partecipazione ma non la formazione di coscienze critiche documentate. L’effetto? “Mentre le istituzioni si riempiono di milionari e tecnocrati, i cittadini conservano i propri diritti civili e le proprie libertà economiche ma vengono esclusi dalla vita politica”. Nascono proteste, contro i tradizionali ceti politici. Crisi radicale, appunto. Cui però Mounk ritiene si possa porre rimedio, cercando di fare crescere “un patriottismo inclusivo” fondato sulla “consapevolezza dei cittadini di essere parte di un’unica comunità”, con diritti e doveri. Sfida politica difficile. Ma possibile.

L’indicazione di Mounk vale, naturalmente, anche per la condizione italiana.

Fuori dal gioco facile e demagogico che fa leva su preoccupazioni, paure e problemi reali (la sicurezza, le diseguaglianze, l’immigrazione, il lavoro, i divari tra generazioni e condizioni sociali, l’incertezza del futuro) e dalle risposte date finora dalle forze di maggioranza e da singoli ministri in forma di slogan a effetto e individuazione di “nemici”, è necessario sapere che è in gioco il ruolo dell’Italia nel corso della generale ridiscussione di regole e opportunità di nuovi equilibri politici ed economici nell’ambito della Ue (ne hanno scritto pochi giorni fa, il 23 giugno, con competenza tre autorevoli economisti italiani, Francesco Giavazzi, Lucrezia Reichlin e Luigi Zingales sul Corriere della Sera: “Come proteggere l’interesse italiano in Europa”, con quattro proposte molto concrete sulla riforma dell’Eurozona, dal debito agli investimenti, dal fondo sociale alla disciplina delle banche). E ci sono risposte da dare sull’industria, le infrastrutture, la produttività delle imprese, le trasformazioni legate alle nuove tecnologie, la precarietà del lavoro dei giovani, i rischi di blocco dell’economia in tempi di chiusure nazionalisti e protezionistiche, che danneggiano soprattutto un Paese come l’Italia con forte vocazione all’export (ne scrive con competenza Ferruccio De Bortoli su “L’Economia” del Corriere della Sera, il 25 giugno: “Una guerra commerciale di tutti contro tutti può costare all’Italia un calo del 3,5% dell’export nel 2019. E la ripresa di casa nostra deve (quasi) tutto al successo delle vendite all’estero. Da soli non andiamo lontano”). Il protezionismo all’italiana, demagogfico e impossibile (sono scelte di competenza della Ue) potrebbe comunque solo farci male.

Sono questioni concrete, che chiedono capacità di policy (i progetti, le strategie politiche, la visione del futuro dell’Italia) e scelte sulle politics (provvedimenti concreti, leggi, atti di riforma, procedure amministrative: governo efficiente, insomma).

Il “narcisismo”, di fronte a tali problemi, è dannoso. Serve invece la buona politica. Si spera di vederla presto finalmente all’opera.

Cultura del produrre che si evolve

Le strade delineate dall’unione dei metodi di economia circolare con il modello di impresa sociale

 

L’orizzonte della buona cultura d’impresa è ormai disegnato anche dalle pratiche che fanno capo all’economia circolare ed all’impresa sociale. Paradigmi diversi da quelli tradizionali (anche se a ben vedere solo in parte), questi approcci ai fatti della produzione sono da conoscere. Soprattutto se si pensa alle relazioni fra attività d’impresa e contesto sociale, fra fabbriche e territorio. “L’economia circolare per il rilancio  dell’impresa sociale” di Ilaria De Benedictis (dell’Università degli Studi di Napoli Parthenope) è quindi un intervento che si fa bene a leggere per diversi motivi: fornisce un quadro aggiornato e chiaro dei concetti, lega fra di loro l’economia circolare con l’impresa sociale. Facendo intravedere  sviluppi importanti per tutte le organizzazioni della produzione.

L’ economia circolare – è l’opinione dell’autrice -, è un modello economico che va al di là dei perimetri aziendali e che implica modifiche profonde di processo importanti non solo all’interno delle aziende che vogliano dotarsi di tale modello ma anche nelle relazioni tra gli attori sociali”. E non solo, perché l’approccio della economia circolare “non è solo ambientale o etico, ossia non mira esclusivamente alla riduzione delle emissioni, alla preservazione del nostro pianeta e ad evitare l’uso indiscriminato delle sue risorse, ma rappresenta un modello economico efficace poiché crea delle opportunità per la innovazione e le sinergie, crea nuovi posti di lavoro, produce efficienza e quindi risparmio e crea nuovo profitto”. Quando poi all’economia circolare, spiega ancora De Benedictis, si unisce l’operato dell’impresa sociale, allora possono nascere davvero ulteriori nuove strade in grado di condurre molto lontano anche le imprese tradizionali.

L’articolo di De Benedictis ha dalla sua non solo un argomentare leggibilissimo, ma anche una chiara scansione degli argomenti. Vengono quindi prima illustrate l’economia sociale e l’impresa sociale, poi l’economia circolare e quindi quest’ultima vista come un “nuovo modello di sviluppo” per le imprese sociali. Si delinea così una sorta di percorso di sviluppo nuovo rispetto al passato, fatto di una cultura d’impresa ancora più attenta all’uomo e insieme alla produttività, all’ambiente e alla crescita equilibrata.

L’economia circolare per il rilancio dell’impresa sociale

Ilaria De Benedictis (Università degli Studi di Napoli Parthenope)

Paper presentato in occasione del XII Colloquio Scientifico sull’impresa sociale,  25-25 maggio 2018, Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, Università degli Studi di Trento, ISBN 978-88-909832-7-6

Le strade delineate dall’unione dei metodi di economia circolare con il modello di impresa sociale

 

L’orizzonte della buona cultura d’impresa è ormai disegnato anche dalle pratiche che fanno capo all’economia circolare ed all’impresa sociale. Paradigmi diversi da quelli tradizionali (anche se a ben vedere solo in parte), questi approcci ai fatti della produzione sono da conoscere. Soprattutto se si pensa alle relazioni fra attività d’impresa e contesto sociale, fra fabbriche e territorio. “L’economia circolare per il rilancio  dell’impresa sociale” di Ilaria De Benedictis (dell’Università degli Studi di Napoli Parthenope) è quindi un intervento che si fa bene a leggere per diversi motivi: fornisce un quadro aggiornato e chiaro dei concetti, lega fra di loro l’economia circolare con l’impresa sociale. Facendo intravedere  sviluppi importanti per tutte le organizzazioni della produzione.

L’ economia circolare – è l’opinione dell’autrice -, è un modello economico che va al di là dei perimetri aziendali e che implica modifiche profonde di processo importanti non solo all’interno delle aziende che vogliano dotarsi di tale modello ma anche nelle relazioni tra gli attori sociali”. E non solo, perché l’approccio della economia circolare “non è solo ambientale o etico, ossia non mira esclusivamente alla riduzione delle emissioni, alla preservazione del nostro pianeta e ad evitare l’uso indiscriminato delle sue risorse, ma rappresenta un modello economico efficace poiché crea delle opportunità per la innovazione e le sinergie, crea nuovi posti di lavoro, produce efficienza e quindi risparmio e crea nuovo profitto”. Quando poi all’economia circolare, spiega ancora De Benedictis, si unisce l’operato dell’impresa sociale, allora possono nascere davvero ulteriori nuove strade in grado di condurre molto lontano anche le imprese tradizionali.

L’articolo di De Benedictis ha dalla sua non solo un argomentare leggibilissimo, ma anche una chiara scansione degli argomenti. Vengono quindi prima illustrate l’economia sociale e l’impresa sociale, poi l’economia circolare e quindi quest’ultima vista come un “nuovo modello di sviluppo” per le imprese sociali. Si delinea così una sorta di percorso di sviluppo nuovo rispetto al passato, fatto di una cultura d’impresa ancora più attenta all’uomo e insieme alla produttività, all’ambiente e alla crescita equilibrata.

L’economia circolare per il rilancio dell’impresa sociale

Ilaria De Benedictis (Università degli Studi di Napoli Parthenope)

Paper presentato in occasione del XII Colloquio Scientifico sull’impresa sociale,  25-25 maggio 2018, Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, Università degli Studi di Trento, ISBN 978-88-909832-7-6

A bordo della Itala: un “Pirelli Hot Lap” di cent’anni fa

Tra il 21 e il 22 giugno 2018, durante le prove del Gran Premio di Francia di F1 – sulla pista di Le Castellet si svolge una nuova sessione degli “F1 Hot Laps Pirelli”: un’iniziativa Pirelli-F1 Experiences che prevede per un ristretto ed esclusivissimo numero di ospiti la possibilità di girare in pista seduti a fianco di piloti professionisti alla guida di supercar come Mercedes AMG, Aston Martin Vanquish, McLaren 720S. Tutte naturalmente equipaggiate con pneumatici Pirelli P Zero, come a dire il più alto punto di contatto tra la pista e la strada. Indubbiamente un’occasione pressochè unica, per chi nella vita fa tutt’altro, di potersi calare nella dimensione adrenalinica di un pilota di mestiere alle prese con un mezzo meccanico potentissimo: veder scorrere sotto di sè la pista ad oltre 300 km orari, spinti da potenze superiori ai 700 cavalli è esperienza da “una volta nella vita”. Non sappiamo di preciso cosa pensò quello che forse è stato il primo, o quantomeno quello diventato più famoso, di questi tranquilli ospiti improvvisamente sbalzati nel mondo della velocità: succedeva più di cent’anni fa, lui si chiamava Luigi Barzini e nella vita faceva tutt’altro. Era giornalista del Corriere della Sera e si stava occupando di treni (di treni!) quando il direttore Luigi Albertini lo chiamò in redazione e gli prospettò un “hot lap” decisamente lungo: 17.000 chilometri sedendo di fianco al pilota-principe Scipione Borghese, a bordo di una potente vettura da 45 cavalli capace di portare le sue due tonnellate di peso ad una velocità di 70 km/h. Quell’auto era la Itala, in procinto di correre e vincere, nel 1907, il raid Pechino-Parigi. Nel libro “La metà del mondo vista da un’automobile”, diario di bordo scritto al termine del raid, Barzini ci dice che alla domanda del suo direttore “lei consentirebbe a parteciparvi?”, lui rispose semplicemente “con molto piacere”. Così il giornalista-navigatore si imbarcò per Pechino e fu vera gloria.

Come per gli “hot lappers” di oggi a Le Castellet, anche la Itala di Barzini all’epoca era considerata sicuramente una “supercar”. Prodotta dalla Itala Fabbrica Automobili di Torino di Matteo Ceirano a partire dal 1904, la sportivissima Itala aveva già vinto la Targa Florio del 1906 imponendosi come “macchina da sogno”: piaceva tanto ai piloti quanto alle grandi personalità della politica e della finanza. Quella preparata per Scipione Borghese, poi, era stata resa ancor più resistente e competitiva: i pneumatici Pirelli Ercole di misura 935×135 raggiungevano le massime dimensioni possibili per l’epoca.
Anche dopo il trionfo di Parigi, altri successi dovevano ancora arrivare per la Itala contro autovetture avversarie di rango come le Scat, le Isotta Fraschini, le Nazzaro. Poi venne la Prima Guerra Mondiale, e la Itala Fabbrica Automobili si convertì alla produzione di motori per l’aeronautica a licenza Hispano-Suiza. Fu l’inizio di un lento ma inesorabile declino: la società uscì dalle vicende belliche in grave crisi finanziaria, mentre la sua supremazia veniva pesantemente attaccata dalla Bugatti. Presso l’Archivio Storico Pirelli è conservata una fotografia la cui didascalia recita “Targa Florio. Una vettura da corsa Itala con gomme Pirelli”. La vettura porta sul cofano il numero 31. La foto – dell’agenzia francese di reportage fotografico Meurisse – è del 1922 e ritrae il pilota Wild a bordo di una Itala 51 sport 2.8: è una delle ultime apparizioni in gara della supercar torinese. Ormai sta brillando una nuova stella dell’automobilismo: l’Alfa Romeo.

Tra il 21 e il 22 giugno 2018, durante le prove del Gran Premio di Francia di F1 – sulla pista di Le Castellet si svolge una nuova sessione degli “F1 Hot Laps Pirelli”: un’iniziativa Pirelli-F1 Experiences che prevede per un ristretto ed esclusivissimo numero di ospiti la possibilità di girare in pista seduti a fianco di piloti professionisti alla guida di supercar come Mercedes AMG, Aston Martin Vanquish, McLaren 720S. Tutte naturalmente equipaggiate con pneumatici Pirelli P Zero, come a dire il più alto punto di contatto tra la pista e la strada. Indubbiamente un’occasione pressochè unica, per chi nella vita fa tutt’altro, di potersi calare nella dimensione adrenalinica di un pilota di mestiere alle prese con un mezzo meccanico potentissimo: veder scorrere sotto di sè la pista ad oltre 300 km orari, spinti da potenze superiori ai 700 cavalli è esperienza da “una volta nella vita”. Non sappiamo di preciso cosa pensò quello che forse è stato il primo, o quantomeno quello diventato più famoso, di questi tranquilli ospiti improvvisamente sbalzati nel mondo della velocità: succedeva più di cent’anni fa, lui si chiamava Luigi Barzini e nella vita faceva tutt’altro. Era giornalista del Corriere della Sera e si stava occupando di treni (di treni!) quando il direttore Luigi Albertini lo chiamò in redazione e gli prospettò un “hot lap” decisamente lungo: 17.000 chilometri sedendo di fianco al pilota-principe Scipione Borghese, a bordo di una potente vettura da 45 cavalli capace di portare le sue due tonnellate di peso ad una velocità di 70 km/h. Quell’auto era la Itala, in procinto di correre e vincere, nel 1907, il raid Pechino-Parigi. Nel libro “La metà del mondo vista da un’automobile”, diario di bordo scritto al termine del raid, Barzini ci dice che alla domanda del suo direttore “lei consentirebbe a parteciparvi?”, lui rispose semplicemente “con molto piacere”. Così il giornalista-navigatore si imbarcò per Pechino e fu vera gloria.

Come per gli “hot lappers” di oggi a Le Castellet, anche la Itala di Barzini all’epoca era considerata sicuramente una “supercar”. Prodotta dalla Itala Fabbrica Automobili di Torino di Matteo Ceirano a partire dal 1904, la sportivissima Itala aveva già vinto la Targa Florio del 1906 imponendosi come “macchina da sogno”: piaceva tanto ai piloti quanto alle grandi personalità della politica e della finanza. Quella preparata per Scipione Borghese, poi, era stata resa ancor più resistente e competitiva: i pneumatici Pirelli Ercole di misura 935×135 raggiungevano le massime dimensioni possibili per l’epoca.
Anche dopo il trionfo di Parigi, altri successi dovevano ancora arrivare per la Itala contro autovetture avversarie di rango come le Scat, le Isotta Fraschini, le Nazzaro. Poi venne la Prima Guerra Mondiale, e la Itala Fabbrica Automobili si convertì alla produzione di motori per l’aeronautica a licenza Hispano-Suiza. Fu l’inizio di un lento ma inesorabile declino: la società uscì dalle vicende belliche in grave crisi finanziaria, mentre la sua supremazia veniva pesantemente attaccata dalla Bugatti. Presso l’Archivio Storico Pirelli è conservata una fotografia la cui didascalia recita “Targa Florio. Una vettura da corsa Itala con gomme Pirelli”. La vettura porta sul cofano il numero 31. La foto – dell’agenzia francese di reportage fotografico Meurisse – è del 1922 e ritrae il pilota Wild a bordo di una Itala 51 sport 2.8: è una delle ultime apparizioni in gara della supercar torinese. Ormai sta brillando una nuova stella dell’automobilismo: l’Alfa Romeo.

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