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Equilibro produttivo

Dall’Australia una ricerca contribuisce a chiarire le relazioni fra vita lavorativa e vita personale

Equilibrio tra vita lavorativa e vita personale. Misura e proporzione, tempo produttivo e tempo umano, uomo e macchina. E’ certo che la buona cultura d’impresa passa anche dal senso delle proporzioni organizzative. Vale per tutti i comparti. Anche quelli più “semplici”. Anzi è proprio dalla fotografia delle relazioni fra tempo di lavoro e tempo personale in alcuni di questi, che possono emergere indicazioni generalizzabili. Leggere “Technology, Long Work Hours, and Stress Worsen Work-life Balance in the Construction Industry” di Simon Holden e Riza Yosia Sunindijo (della Faculty of Built Environment di Sydney, Australia), può rappresentare una buona strada per comprendere meglio un tema solo in apparenza facile.

Lo scopo di questa ricerca è valutare il livello di equilibrio tra vita lavorativa e vita privata e determinare i fattori che influiscono sull’equilibrio tra vita professionale e lavoro nel settore delle costruzioni australiano. Geograficamente lontano, proprio questo ambito di attività rappresenta una buona base di partenza per iniziare a capire.

La ricerca è stata condotta utilizzando questionari per raccogliere dati da 89 dipendenti di un’organizzazione di costruzioni di medie dimensioni a Sydney. I risultati dell’indagine vengono discussi partendo da uno schema teorico che lucidamente indentifica i “fattori” che influenzano l’equilibrio vita-lavoro: tecnologia, cultura d’impresa propriamente detta, tempo, livello delle retribuzioni, salute, welfare.

I risultati mostrano come una scarsa gestione dei “confini” sia responsabile di un equilibrio vita-lavoro relativamente basso. E come sia proprio dall’insieme di tecnologia, cultura d’impresa, compensazione salariale, salute e attuazione di iniziative di conciliazione vita-lavoro che possa delinearsi  un equilibrio efficace tra vita lavorativa e vita privata. Da un lato, spiegano i due ricercatori, la tecnologia, le lunghe ore di lavoro e lo stress possono avere impatti negativi sull’equilibrio tra lavoro e vita privata; dall’altro, le iniziative di work-life balance sostenute da un’adeguata cultura aziendale possono promuovere un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata nel settore delle costruzioni. L’indagine è corredata da una serie di schemi e tabelle di approfondimento su ogni aspetto della gestione d’impresa che influenza l’equilibro vita-lavoro.

L’impegno di analisi Holden e Sunindijo vale per lo sforzo di chiarezza compiuto e per la semplicità di esposizione di un tema che conta molto nell’ambito della crescita della cultura d’impresa moderna.

Technology, Long Work Hours, and Stress Worsen Work-life Balance in the Construction Industry

Simon Holden1, Riza Yosia Sunindijo

International Journal of Integrated Engineering, Special Issue 2018: Civil & Environmental Engineering, Vol. 10 No. 2 (2018) p. 13-18

Dall’Australia una ricerca contribuisce a chiarire le relazioni fra vita lavorativa e vita personale

Equilibrio tra vita lavorativa e vita personale. Misura e proporzione, tempo produttivo e tempo umano, uomo e macchina. E’ certo che la buona cultura d’impresa passa anche dal senso delle proporzioni organizzative. Vale per tutti i comparti. Anche quelli più “semplici”. Anzi è proprio dalla fotografia delle relazioni fra tempo di lavoro e tempo personale in alcuni di questi, che possono emergere indicazioni generalizzabili. Leggere “Technology, Long Work Hours, and Stress Worsen Work-life Balance in the Construction Industry” di Simon Holden e Riza Yosia Sunindijo (della Faculty of Built Environment di Sydney, Australia), può rappresentare una buona strada per comprendere meglio un tema solo in apparenza facile.

Lo scopo di questa ricerca è valutare il livello di equilibrio tra vita lavorativa e vita privata e determinare i fattori che influiscono sull’equilibrio tra vita professionale e lavoro nel settore delle costruzioni australiano. Geograficamente lontano, proprio questo ambito di attività rappresenta una buona base di partenza per iniziare a capire.

La ricerca è stata condotta utilizzando questionari per raccogliere dati da 89 dipendenti di un’organizzazione di costruzioni di medie dimensioni a Sydney. I risultati dell’indagine vengono discussi partendo da uno schema teorico che lucidamente indentifica i “fattori” che influenzano l’equilibrio vita-lavoro: tecnologia, cultura d’impresa propriamente detta, tempo, livello delle retribuzioni, salute, welfare.

I risultati mostrano come una scarsa gestione dei “confini” sia responsabile di un equilibrio vita-lavoro relativamente basso. E come sia proprio dall’insieme di tecnologia, cultura d’impresa, compensazione salariale, salute e attuazione di iniziative di conciliazione vita-lavoro che possa delinearsi  un equilibrio efficace tra vita lavorativa e vita privata. Da un lato, spiegano i due ricercatori, la tecnologia, le lunghe ore di lavoro e lo stress possono avere impatti negativi sull’equilibrio tra lavoro e vita privata; dall’altro, le iniziative di work-life balance sostenute da un’adeguata cultura aziendale possono promuovere un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata nel settore delle costruzioni. L’indagine è corredata da una serie di schemi e tabelle di approfondimento su ogni aspetto della gestione d’impresa che influenza l’equilibro vita-lavoro.

L’impegno di analisi Holden e Sunindijo vale per lo sforzo di chiarezza compiuto e per la semplicità di esposizione di un tema che conta molto nell’ambito della crescita della cultura d’impresa moderna.

Technology, Long Work Hours, and Stress Worsen Work-life Balance in the Construction Industry

Simon Holden1, Riza Yosia Sunindijo

International Journal of Integrated Engineering, Special Issue 2018: Civil & Environmental Engineering, Vol. 10 No. 2 (2018) p. 13-18

Otto Competence Center per Industry4.0: l’industria cresce bene senza protezionismi

Nonostante tutto, c’è un’Italia che lavora, investe, guarda con occhi intelligenti e aperti al mondo che cambia. Nei giorni di una drammatica crisi politica e istituzionale, mentre c’è chi prova a rimettere in discussione l’Europa e l’euro, dal mondo dell’economia arrivano segnali di tutt’altro tono: l’industria innova e cresce, guardando alla competizione internazionale. La notizia è questa: sono partiti gli otto Competence Center per sostenere e finanziare, anche con fondi pubblici (73 milioni) Industry 4.0 e cioè la manifattura italiana più d’avanguardia, forte in automazione, robot, big data, stampanti 3D, Internet of things, l’innovazione digital collegata alla tradizione italiana di “fare cose belle che piacciono al mondo”. Tutt’altro che provinciale, insomma, la migliore impresa italiana, animata da uomini e donne abituati a sfidare i mercati, non a chiudersi in miopi e dannosi protezionismi.

Gli otto Competence Center, definiti dal ministero dello Sviluppo Economico, vedono al lavoro insieme università, centri di ricerca e imprese. In cima all’elenco, i Politecnici di Torino (si occuperà di digitale applicato al manifatturiero, con particolare attenzione per automotive, aerospazio ed energia) e di Milano (per creare una fabbrica digitale vera e propria). Poi ci sono l’Alma Mater di Bologna (si occuperà di big data), la Scuola superiore Sant’Anna di Pisa (per la robotica, in collaborazione con l’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova), il Cnr e gli atenei di Padova, Roma e Napoli (in collaborazione con Bari). Per le imprese, tra le tante, ci sono Fca e Leonardo, General Electric Avio e Ibm, Siemens, Eni, Brembo, Ima, Comau, Stm e altre ancora.

Il cardine del lavoro comune: l’innovazione. L’obiettivo: il rafforzamento della capacità competitiva della manifattura italiana. Se ne può ricavare anche un’importante indicazione politica, di cui chi governerà il Paese dovrà tenere grandissimo conto: c’è una politica industriale, impostata dai precedenti governi, tra investimenti e stimoli fiscali, che ha rimesso in moto gli investimenti delle imprese e che bisogna continuare a sostenere, pena il rallentamento della crescita e dunque della creazione di posti di lavoro qualificati. L’esecutivo Cottarelli, nella gestione dell’ordinaria amministrazione, porterà avanti le iniziative già avviate. Nel “contratto” Lega-5Stelle, la politica industriale, invece, è purtroppo quasi assente. La prossima campagna elettorale, ragionevolmente, dovrebbe essere centrata su come irrobustire la fragile ripresa italiana, favorendo proprio industria, ricerca, innovazione, invece che cavalcare sovranismi da frontiere chiuse e assistenzialismi da pensioni facili e redditi di cittadinanza che disincentivano il lavoro.

Sono un traino importante per la ripresa, gli investimenti su Industry 4.0. Determinanti per attrarre nel nostro Paese capitali internazionali e dunque rafforzare il circuito virtuoso dello sviluppo. Lo conferma il recente Fdi Confidence Index, la classifica annuale di AtKearney sulla attrattività del Paesi: nel 2017 l’Italia è tra le “top ten”, dopo Usa, Canada, Germania, Regno Unito, Cina, Giappone, Francia, Australia e Svizzera. Un balzo avanti di tre punti, segno di dinamismo e qualità. 30 miliardi, i capitali entrati in Italia nel 2016. Una tendenza positiva ancora in corso, che potrebbe però rallentare o perfino bloccarsi a causa di incertezze politiche o scelte di governo di fratture con la Ue.

Gli investitori internazionali – spiegano i responsabili di AtKearney – apprezzano gli investimenti per Industry 4.0  e il perdurare della capacità delle imprese italiane di aumentare le quote di export sui mercati globali, così come la crescente presenza in Italia di start up e imprese innovative. “Robot e creatività, Italia più attrattiva per i capitali esteri”, sintetizza con efficacia “Il Sole24Ore” (3 maggio). I Competence Center saranno adesso uno stimolo in più. Da economia competitiva. E aperta. Un’altra eccellenza in un sistema Paese delle imprese di qualità, che non merita affatto di subire le conseguenze finanziarie del “rischio Italia” (spread in crescita, pesantezza del credito, critiche internazionali) legate a una cattiva politica incline alla propaganda e non alla concretezza del buon governo e disattenta agli equilibri dello sviluppo ben fondato e della sostenibilità ambientale e sociale delle strategie di crescita.

Nonostante tutto, c’è un’Italia che lavora, investe, guarda con occhi intelligenti e aperti al mondo che cambia. Nei giorni di una drammatica crisi politica e istituzionale, mentre c’è chi prova a rimettere in discussione l’Europa e l’euro, dal mondo dell’economia arrivano segnali di tutt’altro tono: l’industria innova e cresce, guardando alla competizione internazionale. La notizia è questa: sono partiti gli otto Competence Center per sostenere e finanziare, anche con fondi pubblici (73 milioni) Industry 4.0 e cioè la manifattura italiana più d’avanguardia, forte in automazione, robot, big data, stampanti 3D, Internet of things, l’innovazione digital collegata alla tradizione italiana di “fare cose belle che piacciono al mondo”. Tutt’altro che provinciale, insomma, la migliore impresa italiana, animata da uomini e donne abituati a sfidare i mercati, non a chiudersi in miopi e dannosi protezionismi.

Gli otto Competence Center, definiti dal ministero dello Sviluppo Economico, vedono al lavoro insieme università, centri di ricerca e imprese. In cima all’elenco, i Politecnici di Torino (si occuperà di digitale applicato al manifatturiero, con particolare attenzione per automotive, aerospazio ed energia) e di Milano (per creare una fabbrica digitale vera e propria). Poi ci sono l’Alma Mater di Bologna (si occuperà di big data), la Scuola superiore Sant’Anna di Pisa (per la robotica, in collaborazione con l’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova), il Cnr e gli atenei di Padova, Roma e Napoli (in collaborazione con Bari). Per le imprese, tra le tante, ci sono Fca e Leonardo, General Electric Avio e Ibm, Siemens, Eni, Brembo, Ima, Comau, Stm e altre ancora.

Il cardine del lavoro comune: l’innovazione. L’obiettivo: il rafforzamento della capacità competitiva della manifattura italiana. Se ne può ricavare anche un’importante indicazione politica, di cui chi governerà il Paese dovrà tenere grandissimo conto: c’è una politica industriale, impostata dai precedenti governi, tra investimenti e stimoli fiscali, che ha rimesso in moto gli investimenti delle imprese e che bisogna continuare a sostenere, pena il rallentamento della crescita e dunque della creazione di posti di lavoro qualificati. L’esecutivo Cottarelli, nella gestione dell’ordinaria amministrazione, porterà avanti le iniziative già avviate. Nel “contratto” Lega-5Stelle, la politica industriale, invece, è purtroppo quasi assente. La prossima campagna elettorale, ragionevolmente, dovrebbe essere centrata su come irrobustire la fragile ripresa italiana, favorendo proprio industria, ricerca, innovazione, invece che cavalcare sovranismi da frontiere chiuse e assistenzialismi da pensioni facili e redditi di cittadinanza che disincentivano il lavoro.

Sono un traino importante per la ripresa, gli investimenti su Industry 4.0. Determinanti per attrarre nel nostro Paese capitali internazionali e dunque rafforzare il circuito virtuoso dello sviluppo. Lo conferma il recente Fdi Confidence Index, la classifica annuale di AtKearney sulla attrattività del Paesi: nel 2017 l’Italia è tra le “top ten”, dopo Usa, Canada, Germania, Regno Unito, Cina, Giappone, Francia, Australia e Svizzera. Un balzo avanti di tre punti, segno di dinamismo e qualità. 30 miliardi, i capitali entrati in Italia nel 2016. Una tendenza positiva ancora in corso, che potrebbe però rallentare o perfino bloccarsi a causa di incertezze politiche o scelte di governo di fratture con la Ue.

Gli investitori internazionali – spiegano i responsabili di AtKearney – apprezzano gli investimenti per Industry 4.0  e il perdurare della capacità delle imprese italiane di aumentare le quote di export sui mercati globali, così come la crescente presenza in Italia di start up e imprese innovative. “Robot e creatività, Italia più attrattiva per i capitali esteri”, sintetizza con efficacia “Il Sole24Ore” (3 maggio). I Competence Center saranno adesso uno stimolo in più. Da economia competitiva. E aperta. Un’altra eccellenza in un sistema Paese delle imprese di qualità, che non merita affatto di subire le conseguenze finanziarie del “rischio Italia” (spread in crescita, pesantezza del credito, critiche internazionali) legate a una cattiva politica incline alla propaganda e non alla concretezza del buon governo e disattenta agli equilibri dello sviluppo ben fondato e della sostenibilità ambientale e sociale delle strategie di crescita.

Fangio: un pilota, un attore.
E un Cinturato “extraordinario”

Sulla scia del Festival Internazionale del Cinema di Cannes, le “storie dal mondo Pirelli” si sono spesso occupate delle tante volte in cui il cinema ha incontrato le attività del Gruppo. Dalle attrici in copertina del periodico “Vado e Torno” alla produzione di cartoni animati pubblicitari, agli articoli di critica cinematografica firmati da Morando Morandini per la rivista “Pirelli”.

Cinema e Pirelli, poi, non potevano non incontrarsi sul terreno dei film dedicati alle competizioni motoristiche. Di attori appassionati di automobilismo ce ne sono stati tanti e tanti ce ne saranno ancora: primo tra tutti Paul Newman, innamoratosi delle corse sul set di Indianapolis, pista infernale del 1969 e da allora sempre al volante nelle gare endurance, tra Daytona e Le Mans. E poi Steve McQueen, anche lui un habitué delle gare di durata, come più recentemente è stato per Patrick Dempsey e Adrien Brody. Per non dire poi di Jean-Louis Trintignant, rallista a bordo della Ford Mustang in Un uomo, una donna del 1966 ma lui stesso nipote dei piloti Louis e Maurice, quest’ultimo vincitore della 24 Ore di le Mans nel ’54 con la Ferrari 375 gommata Pirelli. Uno solo, però, è stato il pilota chiamato più e più volte a recitare se stesso davanti alla macchina da presa: l’argentino Juan Manuel Fangio. E’ il 1950: nelle foto di scena conservate presso l’Archivio Storico Pirelli, il film viene indicato con il titolo provvisorio Perdizione. In realtà uscirà l’anno successivo con il titolo Ultimo incontro. Siamo sulla pista di Monza, tra i protagonisti Amedeo Nazzari, Alida Valli e Jean-Pierre Aumont: una cupa storia di tradimenti e ricatti nel mondo dell’automobilismo sportivo in cui il pilota Fangio interpreta… il pilota Fangio.

Quell’anno l’argentino corre con la fortissima squadra Alfa Romeo assieme a miti della velocità come Nino Farina, che vincerà il titolo mondiale, Luigi Fagioli, Consalvo Sanesi e Piero Taruffi. Sulle loro tute, sotto il marchio Alfa Romeo è ricamato il logo della P lunga Pirelli che equipaggia le rosse del Quadrifoglio con i suoi pneumatici Stella Bianca. E’ già un pilota lanciato verso la leggenda, il Fangio di Perdizione/Ultimo incontro, ma l’aria seria e attenta che riesce a mostrare sul set è proprio da attore vero. Alla fine degli anni Cinquanta il pilota di Balcarce lascia le corse, forte dei cinque campionati del mondo vinti. Nel corso della sua carriera il suo nome ha incontrato più volte quello della Pirelli: avviene ancora una volta, nel 1965, e ancora una volta c’è di mezzo una macchina da presa. Uno spot pubblicitario per la rubrica televisiva Carosello prodotto dalla Gamma Film e oggetto di un reportage fotografico di Ugo Mulas: il pilota interpreta sempre se stesso, il mitico Juan Manuel Fangio che ora inanella giri su giri del circuito di Monza a bordo di un’Alfa Giulia GT. Quando scende, guarda la telecamera  e ricorda: “un tempo correvo con lo Stelvio ma ora, questo Cinturato è veramente diverso dagli altri. Extraordinario!” E così, con il suo magnifico lessico italo-argentino, Fangio continua a raccontare una lunga storia di successi anche per il pubblico dello schermo televisivo.

Dal cinema alla tv e poi di nuovo al cinema: mancava solo il film sulla sua vita, naturalmente interpretato da lui stesso ancora vivo e attivo all’età di settant’anni. Fangio, una vita a 300 all’ora esce nel 1981 ed è il lungo racconto di una storia che per molti versi resterà irripetibile. Nelle immagini del film, il supercampione del volante torna alla guida delle Alfa, delle Maserati, delle Ferrari  dei suoi anni d’oro, fino a risalire al pick-up Chevrolet con cui aveva mosso i suoi primi passi da pilota nella lontana Argentina. Come se tutto tornasse intatto. E forse è più che una coincidenza che il regista di Una vita a 300 all’ora sia quello stesso Hugh Hudson che solo qualche anno prima, nel 1966,  aveva diretto per Pirelli il film “on the road” La lepre e la tartaruga, un inno al pneumatico Cinturato che Fangio definiva “Extraordinario”.

Sulla scia del Festival Internazionale del Cinema di Cannes, le “storie dal mondo Pirelli” si sono spesso occupate delle tante volte in cui il cinema ha incontrato le attività del Gruppo. Dalle attrici in copertina del periodico “Vado e Torno” alla produzione di cartoni animati pubblicitari, agli articoli di critica cinematografica firmati da Morando Morandini per la rivista “Pirelli”.

Cinema e Pirelli, poi, non potevano non incontrarsi sul terreno dei film dedicati alle competizioni motoristiche. Di attori appassionati di automobilismo ce ne sono stati tanti e tanti ce ne saranno ancora: primo tra tutti Paul Newman, innamoratosi delle corse sul set di Indianapolis, pista infernale del 1969 e da allora sempre al volante nelle gare endurance, tra Daytona e Le Mans. E poi Steve McQueen, anche lui un habitué delle gare di durata, come più recentemente è stato per Patrick Dempsey e Adrien Brody. Per non dire poi di Jean-Louis Trintignant, rallista a bordo della Ford Mustang in Un uomo, una donna del 1966 ma lui stesso nipote dei piloti Louis e Maurice, quest’ultimo vincitore della 24 Ore di le Mans nel ’54 con la Ferrari 375 gommata Pirelli. Uno solo, però, è stato il pilota chiamato più e più volte a recitare se stesso davanti alla macchina da presa: l’argentino Juan Manuel Fangio. E’ il 1950: nelle foto di scena conservate presso l’Archivio Storico Pirelli, il film viene indicato con il titolo provvisorio Perdizione. In realtà uscirà l’anno successivo con il titolo Ultimo incontro. Siamo sulla pista di Monza, tra i protagonisti Amedeo Nazzari, Alida Valli e Jean-Pierre Aumont: una cupa storia di tradimenti e ricatti nel mondo dell’automobilismo sportivo in cui il pilota Fangio interpreta… il pilota Fangio.

Quell’anno l’argentino corre con la fortissima squadra Alfa Romeo assieme a miti della velocità come Nino Farina, che vincerà il titolo mondiale, Luigi Fagioli, Consalvo Sanesi e Piero Taruffi. Sulle loro tute, sotto il marchio Alfa Romeo è ricamato il logo della P lunga Pirelli che equipaggia le rosse del Quadrifoglio con i suoi pneumatici Stella Bianca. E’ già un pilota lanciato verso la leggenda, il Fangio di Perdizione/Ultimo incontro, ma l’aria seria e attenta che riesce a mostrare sul set è proprio da attore vero. Alla fine degli anni Cinquanta il pilota di Balcarce lascia le corse, forte dei cinque campionati del mondo vinti. Nel corso della sua carriera il suo nome ha incontrato più volte quello della Pirelli: avviene ancora una volta, nel 1965, e ancora una volta c’è di mezzo una macchina da presa. Uno spot pubblicitario per la rubrica televisiva Carosello prodotto dalla Gamma Film e oggetto di un reportage fotografico di Ugo Mulas: il pilota interpreta sempre se stesso, il mitico Juan Manuel Fangio che ora inanella giri su giri del circuito di Monza a bordo di un’Alfa Giulia GT. Quando scende, guarda la telecamera  e ricorda: “un tempo correvo con lo Stelvio ma ora, questo Cinturato è veramente diverso dagli altri. Extraordinario!” E così, con il suo magnifico lessico italo-argentino, Fangio continua a raccontare una lunga storia di successi anche per il pubblico dello schermo televisivo.

Dal cinema alla tv e poi di nuovo al cinema: mancava solo il film sulla sua vita, naturalmente interpretato da lui stesso ancora vivo e attivo all’età di settant’anni. Fangio, una vita a 300 all’ora esce nel 1981 ed è il lungo racconto di una storia che per molti versi resterà irripetibile. Nelle immagini del film, il supercampione del volante torna alla guida delle Alfa, delle Maserati, delle Ferrari  dei suoi anni d’oro, fino a risalire al pick-up Chevrolet con cui aveva mosso i suoi primi passi da pilota nella lontana Argentina. Come se tutto tornasse intatto. E forse è più che una coincidenza che il regista di Una vita a 300 all’ora sia quello stesso Hugh Hudson che solo qualche anno prima, nel 1966,  aveva diretto per Pirelli il film “on the road” La lepre e la tartaruga, un inno al pneumatico Cinturato che Fangio definiva “Extraordinario”.

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Fabbrica bella e musicale

La globalizzazione per tutti

Un libro appena pubblicato chiarisce i termini essenziali del dibattito fra apertura e chiusura dei confini, i rischi da affrontare e le opportunità da cogliere

 

Imprese globalizzate e immerse nella globalizzazione. È un dato di fatto. Che tuttavia occorre capire bene, usando guide chiare e sicure. Ne va non solo dell’organizzazione della produzione, ma soprattutto della visione con la quale imprenditori e manager  guardano oltre le finestre dei loro uffici. “Tutto un altro mondo. Globalizzazione e innovazione tecnologica: la strada europea”, scritto da Alessia Mosca e appena pubblicato serve a questo scopo.

Il libro rappresenta un buon “manuale” per comprendere i tratti essenziali della globalizzazione e del nostro atteggiamento di europei, ma anche un accorato appello a non perdere quanto di buono c’è in questo processo, contro quindi tutti i muri e i protezionismi.

L’impresa letteraria di Mosca – poco più di 150 pagine –, inizia da una considerazione: per quanto abbia portato grandi progressi e nonostante abbia plasmato una realtà che, dati alla mano, è generalmente migliore del passato anche recente, la globalizzazione è oggi pesantemente sotto attacco. Il motivo è semplice: l’evoluzione della globalizzazione è stata rapidissima e gli effetti non sono stati tutti positivi, le diseguaglianze ci sono. In altre parole, è più facile chiudersi che aprirsi agli altri.

L’autrice quindi descrive prima la storia della globalizzazione e poi il confronto fra questa e il protezionismo, per poi passare al “modello” europeo di globalizzazione. Un racconto che è un cammino verso il mondo: utile ad una cultura d’impresa che davvero voglia dirsi tale.

Ed è un racconto piano e chiaro quello che fa l’autrice di questo processo, il cui concetto viene davvero spezzettato e reso alla portata di tutti. Non vengono quindi fatti sconti alla chiarezza e neppure nascoste le ombre che pure esistono. I pro e i contro da risolvere vengono anche illustrati sulla base dell’esperienza personale di chi scrive: la prospettiva europea e il lavoro nella Commissione Commercio internazionale del Parlamento Europeo. Il risultato è un libro che si fa leggere. Utile magari da tenere a portata di mano, per dissipare dubbi e interrogativi che possono emergere lungo la strada del cammino globale di ognuno di noi.

Tutto un altro mondo. Globalizzazione e innovazione tecnologica: la strada europea

Alessia Mosca

Edizioni San Paolo, 2018.

Un libro appena pubblicato chiarisce i termini essenziali del dibattito fra apertura e chiusura dei confini, i rischi da affrontare e le opportunità da cogliere

 

Imprese globalizzate e immerse nella globalizzazione. È un dato di fatto. Che tuttavia occorre capire bene, usando guide chiare e sicure. Ne va non solo dell’organizzazione della produzione, ma soprattutto della visione con la quale imprenditori e manager  guardano oltre le finestre dei loro uffici. “Tutto un altro mondo. Globalizzazione e innovazione tecnologica: la strada europea”, scritto da Alessia Mosca e appena pubblicato serve a questo scopo.

Il libro rappresenta un buon “manuale” per comprendere i tratti essenziali della globalizzazione e del nostro atteggiamento di europei, ma anche un accorato appello a non perdere quanto di buono c’è in questo processo, contro quindi tutti i muri e i protezionismi.

L’impresa letteraria di Mosca – poco più di 150 pagine –, inizia da una considerazione: per quanto abbia portato grandi progressi e nonostante abbia plasmato una realtà che, dati alla mano, è generalmente migliore del passato anche recente, la globalizzazione è oggi pesantemente sotto attacco. Il motivo è semplice: l’evoluzione della globalizzazione è stata rapidissima e gli effetti non sono stati tutti positivi, le diseguaglianze ci sono. In altre parole, è più facile chiudersi che aprirsi agli altri.

L’autrice quindi descrive prima la storia della globalizzazione e poi il confronto fra questa e il protezionismo, per poi passare al “modello” europeo di globalizzazione. Un racconto che è un cammino verso il mondo: utile ad una cultura d’impresa che davvero voglia dirsi tale.

Ed è un racconto piano e chiaro quello che fa l’autrice di questo processo, il cui concetto viene davvero spezzettato e reso alla portata di tutti. Non vengono quindi fatti sconti alla chiarezza e neppure nascoste le ombre che pure esistono. I pro e i contro da risolvere vengono anche illustrati sulla base dell’esperienza personale di chi scrive: la prospettiva europea e il lavoro nella Commissione Commercio internazionale del Parlamento Europeo. Il risultato è un libro che si fa leggere. Utile magari da tenere a portata di mano, per dissipare dubbi e interrogativi che possono emergere lungo la strada del cammino globale di ognuno di noi.

Tutto un altro mondo. Globalizzazione e innovazione tecnologica: la strada europea

Alessia Mosca

Edizioni San Paolo, 2018.

La cultura dell’integrazione fa crescere impresa e lavoro

Una ricerca condotta a più voci, racconta l’efficacia dei legami fra territori, persone e imprese

 

Parlarsi, conoscersi, crescere insieme. Vale anche per le imprese e per i territori economici che dir si voglia. Questione di fiducia costruita poco a poco. Questione anche di cultura. Che vale anche per le organizzazioni della produzione e in generale per le attività economiche. Il punto cruciale è però sempre uno solo: raggiungere un’integrazione reale fra i territori e le persone.

Per comprendere meglio di cosa si tratta, è possibile leggere “Youth employment and regional integration in the euro-mediterranean region” lavoro scritto a più mani e pubblicato recentemente negli Euro-Mediterranean Network for Economic Studies. La ricerca ha l’obiettivo di esaminare come l’integrazione regionale sia in grado di fornire soluzioni sia a breve termine che a lungo termine alla crisi occupazionale, in particolare nell’area euromediterranea.

Prima di tutto quindi viene descritta la situazione delle politiche in materia di disoccupazione giovanile e integrazione. In secondo luogo, viene descritto l’impatto, sulla creazione di occupazione dei giovani, dell’integrazione regionale dei paesi del Mediterraneo. Infine, sono approfonditi gli scenari qualitativi più opportuni per la creazione di lavoro e indicate alcune raccomandazioni politiche per promuovere l’occupazione e l’occupabilità dei giovani. Dalla ricerca emergono quindi le indicazioni generali per una crescita della cultura dell’integrazione e di una buona cultura dell’impresa multiforme e multietnica, aperta, capace di creare inclusione. Prima di tutto, spiegano gli autori, un coordinamento maggiore fra le iniziative di occupabilità e quindi un’armonizzazione più spinta fra le regole e le legislazioni dei Paesi coinvolti, ma anche una apertura alla conoscenza e all’altro che ancora spesso manca nelle istituzioni così come nei nuclei della società e della produzione.

Il lavoro – scritto da un gruppo di ricercatori di diversi atenei che si affacciano sul Mediterraneo -, tratteggia un buon quadro della situazione e delle possibili prospettive relative al mercato del lavoro nell’area mediterranea. Uno strumento utile per allargare la “visione” delle imprese sull’argomento.

Youth employment and regional integration in the euro-mediterranean region

AA.VV.

Euro-Mediterranean Network for Economic Studies, 2018

Una ricerca condotta a più voci, racconta l’efficacia dei legami fra territori, persone e imprese

 

Parlarsi, conoscersi, crescere insieme. Vale anche per le imprese e per i territori economici che dir si voglia. Questione di fiducia costruita poco a poco. Questione anche di cultura. Che vale anche per le organizzazioni della produzione e in generale per le attività economiche. Il punto cruciale è però sempre uno solo: raggiungere un’integrazione reale fra i territori e le persone.

Per comprendere meglio di cosa si tratta, è possibile leggere “Youth employment and regional integration in the euro-mediterranean region” lavoro scritto a più mani e pubblicato recentemente negli Euro-Mediterranean Network for Economic Studies. La ricerca ha l’obiettivo di esaminare come l’integrazione regionale sia in grado di fornire soluzioni sia a breve termine che a lungo termine alla crisi occupazionale, in particolare nell’area euromediterranea.

Prima di tutto quindi viene descritta la situazione delle politiche in materia di disoccupazione giovanile e integrazione. In secondo luogo, viene descritto l’impatto, sulla creazione di occupazione dei giovani, dell’integrazione regionale dei paesi del Mediterraneo. Infine, sono approfonditi gli scenari qualitativi più opportuni per la creazione di lavoro e indicate alcune raccomandazioni politiche per promuovere l’occupazione e l’occupabilità dei giovani. Dalla ricerca emergono quindi le indicazioni generali per una crescita della cultura dell’integrazione e di una buona cultura dell’impresa multiforme e multietnica, aperta, capace di creare inclusione. Prima di tutto, spiegano gli autori, un coordinamento maggiore fra le iniziative di occupabilità e quindi un’armonizzazione più spinta fra le regole e le legislazioni dei Paesi coinvolti, ma anche una apertura alla conoscenza e all’altro che ancora spesso manca nelle istituzioni così come nei nuclei della società e della produzione.

Il lavoro – scritto da un gruppo di ricercatori di diversi atenei che si affacciano sul Mediterraneo -, tratteggia un buon quadro della situazione e delle possibili prospettive relative al mercato del lavoro nell’area mediterranea. Uno strumento utile per allargare la “visione” delle imprese sull’argomento.

Youth employment and regional integration in the euro-mediterranean region

AA.VV.

Euro-Mediterranean Network for Economic Studies, 2018

Economia digitale, il primato del lavoro e la necessità di ripensare contratti e tempi

Cambiano, le fabbriche, nella stagione dell’economia digitale. Cambia naturalmente anche il lavoro, conservando la sua centralità per un’economia bel equilibrata (oltre che per una società giusta, come sostiene la nostra Costituzione, parlandone proprio all’articolo 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”). E così stanno cambiando le rappresentazioni, i racconti del lavoro. E dunque dovranno cambiare pure le relazioni industriali, i contratti, le regole, i salari. Come? Lo racconta un libro snello ma molto denso, ben impaginato, con un’elegante copertina in carattere Payfair stampato in rosso e in blu su fondo bianco e con un titolo essenziale: “Il futuro del lavoro”.

E’ un “libro bianco” di Assolombarda, primo d’una serie (il prossimo, in settembre, riguarderà il fisco), curato dal Centro Studi Adapt sotto la supervisione scientifica di Michele Tiraboschi, uno dei migliori giuslavoristi italiani (insegna all’Università di Modena ed è stato tra i più stretti collaboratori di Marco Biagi, assassinato nel marzo 2002 dalle Brigate Rosse proprio per le sue coraggiose posizioni riformatrici del diritto del lavoro). Ed è stato presentato a Milano la scorsa settimana da Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda e da Mauro Chiassarini, vicepresidente (con delega alle politiche del lavoro, alla sicurezza e al welfare).

Ecco il punto: il lavoro in primo piano, come grande tema economico e sociale, strumento di dignità della persona, elemento cardine di cittadinanza in una relazione forte tra diritti e doveri. Un lavoro da difendere, seguendo e perché no? anticipando l’evoluzione delle dinamiche produttive (con tutta la formazione necessaria, dall’alternanza scuola-lavoro al training on the job e al long life learning ovvero, per dirla in italiano, all’obbligo di studiare sempre, anche per lavorare meglio e capire il senso di ciò che si fa lavorando). Ma anche un lavoro da creare, innovando e facendo impresa, seguendo la strada delle start up e soprattutto facendole crescere: Milano può raccontare storie esemplari. Certo, non un lavoro da sostituire con bizzarre idee assistenzialiste: il reddito di cittadinanza caro al Movimento 5 Stelle non piace affatto ad Assolombarda.

Come muoversi, allora? “Flessibilità e saperi incrociati: così cambia il lavoro del futuro”, titola “IlSole24Ore” (18 maggio) riassumendo il contenuto delle 78 pagine del libro di Assolombarda e avvertendo che quella flessibilità non significa affatto né precarietà né insicurezza ma un modo di lavorare che fa fronte alle evoluzioni della tecnologia e deve trovare nei contratti appunto un insieme di responsabilità e tutele adatte a un mondo che cambia, senza rigidità anti-storiche intollerabili per aziende flessibili né precarietà che generano diseguaglianze, disagi, distacco dal lavoro, scarsa identità, improduttività.

Se il lavoro è “spazio di espressione dell’individuo”, i contratti di lavoro non potranno non tenerne conto in modo innovativo. Traducendo in regole e organizzazione le “tecnologie di nuova generazione” e la “digitalizzazione crescente” dei processi professionali.

Serve un nuovo circuito virtuoso del lavoro, insomma, nell’epoca della cosiddetta “economia della conoscenza”. Se ne discuterà a lungo, naturalmente, anche con i sindacati, soprattutto a livello territoriale e aziendale. Ben sapendo che la competitività delle imprese è strettamente connessa alla competitività dei territori e che proprio i territori riescono a essere attrattivi per capitali e intelligenze e connotati da buona qualità della vita se sono animati da imprese attive. Un altro buon esempio di circuito virtuoso, di cui proprio la Milano contemporanea è testimone.

“Un nuovo ecosistema di relazioni”, si augura giustamente Stefano Micelli, economista attentissimo alle tematiche di “Industria 4.0” e digital economy diffusa soprattutto nelle aree della cosiddetta “Regione A4”, la zona economicamente più dinamica del Paese, lungo l’autostrada dal Piemonte al Friuli e l’asse tra Lombardia ed Emilia delle medie imprese e delle filiere produttive più attive per meccatronica e automotive (ne abbiamo parlato nel blog dell’8 maggio).

Il libro di Assolombarda invita a ripensare parecchi concetti tradizionali: quello di orario di lavoro, per esempio, buono per la fabbrica fordista da catena di montaggio e mansioni parcellizzate ma da riconsiderare in tempi di smart working, lavoro a distanza, creatività: si deve valutare non il tempo passato in azienda, ma lo svolgimento di compiti e il risultato dell’impegno professionale. Così come nei contratti va dato spazio alle questioni delle competenze, più che alle tradizionali mansioni.

C’è inoltre, nel libro, un’insistenza evidente sul rapporto tra lavoro, formazione e welfare. Tracce importanti se ne possono trovare in un contratto di lavoro recente, quello dei metalmeccanici (elaborato e firmato con il contributo essenziale delle imprese di Assolombarda e dell’Emilia). E su questa strada bisogna andare avanti, con una formazione, scolastica e universitaria, sempre legata a innovazione e cambiamento, che sono peraltro funzioni essenziali della competitività delle imprese (rilevante l’insistenza sugli Its, gli istituti superiori di formazione tecnica, in Italia ancora troppo poco diffusi, diversamente che in Germania e in Francia).

Politiche attive del lavoro, dunque. In una visione europea. E dinamismo, passo passo con i cambiamenti delle tecnologie, ma anche della demografia (siamo un paese in cui cresce l’età media e le generazioni più giovani faticano a trovare buone opportunità di lavoro e di vita).

C’è una parola chiave, sottesa a tutti questi ragionamenti. Ed è “sostenibilità”. Carattere essenziale di un’impresa, dal punto di vista sia sociale che ambientale. Orizzonte di senso per tutti coloro che, dagli investitori ai manager, dai tecnici agli operai specializzati, fanno vivere e crescere un’impresa. E ambito culturale e morale di responsabilità, nell’incrocio positivo tra “valore” (i profitti per gli azionisti) e “valori”, tutto quel che ci tiene insieme in un’orizzonte etico di responsabilità.

Vengono in mente, in questo contesto, le parole di Leopoldo Pirelli, sulle regole del buon imprenditore, nel discorso pronunciato al Collegio degli ingegneri di Milano, nell’ottobre 1986: “La nostra credibilità, la nostra autorevolezza, direi la nostra legittimazione nella coscienza pubblica sono in diretto rapporto con il ruolo che svolgiamo nel concorrere al superamento degli squilibri sociali ed economici dei paesi in cui si opera: sempre più l’impresa si presenta come luogo di sintesi tra le tendenze orientate al massimo progresso tecnico-economico e le tendenze umane di migliori condizioni di lavoro e di vita”. Regole di piena attualità

Cambiano, le fabbriche, nella stagione dell’economia digitale. Cambia naturalmente anche il lavoro, conservando la sua centralità per un’economia bel equilibrata (oltre che per una società giusta, come sostiene la nostra Costituzione, parlandone proprio all’articolo 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”). E così stanno cambiando le rappresentazioni, i racconti del lavoro. E dunque dovranno cambiare pure le relazioni industriali, i contratti, le regole, i salari. Come? Lo racconta un libro snello ma molto denso, ben impaginato, con un’elegante copertina in carattere Payfair stampato in rosso e in blu su fondo bianco e con un titolo essenziale: “Il futuro del lavoro”.

E’ un “libro bianco” di Assolombarda, primo d’una serie (il prossimo, in settembre, riguarderà il fisco), curato dal Centro Studi Adapt sotto la supervisione scientifica di Michele Tiraboschi, uno dei migliori giuslavoristi italiani (insegna all’Università di Modena ed è stato tra i più stretti collaboratori di Marco Biagi, assassinato nel marzo 2002 dalle Brigate Rosse proprio per le sue coraggiose posizioni riformatrici del diritto del lavoro). Ed è stato presentato a Milano la scorsa settimana da Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda e da Mauro Chiassarini, vicepresidente (con delega alle politiche del lavoro, alla sicurezza e al welfare).

Ecco il punto: il lavoro in primo piano, come grande tema economico e sociale, strumento di dignità della persona, elemento cardine di cittadinanza in una relazione forte tra diritti e doveri. Un lavoro da difendere, seguendo e perché no? anticipando l’evoluzione delle dinamiche produttive (con tutta la formazione necessaria, dall’alternanza scuola-lavoro al training on the job e al long life learning ovvero, per dirla in italiano, all’obbligo di studiare sempre, anche per lavorare meglio e capire il senso di ciò che si fa lavorando). Ma anche un lavoro da creare, innovando e facendo impresa, seguendo la strada delle start up e soprattutto facendole crescere: Milano può raccontare storie esemplari. Certo, non un lavoro da sostituire con bizzarre idee assistenzialiste: il reddito di cittadinanza caro al Movimento 5 Stelle non piace affatto ad Assolombarda.

Come muoversi, allora? “Flessibilità e saperi incrociati: così cambia il lavoro del futuro”, titola “IlSole24Ore” (18 maggio) riassumendo il contenuto delle 78 pagine del libro di Assolombarda e avvertendo che quella flessibilità non significa affatto né precarietà né insicurezza ma un modo di lavorare che fa fronte alle evoluzioni della tecnologia e deve trovare nei contratti appunto un insieme di responsabilità e tutele adatte a un mondo che cambia, senza rigidità anti-storiche intollerabili per aziende flessibili né precarietà che generano diseguaglianze, disagi, distacco dal lavoro, scarsa identità, improduttività.

Se il lavoro è “spazio di espressione dell’individuo”, i contratti di lavoro non potranno non tenerne conto in modo innovativo. Traducendo in regole e organizzazione le “tecnologie di nuova generazione” e la “digitalizzazione crescente” dei processi professionali.

Serve un nuovo circuito virtuoso del lavoro, insomma, nell’epoca della cosiddetta “economia della conoscenza”. Se ne discuterà a lungo, naturalmente, anche con i sindacati, soprattutto a livello territoriale e aziendale. Ben sapendo che la competitività delle imprese è strettamente connessa alla competitività dei territori e che proprio i territori riescono a essere attrattivi per capitali e intelligenze e connotati da buona qualità della vita se sono animati da imprese attive. Un altro buon esempio di circuito virtuoso, di cui proprio la Milano contemporanea è testimone.

“Un nuovo ecosistema di relazioni”, si augura giustamente Stefano Micelli, economista attentissimo alle tematiche di “Industria 4.0” e digital economy diffusa soprattutto nelle aree della cosiddetta “Regione A4”, la zona economicamente più dinamica del Paese, lungo l’autostrada dal Piemonte al Friuli e l’asse tra Lombardia ed Emilia delle medie imprese e delle filiere produttive più attive per meccatronica e automotive (ne abbiamo parlato nel blog dell’8 maggio).

Il libro di Assolombarda invita a ripensare parecchi concetti tradizionali: quello di orario di lavoro, per esempio, buono per la fabbrica fordista da catena di montaggio e mansioni parcellizzate ma da riconsiderare in tempi di smart working, lavoro a distanza, creatività: si deve valutare non il tempo passato in azienda, ma lo svolgimento di compiti e il risultato dell’impegno professionale. Così come nei contratti va dato spazio alle questioni delle competenze, più che alle tradizionali mansioni.

C’è inoltre, nel libro, un’insistenza evidente sul rapporto tra lavoro, formazione e welfare. Tracce importanti se ne possono trovare in un contratto di lavoro recente, quello dei metalmeccanici (elaborato e firmato con il contributo essenziale delle imprese di Assolombarda e dell’Emilia). E su questa strada bisogna andare avanti, con una formazione, scolastica e universitaria, sempre legata a innovazione e cambiamento, che sono peraltro funzioni essenziali della competitività delle imprese (rilevante l’insistenza sugli Its, gli istituti superiori di formazione tecnica, in Italia ancora troppo poco diffusi, diversamente che in Germania e in Francia).

Politiche attive del lavoro, dunque. In una visione europea. E dinamismo, passo passo con i cambiamenti delle tecnologie, ma anche della demografia (siamo un paese in cui cresce l’età media e le generazioni più giovani faticano a trovare buone opportunità di lavoro e di vita).

C’è una parola chiave, sottesa a tutti questi ragionamenti. Ed è “sostenibilità”. Carattere essenziale di un’impresa, dal punto di vista sia sociale che ambientale. Orizzonte di senso per tutti coloro che, dagli investitori ai manager, dai tecnici agli operai specializzati, fanno vivere e crescere un’impresa. E ambito culturale e morale di responsabilità, nell’incrocio positivo tra “valore” (i profitti per gli azionisti) e “valori”, tutto quel che ci tiene insieme in un’orizzonte etico di responsabilità.

Vengono in mente, in questo contesto, le parole di Leopoldo Pirelli, sulle regole del buon imprenditore, nel discorso pronunciato al Collegio degli ingegneri di Milano, nell’ottobre 1986: “La nostra credibilità, la nostra autorevolezza, direi la nostra legittimazione nella coscienza pubblica sono in diretto rapporto con il ruolo che svolgiamo nel concorrere al superamento degli squilibri sociali ed economici dei paesi in cui si opera: sempre più l’impresa si presenta come luogo di sintesi tra le tendenze orientate al massimo progresso tecnico-economico e le tendenze umane di migliori condizioni di lavoro e di vita”. Regole di piena attualità

“Il Canto della fabbrica”: un libro e un concerto per festeggiare i 10 anni della Fondazione Pirelli

La Fondazione Pirelli compie 10 anni!

Per celebrare questo importante anniversario presentiamo “Il Canto della fabbrica”, un progetto editoriale di Fondazione Pirelli edito da Mondadori, nelle librerie dal 29 maggio. Il volume è una riflessione attraverso la voce di intellettuali, musicisti e industriali su come sia possibile raccontare la fabbrica di oggi a partire proprio dalla musica. Il titolo del libro si rifà al brano “Il canto della fabbrica”, commissionato dalla Fondazione Pirelli al compositore Francesco Fiore per il violino del Maestro Salvatore Accardo, ed eseguito in prima assoluta proprio all’interno del Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese durante il Festival MitoSettembre Musica 2017.

Così come i «quattro colpi di sirena» della Seconda sinfonia di Dmitrij Šostakovic hanno interpretato  la fabbrica di primi Novecento – acciaio, rumore, fumo, fatica pesante della produzione in serie –  Salvatore Accardo e gli archi dell’Orchestra da Camera Italiana con il brano “Il canto della fabbrica” hanno riprodotto i ritmi della manifattura digitale degli anni Duemila, fatta di computer e robot.  Il volume è una riflessione attraverso la voce di intellettuali, musicisti e industriali su come sia possibile raccontare la fabbrica di oggi a partire proprio dalla musica.  I 13 testi all’interno del libro sono firmati da Marco Tronchetti Provera, Presidente della Fondazione Pirelli, Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli, l’architetto Renzo Piano, il Direttore dell’Orchestra da Camera Italiana Salvatore Accardo, il Maestro Francesco Fiore, il Presidente del Festival Internazionale MITO SettembreMusica  Anna Gastel  e i  professori  Piero Violante, Giuseppe Lupo, Domenico Siniscalco, Pier Luigi Sacco, Massimo Bergami, Stefano Micelli. All’interno del libro un corpus iconografico di oltre 120 immagini provenienti dall’Archivio Storico Aziendale documenta il concerto, la fabbrica e i suoi mutamenti. Per condividere e comunicare i contenuti di questo progetto anche in ambito digitale è stato implementato il sito web ilcantodellafabbrica.org, raggiungibile anche tramite QR code.

Il libro sarà presentato il 4 giugno 2018 presso l’Headquarters Pirelli di Milano Bicocca alle ore 19 alla presenza di Marco Tronchetti Provera, il Sindaco di Milano Giuseppe Sala, il Consulente editoriale Libri Mondadori Gian Arturo Ferrari, Anna Gastel e Antonio Calabrò. Al termine della presentazionbe l’Orchestra da Camera Italiana diretta dal Maestro Salvatore Accardo eseguirà per tutti gli ospiti “Il canto della fabbrica”.

Vi aspettiamo!

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La Fondazione Pirelli compie 10 anni!

Per celebrare questo importante anniversario presentiamo “Il Canto della fabbrica”, un progetto editoriale di Fondazione Pirelli edito da Mondadori, nelle librerie dal 29 maggio. Il volume è una riflessione attraverso la voce di intellettuali, musicisti e industriali su come sia possibile raccontare la fabbrica di oggi a partire proprio dalla musica. Il titolo del libro si rifà al brano “Il canto della fabbrica”, commissionato dalla Fondazione Pirelli al compositore Francesco Fiore per il violino del Maestro Salvatore Accardo, ed eseguito in prima assoluta proprio all’interno del Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese durante il Festival MitoSettembre Musica 2017.

Così come i «quattro colpi di sirena» della Seconda sinfonia di Dmitrij Šostakovic hanno interpretato  la fabbrica di primi Novecento – acciaio, rumore, fumo, fatica pesante della produzione in serie –  Salvatore Accardo e gli archi dell’Orchestra da Camera Italiana con il brano “Il canto della fabbrica” hanno riprodotto i ritmi della manifattura digitale degli anni Duemila, fatta di computer e robot.  Il volume è una riflessione attraverso la voce di intellettuali, musicisti e industriali su come sia possibile raccontare la fabbrica di oggi a partire proprio dalla musica.  I 13 testi all’interno del libro sono firmati da Marco Tronchetti Provera, Presidente della Fondazione Pirelli, Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli, l’architetto Renzo Piano, il Direttore dell’Orchestra da Camera Italiana Salvatore Accardo, il Maestro Francesco Fiore, il Presidente del Festival Internazionale MITO SettembreMusica  Anna Gastel  e i  professori  Piero Violante, Giuseppe Lupo, Domenico Siniscalco, Pier Luigi Sacco, Massimo Bergami, Stefano Micelli. All’interno del libro un corpus iconografico di oltre 120 immagini provenienti dall’Archivio Storico Aziendale documenta il concerto, la fabbrica e i suoi mutamenti. Per condividere e comunicare i contenuti di questo progetto anche in ambito digitale è stato implementato il sito web ilcantodellafabbrica.org, raggiungibile anche tramite QR code.

Il libro sarà presentato il 4 giugno 2018 presso l’Headquarters Pirelli di Milano Bicocca alle ore 19 alla presenza di Marco Tronchetti Provera, il Sindaco di Milano Giuseppe Sala, il Consulente editoriale Libri Mondadori Gian Arturo Ferrari, Anna Gastel e Antonio Calabrò. Al termine della presentazionbe l’Orchestra da Camera Italiana diretta dal Maestro Salvatore Accardo eseguirà per tutti gli ospiti “Il canto della fabbrica”.

Vi aspettiamo!

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Federico Fellini, James Bond e Jerry Lewis: le recensioni di Morando Morandini sulla rivista “Pirelli”

“Tirate le somme, questo James Bond non ci va a genio”. L’esordio del critico cinematografico Morando Morandini sulla rivista “Pirelli” n° 1 del 1965, con la rubrica Cinema allo specchio, è già tutto un manifesto programmatico. Da poco passato al quotidiano Il Giorno, dopo quasi un decennio alle pagine di cinema e televisione della Notte, Morandini inizia la sua collaborazione con la rivistaPirelli” occupandosi di uno dei fenomeni cinematografici del momento: le avventure dell’Agente di Sua Maestà Britannica 007. Quando ne scrive in Chi ha paura di James Bond? nel gennaio del 1965, – sono già usciti nelle sale Licenza di uccidere (1962), Dalla Russia con amore (1963) e Missione Goldfinger (1964): ma a lui questo James Bond non piace, e neppure gli piace granché il suo creatore letterario Jan Fleming, dalla “narrativa ferroviaria e snobistica”. Morandini fa subito capire all’eterogeneo pubblico dei lettori di Pirelli che a lui la fiction d’avventura all’americana proprio non va a genio. E ne fa le spese anche “l’incredibile Aston Martin DB5 coupé (costo: 17 milioni di lire!)” con le sue mitragliatrici, il suo spargitore d’olio e i sui mozzi trinciatori di pneumatici. Non ama gli eccessi, Morandini. Infatti dopo due interventi su film tutto sommato non popolarissimi – Amleto del russo Kozincev, 1964, e il Processo a Giovanna d’Arco di Bresson, 1962- ecco che la critica arriva a Federico Fellini. Il colore degli spiriti, sulla rivista “Pirelli” n° 5-6 del 1965, se la prende soprattutto con la Giulietta protagonista del film appena uscito nelle sale cinematografiche: l’attrice è Giulietta Masina, al suo terzo personaggio “felliniano” dopo Gelsomina e Cabiria (La strada, 1954 e Le notti di Cabiria, 1957). “Diremo subito che questa Giulietta, cuore del film, non convince nè avvince. Questa Giulietta non ci interessa. E’ una seria professionista, non una grande commediante”. Non che il critico non ammiri comunque il mondo barocco e stravagante di Fellini, però “anche l’aspetto magico del film ci lascia perplessi. Un catalogo illustrato dell’universo felliniano? Esatto”. Ma non va molto meglio neppure all’americano Il caro estinto, diretto da Tony Richardson nel 1965 in nome del classico “humour inglese”: una commedia grottesca che nelle parole del critico “dà l’impressione di essere un racconto un po’ pletorico, lacunoso… forse proprio perchè ha un’allure disordinata, sgangherata”. Peraltro il film non spopolò al botteghino.

Fin qui il Morando Morandini critico implacabile  -come è suo dovere-  del cinema contemporaneo. Ma la rubrica Cinema allo specchio, continuata sulle pagine della rivista pirelliana fino alla fine del 1967, riesce spesso a essere anche una coltissima analisi di precisi filoni cinematografici, come è il caso dei film bellici in Il giuoco della guerra  (n° 5 del 1966) o della commedia comica americana in Jerry Lewis ultimo buffo (n° 2 del 1967), oppure una profonda e dolente riflessione sul ruolo dei festival cinematografici come in Festival offresi (n° 4, 1966). Grandioso il ritratto che il critico fa di Spencer Tracy, gigante di Hollywood in coppia con Katharine Hepburn in Tre ricordi (n°4 del 1967).
L’ultimo contributo alla rubrica Cinema allo specchio  -sulla rivista n° 6 del 1967-  è Il Leone si è annoiato, e il titolo dice molto. Morandini parla di Buñuel, di come “a sessantasette anni il cinema non gli interessa più: ha chiuso con Belle de Jour, tratto da un romanzo di Kessel che non gli piaceva”. Il grande regista spagnolo ha girato Un chien andalou e L’âge d’or, Viridiana e Los olvidados, Nazarin e Diario di una cameriera. Dopo il capolavoro Bella di Giorno aveva detto che “ne aveva abbastanza di cercare gli angoli per la macchina da presa e dire baggianate agli attori”. Giudizi diretti, incisivi, che nel tempo hanno reso Morando Morandini una delle voci più autorevoli della critica cinematografica italiana. E che oggi possiamo rileggere sulle pagine della nostra rivista “Pirelli”.

“Tirate le somme, questo James Bond non ci va a genio”. L’esordio del critico cinematografico Morando Morandini sulla rivista “Pirelli” n° 1 del 1965, con la rubrica Cinema allo specchio, è già tutto un manifesto programmatico. Da poco passato al quotidiano Il Giorno, dopo quasi un decennio alle pagine di cinema e televisione della Notte, Morandini inizia la sua collaborazione con la rivistaPirelli” occupandosi di uno dei fenomeni cinematografici del momento: le avventure dell’Agente di Sua Maestà Britannica 007. Quando ne scrive in Chi ha paura di James Bond? nel gennaio del 1965, – sono già usciti nelle sale Licenza di uccidere (1962), Dalla Russia con amore (1963) e Missione Goldfinger (1964): ma a lui questo James Bond non piace, e neppure gli piace granché il suo creatore letterario Jan Fleming, dalla “narrativa ferroviaria e snobistica”. Morandini fa subito capire all’eterogeneo pubblico dei lettori di Pirelli che a lui la fiction d’avventura all’americana proprio non va a genio. E ne fa le spese anche “l’incredibile Aston Martin DB5 coupé (costo: 17 milioni di lire!)” con le sue mitragliatrici, il suo spargitore d’olio e i sui mozzi trinciatori di pneumatici. Non ama gli eccessi, Morandini. Infatti dopo due interventi su film tutto sommato non popolarissimi – Amleto del russo Kozincev, 1964, e il Processo a Giovanna d’Arco di Bresson, 1962- ecco che la critica arriva a Federico Fellini. Il colore degli spiriti, sulla rivista “Pirelli” n° 5-6 del 1965, se la prende soprattutto con la Giulietta protagonista del film appena uscito nelle sale cinematografiche: l’attrice è Giulietta Masina, al suo terzo personaggio “felliniano” dopo Gelsomina e Cabiria (La strada, 1954 e Le notti di Cabiria, 1957). “Diremo subito che questa Giulietta, cuore del film, non convince nè avvince. Questa Giulietta non ci interessa. E’ una seria professionista, non una grande commediante”. Non che il critico non ammiri comunque il mondo barocco e stravagante di Fellini, però “anche l’aspetto magico del film ci lascia perplessi. Un catalogo illustrato dell’universo felliniano? Esatto”. Ma non va molto meglio neppure all’americano Il caro estinto, diretto da Tony Richardson nel 1965 in nome del classico “humour inglese”: una commedia grottesca che nelle parole del critico “dà l’impressione di essere un racconto un po’ pletorico, lacunoso… forse proprio perchè ha un’allure disordinata, sgangherata”. Peraltro il film non spopolò al botteghino.

Fin qui il Morando Morandini critico implacabile  -come è suo dovere-  del cinema contemporaneo. Ma la rubrica Cinema allo specchio, continuata sulle pagine della rivista pirelliana fino alla fine del 1967, riesce spesso a essere anche una coltissima analisi di precisi filoni cinematografici, come è il caso dei film bellici in Il giuoco della guerra  (n° 5 del 1966) o della commedia comica americana in Jerry Lewis ultimo buffo (n° 2 del 1967), oppure una profonda e dolente riflessione sul ruolo dei festival cinematografici come in Festival offresi (n° 4, 1966). Grandioso il ritratto che il critico fa di Spencer Tracy, gigante di Hollywood in coppia con Katharine Hepburn in Tre ricordi (n°4 del 1967).
L’ultimo contributo alla rubrica Cinema allo specchio  -sulla rivista n° 6 del 1967-  è Il Leone si è annoiato, e il titolo dice molto. Morandini parla di Buñuel, di come “a sessantasette anni il cinema non gli interessa più: ha chiuso con Belle de Jour, tratto da un romanzo di Kessel che non gli piaceva”. Il grande regista spagnolo ha girato Un chien andalou e L’âge d’or, Viridiana e Los olvidados, Nazarin e Diario di una cameriera. Dopo il capolavoro Bella di Giorno aveva detto che “ne aveva abbastanza di cercare gli angoli per la macchina da presa e dire baggianate agli attori”. Giudizi diretti, incisivi, che nel tempo hanno reso Morando Morandini una delle voci più autorevoli della critica cinematografica italiana. E che oggi possiamo rileggere sulle pagine della nostra rivista “Pirelli”.

Occhi meccanici e robot digitali: Fondazione Pirelli al XII Festival della Robotica Educativa

Per il terzo anno consecutivo Pirelli e Fondazione Pirelli sostengono il Festival della Robotica Educativa che, giunto alla XII edizione, si terrà il 17 e 18 maggio presso l’Università degli Studi Milano-Bicocca.

Il progetto, ideato dalla rete di scuole di Milano e provincia “Amico Robot” e patrocinato dal Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione, mostra le potenzialità della metodologia didattica innovativa della Robotica Educativa che utilizza piccoli robot come strumenti per l’apprendimento di competenze disciplinari e trasversali. Fondazione Pirelli sarà presente al Festival con uno stand per raccontare a bambini, ragazzi, docenti e visitatori il costante impegno di Pirelli nei confronti dell’innovazione e della ricerca.

Il Festival sarà inoltre l’occasione per far conoscere i percorsi didattici ispirati alle nuove tecnologie organizzati da Fondazione Pirelli Educational, che si pongono come scopo di diffondere la cultura scientifica e tecnologica in favore della sicurezza stradale e della sostenibilità, anche tra gli studenti più giovani.

Venerdì 18 maggio alle ore 13.30 in aula U16-11, si terrà inoltre l’incontro Occhi meccanici e robot digitali per pneumatici sicuri e personalizzati. Scopriamo le innovazioni tecnologiche di Pirelli, curato da Fondazione Pirelli e condotto dai colleghi di Ricerca e Sviluppo al fine di descrivere la progettazione di sistemi robotici all’avanguardia da parte di Pirelli. Il discorso si concentrerà sul CVA (Controllo Visivo Automatico), sistema automatico di analisi del pneumatico vincitore del premio Oscar Masi per l’innovazione industriale 2016, e sui Next MIRS (Modular Integrated Robotized System), sistema robotizzato integrato modulare per la produzione di pneumatici personalizzabili. L’ideazione e la creazione di piccoli o più grandi robot è al centro del programma del Festival che vede come artefici proprio gli studenti.

Lo svolgimento della prima giornata prevede l’exhibit ovvero la presentazione all’interno degli stand allestiti dalle classi della scuola dell’infanzia e della scuola primaria di uno o più robot che interagiscono con gli ambienti costruiti dai bambini e con i visitatori, coinvolgendoli in giochi e attività. Protagoniste del secondo giorno saranno invece le gare di robot per la scuola secondaria di I grado che metteranno in luce la capacità di problem solving e di lavoro in team, illustrando le migliori pratiche di robotica a scuola. Dal “robot rigorista” alla “squadra di soccorso”: gli automi realizzati dai ragazzi dovranno sfidarsi per vincere il premio finale.

Per il terzo anno consecutivo Pirelli e Fondazione Pirelli sostengono il Festival della Robotica Educativa che, giunto alla XII edizione, si terrà il 17 e 18 maggio presso l’Università degli Studi Milano-Bicocca.

Il progetto, ideato dalla rete di scuole di Milano e provincia “Amico Robot” e patrocinato dal Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione, mostra le potenzialità della metodologia didattica innovativa della Robotica Educativa che utilizza piccoli robot come strumenti per l’apprendimento di competenze disciplinari e trasversali. Fondazione Pirelli sarà presente al Festival con uno stand per raccontare a bambini, ragazzi, docenti e visitatori il costante impegno di Pirelli nei confronti dell’innovazione e della ricerca.

Il Festival sarà inoltre l’occasione per far conoscere i percorsi didattici ispirati alle nuove tecnologie organizzati da Fondazione Pirelli Educational, che si pongono come scopo di diffondere la cultura scientifica e tecnologica in favore della sicurezza stradale e della sostenibilità, anche tra gli studenti più giovani.

Venerdì 18 maggio alle ore 13.30 in aula U16-11, si terrà inoltre l’incontro Occhi meccanici e robot digitali per pneumatici sicuri e personalizzati. Scopriamo le innovazioni tecnologiche di Pirelli, curato da Fondazione Pirelli e condotto dai colleghi di Ricerca e Sviluppo al fine di descrivere la progettazione di sistemi robotici all’avanguardia da parte di Pirelli. Il discorso si concentrerà sul CVA (Controllo Visivo Automatico), sistema automatico di analisi del pneumatico vincitore del premio Oscar Masi per l’innovazione industriale 2016, e sui Next MIRS (Modular Integrated Robotized System), sistema robotizzato integrato modulare per la produzione di pneumatici personalizzabili. L’ideazione e la creazione di piccoli o più grandi robot è al centro del programma del Festival che vede come artefici proprio gli studenti.

Lo svolgimento della prima giornata prevede l’exhibit ovvero la presentazione all’interno degli stand allestiti dalle classi della scuola dell’infanzia e della scuola primaria di uno o più robot che interagiscono con gli ambienti costruiti dai bambini e con i visitatori, coinvolgendoli in giochi e attività. Protagoniste del secondo giorno saranno invece le gare di robot per la scuola secondaria di I grado che metteranno in luce la capacità di problem solving e di lavoro in team, illustrando le migliori pratiche di robotica a scuola. Dal “robot rigorista” alla “squadra di soccorso”: gli automi realizzati dai ragazzi dovranno sfidarsi per vincere il premio finale.

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