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La cultura d’impresa del Settecento

Il caso della company town di San Leucio.

La moderna cultura d’impresa arriva anche dal passato. Ed è un esempio ancora oggi. Niente nostalgie di fasti economici e sociali di un tempo, ma tracce che indicano un percorso tra territorio, persone e istituzioni. Qualcosa che ha lasciato il segno. È questo il senso della raccolta di ricerche “Cultura imprenditoriale e storia d’impresa per il complesso di San Leucio” curata da una gruppo di autori specializzati in materie diverse ma con un solo obiettivo: descrivere l’esperimento che, nel Settecento, diede vita a San Leucio (Caserta) ad un complesso industriale per la produzione della seta che fu anche esempio positivo di organizzazione sociale.

Esperimento, dunque, che viene descritto toccando diversi aspetti di quanto accadde. Le indagini spaziano quindi dal welfare e dalla formazione dedicate al “capitale umano” di San Leucio vista come una vera company town dell’epoca, passano poi ad affrontare le anticipazioni di modernità presenti nel territorio di allora, gli elementi di archeologia industriale che fanno capire meglio i particolari tecnici tecnici, produttivi e sociali che caratterizzano San Leucio, le ragioni del declino del complesso e della sua riscoperta in tempi recenti.

L’idea di San Leucio come “esempio per l’oggi” viene sviluppata quindi da altre ricerche che partono dalla riscoperta della natura di company town del luogo, arrivano all’individuazione delle sue potenzialità e arrivano a delineare politiche e interventi di valorizzazione.

Buona lettura quella su San Leucio che, tra l’altro, sfata anche alcuni falsi miti storici sull’arretratezza economica e sociale del Mezzogiorno nel passato.

Cultura imprenditoriale e storia d’impresa per il complesso di San Leucio

AA.VV.

Guida Editori, 2024

Il caso della company town di San Leucio.

La moderna cultura d’impresa arriva anche dal passato. Ed è un esempio ancora oggi. Niente nostalgie di fasti economici e sociali di un tempo, ma tracce che indicano un percorso tra territorio, persone e istituzioni. Qualcosa che ha lasciato il segno. È questo il senso della raccolta di ricerche “Cultura imprenditoriale e storia d’impresa per il complesso di San Leucio” curata da una gruppo di autori specializzati in materie diverse ma con un solo obiettivo: descrivere l’esperimento che, nel Settecento, diede vita a San Leucio (Caserta) ad un complesso industriale per la produzione della seta che fu anche esempio positivo di organizzazione sociale.

Esperimento, dunque, che viene descritto toccando diversi aspetti di quanto accadde. Le indagini spaziano quindi dal welfare e dalla formazione dedicate al “capitale umano” di San Leucio vista come una vera company town dell’epoca, passano poi ad affrontare le anticipazioni di modernità presenti nel territorio di allora, gli elementi di archeologia industriale che fanno capire meglio i particolari tecnici tecnici, produttivi e sociali che caratterizzano San Leucio, le ragioni del declino del complesso e della sua riscoperta in tempi recenti.

L’idea di San Leucio come “esempio per l’oggi” viene sviluppata quindi da altre ricerche che partono dalla riscoperta della natura di company town del luogo, arrivano all’individuazione delle sue potenzialità e arrivano a delineare politiche e interventi di valorizzazione.

Buona lettura quella su San Leucio che, tra l’altro, sfata anche alcuni falsi miti storici sull’arretratezza economica e sociale del Mezzogiorno nel passato.

Cultura imprenditoriale e storia d’impresa per il complesso di San Leucio

AA.VV.

Guida Editori, 2024

Portare le biblioteche in fabbrica, per migliorare conoscenze, fantasia e qualità di vita e lavoro

I libri in fabbrica. Ce li porta il Premio Campiello, cominciando dalle aree industriali del Nord Est. Ma in alcune imprese ci sono già, nelle biblioteche aziendali, come in Pirelli a Milano Bicocca, a Bollate e a Settimo Torinese. E la loro presenza apre nuovi spazi non soltanto a un rafforzamento della conoscenza generale di operai, impiegati, manager e imprenditori (e dei loro familiari) ma soprattutto alla diffusione di un vero e proprio piacere legato alla lettura: la scoperta di fatti e personaggi sino a quel momento ignoti, lo stimolo all’immaginazione e alla fantasia, l’ingresso in nuovi mondi, altre vite, sorprendenti storie. L’avventura del “piacere del testo”, insomma. E, per questa strada, si arriva anche a un miglioramento della qualità della vita, della consapevolezza dei tanti volti della condizione umana, del consolidamento dei legami di comunità e di civiltà.

L’iniziativa del “Campiello in fabbrica” ha preso le mosse un paio d’anni fa, come articolazione delle tante iniziative di diffusione di un premio che era nato nel 1962, per iniziativa degli industriali veneti e con l’obiettivo di radicare la cultura delle imprese nel più ampio mondo culturale e sociale regionale e poi italiano. Ha affiancato, accanto al premio principale (cinque libri di letteratura, selezionati da una giuria tecnica e sottoposti al giudizio finale di una giuria popolare di lettori), il Campiello Giovani (per gli scrittori emergenti), il Campiello “opera prima”, il Campiello Junior (destinato ai autori di libri per bambini e ragazzi) e il Campiello Natura. E ha lo scopo di “avvicinare le maestranze alla cultura e contribuire a divulgare i valori culturali e sociali delle nostre imprese e approfondire, grazie anche alla buona letteratura, gli scenari dello sviluppo economico e della sostenibilità ambientale e sociale”, come spiega Mariacristina Gribaudi, imprenditrice metalmeccanica e presidente del Comitato di gestione del Premio Campiello.

Le fabbriche coinvolte sono, finora, il polo petrolchimico Eni di Marghera e altre imprese a Montebelluna, Sacile e Torreglia, nelle più dinamiche aree industriali del Veneto e del Friuli Venezia Giulia. “Partecipazione appassionata di oltre 600 operai, curiosità, attenzione, voglia di sapere”, racconta Gribaudi. E aggiunge: “La nostra intenzione, nel corso del tempo, è allargare l’iniziativa anche ad altre regioni”. E la collaborazione con biblioteche pubbliche e private nei territori, con circoli di lettura, con scuole e università e, perché no? con altre iniziative e festival culturali di vario tipo può essere una strada da percorrere.

Crescono infatti anche i premi e i festival dedicati alla letteratura d’impresa (a Biella, il più antico ma di recente anche a Bergamo, per iniziativa del gruppo editoriale Italy Post e a Verona, per le migliori monografie d’impresa, tanto per fare solo pochi esempi). E si rileggono, in scuole e università, i testi letterari che hanno al centro l’impresa, il lavoro, la capacità del fare, la fabbrica (da “La chiave a stella” di Primo Levi all’appena ripubblicato “La linea gotica” di Ottiero Ottieri, lucido e dolente racconto della “faccia triste del boom” dell’economia italiana degli anni Sessanta del Novecento, per riprendere una sintesi di Edoardo Albinati che ne firma la prefazione).

D’altronde, proprio nel mondo dell’impresa, cresce una consapevolezza: dopo una lunga stagione in cui gli imprenditori si sono descritti come “gente del fare”, “molti fatti, poche parole”, è necessario adesso impegnarsi non solo a migliorare il “saper fare” ma anche a rafforzare il “far sapere”, il racconto dell’industria, della manifattura, delle tecnologie, dell’intraprendenza e del lavoro. Per contrastare una cultura anti-impresa che continua a essere fin troppo diffusa in ampi strati dell’opinione pubblica (anche anti-tecnologia, anti-scienza, anti-innovazione). Ma soprattutto per stimolare nelle nuove generazioni la consapevolezza che proprio le imprese, le industrie del miglior made in Italy (metalmeccanica e meccatronica, avionica, cantieristica navale, chimica, farmaceutica, automotive, robotica oltre che agroalimentare, arredamento e abbigliamento) e i servizi collegati all’impresa, insomma il mondo della “economia reale” e della produzione sono luoghi in cui investire le loro conoscenze e indirizzare le ambizioni di crescita e di miglior futuro.

Anche la promozione e lo sviluppo delle biblioteche aziendali rientrano in questo contesto, spesso collegate pure alla nascita di musei d’impresa e di archivi storici economici. E delle biblioteche pubbliche che si raccordano alle imprese di un territorio: la Biblioteca Civica Multimediale “Archimede” di Settimo Torinese e il “Multiplo”, Centro di Cultura di Cavriago, in provincia di Reggio Emilia, ne sono ottimi esempi.

Nell’era del primato della “economia della conoscenza”, d’altronde, serve avere in azienda non solo persone tecnicamente ben formate, ma anche ragazze e ragazzi curiosi delle dimensioni e delle evoluzioni del mondo, pronti a vivere nuove esperienze, inedite avventure personali e professionali, a coltivare l’attitudine generosa alla speranza e all’avere “una visione”, una responsabilità, una “missione”. E a cercare di governare le nuove tecnologie digitali, a cominciare dall’Intelligenza Artificiale.

Le pagine di un libro, con una storia ben raccontata (anche le pagine in formato digitale) sono strumenti preziosi. Non tanto e non soltanto perché “il mondo, alla fine, è fatto per finire in un bel libro”, come amava dire Stéphane Mallarmé. Quanto perché, senza le parole di un libro, non si immaginano né si costruiscono nuovi mondi, anche un po’ migliori di quelli in cui stiamo adesso vivendo.

Vale, come riferimento, una delle migliori lezioni del Novecento, le “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar: “Fondare biblioteche è un po’ come costruire granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che, da molti indizi, nonostante tutto, vedo venire”.

I libri in fabbrica. Ce li porta il Premio Campiello, cominciando dalle aree industriali del Nord Est. Ma in alcune imprese ci sono già, nelle biblioteche aziendali, come in Pirelli a Milano Bicocca, a Bollate e a Settimo Torinese. E la loro presenza apre nuovi spazi non soltanto a un rafforzamento della conoscenza generale di operai, impiegati, manager e imprenditori (e dei loro familiari) ma soprattutto alla diffusione di un vero e proprio piacere legato alla lettura: la scoperta di fatti e personaggi sino a quel momento ignoti, lo stimolo all’immaginazione e alla fantasia, l’ingresso in nuovi mondi, altre vite, sorprendenti storie. L’avventura del “piacere del testo”, insomma. E, per questa strada, si arriva anche a un miglioramento della qualità della vita, della consapevolezza dei tanti volti della condizione umana, del consolidamento dei legami di comunità e di civiltà.

L’iniziativa del “Campiello in fabbrica” ha preso le mosse un paio d’anni fa, come articolazione delle tante iniziative di diffusione di un premio che era nato nel 1962, per iniziativa degli industriali veneti e con l’obiettivo di radicare la cultura delle imprese nel più ampio mondo culturale e sociale regionale e poi italiano. Ha affiancato, accanto al premio principale (cinque libri di letteratura, selezionati da una giuria tecnica e sottoposti al giudizio finale di una giuria popolare di lettori), il Campiello Giovani (per gli scrittori emergenti), il Campiello “opera prima”, il Campiello Junior (destinato ai autori di libri per bambini e ragazzi) e il Campiello Natura. E ha lo scopo di “avvicinare le maestranze alla cultura e contribuire a divulgare i valori culturali e sociali delle nostre imprese e approfondire, grazie anche alla buona letteratura, gli scenari dello sviluppo economico e della sostenibilità ambientale e sociale”, come spiega Mariacristina Gribaudi, imprenditrice metalmeccanica e presidente del Comitato di gestione del Premio Campiello.

Le fabbriche coinvolte sono, finora, il polo petrolchimico Eni di Marghera e altre imprese a Montebelluna, Sacile e Torreglia, nelle più dinamiche aree industriali del Veneto e del Friuli Venezia Giulia. “Partecipazione appassionata di oltre 600 operai, curiosità, attenzione, voglia di sapere”, racconta Gribaudi. E aggiunge: “La nostra intenzione, nel corso del tempo, è allargare l’iniziativa anche ad altre regioni”. E la collaborazione con biblioteche pubbliche e private nei territori, con circoli di lettura, con scuole e università e, perché no? con altre iniziative e festival culturali di vario tipo può essere una strada da percorrere.

Crescono infatti anche i premi e i festival dedicati alla letteratura d’impresa (a Biella, il più antico ma di recente anche a Bergamo, per iniziativa del gruppo editoriale Italy Post e a Verona, per le migliori monografie d’impresa, tanto per fare solo pochi esempi). E si rileggono, in scuole e università, i testi letterari che hanno al centro l’impresa, il lavoro, la capacità del fare, la fabbrica (da “La chiave a stella” di Primo Levi all’appena ripubblicato “La linea gotica” di Ottiero Ottieri, lucido e dolente racconto della “faccia triste del boom” dell’economia italiana degli anni Sessanta del Novecento, per riprendere una sintesi di Edoardo Albinati che ne firma la prefazione).

D’altronde, proprio nel mondo dell’impresa, cresce una consapevolezza: dopo una lunga stagione in cui gli imprenditori si sono descritti come “gente del fare”, “molti fatti, poche parole”, è necessario adesso impegnarsi non solo a migliorare il “saper fare” ma anche a rafforzare il “far sapere”, il racconto dell’industria, della manifattura, delle tecnologie, dell’intraprendenza e del lavoro. Per contrastare una cultura anti-impresa che continua a essere fin troppo diffusa in ampi strati dell’opinione pubblica (anche anti-tecnologia, anti-scienza, anti-innovazione). Ma soprattutto per stimolare nelle nuove generazioni la consapevolezza che proprio le imprese, le industrie del miglior made in Italy (metalmeccanica e meccatronica, avionica, cantieristica navale, chimica, farmaceutica, automotive, robotica oltre che agroalimentare, arredamento e abbigliamento) e i servizi collegati all’impresa, insomma il mondo della “economia reale” e della produzione sono luoghi in cui investire le loro conoscenze e indirizzare le ambizioni di crescita e di miglior futuro.

Anche la promozione e lo sviluppo delle biblioteche aziendali rientrano in questo contesto, spesso collegate pure alla nascita di musei d’impresa e di archivi storici economici. E delle biblioteche pubbliche che si raccordano alle imprese di un territorio: la Biblioteca Civica Multimediale “Archimede” di Settimo Torinese e il “Multiplo”, Centro di Cultura di Cavriago, in provincia di Reggio Emilia, ne sono ottimi esempi.

Nell’era del primato della “economia della conoscenza”, d’altronde, serve avere in azienda non solo persone tecnicamente ben formate, ma anche ragazze e ragazzi curiosi delle dimensioni e delle evoluzioni del mondo, pronti a vivere nuove esperienze, inedite avventure personali e professionali, a coltivare l’attitudine generosa alla speranza e all’avere “una visione”, una responsabilità, una “missione”. E a cercare di governare le nuove tecnologie digitali, a cominciare dall’Intelligenza Artificiale.

Le pagine di un libro, con una storia ben raccontata (anche le pagine in formato digitale) sono strumenti preziosi. Non tanto e non soltanto perché “il mondo, alla fine, è fatto per finire in un bel libro”, come amava dire Stéphane Mallarmé. Quanto perché, senza le parole di un libro, non si immaginano né si costruiscono nuovi mondi, anche un po’ migliori di quelli in cui stiamo adesso vivendo.

Vale, come riferimento, una delle migliori lezioni del Novecento, le “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar: “Fondare biblioteche è un po’ come costruire granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che, da molti indizi, nonostante tutto, vedo venire”.

L’impresa costruita sui mattoncini

Pubblicata in Italia la storia della LEGO: racconto tra cultura, innovazione e imprenditorialità.

Un’impresa costruita su mattoncini di plastica: LEGO. Storia interessante e, a suo modo, esemplare, quella della LEGO. Vicenda fatta di ingegno produttivo, caparbietà familiare, grande innovazione e fantasia. Tutto è raccontato da “LEGO. Una storia di famiglia” scritto da Jens Andersen e appena pubblicato in Italia.

Se oggi è vero che LEGO è un simbolo per i bambini e gli adulti di tutto il mondo e i suoi mattoncini colorati sono molto più di un giocattolo, e anche vero che pochi conoscono la storia di questa azienda diventata globale ma che ha origini in un laboratorio di falegnameria. Il libro, infatti, racconta che tutto ha inizio nel 1916, in, appunto, un laboratorio di falegnameria nella campagna danese. Là lavora Ole Kirk Kristiansen: giovane artigiano che costruisce case in legno per i contadini della zona. Piccolissimo imprenditore, Kristiansen  non ha molta fortuna ai suoi inizi e rischia di chiudere i battenti con la Grande depressione. L’ingegno d’impresa e la sua cocciutaggine spingono però Kristiansen a cambiare tipologia di prodotto, sempre in legno ma di piccole dimensioni: mobili in miniatura e giocattoli, macchinine, paperelle, yo-yo. Nel 1934 nasce ufficialmente la LEGO il cui nome è la contrazione di un’espressione danese che significa “gioca bene”. Ma l’azienda non è ancora quella di oggi. Il salto arriva dopo la guerra, quando Kristiansen conosce le potenzialità della plastica e inventa un sistema rivoluzionario per incastrare i mattoncini. Da quel momento l’espansione sarà pressoché continua.

La storia umana e imprenditoriale di LEGO e dei Kristiansen viene raccontata da Andersen in circa 400 sapide pagine divise in dieci capitoli dagli anni venti al periodo successivo al 2010. Ogni capitolo è caratterizzato da un particolare tratto: si va così dall’epoca della falegnameria a quella della guerra e dell’invenzione del “sistema” di bloccaggio dei mattoncini l’uno sull’altro, dalla fase di grande espansione a quella “dell’inerzia” per arrivare fino ad oggi.

Il libro si legge davvero come un’avventura, ma contiene la descrizione di un’avventura d’impresa che può insegnare molto. E, tuttavia, l’autore nelle prime pagine avverte: “Non si tratta di un classico business book, ma è piuttosto la storia culturale e insieme il racconto biografico di tre generazioni della famiglia Kristiansen, che ha fondato LEGO e l’ha fatta crescere fino a diventare l’azienda che conosciamo oggi”. Già, cultura e umanità come elementi chiave del successo.

LEGO. Una storia di famiglia

Jens Andersen

Salani, 2024

Pubblicata in Italia la storia della LEGO: racconto tra cultura, innovazione e imprenditorialità.

Un’impresa costruita su mattoncini di plastica: LEGO. Storia interessante e, a suo modo, esemplare, quella della LEGO. Vicenda fatta di ingegno produttivo, caparbietà familiare, grande innovazione e fantasia. Tutto è raccontato da “LEGO. Una storia di famiglia” scritto da Jens Andersen e appena pubblicato in Italia.

Se oggi è vero che LEGO è un simbolo per i bambini e gli adulti di tutto il mondo e i suoi mattoncini colorati sono molto più di un giocattolo, e anche vero che pochi conoscono la storia di questa azienda diventata globale ma che ha origini in un laboratorio di falegnameria. Il libro, infatti, racconta che tutto ha inizio nel 1916, in, appunto, un laboratorio di falegnameria nella campagna danese. Là lavora Ole Kirk Kristiansen: giovane artigiano che costruisce case in legno per i contadini della zona. Piccolissimo imprenditore, Kristiansen  non ha molta fortuna ai suoi inizi e rischia di chiudere i battenti con la Grande depressione. L’ingegno d’impresa e la sua cocciutaggine spingono però Kristiansen a cambiare tipologia di prodotto, sempre in legno ma di piccole dimensioni: mobili in miniatura e giocattoli, macchinine, paperelle, yo-yo. Nel 1934 nasce ufficialmente la LEGO il cui nome è la contrazione di un’espressione danese che significa “gioca bene”. Ma l’azienda non è ancora quella di oggi. Il salto arriva dopo la guerra, quando Kristiansen conosce le potenzialità della plastica e inventa un sistema rivoluzionario per incastrare i mattoncini. Da quel momento l’espansione sarà pressoché continua.

La storia umana e imprenditoriale di LEGO e dei Kristiansen viene raccontata da Andersen in circa 400 sapide pagine divise in dieci capitoli dagli anni venti al periodo successivo al 2010. Ogni capitolo è caratterizzato da un particolare tratto: si va così dall’epoca della falegnameria a quella della guerra e dell’invenzione del “sistema” di bloccaggio dei mattoncini l’uno sull’altro, dalla fase di grande espansione a quella “dell’inerzia” per arrivare fino ad oggi.

Il libro si legge davvero come un’avventura, ma contiene la descrizione di un’avventura d’impresa che può insegnare molto. E, tuttavia, l’autore nelle prime pagine avverte: “Non si tratta di un classico business book, ma è piuttosto la storia culturale e insieme il racconto biografico di tre generazioni della famiglia Kristiansen, che ha fondato LEGO e l’ha fatta crescere fino a diventare l’azienda che conosciamo oggi”. Già, cultura e umanità come elementi chiave del successo.

LEGO. Una storia di famiglia

Jens Andersen

Salani, 2024

Al Festival di Settimo Torinese tra sfide sportive e tecnologiche

Anche per il 2024 Fondazione Pirelli partecipa alla XII edizione del Festival dell’Innovazione e della Scienza di Settimo Torinese, che affronta, nella sua accezione più ampia, il tema delle “FRONTIERE”, con focus sulle frontiere scientifiche, le sfide sociali e le sinergie interdisciplinari. Durante l’incontro “Oltre il traguardo: storie di sfide sportive e tecnologiche” curato da Fondazione Pirelli, in programma mercoledì 9 ottobre alle ore 11.00 presso la Biblioteca Archimede di Settimo Torinese, ci si interrogherà su come la tecnologia possa giocare un ruolo decisivo per rendere gli incontri sportivi più spettacolari e performanti e come al contempo le competizioni possano costituire una leva importante per lo sviluppo di nuove soluzioni. Si approfondirà quindi il profondo legame che intercorre tra l’azienda – multinazionale tra le più longeve della storia italiana – e il mondo dello sport. Un rapporto che risale già alla fine dell’Ottocento, quando i pneumatici Pirelli cominciano a essere impegnati sulle strade e sui circuiti di tutto il mondo e che poi abbraccia nel tempo diverse discipline: dalle corse bici, moto e auto allo sci, dal tennis al calcio, dagli sport di montagna alla nautica. La ricerca scientifica in questo campo è proseguita fino a oggi con lo sviluppo e introduzione di nuovi prodotti e tecnologie che hanno contribuito e contribuiscono al raggiungimento di obiettivi anche sportivi. Con l’aiuto di quiz e immagini conservate nell’Archivio Storico Pirelli si ripercorreranno alcune delle più appassionanti sfide sportive e tecnologiche. Storie di atleti e atlete che, con coraggio e determinazione, e anche grazie al lavoro di squadra, hanno superato limiti e raggiunto traguardi inaspettati. Dal raid Pechino Parigi del 1907 che portò Scipione Borghese ad attraversare metà del mondo, alla spedizione italiana sulla cima della vetta himalayana del K2, dai memorabili “duelli” di Gino Bartali e Fausto Coppi durante il Giro d’Italia, alle imprese del velista oceanico Ambrogio Beccaria su una barca che sembra volare sull’acqua.

Anche per il 2024 Fondazione Pirelli partecipa alla XII edizione del Festival dell’Innovazione e della Scienza di Settimo Torinese, che affronta, nella sua accezione più ampia, il tema delle “FRONTIERE”, con focus sulle frontiere scientifiche, le sfide sociali e le sinergie interdisciplinari. Durante l’incontro “Oltre il traguardo: storie di sfide sportive e tecnologiche” curato da Fondazione Pirelli, in programma mercoledì 9 ottobre alle ore 11.00 presso la Biblioteca Archimede di Settimo Torinese, ci si interrogherà su come la tecnologia possa giocare un ruolo decisivo per rendere gli incontri sportivi più spettacolari e performanti e come al contempo le competizioni possano costituire una leva importante per lo sviluppo di nuove soluzioni. Si approfondirà quindi il profondo legame che intercorre tra l’azienda – multinazionale tra le più longeve della storia italiana – e il mondo dello sport. Un rapporto che risale già alla fine dell’Ottocento, quando i pneumatici Pirelli cominciano a essere impegnati sulle strade e sui circuiti di tutto il mondo e che poi abbraccia nel tempo diverse discipline: dalle corse bici, moto e auto allo sci, dal tennis al calcio, dagli sport di montagna alla nautica. La ricerca scientifica in questo campo è proseguita fino a oggi con lo sviluppo e introduzione di nuovi prodotti e tecnologie che hanno contribuito e contribuiscono al raggiungimento di obiettivi anche sportivi. Con l’aiuto di quiz e immagini conservate nell’Archivio Storico Pirelli si ripercorreranno alcune delle più appassionanti sfide sportive e tecnologiche. Storie di atleti e atlete che, con coraggio e determinazione, e anche grazie al lavoro di squadra, hanno superato limiti e raggiunto traguardi inaspettati. Dal raid Pechino Parigi del 1907 che portò Scipione Borghese ad attraversare metà del mondo, alla spedizione italiana sulla cima della vetta himalayana del K2, dai memorabili “duelli” di Gino Bartali e Fausto Coppi durante il Giro d’Italia, alle imprese del velista oceanico Ambrogio Beccaria su una barca che sembra volare sull’acqua.

Informarsi sull’informazione

Appena pubblicato in Italia un libro che conduce chi legge nella storia e nell’attualità delle reti e dei meccanismi della conoscenza.

Essere informati per vivere consapevolmente. E decidere con lucidità e attenzione. Condizione imprescindibile per tutti. Nell’era della velocità digitalizzata, tuttavia, l’informazione è contemporaneamente strumento utile ed elemento di confusione (quando magari non di subdola coercizione). Informarsi dunque sempre ma con attenzione, consapevoli che il confine tra informazione e disinformazione è sempre più labile. Leggere “Nexus. Breve storia delle reti di informazione dall’età della pietra all’IA” scritto da Yuval Noah Harari e appena pubblicato in Italia è allora cosa buona per tutti.

Harari parte da una constatazione: da un lato, negli ultimi centomila anni, l’uomo ha accumulato un enorme potere fatto di scoperte scientifiche e tecnologiche, invenzione e conquiste. Questo stesso uomo, tuttavia, oggi si trova in una crisi esistenziale ed ambientale senza precedenti, una situazione in cui l’informazione è determinante e la disinformazione dilaga. Ci stiamo buttando a capofitto nell’era dell’intelligenza artificiale, una nuova rete di informazioni che minaccia di annientarci. L’autore di Nexus si chiede quindi come mai l’uomo sia diventato così autodistruttivo e quali sia il ruolo passato e presente dell’informazione in tutto questo.

Nexus porta chi legge a guardare attraverso la lente della storia umana per considerare come il flusso di informazioni ha plasmato la storia umana. Partendo dall’età della pietra, passando per la canonizzazione della Bibbia, la caccia alle streghe della prima età moderna, lo stalinismo, il nazismo e la rinascita del populismo di oggi, Yuval Noah Harari chiede al lettore di considerare il complesso rapporto tra informazione e verità, burocrazia e mitologia, saggezza e potere. Il libro esplora così come le diverse società e i sistemi politici nel corso della storia abbiano utilizzato le informazioni per raggiungere i loro obiettivi, nel bene e nel male. E consente chi legge di affrontare con maggior consapevolezza le scelte urgenti che attendono tutti oggi attraverso un percorso che inizia dalla storia per mettere a fuoco gli errori compiuti, le decisioni che sono state prese e i loro effetti e, successivamente, approfondire la condizione attuale delle reti di informazione nelle quali tutti siamo immersi e, infine, le decisioni di fronte alle quali l’umanità si è posta.
L’informazione – è il messaggio di Harari – non è la materia prima della verità né una semplice arma. Nexus esplora la via di mezzo tra questi estremi e, nel farlo, riscopre la nostra comune umanità.

Nexus. Breve storia delle reti di informazione dall’età della pietra all’IA

Yuval Noah Harari

Bompiani, 2024

Appena pubblicato in Italia un libro che conduce chi legge nella storia e nell’attualità delle reti e dei meccanismi della conoscenza.

Essere informati per vivere consapevolmente. E decidere con lucidità e attenzione. Condizione imprescindibile per tutti. Nell’era della velocità digitalizzata, tuttavia, l’informazione è contemporaneamente strumento utile ed elemento di confusione (quando magari non di subdola coercizione). Informarsi dunque sempre ma con attenzione, consapevoli che il confine tra informazione e disinformazione è sempre più labile. Leggere “Nexus. Breve storia delle reti di informazione dall’età della pietra all’IA” scritto da Yuval Noah Harari e appena pubblicato in Italia è allora cosa buona per tutti.

Harari parte da una constatazione: da un lato, negli ultimi centomila anni, l’uomo ha accumulato un enorme potere fatto di scoperte scientifiche e tecnologiche, invenzione e conquiste. Questo stesso uomo, tuttavia, oggi si trova in una crisi esistenziale ed ambientale senza precedenti, una situazione in cui l’informazione è determinante e la disinformazione dilaga. Ci stiamo buttando a capofitto nell’era dell’intelligenza artificiale, una nuova rete di informazioni che minaccia di annientarci. L’autore di Nexus si chiede quindi come mai l’uomo sia diventato così autodistruttivo e quali sia il ruolo passato e presente dell’informazione in tutto questo.

Nexus porta chi legge a guardare attraverso la lente della storia umana per considerare come il flusso di informazioni ha plasmato la storia umana. Partendo dall’età della pietra, passando per la canonizzazione della Bibbia, la caccia alle streghe della prima età moderna, lo stalinismo, il nazismo e la rinascita del populismo di oggi, Yuval Noah Harari chiede al lettore di considerare il complesso rapporto tra informazione e verità, burocrazia e mitologia, saggezza e potere. Il libro esplora così come le diverse società e i sistemi politici nel corso della storia abbiano utilizzato le informazioni per raggiungere i loro obiettivi, nel bene e nel male. E consente chi legge di affrontare con maggior consapevolezza le scelte urgenti che attendono tutti oggi attraverso un percorso che inizia dalla storia per mettere a fuoco gli errori compiuti, le decisioni che sono state prese e i loro effetti e, successivamente, approfondire la condizione attuale delle reti di informazione nelle quali tutti siamo immersi e, infine, le decisioni di fronte alle quali l’umanità si è posta.
L’informazione – è il messaggio di Harari – non è la materia prima della verità né una semplice arma. Nexus esplora la via di mezzo tra questi estremi e, nel farlo, riscopre la nostra comune umanità.

Nexus. Breve storia delle reti di informazione dall’età della pietra all’IA

Yuval Noah Harari

Bompiani, 2024

Conoscere per decidere e crescere

Un intervento del Governatore di Banca d’Italia come esempio di lucida analisi della realtà che aiuta cittadini e imprese.

Avere davanti la descrizione più affidabile possibile della realtà che ci circonda e potere, così, assumere decisioni e scelte attente e oculate. Conoscere per decidere, dunque, riprendendo un’affermazione di diversi decenni fa di Luigi Einaudi. L’indicazione vale forse oggi più di ieri. Ed è per questo che è utile leggere – e con attenzione – l’intervento del Governatore di Banca d’Italia, Fabio Panetta, nell’ambito degli eventi “In viaggio con la Banca d’Italia” e dedicato in particolare all’economia del Mezzogiorno.

“Eppur si muove: l’economia del Mezzogiorno dopo la crisi” – del 19 settembre 2024 – è un lucido racconto dell’evoluzione dell’economia e dei risultati del sud d’Italia rapportati con il resto del Paese. Un racconto che contrasta una falsa informazione e cioè che il Mezzogiorno non riesca ad avere buoni risultati economici. Certo, il divario c’è sempre ma Panetta illustra come negli ultimi tempi “l’espansione dell’economia meridionale” si sia fatta vedere e sentire. “Nel periodo successivo alla pandemia – scrive il Governatore – il Mezzogiorno ha invece conseguito risultati migliori di quelli dell’intera economia italiana”.  Segnali buoni, spesso molto più buoni di quelli che arrivano dal centro-nord, si sono registrati un po’ in tutti i comparti economici, sociali e istituzionali del Mezzogiorno.

Panetta avverte: “Questi positivi andamenti vanno valutati con cautela. Essi costituiscono indizi, non prove, di un possibile miglioramento della capacità competitiva dell’economia meridionale. Potrebbero inoltre avere natura temporanea o episodica, e sarebbero in ogni caso insufficienti a colmare i profondi divari territoriali che ho descritto in precedenza. Al tempo stesso, non possiamo trascurarli. Essi denotano l’esistenza di un potenziale di sviluppo del Mezzogiorno che può essere liberato con politiche appropriate”. Che, detto in altri termini, implica non solo grande attenzione ma grande impegno a “dare continuità alla ripresa (…) sostenendo e rafforzando queste tendenze”. Servono quindi buona politica, istituzioni attente e buone imprese, donne e uomini consapevoli del loro ruolo e del loro impegno. Molto ovviamente c’è ancora da fare.

L’intervento di Fabio Panetta contiene un grande insegnamento: il valore della conoscenza della realtà che diventa strumento di responsabilità nelle scelte ma anche di sviluppo.

Eppur si muove: l’economia del Mezzogiorno dopo la crisi

Fabio Panetta

In viaggio con la Banca d’Italia Il polso dell’economia – il Mezzogiorno*

Catania, 19 settembre 2024

Un intervento del Governatore di Banca d’Italia come esempio di lucida analisi della realtà che aiuta cittadini e imprese.

Avere davanti la descrizione più affidabile possibile della realtà che ci circonda e potere, così, assumere decisioni e scelte attente e oculate. Conoscere per decidere, dunque, riprendendo un’affermazione di diversi decenni fa di Luigi Einaudi. L’indicazione vale forse oggi più di ieri. Ed è per questo che è utile leggere – e con attenzione – l’intervento del Governatore di Banca d’Italia, Fabio Panetta, nell’ambito degli eventi “In viaggio con la Banca d’Italia” e dedicato in particolare all’economia del Mezzogiorno.

“Eppur si muove: l’economia del Mezzogiorno dopo la crisi” – del 19 settembre 2024 – è un lucido racconto dell’evoluzione dell’economia e dei risultati del sud d’Italia rapportati con il resto del Paese. Un racconto che contrasta una falsa informazione e cioè che il Mezzogiorno non riesca ad avere buoni risultati economici. Certo, il divario c’è sempre ma Panetta illustra come negli ultimi tempi “l’espansione dell’economia meridionale” si sia fatta vedere e sentire. “Nel periodo successivo alla pandemia – scrive il Governatore – il Mezzogiorno ha invece conseguito risultati migliori di quelli dell’intera economia italiana”.  Segnali buoni, spesso molto più buoni di quelli che arrivano dal centro-nord, si sono registrati un po’ in tutti i comparti economici, sociali e istituzionali del Mezzogiorno.

Panetta avverte: “Questi positivi andamenti vanno valutati con cautela. Essi costituiscono indizi, non prove, di un possibile miglioramento della capacità competitiva dell’economia meridionale. Potrebbero inoltre avere natura temporanea o episodica, e sarebbero in ogni caso insufficienti a colmare i profondi divari territoriali che ho descritto in precedenza. Al tempo stesso, non possiamo trascurarli. Essi denotano l’esistenza di un potenziale di sviluppo del Mezzogiorno che può essere liberato con politiche appropriate”. Che, detto in altri termini, implica non solo grande attenzione ma grande impegno a “dare continuità alla ripresa (…) sostenendo e rafforzando queste tendenze”. Servono quindi buona politica, istituzioni attente e buone imprese, donne e uomini consapevoli del loro ruolo e del loro impegno. Molto ovviamente c’è ancora da fare.

L’intervento di Fabio Panetta contiene un grande insegnamento: il valore della conoscenza della realtà che diventa strumento di responsabilità nelle scelte ma anche di sviluppo.

Eppur si muove: l’economia del Mezzogiorno dopo la crisi

Fabio Panetta

In viaggio con la Banca d’Italia Il polso dell’economia – il Mezzogiorno*

Catania, 19 settembre 2024

“Imparare a fare le cose difficili”: rileggere Calvino e Rodari anche per saper reggere le sfide dell’Intelligenza Artificiale

In questi tempi così controversi e preoccupanti, vale la pena cercare un filo di saggezza nelle parole cariche di senso e sapienza. Rileggere, per esempio, Italo Calvino: “Puntare solo sulle cose difficili, eseguite alla perfezione, le cose che richiedono sforzo; diffidare della faciloneria, del fare tanto per fare. Puntare sulla precisione, tanto nel linguaggio quanto nelle cose che si fanno”.

Sono parole tratte da una intervista rilasciata nel 1981 ad Alberto Sinigaglia per Rai 3 per la serie “Vent’anni al Duemila”, diventata l’anno successivo un volume dall’analogo titolo. Parole opportunamente riprese dal cardinale Gianfranco Ravasi nel suo Breviario sulla “Domenica” de Il Sole24Ore (29 settembre), sotto il titolo di “Faciloneria” e commentate così: “Parole incisive… anche e soprattutto oggi, a distanza di oltre quarant’anni, quando la tecnologia sembra aver reso tutte le cose agevoli, comode e apparentemente facili. Ed è così che si scivola nella faciloneria. Essa è subito accompagnata da una corte di sorelle come la superficialità, l’approssimazione, la banalità, la corrività”.

Insiste Ravasi: “Lo stesso linguaggio è spesso un flusso spontaneo di parole che ignora ogni controllo e, tanto meno, ogni cesello; le scelte operative fluiscono senza nessuna ponderatezza; il pensiero sfarfalla senza riflessione; appena si presenta un sentiero d’altura che esige sudore, pazienza e fatica, si ritorna a valle e alle sue strade senza asperità”.

In sintesi, “la stessa educazione in famiglia e nella scuola si adatta ad esigere il minimo; guai a proporre uno stile di vita sobrio e impegnato e uno studio serio e costante; la rinuncia è esorcizzata lasciando spazio a tutto ciò che è di moda”. E l’essere di moda, spesso, non è né sapienza né eleganza, di pensieri e di stile. Estetica ed etica, d’altronde, vantano una strettissima parentela.

Ecco il punto cardine: per fare fronte alla superficialità di un mondo di giudizi frettolosi ed esclusivamente emotivi, all’ignoranza diffusa, alla tendenza così cara ai social media di schiacciare la complessità delle azioni e delle relazioni umane nella banalità dei like e degli emoticon, è indispensabile tornare all’uso pertinente delle parole, alla ricchezza delle argomentazioni affidate a un discorso ben costruito, alle pagine che spingono a ragionare, fuor di retorica e di propaganda. Alla solidità della cultura, dunque. Alle conoscenze critiche della scienza.

Serve insegnare tutto ciò innanzitutto ai bambini, anche con l’esempio della lettura a casa e a scuola, con l’abitudine ai libri come oggetti essenziali per il piacere del gioco e la felicità dell’imparare cose nuove.

Difficile? Meno di quanto si pensi (per averne riprova basta guardare gli spazi ben costruiti e arredati e affollati da bambini allegri nelle librerie più intelligenti e consapevoli). E comunque indispensabile, per chi ha a cuore il miglior futuro nei nostri figli e dei nostri nipoti.

Difficile, in ogni caso? Sì. E allora?

Vengono in soccorso altre pagine sapienti. Come quelle della “Lettera ai bambini” in forma di poesia, contenuta in “Parole per giocare” di Gianni Rodari: “È difficile fare/ le cose difficili:/ parlare al sordo/ mostrare la rosa al cieco/ Bambini, imparate/ a fare le cose difficili:/ dare la mano al cieco,/ cantare per il sordo,/ liberare gli schiavi/ che si credono liberi”. È proprio quest’ultima frase, del 1979, quasi mezzo secolo fa, a risuonare per noi quasi profetica, se si pensa all’inconsapevolezza che segna il rapporto di milioni di persone con gli strumenti digitali e i social media.

Calvino e Rodari sono stati efficaci maestri, di letteratura e valori di buona educazione, culturale e civile. Come Primo Levi, con le pagine sulla memoria dolorosa dell’Olocausto e sulla bellezza della meccanica (“La chiave a stella”) e della scienza (“Il sistema periodico”). E come tante altre donne e altri uomini che hanno affidato a parole e immagini il racconto del viaggio di scoperta (anche delle profondità dell’intimo e dell’infimo del cuore), dell’intraprendenza, della creatività e dell’esperienza (cognizione del dolore compresa). Maestri di parole dense. Di memoria. E dunque di futuro. Da rileggere. E usare come stimoli per altri viaggi. Parole dialettiche. D’una società aperta. Per leggere, insomma, la società nel suo complesso, come condizione per conoscere anche un singolo campo del sapere. Estensione. Per andare efficacemente in profondità.

Dove sta, appunto, il senso della vita di un uomo? Nelle cose dette, scritte, fatte. Negli amori vissuti, nelle amicizie scelte e ricambiate. Nell’essere stato padre, di figli e di idee. Nelle opere. Nei segni, pur piccoli e leggeri, lasciati su altre vite e altri destini. Nelle lezioni imparate e trasmesse. E nelle intenzioni che ancora ci ispirano, nonostante lo scorrere dell’età. C’è sempre, un buon tempo da vivere.

Vengono in mente, così, altre parole magistrali sulla conoscenza, quelle di don Lorenzo Milani: “Il padrone conosce mille parole. L’operaio cento. Ecco perché è lui, il padrone”. È lo schema ruvido degli anni Sessanta del Novecento. Ma la lezione è chiara: gli squilibri nell’uso del linguaggio nascono dalla condizione sociale e determinano il perpetuarsi del divario. E tocca proprio alla diffusione della conoscenza la responsabilità di provare a colmare o comunque ridurre le diseguaglianze di potere, di ricchezza, di possibilità di futuro. Ed è la scuola a fare da primario ascensore sociale (la formazione lungo tutto il corso della propria vita, diremmo oggi). La Costituzione ne indica, giustamente, l’essenzialità, anche adesso che le transizioni digitali pongono inedite sfide a chi cerca di scrivere le nuove mappe dello sviluppo sostenibile e dei migliori equilibri sociali e culturali.

Gli strumenti dell’Intelligenza Artificiale ci mettono a disposizione, con facilità (per chi è tecnologicamente attrezzato), numerosissime combinazioni di parole. Costruiscono discorsi. Contaminano saperi. Compongono pagine dotate di una sintassi, una discorsività, un senso. Ma vanno attivati con domande. Dunque con processi verbali carichi di significati e prospettive. E con la consapevolezza dei meccanismi logici e culturali secondo cui si costruiscono i nessi digitali. L’innovazione offre straordinarie opportunità. Ma determina nuovi disagi e disparito. Da cercare di superare.

Anche da questa strada torniamo all’importanza fondamentale della conoscenza di parole pertinenti, non solo da parte di chi interroga i sistemi di IA, ma anche da parte di chi ne è utente, consumatore. Una sfida di civiltà, al di là dell’evoluzione delle tecnologie. Di coscienza critica. In sintesi, di democrazia.

(Foto Getty Images)

In questi tempi così controversi e preoccupanti, vale la pena cercare un filo di saggezza nelle parole cariche di senso e sapienza. Rileggere, per esempio, Italo Calvino: “Puntare solo sulle cose difficili, eseguite alla perfezione, le cose che richiedono sforzo; diffidare della faciloneria, del fare tanto per fare. Puntare sulla precisione, tanto nel linguaggio quanto nelle cose che si fanno”.

Sono parole tratte da una intervista rilasciata nel 1981 ad Alberto Sinigaglia per Rai 3 per la serie “Vent’anni al Duemila”, diventata l’anno successivo un volume dall’analogo titolo. Parole opportunamente riprese dal cardinale Gianfranco Ravasi nel suo Breviario sulla “Domenica” de Il Sole24Ore (29 settembre), sotto il titolo di “Faciloneria” e commentate così: “Parole incisive… anche e soprattutto oggi, a distanza di oltre quarant’anni, quando la tecnologia sembra aver reso tutte le cose agevoli, comode e apparentemente facili. Ed è così che si scivola nella faciloneria. Essa è subito accompagnata da una corte di sorelle come la superficialità, l’approssimazione, la banalità, la corrività”.

Insiste Ravasi: “Lo stesso linguaggio è spesso un flusso spontaneo di parole che ignora ogni controllo e, tanto meno, ogni cesello; le scelte operative fluiscono senza nessuna ponderatezza; il pensiero sfarfalla senza riflessione; appena si presenta un sentiero d’altura che esige sudore, pazienza e fatica, si ritorna a valle e alle sue strade senza asperità”.

In sintesi, “la stessa educazione in famiglia e nella scuola si adatta ad esigere il minimo; guai a proporre uno stile di vita sobrio e impegnato e uno studio serio e costante; la rinuncia è esorcizzata lasciando spazio a tutto ciò che è di moda”. E l’essere di moda, spesso, non è né sapienza né eleganza, di pensieri e di stile. Estetica ed etica, d’altronde, vantano una strettissima parentela.

Ecco il punto cardine: per fare fronte alla superficialità di un mondo di giudizi frettolosi ed esclusivamente emotivi, all’ignoranza diffusa, alla tendenza così cara ai social media di schiacciare la complessità delle azioni e delle relazioni umane nella banalità dei like e degli emoticon, è indispensabile tornare all’uso pertinente delle parole, alla ricchezza delle argomentazioni affidate a un discorso ben costruito, alle pagine che spingono a ragionare, fuor di retorica e di propaganda. Alla solidità della cultura, dunque. Alle conoscenze critiche della scienza.

Serve insegnare tutto ciò innanzitutto ai bambini, anche con l’esempio della lettura a casa e a scuola, con l’abitudine ai libri come oggetti essenziali per il piacere del gioco e la felicità dell’imparare cose nuove.

Difficile? Meno di quanto si pensi (per averne riprova basta guardare gli spazi ben costruiti e arredati e affollati da bambini allegri nelle librerie più intelligenti e consapevoli). E comunque indispensabile, per chi ha a cuore il miglior futuro nei nostri figli e dei nostri nipoti.

Difficile, in ogni caso? Sì. E allora?

Vengono in soccorso altre pagine sapienti. Come quelle della “Lettera ai bambini” in forma di poesia, contenuta in “Parole per giocare” di Gianni Rodari: “È difficile fare/ le cose difficili:/ parlare al sordo/ mostrare la rosa al cieco/ Bambini, imparate/ a fare le cose difficili:/ dare la mano al cieco,/ cantare per il sordo,/ liberare gli schiavi/ che si credono liberi”. È proprio quest’ultima frase, del 1979, quasi mezzo secolo fa, a risuonare per noi quasi profetica, se si pensa all’inconsapevolezza che segna il rapporto di milioni di persone con gli strumenti digitali e i social media.

Calvino e Rodari sono stati efficaci maestri, di letteratura e valori di buona educazione, culturale e civile. Come Primo Levi, con le pagine sulla memoria dolorosa dell’Olocausto e sulla bellezza della meccanica (“La chiave a stella”) e della scienza (“Il sistema periodico”). E come tante altre donne e altri uomini che hanno affidato a parole e immagini il racconto del viaggio di scoperta (anche delle profondità dell’intimo e dell’infimo del cuore), dell’intraprendenza, della creatività e dell’esperienza (cognizione del dolore compresa). Maestri di parole dense. Di memoria. E dunque di futuro. Da rileggere. E usare come stimoli per altri viaggi. Parole dialettiche. D’una società aperta. Per leggere, insomma, la società nel suo complesso, come condizione per conoscere anche un singolo campo del sapere. Estensione. Per andare efficacemente in profondità.

Dove sta, appunto, il senso della vita di un uomo? Nelle cose dette, scritte, fatte. Negli amori vissuti, nelle amicizie scelte e ricambiate. Nell’essere stato padre, di figli e di idee. Nelle opere. Nei segni, pur piccoli e leggeri, lasciati su altre vite e altri destini. Nelle lezioni imparate e trasmesse. E nelle intenzioni che ancora ci ispirano, nonostante lo scorrere dell’età. C’è sempre, un buon tempo da vivere.

Vengono in mente, così, altre parole magistrali sulla conoscenza, quelle di don Lorenzo Milani: “Il padrone conosce mille parole. L’operaio cento. Ecco perché è lui, il padrone”. È lo schema ruvido degli anni Sessanta del Novecento. Ma la lezione è chiara: gli squilibri nell’uso del linguaggio nascono dalla condizione sociale e determinano il perpetuarsi del divario. E tocca proprio alla diffusione della conoscenza la responsabilità di provare a colmare o comunque ridurre le diseguaglianze di potere, di ricchezza, di possibilità di futuro. Ed è la scuola a fare da primario ascensore sociale (la formazione lungo tutto il corso della propria vita, diremmo oggi). La Costituzione ne indica, giustamente, l’essenzialità, anche adesso che le transizioni digitali pongono inedite sfide a chi cerca di scrivere le nuove mappe dello sviluppo sostenibile e dei migliori equilibri sociali e culturali.

Gli strumenti dell’Intelligenza Artificiale ci mettono a disposizione, con facilità (per chi è tecnologicamente attrezzato), numerosissime combinazioni di parole. Costruiscono discorsi. Contaminano saperi. Compongono pagine dotate di una sintassi, una discorsività, un senso. Ma vanno attivati con domande. Dunque con processi verbali carichi di significati e prospettive. E con la consapevolezza dei meccanismi logici e culturali secondo cui si costruiscono i nessi digitali. L’innovazione offre straordinarie opportunità. Ma determina nuovi disagi e disparito. Da cercare di superare.

Anche da questa strada torniamo all’importanza fondamentale della conoscenza di parole pertinenti, non solo da parte di chi interroga i sistemi di IA, ma anche da parte di chi ne è utente, consumatore. Una sfida di civiltà, al di là dell’evoluzione delle tecnologie. Di coscienza critica. In sintesi, di democrazia.

(Foto Getty Images)

“Il nostro rivenditore deve essere con noi”: l’avventura editoriale di “P vendere”, dagli anni del boom all’Archivio Storico online

“Una sigla nuova per conoscerci meglio”. Così l’editoriale del primo numero, nel settembre 1958, annuncia la nascita di “P vendere”, rivista del Gruppo Pirelli dedicata ai rivenditori di pneumatici. Il momento non è casuale: sono gli anni della motorizzazione di massa in Italia, il mercato è in espansione e la concorrenza per spartirselo si accende. Coltivare il rapporto con il rivenditore, punto terminale dell’organizzazione di vendita, a diretto contatto con la clientela, diventa cruciale nella strategia commerciale della Pirelli. “Il nostro rivenditore deve essere con noi” affermava Arrigo Castellani, direttore della Propaganda. Ecco quindi nascere una nuova testata, dopo la generalista “Pirelli. Rivista d’informazione e di tecnica”, questa volta ideata per un pubblico specialistico e con un particolare obiettivo: supportare l’attività di vendita dei gommisti e promuovere un meccanismo di identificazione con la casa fornitrice. Da oggi P vendere si aggiunge alle riviste disponibili nell’Archivio Storico online, con la possibilità di sfogliare tutti i numeri e di ricerca “full text” all’interno degli articoli. Al centro della pubblicazione sono naturalmente i prodotti di casa Pirelli e le strategie per venderli: informazioni di tipo tecnico, su caratteristiche, montaggio, utilizzo e manutenzione, si alternano a resoconti sulle campagne pubblicitarie per la loro promozione,  anche con numeri monografici in occasione di lanci importanti, come il BS3 nel 1959, o l’imponente campagna pubblicitaria per il Cinturato nel 1965. Nel campo della pubblicità sono periodicamente presentati i mezzi messi a disposizione dall’azienda: dagli espositori per la merce ai bozzetti dei migliori grafici del tempo, dai gadget alle diapositive o diavive per il cinema, alle insegne luminose,tutto personalizzabile con il nome del rivenditore.

Ampio spazio è dedicato ai rivenditori stessi, alle loro storie personali e a quelle delle loro attività commerciali. Dalla iniziale rubrica Voi, nostri amici, nella quale sono pubblicate foto inviate direttamente dai lettori, si passa nel 1961, e per l’intera durata della rivista, a Protagonisti della vendita, veri e propri “servizi” corredati da fotografie, redatti da inviati del giornale. Alcuni di loro sono ancora oggi importanti dealer Pirelli, come Frigerio  a Milano.

Presenti anche notizie sull’attività dell’azienda più in generale, con articoli sugli stabilimenti Pirelli e sulla sua attività nel mondo. Tra gli altri, si segnalano: Il capo dello Stato a Bicocca (1967); Fatti col cervello (1967) e Gli elettroni per lo studio dei pneumatici (1969) sull’utilizzo dei calcolatori elettronici per la progettazione degli pneumatici; Un magazzino per 600.000 (1968), sulla nuova gigantesca area per lo stoccaggio degli pneumatici a Bicocca; Un laboratorio all’aperto (1969) sulla pista di prova di Vizzola. Diretta da Mario Giretti e, dal 1968 al 1970 – anno dell’ultimo numero – da Giampiero Zanni, susseguitisi a capo della Direzione Vendite Pneumatici, su P vendere è evidente l’influenza di Arrigo Castellani: ne sono indizio la veste grafica curata (l’impaginazione e l’art direction, come per la rivista “Pirelli” è affidata a Ezio Bonini, cui seguiranno Giancarlo Guerrini, Heinz Ochsner, Ottorino Monestier, Fulvio Carcano, Peter Vogt e Ursula Noerbel), la partecipazione di illustratori come Riccardo Manzi – autore di una vignetta in esclusiva sui numeri del 1962 – e fotografi  Ugo Mulas e la comparsa, per un breve periodo, di articoli di argomento vario come televisione, tempo libero, sport, firmati, tra gli altri, da Alfredo Binda e Giuseppe Meazza.

Protagonisti del mondo dello sport, dell’arte, del design, accomunati da un’avventura editoriale sotto il segno della P lunga.

“Una sigla nuova per conoscerci meglio”. Così l’editoriale del primo numero, nel settembre 1958, annuncia la nascita di “P vendere”, rivista del Gruppo Pirelli dedicata ai rivenditori di pneumatici. Il momento non è casuale: sono gli anni della motorizzazione di massa in Italia, il mercato è in espansione e la concorrenza per spartirselo si accende. Coltivare il rapporto con il rivenditore, punto terminale dell’organizzazione di vendita, a diretto contatto con la clientela, diventa cruciale nella strategia commerciale della Pirelli. “Il nostro rivenditore deve essere con noi” affermava Arrigo Castellani, direttore della Propaganda. Ecco quindi nascere una nuova testata, dopo la generalista “Pirelli. Rivista d’informazione e di tecnica”, questa volta ideata per un pubblico specialistico e con un particolare obiettivo: supportare l’attività di vendita dei gommisti e promuovere un meccanismo di identificazione con la casa fornitrice. Da oggi P vendere si aggiunge alle riviste disponibili nell’Archivio Storico online, con la possibilità di sfogliare tutti i numeri e di ricerca “full text” all’interno degli articoli. Al centro della pubblicazione sono naturalmente i prodotti di casa Pirelli e le strategie per venderli: informazioni di tipo tecnico, su caratteristiche, montaggio, utilizzo e manutenzione, si alternano a resoconti sulle campagne pubblicitarie per la loro promozione,  anche con numeri monografici in occasione di lanci importanti, come il BS3 nel 1959, o l’imponente campagna pubblicitaria per il Cinturato nel 1965. Nel campo della pubblicità sono periodicamente presentati i mezzi messi a disposizione dall’azienda: dagli espositori per la merce ai bozzetti dei migliori grafici del tempo, dai gadget alle diapositive o diavive per il cinema, alle insegne luminose,tutto personalizzabile con il nome del rivenditore.

Ampio spazio è dedicato ai rivenditori stessi, alle loro storie personali e a quelle delle loro attività commerciali. Dalla iniziale rubrica Voi, nostri amici, nella quale sono pubblicate foto inviate direttamente dai lettori, si passa nel 1961, e per l’intera durata della rivista, a Protagonisti della vendita, veri e propri “servizi” corredati da fotografie, redatti da inviati del giornale. Alcuni di loro sono ancora oggi importanti dealer Pirelli, come Frigerio  a Milano.

Presenti anche notizie sull’attività dell’azienda più in generale, con articoli sugli stabilimenti Pirelli e sulla sua attività nel mondo. Tra gli altri, si segnalano: Il capo dello Stato a Bicocca (1967); Fatti col cervello (1967) e Gli elettroni per lo studio dei pneumatici (1969) sull’utilizzo dei calcolatori elettronici per la progettazione degli pneumatici; Un magazzino per 600.000 (1968), sulla nuova gigantesca area per lo stoccaggio degli pneumatici a Bicocca; Un laboratorio all’aperto (1969) sulla pista di prova di Vizzola. Diretta da Mario Giretti e, dal 1968 al 1970 – anno dell’ultimo numero – da Giampiero Zanni, susseguitisi a capo della Direzione Vendite Pneumatici, su P vendere è evidente l’influenza di Arrigo Castellani: ne sono indizio la veste grafica curata (l’impaginazione e l’art direction, come per la rivista “Pirelli” è affidata a Ezio Bonini, cui seguiranno Giancarlo Guerrini, Heinz Ochsner, Ottorino Monestier, Fulvio Carcano, Peter Vogt e Ursula Noerbel), la partecipazione di illustratori come Riccardo Manzi – autore di una vignetta in esclusiva sui numeri del 1962 – e fotografi  Ugo Mulas e la comparsa, per un breve periodo, di articoli di argomento vario come televisione, tempo libero, sport, firmati, tra gli altri, da Alfredo Binda e Giuseppe Meazza.

Protagonisti del mondo dello sport, dell’arte, del design, accomunati da un’avventura editoriale sotto il segno della P lunga.

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Lavoro in evoluzione

Un libro appena ripubblicato e aggiornato fornisce una buona guida al tema

 

Il lavoro come elemento imprescindibile della produzione ma, più in generale, dello sviluppo umano. Lavoro inteso come impegno e fatica, come azione per arriva ad un traguardo, come vessazione oppure come strumento di emancipazione. Lavoro, comunque. Attorno a questo concetto, nei secoli, sono nate teorie, rivoluzioni, rivendicazioni, lotte e ideologie. E’ necessario tenere a mente tutto questo quando si legge “Il lavoro. Dalla rivoluzione industriale alla transizione digitale” scritto da Guido Cavalca, Enzo Mingione e Enrico Pugliese e recentemente ripubblicato aggiornato.

Negli ultimi anni – è la considerazione alla base dell’aggiornamento del volume – si sono registrate radicali e rapide trasformazioni del lavoro legate al procedere della rivoluzione digitale e alla riconfigurazione della globalizzazione. Raccontare la storia del lavoro dalla rivoluzione industriale ad oggi, comporta quindi una profonda revisione delle ultime fasi di questa stessa storia. Il libro quindi analizza questi cambiamenti e propone le coordinate per lo studio delle nuove tensioni sociali nel mercato e nell’organizzazione del lavoro. La visione che gli autori forniscono dipinge un quadro fatto di crescenti diseguaglianze, mestieri e professioni in estinzione e nuove attività in sviluppo. Fenomeni che, possono essere compresi non solo guardando all’oggi ma anche ricordando il cammino affrontato lungo i secoli.

Cavalca, Mingione e Pugliese, quindi, forniscono una chiave storica e comparativa partendo da temi classici come la divisione del lavoro, il taylorismo e le condizioni di lavoro nelle fabbriche fordiste, l’evoluzione dei sistemi di protezione sociale, le nuove forme di disoccupazione e lavoro precario, il sindacato e il conflitto industriale. Il libro viene poi arricchito da aggiornamenti statistici sull’occupazione in Italia e in Europa, con particolare

attenzione ai giovani e alle donne ma anche ai processi legati alle migrazioni internazionali, alle forme più accentuate di sfruttamento del lavoro.

Il libro di Cavalca, Mingione e Pugliese è una buona guida di viaggio lungo il cammino di un concetto e di una parte dell’attività umana che continua ad evolvere.

Il lavoro. Dalla rivoluzione industriale alla transizione digitale

Guido Cavalca, Enzo Mingione, Enrico Pugliese

Carocci, 2024

Un libro appena ripubblicato e aggiornato fornisce una buona guida al tema

 

Il lavoro come elemento imprescindibile della produzione ma, più in generale, dello sviluppo umano. Lavoro inteso come impegno e fatica, come azione per arriva ad un traguardo, come vessazione oppure come strumento di emancipazione. Lavoro, comunque. Attorno a questo concetto, nei secoli, sono nate teorie, rivoluzioni, rivendicazioni, lotte e ideologie. E’ necessario tenere a mente tutto questo quando si legge “Il lavoro. Dalla rivoluzione industriale alla transizione digitale” scritto da Guido Cavalca, Enzo Mingione e Enrico Pugliese e recentemente ripubblicato aggiornato.

Negli ultimi anni – è la considerazione alla base dell’aggiornamento del volume – si sono registrate radicali e rapide trasformazioni del lavoro legate al procedere della rivoluzione digitale e alla riconfigurazione della globalizzazione. Raccontare la storia del lavoro dalla rivoluzione industriale ad oggi, comporta quindi una profonda revisione delle ultime fasi di questa stessa storia. Il libro quindi analizza questi cambiamenti e propone le coordinate per lo studio delle nuove tensioni sociali nel mercato e nell’organizzazione del lavoro. La visione che gli autori forniscono dipinge un quadro fatto di crescenti diseguaglianze, mestieri e professioni in estinzione e nuove attività in sviluppo. Fenomeni che, possono essere compresi non solo guardando all’oggi ma anche ricordando il cammino affrontato lungo i secoli.

Cavalca, Mingione e Pugliese, quindi, forniscono una chiave storica e comparativa partendo da temi classici come la divisione del lavoro, il taylorismo e le condizioni di lavoro nelle fabbriche fordiste, l’evoluzione dei sistemi di protezione sociale, le nuove forme di disoccupazione e lavoro precario, il sindacato e il conflitto industriale. Il libro viene poi arricchito da aggiornamenti statistici sull’occupazione in Italia e in Europa, con particolare

attenzione ai giovani e alle donne ma anche ai processi legati alle migrazioni internazionali, alle forme più accentuate di sfruttamento del lavoro.

Il libro di Cavalca, Mingione e Pugliese è una buona guida di viaggio lungo il cammino di un concetto e di una parte dell’attività umana che continua ad evolvere.

Il lavoro. Dalla rivoluzione industriale alla transizione digitale

Guido Cavalca, Enzo Mingione, Enrico Pugliese

Carocci, 2024

Nuove regole per il lavoro digitale

Una raccolta di ricerche cerca di fare luce sulle relazioni tra innovazioni e nuovi lavori

Il lavoro al tempo del digitale. Questione complessa, anche dal punto di vista contrattuale e più in generale giuridico. Questione, quella delle relazioni tra regole e nuove forme di lavoro, da affrontare attentamente e da più angolazioni. Per questo Fiorella Lunardon (ordinaria di diritto del lavoro all’Università di Torino) e Emanuele Menegatti (ordinario della materia ma a Bologna), hanno coordinato una serie di ricerche confluite in “I nuovi confini del lavoro: la trasformazione digitale”.

La raccolta comprende – come si è detto – otto approfondimenti che affrontano il tema delle trasformazioni digitali nel mondo del lavoro da diverse prospettive di analisi. Ne deriva un ventaglio di molteplici spunti di riflessione circa il ruolo giocato dal legislatore nella regolamentazione del fenomeno, ma anche dalle parti sociali e dai lavoratori, verso una transizione digitale giusta.

Dopo una introduzione nella quale si mettono in relazione l’innovazione digitale e il diritto del lavoro, una successiva analisi prende come punto focale la contrattazione collettiva e una terza approfondisce l’esempio spagnolo di regolamentazione tra tecnologie digitali e professioni. La raccolta quindi prosegue con l’analisi della “impresa digitalizzata”, poi dell’esempio tedesco legato alle regole del sindacato. L’ultima parte di ricerche comprende invece un’esame delle relazioni tra digitalizzazione e orario di lavoro e due approfondimenti del ruolo della Intelligenza Artificiale.

La lettura del fenomeno proposta, fanno notare i curatori, cerca di collocare i cambiamenti portati dalle tecnologie digitali in una visione che metta al centro l’uomo e che possa essere anche sufficientemente resiliente per rispondere adeguatamente ai cambiamenti. Le ricerche raccolte da Lunardon e Menegatti non sono certo sempre di facile lettura, ma sono certamente utili per comprendere appieno cosa sta cambiando nel mondo del lavoro e nelle sue regole.

I nuovi confini del lavoro: la trasformazione digitale

Fiorella Lunardon, Emanuele Menegatti (a cura di)

Italian Labour Law e-Studies, Department of Sociology and Business Law, Alma Mater Studiorum – University of Bologna, 2024

Una raccolta di ricerche cerca di fare luce sulle relazioni tra innovazioni e nuovi lavori

Il lavoro al tempo del digitale. Questione complessa, anche dal punto di vista contrattuale e più in generale giuridico. Questione, quella delle relazioni tra regole e nuove forme di lavoro, da affrontare attentamente e da più angolazioni. Per questo Fiorella Lunardon (ordinaria di diritto del lavoro all’Università di Torino) e Emanuele Menegatti (ordinario della materia ma a Bologna), hanno coordinato una serie di ricerche confluite in “I nuovi confini del lavoro: la trasformazione digitale”.

La raccolta comprende – come si è detto – otto approfondimenti che affrontano il tema delle trasformazioni digitali nel mondo del lavoro da diverse prospettive di analisi. Ne deriva un ventaglio di molteplici spunti di riflessione circa il ruolo giocato dal legislatore nella regolamentazione del fenomeno, ma anche dalle parti sociali e dai lavoratori, verso una transizione digitale giusta.

Dopo una introduzione nella quale si mettono in relazione l’innovazione digitale e il diritto del lavoro, una successiva analisi prende come punto focale la contrattazione collettiva e una terza approfondisce l’esempio spagnolo di regolamentazione tra tecnologie digitali e professioni. La raccolta quindi prosegue con l’analisi della “impresa digitalizzata”, poi dell’esempio tedesco legato alle regole del sindacato. L’ultima parte di ricerche comprende invece un’esame delle relazioni tra digitalizzazione e orario di lavoro e due approfondimenti del ruolo della Intelligenza Artificiale.

La lettura del fenomeno proposta, fanno notare i curatori, cerca di collocare i cambiamenti portati dalle tecnologie digitali in una visione che metta al centro l’uomo e che possa essere anche sufficientemente resiliente per rispondere adeguatamente ai cambiamenti. Le ricerche raccolte da Lunardon e Menegatti non sono certo sempre di facile lettura, ma sono certamente utili per comprendere appieno cosa sta cambiando nel mondo del lavoro e nelle sue regole.

I nuovi confini del lavoro: la trasformazione digitale

Fiorella Lunardon, Emanuele Menegatti (a cura di)

Italian Labour Law e-Studies, Department of Sociology and Business Law, Alma Mater Studiorum – University of Bologna, 2024

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