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Concerto per pneumatici e orchestra

Pirelli con il “Canto della fabbrica” unisce industria e cultura

Dignità umana per far crescere l’impresa

Una ricerca unisce in un solo ragionamento etica, religione e organizzazione della produzione

Etica e gestione d’impresa. Binomio difficile da interpretare e da spiegare. Questione di formazione, di cultura generale e d’impresa, di storia umana e di intelligenza spirituale. Anche di religione. L’indagine sul tema è quindi complessa  e va affrontata con cautela. Leggere “Human Dignity-Centered Business Ethics: A Conceptual Framework for Business Leaders” scritto da William J. Mea (dell’U.S. Office of Management & Budget ,Washington USA, oltre che della , Georgetown University Washington), e da  Ronald R. Sims (Raymond A. Mason School of Business College of William and Mary Williamsburg USA), può essere un buon passo per iniziare a capire di più.

La ricerca apparsa recentemente sul Journal of Business Ethics  viene presentata  come “un contributo alla discussione di come le prospettive religiose possano migliorare l’etica degli affari”.

Gli autori analizzano quindi due approcci etici: quella che viene definita “legge naturale”  e la “recente dottrina e insegnamento sociale cattolico (CSD / T)”. L’articolo conduce chi legge lungo i principi che sorreggono questi due approcci ai rapporti umani, per trarre quindi “un quadro concettuale dalla legge naturale e CSD / T” che, secondo i due ricercatori, “i leader aziendali possono adottare per costruire un ethos di gestione umanistica”.

La conseguenza è l’individuazione di un terzo approccio – lo “Human DignityCentered” – che negli intenti dei due autori  “colma il divario tra le norme cristiane provate dal tempo e i bisogni concreti dei leader contemporanei”. Alla base di tutto è il concetto di “dignità umana” usato come un dispositivo retorico per trasmettere l’idea che le imprese siano composte da reti sociali dinamiche, con lo scopo ultimo di servire i bisogni umani. Approccio apparentemente lontano da quello strettamente economico, ma non poi tanto secondo Mea e Sims per i quali i principi e le virtù che il framework impiega, hanno una logica che dovrebbe ispirare l’eccellenza, poiché le pratiche etiche e la preoccupazione per il benessere umano gettano le basi per una prosperità aziendale a lungo termine.

Insomma, l’attenzione alla dignità dell’uomo nel sistema dell’organizzazione della produzione – attenzione che può trarre ispirazione sia dai principi naturali di convivenza che dalla religione -, non elimina il metodo economico di approccio ai problemi di gestione, ma lo completa e lo affina, dando origine di fatto ad una cultura della produzione a tutto tondo.

Si può non essere sempre d’accordo con quanto contenuto nella ricerca di William J. Mea e Ronald R. Sims, ma la sua lettura è da fare per addentrarsi in aspetti della cultura d’impresa assolutamente moderni eppure così spesso trascurati.

Human Dignity-Centered Business Ethics: A Conceptual Framework for Business Leaders

William J. Mea, Ronald R. Sims

Journal of Business Ethics, 2018

https://link.springer.com/article/10.1007/s10551-018-3929-8

Una ricerca unisce in un solo ragionamento etica, religione e organizzazione della produzione

Etica e gestione d’impresa. Binomio difficile da interpretare e da spiegare. Questione di formazione, di cultura generale e d’impresa, di storia umana e di intelligenza spirituale. Anche di religione. L’indagine sul tema è quindi complessa  e va affrontata con cautela. Leggere “Human Dignity-Centered Business Ethics: A Conceptual Framework for Business Leaders” scritto da William J. Mea (dell’U.S. Office of Management & Budget ,Washington USA, oltre che della , Georgetown University Washington), e da  Ronald R. Sims (Raymond A. Mason School of Business College of William and Mary Williamsburg USA), può essere un buon passo per iniziare a capire di più.

La ricerca apparsa recentemente sul Journal of Business Ethics  viene presentata  come “un contributo alla discussione di come le prospettive religiose possano migliorare l’etica degli affari”.

Gli autori analizzano quindi due approcci etici: quella che viene definita “legge naturale”  e la “recente dottrina e insegnamento sociale cattolico (CSD / T)”. L’articolo conduce chi legge lungo i principi che sorreggono questi due approcci ai rapporti umani, per trarre quindi “un quadro concettuale dalla legge naturale e CSD / T” che, secondo i due ricercatori, “i leader aziendali possono adottare per costruire un ethos di gestione umanistica”.

La conseguenza è l’individuazione di un terzo approccio – lo “Human DignityCentered” – che negli intenti dei due autori  “colma il divario tra le norme cristiane provate dal tempo e i bisogni concreti dei leader contemporanei”. Alla base di tutto è il concetto di “dignità umana” usato come un dispositivo retorico per trasmettere l’idea che le imprese siano composte da reti sociali dinamiche, con lo scopo ultimo di servire i bisogni umani. Approccio apparentemente lontano da quello strettamente economico, ma non poi tanto secondo Mea e Sims per i quali i principi e le virtù che il framework impiega, hanno una logica che dovrebbe ispirare l’eccellenza, poiché le pratiche etiche e la preoccupazione per il benessere umano gettano le basi per una prosperità aziendale a lungo termine.

Insomma, l’attenzione alla dignità dell’uomo nel sistema dell’organizzazione della produzione – attenzione che può trarre ispirazione sia dai principi naturali di convivenza che dalla religione -, non elimina il metodo economico di approccio ai problemi di gestione, ma lo completa e lo affina, dando origine di fatto ad una cultura della produzione a tutto tondo.

Si può non essere sempre d’accordo con quanto contenuto nella ricerca di William J. Mea e Ronald R. Sims, ma la sua lettura è da fare per addentrarsi in aspetti della cultura d’impresa assolutamente moderni eppure così spesso trascurati.

Human Dignity-Centered Business Ethics: A Conceptual Framework for Business Leaders

William J. Mea, Ronald R. Sims

Journal of Business Ethics, 2018

https://link.springer.com/article/10.1007/s10551-018-3929-8

Buona etica per buone imprese

I principi della gestione d’azienda attenta non solo al calcolo ma anche all’uomo

Applicare l’etica per gestire meglio l’impresa. Compito non facile ma certamente possibile. A patto che la comprensione dei collegamenti fra corretta gestione della produzione  e principi etici avvenga da subito e in maniera chiara. Non imprese buoniste, ma aziende efficienti che sanno unire in un tutt’uno buoni bilanci con buoni ambienti di lavoro. Per capire meglio di cosa si sta ragionando basta leggere – con attenzione – “Business ethics 3.0. The new integral ethics from a CEO’s perspective” di Erhard Meyer-Galow, manager  di lungo corso che ha fatto dell’etica nelle imprese una sorta di missione di vita e che in un libro denso e importante ha messo a disposizione di tutti – soprattutto dei giovani – l’esperienza accumulata negli anni.

Il libro parte dalla constatazione di come, spiega l’autore, molto spesso “la reputazione dei dirigenti aziendali è in calo a causa del loro disprezzo per le decisioni morali e le pratiche etiche”. Ma non solo. Una forte attenzione viene posta nei confronti dei giovani, perché, viene spiegato, “attualmente agli studenti di business viene insegnato solo il sapere tecnico senza preoccuparsi di essere coinvolti in modo compassionevole e olistico. Tuttavia, quando si entra nel mondo degli affari, questi laureati incontrano un mondo che richiede decisioni difficili, personalmente impegnative, per le quali la conoscenza tecnica è insufficiente”. Insomma, nelle pagine di Meyer-Galow non ci sono solo le macchine e i numeri nella gestione d’impresa, ma anche, e prima di tutto, le persone.
Il testo affronta così la questione dell’etica degli affari “dal punto di vista della crescita interna di un individuo”, applicando un vasto apparato concettuale che comprende “i principi di psicologia profonda, saggezza spirituale, meditazione e fisica quantistica”. Il libro “affronta anche l’implementazione di questo nuovo approccio nei settori aziendali più importanti come alternativa a precedenti codici di condotta inefficaci che hanno fallito”.

Chiara l’organizzazione del testo che parte “dal problema”, per passare alla “soluzione” dello stesso enumerando e approfondendo prima le questioni da affrontare e poi una serie di strumenti d’azione dei quali viene raccontata la messa in pratica.

Il libro di Meyer-Galow è certamente da leggere con attenzione, ma anche con acuto senso critico. E’ comunque una lettura da fare da parte di chi vuole davvero varcare il confine fra l’area del solo calcolo e quella di una più completa gestione delle strutture produttive.

Business ethics 3.0. The new integral ethics from a CEO’s perspective

Erhard Meyer-Galow

DEG De Gruyter Oldenbourg, 2018

I principi della gestione d’azienda attenta non solo al calcolo ma anche all’uomo

Applicare l’etica per gestire meglio l’impresa. Compito non facile ma certamente possibile. A patto che la comprensione dei collegamenti fra corretta gestione della produzione  e principi etici avvenga da subito e in maniera chiara. Non imprese buoniste, ma aziende efficienti che sanno unire in un tutt’uno buoni bilanci con buoni ambienti di lavoro. Per capire meglio di cosa si sta ragionando basta leggere – con attenzione – “Business ethics 3.0. The new integral ethics from a CEO’s perspective” di Erhard Meyer-Galow, manager  di lungo corso che ha fatto dell’etica nelle imprese una sorta di missione di vita e che in un libro denso e importante ha messo a disposizione di tutti – soprattutto dei giovani – l’esperienza accumulata negli anni.

Il libro parte dalla constatazione di come, spiega l’autore, molto spesso “la reputazione dei dirigenti aziendali è in calo a causa del loro disprezzo per le decisioni morali e le pratiche etiche”. Ma non solo. Una forte attenzione viene posta nei confronti dei giovani, perché, viene spiegato, “attualmente agli studenti di business viene insegnato solo il sapere tecnico senza preoccuparsi di essere coinvolti in modo compassionevole e olistico. Tuttavia, quando si entra nel mondo degli affari, questi laureati incontrano un mondo che richiede decisioni difficili, personalmente impegnative, per le quali la conoscenza tecnica è insufficiente”. Insomma, nelle pagine di Meyer-Galow non ci sono solo le macchine e i numeri nella gestione d’impresa, ma anche, e prima di tutto, le persone.
Il testo affronta così la questione dell’etica degli affari “dal punto di vista della crescita interna di un individuo”, applicando un vasto apparato concettuale che comprende “i principi di psicologia profonda, saggezza spirituale, meditazione e fisica quantistica”. Il libro “affronta anche l’implementazione di questo nuovo approccio nei settori aziendali più importanti come alternativa a precedenti codici di condotta inefficaci che hanno fallito”.

Chiara l’organizzazione del testo che parte “dal problema”, per passare alla “soluzione” dello stesso enumerando e approfondendo prima le questioni da affrontare e poi una serie di strumenti d’azione dei quali viene raccontata la messa in pratica.

Il libro di Meyer-Galow è certamente da leggere con attenzione, ma anche con acuto senso critico. E’ comunque una lettura da fare da parte di chi vuole davvero varcare il confine fra l’area del solo calcolo e quella di una più completa gestione delle strutture produttive.

Business ethics 3.0. The new integral ethics from a CEO’s perspective

Erhard Meyer-Galow

DEG De Gruyter Oldenbourg, 2018

Il peso delle parole cariche di senso e valori, anche per “salvare il capitalismo da se stesso”  

Ci sono parole essenziali, per fare funzionare i mercati e dunque fare crescere un’economia sostenibile. Parole come “fiducia”: la base dei legami che consentono scambi, vendite, acquisti, investimenti. Parole come “regole”: le norme e i comportamenti che traducono valori in grado di evitare che l’interesse di pochi e più forti vada a svantaggio degli altri attori più deboli nel mondo del lavoro e dei commerci. Parole come “conoscenza”: sapere cosa e come fare, ma anche perché farlo, usare strumenti per capire, esprimere il proprio punto di vista, giudicare. Per poter stare sui mercati finanziari senza essere vittime di speculazioni e raggiri è necessario abbattere al massimo “l’asimmetria informativa”, il divario tra chi mette in piedi un’operazione finanziaria e chi la subisce. L’economia è un processo di conoscenze, che si manifestano in competenze ma anche in posizioni critiche. Ecco un’altra parola: “critica”. Senza, non ci sono né progresso né libertà. Senza libertà, non c’è mercato. Il circuito virtuoso delle parole continua.

Le parole, studiate e ben dette, rispettando senso, grammatica e sintassi, dicono e definiscono il mondo. Evitano d’essere naviganti solitari in un oceano di chiacchiere”, per riprendere un’efficace sintesi di Massimo Cacciari, acuto filosofo della politica. E saldano antiche e nuove alleanze tra popolo, cui appartiene la sovranità, ed élites della rappresentanza, delle imprese, del governo della cosa pubblica e dell’economia. Parole pesanti come pietre, ricordando la lezione democratica di Carlo Levi. Tutt’altro che vane parole al vento.

Insistere sulle parole, sulla necessità di essere parte attiva di una “opinione pubblica discorsiva”, capace cioè di fare e criticare “un discorso pubblico” (per usare le sempre valide categorie di Jurgen Habermas è essenziale proprio in tempi in cui cresce lo spazio di quella che Alain Deneault chiama “mediocrazia”, il potere crescente concentrato, in politica e in economia, nelle mani di persone povere di conoscenze e competenze e forti invece nell’attitudine alla propaganda, ai proclami, alla proposta di ricette facili e semplicistiche per problemi complessi, all’utilizzo di paure e risentimenti, alla confusione tra comando (gli ordini, le imposizioni) e potere (che in democrazia è sempre abbinato all’equilibrio tra poteri diversi, alla critica e all’informazione come “cane da guardia” contro gli abusi del potere stesso).

In stagioni di crisi, provare ad andare alla radice delle parole e ricordarne senso e valore, è dunque un. esercizio quanto mai utile, anzi indispensabile.

Un esempio? Proviamo a ragionare sul lavoro, i diritti, la crisi, l’industria, le responsabilità dello sviluppo. E, contro il rischio di subire idee vaghe e confuse, cerchiamo di insistere su conoscenze e competenze e affidarci a buoni libri, per capire un po’ meglio e imparare a distinguere e decidere sui temi chiave dell’economia e dunque delle nostre vite. Libri come “Salviamo il capitalismo da se stesso” di Colin Crouch, Il Mulino. Crouch, sociologo contemporaneo tra i più autorevoli, ha insegnato alla London School of Economics e ha scritto saggi importanti, per il dibattito pubblico, da “Postdemocrazia” a “Quanto capitalismo può sopportare la società?”. Tutt’altro che apocalittico, analizza da tempo le ragioni della crisi di valori e competitività dei Paesi più industrializzati e benestanti, ha chiaro il percorso delle riforme per un’economia più sostenibile e giusta (dunque accettabile dall’opinione pubblica) e adesso documenta, con fatti e dati, come ogni uomo di cultura deve saper fare, “come contrastare il potere delle grandi corporations e dei super ricchi”. Dopo “il duro capitalismo industriale” tra Ottocento e inizio del Novecento e “il capitalismo riformato del secondo dopoguerra”, caratterizzato da sistemi di welfare e redistribuzione della ricchezza, adesso siamo in tempi di “capitalismo neo-liberista” che ha esasperato le conseguenze della globalizzazione e dell’innovazione hi tech: rapacità finanziaria, carenza di regole, ricchezza più concentrata in poche mani, diseguaglianze crescenti. E crisi: “Un neoliberismo incapace di far fronte alle esternalità che oggi minacciano la stessa vita umana e in particolare a quelle legate ai cambiamenti climatici”, un sistema che “ignorando le questioni sociali e ambientali, distruggerà le proprie risorse”. A questi poteri egoisti e irresponsabili, argomenta Crouch, si contrappongono “movimenti populisti che, ripiegati ostinatamente e illusoriamente entro confini nazionali, non riusciranno mai a imporre una qualche regolazione a livello sovranazionale”. Dunque, cosa fare? “Solo organismi con competenze internazionali come la Ue o l’Ocse, purché investiti d’un forte mandato democratico, potranno portare tutti i protagonisti ad abbandonare le proprie spinte autolesioniste”. Una sfida culturale e politica, di cittadinanza ben informata e responsabile.

Un ragionamento analogo vale anche quando di parla di diseguaglianze, redistribuzione, lavoro. Di migliori equilibri economici e sociali parla un libro essenziale, “Contro la povertà” di Emanuele Ranci Ortigosa, Francesco Brioschi Editore, con una prefazione di Tito Boeri (di cui vale la pena ricordare il recente, lucido pamphlet “Populismo e Stato sociale”, Laterza). Ranci Ortigosa, economista di grande prestigio e lunga esperienza, analizza le condizioni dei 17,5 milioni di persone che in Italia, secondo stime europee, sono a rischio povertà (nessun paese della Ue ne ha così tante) e prende atto dell’inadeguatezza delle attuali politiche di assistenza. Sa che il sostegno ai redditi più bassi è nei programmi di molte forze politiche ma anche che servono politiche non assistenzialiste ma tali da legare redditi bassi a nuovo lavoro e sviluppo economico generale, gestione dell’immigrazione e formazione per affrontare i radicali cambiamenti dei mercati e delle imprese.

Sono temi d’attualità, non solo nell’Italia alla prese con progetti e programmi d’un nuovo governo, ma anche in un’Europa che deve ricostruire legami e rapporti fondati su grandi valori, per non subire troppo difficoltà da egoismi e sovranismi. Un’Europa in cui condividere parole democratiche e liberali, cariche di valori e di senso.

Ci sono parole essenziali, per fare funzionare i mercati e dunque fare crescere un’economia sostenibile. Parole come “fiducia”: la base dei legami che consentono scambi, vendite, acquisti, investimenti. Parole come “regole”: le norme e i comportamenti che traducono valori in grado di evitare che l’interesse di pochi e più forti vada a svantaggio degli altri attori più deboli nel mondo del lavoro e dei commerci. Parole come “conoscenza”: sapere cosa e come fare, ma anche perché farlo, usare strumenti per capire, esprimere il proprio punto di vista, giudicare. Per poter stare sui mercati finanziari senza essere vittime di speculazioni e raggiri è necessario abbattere al massimo “l’asimmetria informativa”, il divario tra chi mette in piedi un’operazione finanziaria e chi la subisce. L’economia è un processo di conoscenze, che si manifestano in competenze ma anche in posizioni critiche. Ecco un’altra parola: “critica”. Senza, non ci sono né progresso né libertà. Senza libertà, non c’è mercato. Il circuito virtuoso delle parole continua.

Le parole, studiate e ben dette, rispettando senso, grammatica e sintassi, dicono e definiscono il mondo. Evitano d’essere naviganti solitari in un oceano di chiacchiere”, per riprendere un’efficace sintesi di Massimo Cacciari, acuto filosofo della politica. E saldano antiche e nuove alleanze tra popolo, cui appartiene la sovranità, ed élites della rappresentanza, delle imprese, del governo della cosa pubblica e dell’economia. Parole pesanti come pietre, ricordando la lezione democratica di Carlo Levi. Tutt’altro che vane parole al vento.

Insistere sulle parole, sulla necessità di essere parte attiva di una “opinione pubblica discorsiva”, capace cioè di fare e criticare “un discorso pubblico” (per usare le sempre valide categorie di Jurgen Habermas è essenziale proprio in tempi in cui cresce lo spazio di quella che Alain Deneault chiama “mediocrazia”, il potere crescente concentrato, in politica e in economia, nelle mani di persone povere di conoscenze e competenze e forti invece nell’attitudine alla propaganda, ai proclami, alla proposta di ricette facili e semplicistiche per problemi complessi, all’utilizzo di paure e risentimenti, alla confusione tra comando (gli ordini, le imposizioni) e potere (che in democrazia è sempre abbinato all’equilibrio tra poteri diversi, alla critica e all’informazione come “cane da guardia” contro gli abusi del potere stesso).

In stagioni di crisi, provare ad andare alla radice delle parole e ricordarne senso e valore, è dunque un. esercizio quanto mai utile, anzi indispensabile.

Un esempio? Proviamo a ragionare sul lavoro, i diritti, la crisi, l’industria, le responsabilità dello sviluppo. E, contro il rischio di subire idee vaghe e confuse, cerchiamo di insistere su conoscenze e competenze e affidarci a buoni libri, per capire un po’ meglio e imparare a distinguere e decidere sui temi chiave dell’economia e dunque delle nostre vite. Libri come “Salviamo il capitalismo da se stesso” di Colin Crouch, Il Mulino. Crouch, sociologo contemporaneo tra i più autorevoli, ha insegnato alla London School of Economics e ha scritto saggi importanti, per il dibattito pubblico, da “Postdemocrazia” a “Quanto capitalismo può sopportare la società?”. Tutt’altro che apocalittico, analizza da tempo le ragioni della crisi di valori e competitività dei Paesi più industrializzati e benestanti, ha chiaro il percorso delle riforme per un’economia più sostenibile e giusta (dunque accettabile dall’opinione pubblica) e adesso documenta, con fatti e dati, come ogni uomo di cultura deve saper fare, “come contrastare il potere delle grandi corporations e dei super ricchi”. Dopo “il duro capitalismo industriale” tra Ottocento e inizio del Novecento e “il capitalismo riformato del secondo dopoguerra”, caratterizzato da sistemi di welfare e redistribuzione della ricchezza, adesso siamo in tempi di “capitalismo neo-liberista” che ha esasperato le conseguenze della globalizzazione e dell’innovazione hi tech: rapacità finanziaria, carenza di regole, ricchezza più concentrata in poche mani, diseguaglianze crescenti. E crisi: “Un neoliberismo incapace di far fronte alle esternalità che oggi minacciano la stessa vita umana e in particolare a quelle legate ai cambiamenti climatici”, un sistema che “ignorando le questioni sociali e ambientali, distruggerà le proprie risorse”. A questi poteri egoisti e irresponsabili, argomenta Crouch, si contrappongono “movimenti populisti che, ripiegati ostinatamente e illusoriamente entro confini nazionali, non riusciranno mai a imporre una qualche regolazione a livello sovranazionale”. Dunque, cosa fare? “Solo organismi con competenze internazionali come la Ue o l’Ocse, purché investiti d’un forte mandato democratico, potranno portare tutti i protagonisti ad abbandonare le proprie spinte autolesioniste”. Una sfida culturale e politica, di cittadinanza ben informata e responsabile.

Un ragionamento analogo vale anche quando di parla di diseguaglianze, redistribuzione, lavoro. Di migliori equilibri economici e sociali parla un libro essenziale, “Contro la povertà” di Emanuele Ranci Ortigosa, Francesco Brioschi Editore, con una prefazione di Tito Boeri (di cui vale la pena ricordare il recente, lucido pamphlet “Populismo e Stato sociale”, Laterza). Ranci Ortigosa, economista di grande prestigio e lunga esperienza, analizza le condizioni dei 17,5 milioni di persone che in Italia, secondo stime europee, sono a rischio povertà (nessun paese della Ue ne ha così tante) e prende atto dell’inadeguatezza delle attuali politiche di assistenza. Sa che il sostegno ai redditi più bassi è nei programmi di molte forze politiche ma anche che servono politiche non assistenzialiste ma tali da legare redditi bassi a nuovo lavoro e sviluppo economico generale, gestione dell’immigrazione e formazione per affrontare i radicali cambiamenti dei mercati e delle imprese.

Sono temi d’attualità, non solo nell’Italia alla prese con progetti e programmi d’un nuovo governo, ma anche in un’Europa che deve ricostruire legami e rapporti fondati su grandi valori, per non subire troppo difficoltà da egoismi e sovranismi. Un’Europa in cui condividere parole democratiche e liberali, cariche di valori e di senso.

Fondazione Pirelli: i nostri primi 10 anni

22 luglio del 2008: è questa la “data di nascita” della Fondazione Pirelli. Sono trascorsi quasi 10 anni dalla costituzione della nostra Fondazione, pensata per custodire, valorizzare e divulgare la lunga storia del Gruppo Pirelli. Aperta per la prima volta al pubblico nell’aprile 2010, in questi anni la Fondazione Pirelli ha avviato numerosi progetti, anche in collaborazione con altre realtà e istituzioni culturali, come il Piccolo Teatro di Milano e il Teatro Franco Parenti, il Festival MITO SettembreMusica, il MIC-Museo Interattivo del Cinema e la Fondazione Isec, per citarne alcune.

Molte attività della nostra Fondazione partono dall’analisi e dalla lavorazione dell’Archivio Storico aziendale, sotto tutela della Sovrintendenza Archivistica per la Lombardia già dal 1972. Oltre 3,5 km di documentazione e numerose opere d’arte: il cartone preparatorio del celebre pittore Renato Guttuso per il mosaico “La ricerca scientifica”, realizzato dall’Accademia delle Belle Arti di Ravenna; la straordinaria fotografia di Luca Comerio del 1905 e migliaia di bozzetti pubblicitari, disegni e fotografie. Testimonianze dello stretto legame tra Pirelli, l’arte e il design, insieme ai preziosi oggetti custoditi in Fondazione, come il gatto Meo Romeo e la scimmietta Zizì (vincitrice del premio “Compasso d’oro” nel 1954), giocattoli in gommapiuma inventati dal designer Bruno Munari, oppure il “canestro” dell’architetto Roberto Menghi, innovativo contenitore esposto anche al MoMA di New York, dove è conservato anche una poster pubblicitario per pneumatici velo Pirelli dell’artista Massimo Vignelli.

Nel 2010 è entrata a far parte del patrimonio della Fondazione anche la Biblioteca tecnico-scientifica Pirelli, costituita da oltre 16.000 volumi sulla tecnologia della gomma e dei cavi dall’Ottocento fino ai nostri giorni e da riviste tecniche straniere di cui Pirelli detiene le uniche copie presenti in Italia, come l’inglese “India Rubber Journal” (1888) e l’americana “India Rubber World”. Dal 2010 è stata avviata una campagna di recupero, ricondizionamento e restauro dei materiali del nostro archivio: circa 2000 documenti su carta (tra bozzetti, disegni, materiale pubblicitario a stampa), 90 lucidi e l’intero fondo di pellicole cinematografiche; abbiamo inoltre catalogato più di 15.000 documenti e circa 22.000 articoli degli house organ nazionali e internazionali, come la rivista “Pirelli”. Nell’ottica di divulgare la conoscenza di questo ingente patrimonio, nel 2013 la catalogazione della Biblioteca tecnico-scientifica Pirelli è stata inserita all’interno del Sistema Bibliotecario Nazionale e nel 2014 una prima selezione di documenti, fotografie, pubblicità e audiovisivi è stata pubblicata sul sito fondazionepirelli.org nell’area dedicata all’Archivio Storico, in costante implementazione.

Per raccontare la storia dello “stile” Pirelli, in questi anni abbiamo ideato e curato anche numerose mostre: la prima è stata Un viaggio, ma… (2008), allestita a La Triennale di Milano; nel 2010 abbiamo presentato proprio negli spazi della Fondazione About a tyre, un percorso fotografico nato dalla collaborazione con NABA Nuova Accademia di Belle Arti Milano. Nel 2011 siamo tornati a La Triennale per L’anima di gomma. Estetica e tecnica al passo con la moda, sull’innovazione di Pirelli nel campo della moda, che nel 2013 ha vinto il prestigioso Red Dot Grand Prix. Risale al 2011 anche Si va che è un incanto, percorso allestitivo sulla storia del motorsport Pirelli. E poi ancora le mostre L’umanesimo industriale di Pirelli (2012), Pirelli e l’Italia in movimento (2013), Pirelli: un racconto d’inverno (2014) e Pausa pranzo: tra casa e lavoro cento anni di Italia a tavola (2015), che hanno interpretato i diversi aspetti della storia e dell’attualità di Pirelli. Fino alle più recenti: Le Architetture dell’industria (2015); Pirelli, la cultura sostenibile (2015), percorso tematico sull’evoluzione della gestione sostenibile dell’Azienda dal 1872 a oggi, con un focus sui temi della ricerca e dell’innovazione e infine Pirelli in cento immagini. La bellezza, l’innovazione, la produzione, inaugurata nel gennaio 2017 negli spazi della Biblioteca comunale “Archimede” di Settimo Torinese.

Nel 2013 abbiamo avviato il progetto “Fondazione Pirelli Educational”, programma gratuito per le scuole nato per avvicinare anche i più giovani alla cultura d’impresa di Pirelli, con percorsi didattici che si rinnovano e arricchiscono ogni anno, e che spaziano dalla storia e tecnologia del pneumatico al cinema d’impresa, dalla sostenibilità alla robotica, dalla fotografia all’evoluzione della grafica pubblicitaria: dal 2013 a oggi sono circa 14.000 gli studenti che hanno partecipato alle nostre attività educational.

In questi 10 anni abbiamo curato anche diversi progetti editoriali: Pirelli in 35 mm, due DVD realizzati tra il 2011 e il 2012 dedicati alla valorizzazione del proprio patrimonio filmografico dell’Azienda; Voci del lavoro (2012, Editori Laterza), che documenta la trasformazione dell’impianto industriale Pirelli di Settimo Torinese e la creazione del nuovo Polo Industriale attraverso l’analisi di numerose fonti orali e da cui è stato tratta, sempre nel 2012, la pièce teatrale La fabbrica e il lavoro, al Piccolo Teatro di Milano. Tra il 2015 e il 2017 la Fondazione Pirelli ha pubblicato, con Corraini Edizioni, due volumi dedicati alla storia della pubblicità e immagine prodotta dal Gruppo nell’arco dei suoi oltre 140 anni di vita: Una musa tra le ruote. Pirelli: un secolo di arte al servizio del prodotto (2015), analizzava il periodo dal 1872 al 1970, mentre La Pubblicità con la P maiuscola, uscito nel luglio 2017, è uno studio sull’advertising Pirelli dagli anni Settanta ai nostri giorni. Il nostro più recente progetto editoriale è Il Canto della fabbrica (Mondadori), una combinazione di volume + DVD in cui abbiamo raccontato l’esperienza del concerto del settembre 2017 nello stabilimento di Settimo Torinese: dalla genesi del brano musicale originale commissionato dalla Fondazione al violista Francesco Fiore, fino all’esecuzione dell’Orchestra da Camera Italiana del Maestro Salvatore Accardo.

Ne parleremo questa sera alle 19 presso l’Headquarters Pirelli di Milano Bicocca con Marco Tronchetti Provera, Presidente della Fondazione Pirelli, il Sindaco di Milano Giuseppe Sala, il Consulente editoriale Libri Mondadori Gian Arturo Ferrari, il Presidente del Festival Internazionale MITO SettembreMusica Anna Gastel e il Direttore della Fondazione Pirelli, Antonio Calabrò. Al termine della presentazione l’Orchestra da Camera Italiana diretta da Salvatore Accardo eseguirà per gli ospiti della serata “Il canto della fabbrica”: un libro, un concerto e un festa per ripercorrere insieme “i nostri primi dieci anni”.

22 luglio del 2008: è questa la “data di nascita” della Fondazione Pirelli. Sono trascorsi quasi 10 anni dalla costituzione della nostra Fondazione, pensata per custodire, valorizzare e divulgare la lunga storia del Gruppo Pirelli. Aperta per la prima volta al pubblico nell’aprile 2010, in questi anni la Fondazione Pirelli ha avviato numerosi progetti, anche in collaborazione con altre realtà e istituzioni culturali, come il Piccolo Teatro di Milano e il Teatro Franco Parenti, il Festival MITO SettembreMusica, il MIC-Museo Interattivo del Cinema e la Fondazione Isec, per citarne alcune.

Molte attività della nostra Fondazione partono dall’analisi e dalla lavorazione dell’Archivio Storico aziendale, sotto tutela della Sovrintendenza Archivistica per la Lombardia già dal 1972. Oltre 3,5 km di documentazione e numerose opere d’arte: il cartone preparatorio del celebre pittore Renato Guttuso per il mosaico “La ricerca scientifica”, realizzato dall’Accademia delle Belle Arti di Ravenna; la straordinaria fotografia di Luca Comerio del 1905 e migliaia di bozzetti pubblicitari, disegni e fotografie. Testimonianze dello stretto legame tra Pirelli, l’arte e il design, insieme ai preziosi oggetti custoditi in Fondazione, come il gatto Meo Romeo e la scimmietta Zizì (vincitrice del premio “Compasso d’oro” nel 1954), giocattoli in gommapiuma inventati dal designer Bruno Munari, oppure il “canestro” dell’architetto Roberto Menghi, innovativo contenitore esposto anche al MoMA di New York, dove è conservato anche una poster pubblicitario per pneumatici velo Pirelli dell’artista Massimo Vignelli.

Nel 2010 è entrata a far parte del patrimonio della Fondazione anche la Biblioteca tecnico-scientifica Pirelli, costituita da oltre 16.000 volumi sulla tecnologia della gomma e dei cavi dall’Ottocento fino ai nostri giorni e da riviste tecniche straniere di cui Pirelli detiene le uniche copie presenti in Italia, come l’inglese “India Rubber Journal” (1888) e l’americana “India Rubber World”. Dal 2010 è stata avviata una campagna di recupero, ricondizionamento e restauro dei materiali del nostro archivio: circa 2000 documenti su carta (tra bozzetti, disegni, materiale pubblicitario a stampa), 90 lucidi e l’intero fondo di pellicole cinematografiche; abbiamo inoltre catalogato più di 15.000 documenti e circa 22.000 articoli degli house organ nazionali e internazionali, come la rivista “Pirelli”. Nell’ottica di divulgare la conoscenza di questo ingente patrimonio, nel 2013 la catalogazione della Biblioteca tecnico-scientifica Pirelli è stata inserita all’interno del Sistema Bibliotecario Nazionale e nel 2014 una prima selezione di documenti, fotografie, pubblicità e audiovisivi è stata pubblicata sul sito fondazionepirelli.org nell’area dedicata all’Archivio Storico, in costante implementazione.

Per raccontare la storia dello “stile” Pirelli, in questi anni abbiamo ideato e curato anche numerose mostre: la prima è stata Un viaggio, ma… (2008), allestita a La Triennale di Milano; nel 2010 abbiamo presentato proprio negli spazi della Fondazione About a tyre, un percorso fotografico nato dalla collaborazione con NABA Nuova Accademia di Belle Arti Milano. Nel 2011 siamo tornati a La Triennale per L’anima di gomma. Estetica e tecnica al passo con la moda, sull’innovazione di Pirelli nel campo della moda, che nel 2013 ha vinto il prestigioso Red Dot Grand Prix. Risale al 2011 anche Si va che è un incanto, percorso allestitivo sulla storia del motorsport Pirelli. E poi ancora le mostre L’umanesimo industriale di Pirelli (2012), Pirelli e l’Italia in movimento (2013), Pirelli: un racconto d’inverno (2014) e Pausa pranzo: tra casa e lavoro cento anni di Italia a tavola (2015), che hanno interpretato i diversi aspetti della storia e dell’attualità di Pirelli. Fino alle più recenti: Le Architetture dell’industria (2015); Pirelli, la cultura sostenibile (2015), percorso tematico sull’evoluzione della gestione sostenibile dell’Azienda dal 1872 a oggi, con un focus sui temi della ricerca e dell’innovazione e infine Pirelli in cento immagini. La bellezza, l’innovazione, la produzione, inaugurata nel gennaio 2017 negli spazi della Biblioteca comunale “Archimede” di Settimo Torinese.

Nel 2013 abbiamo avviato il progetto “Fondazione Pirelli Educational”, programma gratuito per le scuole nato per avvicinare anche i più giovani alla cultura d’impresa di Pirelli, con percorsi didattici che si rinnovano e arricchiscono ogni anno, e che spaziano dalla storia e tecnologia del pneumatico al cinema d’impresa, dalla sostenibilità alla robotica, dalla fotografia all’evoluzione della grafica pubblicitaria: dal 2013 a oggi sono circa 14.000 gli studenti che hanno partecipato alle nostre attività educational.

In questi 10 anni abbiamo curato anche diversi progetti editoriali: Pirelli in 35 mm, due DVD realizzati tra il 2011 e il 2012 dedicati alla valorizzazione del proprio patrimonio filmografico dell’Azienda; Voci del lavoro (2012, Editori Laterza), che documenta la trasformazione dell’impianto industriale Pirelli di Settimo Torinese e la creazione del nuovo Polo Industriale attraverso l’analisi di numerose fonti orali e da cui è stato tratta, sempre nel 2012, la pièce teatrale La fabbrica e il lavoro, al Piccolo Teatro di Milano. Tra il 2015 e il 2017 la Fondazione Pirelli ha pubblicato, con Corraini Edizioni, due volumi dedicati alla storia della pubblicità e immagine prodotta dal Gruppo nell’arco dei suoi oltre 140 anni di vita: Una musa tra le ruote. Pirelli: un secolo di arte al servizio del prodotto (2015), analizzava il periodo dal 1872 al 1970, mentre La Pubblicità con la P maiuscola, uscito nel luglio 2017, è uno studio sull’advertising Pirelli dagli anni Settanta ai nostri giorni. Il nostro più recente progetto editoriale è Il Canto della fabbrica (Mondadori), una combinazione di volume + DVD in cui abbiamo raccontato l’esperienza del concerto del settembre 2017 nello stabilimento di Settimo Torinese: dalla genesi del brano musicale originale commissionato dalla Fondazione al violista Francesco Fiore, fino all’esecuzione dell’Orchestra da Camera Italiana del Maestro Salvatore Accardo.

Ne parleremo questa sera alle 19 presso l’Headquarters Pirelli di Milano Bicocca con Marco Tronchetti Provera, Presidente della Fondazione Pirelli, il Sindaco di Milano Giuseppe Sala, il Consulente editoriale Libri Mondadori Gian Arturo Ferrari, il Presidente del Festival Internazionale MITO SettembreMusica Anna Gastel e il Direttore della Fondazione Pirelli, Antonio Calabrò. Al termine della presentazione l’Orchestra da Camera Italiana diretta da Salvatore Accardo eseguirà per gli ospiti della serata “Il canto della fabbrica”: un libro, un concerto e un festa per ripercorrere insieme “i nostri primi dieci anni”.

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Quando lo spot è “controverso e inaspettato”. E premiato.

Nella rubrica delle “Storie dal mondo Pirelli” dedicate alla lunga tradizione di produzione cinematografica e televisiva del Gruppo Pirelli abbiamo già menzionato altrove alcuni film e spot pubblicitari che nel tempo hanno ottenuto premi e riconoscimenti sia livello nazionale, sia internazionale. Così fu per il filmato d’animazione “Novità al Salone Internazionale dell’Auto di Torino”, del 1951, realizzato dalla casa di produzione Pagot Film per la pubblicità del pneumatico Pirelli Stelvio. Il cartone animato, assolutamente innovativo per l’epoca, venne infatti premiato al II Congresso della Pubblicità di Genova e si aggiudicò la Coppa del Presidente del Consiglio per il miglior film pubblicitario alla II Mostra Internazionale della Cinematografia al servizio della pubblicità.

Era solo l’inizio di una tradizione di film e spot televisivi che sarebbero poi stati premiati per la loro genialità. In un’altra “storia” dedicata alle attrici apparse sulle copertine del periodico “Vado e Torno” -edito da Pirelli negli anni Sessanta e rivolto al settore degli autotrasportatori- la giovane Liz Allsop ci aveva portato a parlare del film “La lepre e la tartaruga”, dove l’attrice interpretava la parte di un’automobilista inglese che a bordo di una Jaguar risaliva l’Italia lungo l’Autostrada del Sole. Era il 1966: a realizzare il mediometraggio -prodotto dalla Cammell, Hudson and Brownjohn Associates per la regia di Hugh Hudson– era stata la Pirelli Limited inglese. Ancora una volta una soluzione d’avanguardia, un film completo dove il vero protagonista diventava il pneumatico Cinturato Pirelli. E così anche “La lepre e la tartaruga” ottenne diversi riconoscimenti: dai premi al VII Festival Internazionale del film industriale e alla quarta edizione delle Giornate Internazionali di Cinematografia specializzata di Milano del 1966 al premio Clifford Wheeler in Inghilterra del 1967 fino alla messa in onda, lo stesso anno, da parte della televisione italiana.

Forse poco conosciuta nel ’66 la bionda inglese Liz Allsop di “La lepre e la tartaruga”, famosissima invece la bionda americana Sharon Stone che quasi trent’anni dopo, nel 1993, interpretò lo spot televisivo “Se vuoi guidare, guida davvero”. Reduce dal successo planetario di “Basic Instinct”, nel filmato pubblicitario Pirelli diretto da Willy van der Vlugt la star del cinema interpretava idealmente la stessa Catherine Tramell con la sua passione per le auto sportive: anche qui il pneumatico era un protagonista discreto quanto fondamentale. E per Pirelli furono altri premi, con un Oscar al Festival del Cinema Industriale di Cernobbio e due primi premi attribuiti quell’anno dall’International Advertising Association. Altri nuovi successi arrivarono nel 1995, questa volta con il velocista americano Carl Lewis trasformato in tyreman per lo spot pubblicitario prodotto dall’agenzia Young & Rubicam, come “Se vuoi guidare”, diretto da Gerard de Thame per i pneumatici Pirelli P6000. Nasceva l’headline “La potenza è nulla senza controllo”, destinata a diventare sinonimo universale dei pneumatici Pirelli e delle loro prestazioni. I premi non si fecero attendere: lo spot ricevette il BTAA Commercial of the Year, tre nomination per il D&D Award e un Lion Award al Festival della Creatività di Cannes. Pubblicità “controverse e inaspettate”, come si legge nel volume “La Pubblicità con la P maiuscola” pubblicato nel 2017 a cura della Fondazione Pirelli per Corraini Edizioni: pubblicità proprio per questo apprezzate e premiate dal pubblico e dalla critica.

Nella rubrica delle “Storie dal mondo Pirelli” dedicate alla lunga tradizione di produzione cinematografica e televisiva del Gruppo Pirelli abbiamo già menzionato altrove alcuni film e spot pubblicitari che nel tempo hanno ottenuto premi e riconoscimenti sia livello nazionale, sia internazionale. Così fu per il filmato d’animazione “Novità al Salone Internazionale dell’Auto di Torino”, del 1951, realizzato dalla casa di produzione Pagot Film per la pubblicità del pneumatico Pirelli Stelvio. Il cartone animato, assolutamente innovativo per l’epoca, venne infatti premiato al II Congresso della Pubblicità di Genova e si aggiudicò la Coppa del Presidente del Consiglio per il miglior film pubblicitario alla II Mostra Internazionale della Cinematografia al servizio della pubblicità.

Era solo l’inizio di una tradizione di film e spot televisivi che sarebbero poi stati premiati per la loro genialità. In un’altra “storia” dedicata alle attrici apparse sulle copertine del periodico “Vado e Torno” -edito da Pirelli negli anni Sessanta e rivolto al settore degli autotrasportatori- la giovane Liz Allsop ci aveva portato a parlare del film “La lepre e la tartaruga”, dove l’attrice interpretava la parte di un’automobilista inglese che a bordo di una Jaguar risaliva l’Italia lungo l’Autostrada del Sole. Era il 1966: a realizzare il mediometraggio -prodotto dalla Cammell, Hudson and Brownjohn Associates per la regia di Hugh Hudson– era stata la Pirelli Limited inglese. Ancora una volta una soluzione d’avanguardia, un film completo dove il vero protagonista diventava il pneumatico Cinturato Pirelli. E così anche “La lepre e la tartaruga” ottenne diversi riconoscimenti: dai premi al VII Festival Internazionale del film industriale e alla quarta edizione delle Giornate Internazionali di Cinematografia specializzata di Milano del 1966 al premio Clifford Wheeler in Inghilterra del 1967 fino alla messa in onda, lo stesso anno, da parte della televisione italiana.

Forse poco conosciuta nel ’66 la bionda inglese Liz Allsop di “La lepre e la tartaruga”, famosissima invece la bionda americana Sharon Stone che quasi trent’anni dopo, nel 1993, interpretò lo spot televisivo “Se vuoi guidare, guida davvero”. Reduce dal successo planetario di “Basic Instinct”, nel filmato pubblicitario Pirelli diretto da Willy van der Vlugt la star del cinema interpretava idealmente la stessa Catherine Tramell con la sua passione per le auto sportive: anche qui il pneumatico era un protagonista discreto quanto fondamentale. E per Pirelli furono altri premi, con un Oscar al Festival del Cinema Industriale di Cernobbio e due primi premi attribuiti quell’anno dall’International Advertising Association. Altri nuovi successi arrivarono nel 1995, questa volta con il velocista americano Carl Lewis trasformato in tyreman per lo spot pubblicitario prodotto dall’agenzia Young & Rubicam, come “Se vuoi guidare”, diretto da Gerard de Thame per i pneumatici Pirelli P6000. Nasceva l’headline “La potenza è nulla senza controllo”, destinata a diventare sinonimo universale dei pneumatici Pirelli e delle loro prestazioni. I premi non si fecero attendere: lo spot ricevette il BTAA Commercial of the Year, tre nomination per il D&D Award e un Lion Award al Festival della Creatività di Cannes. Pubblicità “controverse e inaspettate”, come si legge nel volume “La Pubblicità con la P maiuscola” pubblicato nel 2017 a cura della Fondazione Pirelli per Corraini Edizioni: pubblicità proprio per questo apprezzate e premiate dal pubblico e dalla critica.

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Il Canto della fabbrica

Il volume è una riflessione attraverso la voce di intellettuali, musicisti e industriali su come sia possibile raccontare la fabbrica di oggi a partire proprio dalla musica. Il titolo del libro si rifà al brano “Il canto della fabbrica”, commissionato dalla Fondazione Pirelli al compositore Francesco Fiore per il violino del maestro Salvatore Accardo, ed eseguito in prima assoluta proprio all’interno del Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese durante il Festival Mito Settembre Musica 2017. Ieri, i “quattro colpi di sirena” della Seconda sinfonia di Dmitrij Sostakovic per la fabbrica di primi Novecento: acciaio, rumore, fumo, fatica pesante della produzione in serie. Oggi, il violino di Salvatore Accardo e gli archi dell’Orchestra da Camera Italiana che interpreta i ritmi della manifattura digitale degli anni Duemila, con computer e robot. Tutta un’altra «civiltà delle macchine» e delle persone che vi lavorano.

Cambia, nel corso del tempo, la fabbrica, nei rapidi mutamenti hi-tech del predominio dell'”economia della conoscenza”. Cambia, radicalmente, anche la musica per raccontarla. In questo libro c’è l’analisi di questi mutamenti e delle loro rappresentazioni contemporanee. La musica, appunto. Ma anche le immagini e la letteratura, le relazioni industriali, le dinamiche produttive, la cultura d’impresa. La fabbrica del Novecento ha rappresentato una forma della razionalità dominante nel secolo appena concluso, applicata alle logiche della produzione e del consumo di massa, con tutto il carico di conflitti e di mediazioni messe in atto per attenuarli. Ma quella razionalità ha avuto una sua cadenza storica, e da tempo cambia e trasforma gran parte delle regole e delle ricadute produttive in conseguenza delle profonde innovazioni scientifiche e tecnologiche. La fabbrica digitale ne è dunque metamorfosi, innovando radicalmente produzioni e prodotti, materiali, mestieri e professioni, linguaggi, radicamenti sui territori e adattamenti ai mercati globali, con masse di consumatori sempre più ampie ma anche con nicchie sempre più definite.

Con un corpus iconografico di oltre 120 immagini sul Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese, ieri e oggi, e sul concerto dell’Orchestra da Camera Italiana diretta da Salvatore Accardo, tenutosi all’interno dello stabilimento, con l’esecuzione del Canto della fabbrica, brano inedito appositamente composto ispirandosi ai suoni della fabbrica Pirelli. Prefazione di Marco Tronchetti Provera.

www.ilcantodellafabbrica.org

Editore Mondadori
Collana Saggi
Pagine 323
Lingua Italiano
Isbn o codice id 9788804702986

Il volume è una riflessione attraverso la voce di intellettuali, musicisti e industriali su come sia possibile raccontare la fabbrica di oggi a partire proprio dalla musica. Il titolo del libro si rifà al brano “Il canto della fabbrica”, commissionato dalla Fondazione Pirelli al compositore Francesco Fiore per il violino del maestro Salvatore Accardo, ed eseguito in prima assoluta proprio all’interno del Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese durante il Festival Mito Settembre Musica 2017. Ieri, i “quattro colpi di sirena” della Seconda sinfonia di Dmitrij Sostakovic per la fabbrica di primi Novecento: acciaio, rumore, fumo, fatica pesante della produzione in serie. Oggi, il violino di Salvatore Accardo e gli archi dell’Orchestra da Camera Italiana che interpreta i ritmi della manifattura digitale degli anni Duemila, con computer e robot. Tutta un’altra «civiltà delle macchine» e delle persone che vi lavorano.

Cambia, nel corso del tempo, la fabbrica, nei rapidi mutamenti hi-tech del predominio dell'”economia della conoscenza”. Cambia, radicalmente, anche la musica per raccontarla. In questo libro c’è l’analisi di questi mutamenti e delle loro rappresentazioni contemporanee. La musica, appunto. Ma anche le immagini e la letteratura, le relazioni industriali, le dinamiche produttive, la cultura d’impresa. La fabbrica del Novecento ha rappresentato una forma della razionalità dominante nel secolo appena concluso, applicata alle logiche della produzione e del consumo di massa, con tutto il carico di conflitti e di mediazioni messe in atto per attenuarli. Ma quella razionalità ha avuto una sua cadenza storica, e da tempo cambia e trasforma gran parte delle regole e delle ricadute produttive in conseguenza delle profonde innovazioni scientifiche e tecnologiche. La fabbrica digitale ne è dunque metamorfosi, innovando radicalmente produzioni e prodotti, materiali, mestieri e professioni, linguaggi, radicamenti sui territori e adattamenti ai mercati globali, con masse di consumatori sempre più ampie ma anche con nicchie sempre più definite.

Con un corpus iconografico di oltre 120 immagini sul Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese, ieri e oggi, e sul concerto dell’Orchestra da Camera Italiana diretta da Salvatore Accardo, tenutosi all’interno dello stabilimento, con l’esecuzione del Canto della fabbrica, brano inedito appositamente composto ispirandosi ai suoni della fabbrica Pirelli. Prefazione di Marco Tronchetti Provera.

www.ilcantodellafabbrica.org

Editore Mondadori
Collana Saggi
Pagine 323
Lingua Italiano
Isbn o codice id 9788804702986

La rivista “Pirelli” e il “Taccuino egiziano” di Giovanni Pirelli e Renato Guttuso

Pubblicata tra il 1948 e il 1972 a cadenza prevalentemente bimestrale e regolarmente distribuita in edicola, la rivista “Pirelli” nasce con lo scopo dichiarato di unire la cultura tecnico-scientifica e la cultura umanistica. La rivista accoglie contributi che spaziano dall’arte all’architettura, dalla sociologia all’economia, dall’urbanistica alla letteratura. L’intento della testata, ideata da Arturo Tofanelli, che la dirigerà fino al 1957 con Giuseppe Luraghi e Leonardo Sinisgalli, era infatti quello di saldare la cultura tecnico-aziendale con la cultura più largamente intesa. A guidare la rivista dopo Tofanelli saranno il “Direttore Propaganda” Pirelli Arrigo Castellani e, nell’ultima fase, Gianfranco Isalberti. Sulle pagine della rivista si svolge per oltre due decenni uno dei più avanzati dibattiti culturali del Paese: alla pubblicazione collaborano infatti grandi autori come Giulio Carlo Argan, Enzo Biagi, Dino Buzzati, Italo Calvino, Camilla Cederna, Gillo Dorfles, Umberto Eco, Arrigo Levi, Bruno Munari, Salvatore Quasimodo, Alberto Ronchey, Giuseppe Ungaretti, Elio Vittorini e molte altre note «firme» della cultura italiana, con articoli e inchieste corredati dalle illustrazioni di artisti del calibro di Renato Guttuso, Alessandro Mendini, Fulvio Bianconi, Mino Maccari, Ernesto Treccani. Rispetto agli house organ aziendali editi negli stessi anni, la rivista “Pirelli” si distingue fin dai primi numeri soprattutto per l’interesse manifestato nei confronti – oltre che della poesia e della letteratura – delle arti figurative, diventando presto modello di riferimento per le successive esperienze di stampa aziendale. Il ruolo dei pittori e degli illustratori su “Pirelli”, destinato a crescere tra la seconda metà degli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Sessanta, si riduce lentamente a partire dalla seconda metà anni Sessanta, quando la fotografia prende il sopravvento, coinvolgendo noti fotografi come Ugo Mulas, Arno Hammacher, Federico Patellani e Fulvio Roiter, tra gli altri. L’attenzione riservata all’apparato iconografico della rivista è in parte naturale espressione del clima culturale che si respira in Italia, e in particolar modo a Milano, già a partire dagli anni Trenta e poi nell’immediato dopoguerra, caratterizzato da un forte sodalizio tra artisti e scrittori, industria e letteratura, arte e pubblicità.

Con lo pseudonimo di Franco Fellini, anche Giovanni Pirelli firma sei articoli su “Pirelli. Rivista d’informazione e di tecnica” tra il 1954 e il 1959. Gli articoli pubblicati sui numeri di febbraio e aprile del 1959 sono relativi al viaggio in Egitto compiuto da Pirelli insieme all’amico Renato Guttuso per documentare la costruzione della diga di Aswan, ai fini di un reportage da pubblicare sulla rivista. Il primo articolo, Dove il Nilo è l’unica strada, racconta il viaggio compiuto da Giovanni Pirelli nel dicembre 1958 tra Sudan ed Egitto. Il secondo articolo, Il messaggio del nano Seneb, racconta invece il proseguimento del viaggio lungo il Nilo compiuto da Pirelli, nei primi giorni del 1959, insieme alla moglie Marinella e ai coniugi Renato e Mimise Guttuso. Gli articoli sono corredati da 16 disegni eseguiti sul posto da Guttuso, alcuni dei quali sono conservati presso la Fondazione Pirelli.

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Pubblicata tra il 1948 e il 1972 a cadenza prevalentemente bimestrale e regolarmente distribuita in edicola, la rivista “Pirelli” nasce con lo scopo dichiarato di unire la cultura tecnico-scientifica e la cultura umanistica. La rivista accoglie contributi che spaziano dall’arte all’architettura, dalla sociologia all’economia, dall’urbanistica alla letteratura. L’intento della testata, ideata da Arturo Tofanelli, che la dirigerà fino al 1957 con Giuseppe Luraghi e Leonardo Sinisgalli, era infatti quello di saldare la cultura tecnico-aziendale con la cultura più largamente intesa. A guidare la rivista dopo Tofanelli saranno il “Direttore Propaganda” Pirelli Arrigo Castellani e, nell’ultima fase, Gianfranco Isalberti. Sulle pagine della rivista si svolge per oltre due decenni uno dei più avanzati dibattiti culturali del Paese: alla pubblicazione collaborano infatti grandi autori come Giulio Carlo Argan, Enzo Biagi, Dino Buzzati, Italo Calvino, Camilla Cederna, Gillo Dorfles, Umberto Eco, Arrigo Levi, Bruno Munari, Salvatore Quasimodo, Alberto Ronchey, Giuseppe Ungaretti, Elio Vittorini e molte altre note «firme» della cultura italiana, con articoli e inchieste corredati dalle illustrazioni di artisti del calibro di Renato Guttuso, Alessandro Mendini, Fulvio Bianconi, Mino Maccari, Ernesto Treccani. Rispetto agli house organ aziendali editi negli stessi anni, la rivista “Pirelli” si distingue fin dai primi numeri soprattutto per l’interesse manifestato nei confronti – oltre che della poesia e della letteratura – delle arti figurative, diventando presto modello di riferimento per le successive esperienze di stampa aziendale. Il ruolo dei pittori e degli illustratori su “Pirelli”, destinato a crescere tra la seconda metà degli anni Cinquanta e la prima metà degli anni Sessanta, si riduce lentamente a partire dalla seconda metà anni Sessanta, quando la fotografia prende il sopravvento, coinvolgendo noti fotografi come Ugo Mulas, Arno Hammacher, Federico Patellani e Fulvio Roiter, tra gli altri. L’attenzione riservata all’apparato iconografico della rivista è in parte naturale espressione del clima culturale che si respira in Italia, e in particolar modo a Milano, già a partire dagli anni Trenta e poi nell’immediato dopoguerra, caratterizzato da un forte sodalizio tra artisti e scrittori, industria e letteratura, arte e pubblicità.

Con lo pseudonimo di Franco Fellini, anche Giovanni Pirelli firma sei articoli su “Pirelli. Rivista d’informazione e di tecnica” tra il 1954 e il 1959. Gli articoli pubblicati sui numeri di febbraio e aprile del 1959 sono relativi al viaggio in Egitto compiuto da Pirelli insieme all’amico Renato Guttuso per documentare la costruzione della diga di Aswan, ai fini di un reportage da pubblicare sulla rivista. Il primo articolo, Dove il Nilo è l’unica strada, racconta il viaggio compiuto da Giovanni Pirelli nel dicembre 1958 tra Sudan ed Egitto. Il secondo articolo, Il messaggio del nano Seneb, racconta invece il proseguimento del viaggio lungo il Nilo compiuto da Pirelli, nei primi giorni del 1959, insieme alla moglie Marinella e ai coniugi Renato e Mimise Guttuso. Gli articoli sono corredati da 16 disegni eseguiti sul posto da Guttuso, alcuni dei quali sono conservati presso la Fondazione Pirelli.

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Viaggio intorno all’imprenditore

Giuseppe Berta scrive un libro inteso sulla figura alla base di ogni impresa

Chi è davvero l’imprenditore? Domanda cruciale per capire la natura dell’impresa, cioè della creatura che dal lavoro dell’imprenditore di fatto prende vita. Organismo e organizzazione, insieme di macchine e di vite, l’impresa viene plasmata a somiglianza dell’imprenditore, e subito dopo dei manager di cui questi si circonda. Questione di cultura così come di tecnica. Anche oggi, come in passato.

L’interrogativo sulla natura dell’imprenditore è quindi importante e affascinante. Alcune risposte alla domanda sono state cercate e trovate da Giuseppe Berta, che insegna Storia contemporanea alla Bocconi di Milano ma che ha anche al suo attivo una lunga collaborazione con il sistema delle imprese italiane. Berta nel suo “L’enigma dell’imprenditore (e il destino dell’impresa)” affronta il tema prima da un punto di vista strettamente storico, poi finisce con il ragionare sull’oggi. Il racconto inizia così a partire dalla metà del Settecento, quando l’imprenditore è rappresentato come il motore del processo economico. Economia classica pura, quindi, che viene seguita nel suo evolversi con un linguaggio piano e comprensibile ma non per questo superficiale. Dalla classica immagine dell’imprenditore, si passa quindi all’individuazione di caratteri più specifici e all’identificazione dell’imprenditore con la sua capacità di innovare. Fino all’avvento dell’impostazione manageriale  statunitense. Imprenditore e manager per un certo periodo – spiega Berta –, vanno di pari passo per poi cambiare ancora. Con la diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, la questione dell’imprenditorialità torna infatti ad essere centrale. Nuove figure di imprenditori – come Steve Jobs, Mark Zuckerberg e Elon Musk –, configurano secondo Berta un “capitalismo delle piattaforme” che è oggi in discussione e che apre la strada ad un’immagine nuova dell’imprenditore stesso.

Berta racconta e analizza, pone l’accento su un aspetto piuttosto che su un altro. Si fa leggere e accompagna chi legge lungo un viaggio breve in quanto a numero di pagine, ma intenso in quanto a contenuti. Libro di storia ed economia, l’ultima produzione letteraria di Giuseppe Berta va percorsa con attenzione e apre il ragionamento anche al futuro. Proprio nelle ultime righe del racconto si legge: “Per il momento, le fortune dell’imprenditorialità dipendono da un mondo plasmato, allo stesso tempo, dalle tecnologie, dai confini mobili dell’economia internazionale e dall’ampliamento a dismisura delle disponibilità e dei circuiti finanziari. Una miscela che apparentemente può alimentare all’infinito le opportunità e il numero dei nuovi imprenditori. Ma fino a quando?”.

L’enigma dell’imprenditore (e il destino dell’impresa)

Giuseppe Berta

il Mulino, 2018

Giuseppe Berta scrive un libro inteso sulla figura alla base di ogni impresa

Chi è davvero l’imprenditore? Domanda cruciale per capire la natura dell’impresa, cioè della creatura che dal lavoro dell’imprenditore di fatto prende vita. Organismo e organizzazione, insieme di macchine e di vite, l’impresa viene plasmata a somiglianza dell’imprenditore, e subito dopo dei manager di cui questi si circonda. Questione di cultura così come di tecnica. Anche oggi, come in passato.

L’interrogativo sulla natura dell’imprenditore è quindi importante e affascinante. Alcune risposte alla domanda sono state cercate e trovate da Giuseppe Berta, che insegna Storia contemporanea alla Bocconi di Milano ma che ha anche al suo attivo una lunga collaborazione con il sistema delle imprese italiane. Berta nel suo “L’enigma dell’imprenditore (e il destino dell’impresa)” affronta il tema prima da un punto di vista strettamente storico, poi finisce con il ragionare sull’oggi. Il racconto inizia così a partire dalla metà del Settecento, quando l’imprenditore è rappresentato come il motore del processo economico. Economia classica pura, quindi, che viene seguita nel suo evolversi con un linguaggio piano e comprensibile ma non per questo superficiale. Dalla classica immagine dell’imprenditore, si passa quindi all’individuazione di caratteri più specifici e all’identificazione dell’imprenditore con la sua capacità di innovare. Fino all’avvento dell’impostazione manageriale  statunitense. Imprenditore e manager per un certo periodo – spiega Berta –, vanno di pari passo per poi cambiare ancora. Con la diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, la questione dell’imprenditorialità torna infatti ad essere centrale. Nuove figure di imprenditori – come Steve Jobs, Mark Zuckerberg e Elon Musk –, configurano secondo Berta un “capitalismo delle piattaforme” che è oggi in discussione e che apre la strada ad un’immagine nuova dell’imprenditore stesso.

Berta racconta e analizza, pone l’accento su un aspetto piuttosto che su un altro. Si fa leggere e accompagna chi legge lungo un viaggio breve in quanto a numero di pagine, ma intenso in quanto a contenuti. Libro di storia ed economia, l’ultima produzione letteraria di Giuseppe Berta va percorsa con attenzione e apre il ragionamento anche al futuro. Proprio nelle ultime righe del racconto si legge: “Per il momento, le fortune dell’imprenditorialità dipendono da un mondo plasmato, allo stesso tempo, dalle tecnologie, dai confini mobili dell’economia internazionale e dall’ampliamento a dismisura delle disponibilità e dei circuiti finanziari. Una miscela che apparentemente può alimentare all’infinito le opportunità e il numero dei nuovi imprenditori. Ma fino a quando?”.

L’enigma dell’imprenditore (e il destino dell’impresa)

Giuseppe Berta

il Mulino, 2018

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