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Imprese in miniera

Pubblicato il riordino di un archivio minerario che racconta un secolo di lavoro

 

 Documenti della fatica e dell’ingegno d’impresa. Carte, disegni, mappe, piani di lavoro, fotografie, storie personali. Sono questo e molto altro ancora gli archivi minerari Montecatini-Montedison messi a disposizione del pubblico da pochi giorni. Tutto è frutto di un lungo e raffinato lavoro di riordino e catalogazione condotto da Simonetta Soldatini e appena pubblicato. Un altro tassello importante per la costruzione di quella cultura d’impresa diffusa che rende pressoché unica l’Italia.

“Gli archivi minerari Montecatini – Montedison, Solmine a Massa Marittima (1898-1989): inventario” – questo il tiolo della ricerca appena resa nota -, dà conto dell’inventario degli archivi minerari conservati nel Centro di Documentazione di Niccioleta. Si tratta di oltre 20mila faldoni contenenti documenti di tutti i tipi: come si è detto dalle schede del personale alle buste paga, ai cartellini, alla corrispondenza, e oltre 7.000 tra mappe, piani minerari, foto e disegni di macchinari. Un patrimonio di enorme valore per ricostruire la storia dello sfruttamento minerario delle Colline Metallifere della Toscana tra la fine dell’800 e la fine del ‘900. Soldatini ha lavorato per dieci nel riordino della mole di documenti recuperati nelle miniere: un lavoro certosino di catalogazione, che ha beneficiato del sostegno e della collaborazione di istituzioni ed enti locali. E che adesso si condensa in una ricerca che è anche catalogo e strumento di lavoro.

Ma cose emerge da tutto questo? Di fatto, un’altra testimonianza profonda di lavoro lunga quasi un secolo, ma anche della capacità tecnologica di un’industria di cui troppo presto si è persa memoria.

E che, invece, proprio sul territorio è stata mantenuta viva anche attraverso iniziative di volontariato importanti (che tra l’altro hanno poi consentito l’avvio della catalogazione dei documenti).

Ma non solo. La ricerca di Simonetta Soldatini è infatti adesso uno strumento di lavoro per altri approfondimenti e per la creazione di altri racconti d’impresa. Uno strumento quindi di crescita culturale in senso vasto, a disposizione non solo degli studiosi ma, per esempio, dei giovani e delle scuole. Da consiltare e leggere, ma soprattutto da usare per capire un pezzo del passato di tutti noi.

Gli archivi minerari Montecatini – Montedison, Solmine a Massa Marittima (1898-1989): inventario

Simonetta Soldatini (a cura di), Polistampa, 2022

Pubblicato il riordino di un archivio minerario che racconta un secolo di lavoro

 

 Documenti della fatica e dell’ingegno d’impresa. Carte, disegni, mappe, piani di lavoro, fotografie, storie personali. Sono questo e molto altro ancora gli archivi minerari Montecatini-Montedison messi a disposizione del pubblico da pochi giorni. Tutto è frutto di un lungo e raffinato lavoro di riordino e catalogazione condotto da Simonetta Soldatini e appena pubblicato. Un altro tassello importante per la costruzione di quella cultura d’impresa diffusa che rende pressoché unica l’Italia.

“Gli archivi minerari Montecatini – Montedison, Solmine a Massa Marittima (1898-1989): inventario” – questo il tiolo della ricerca appena resa nota -, dà conto dell’inventario degli archivi minerari conservati nel Centro di Documentazione di Niccioleta. Si tratta di oltre 20mila faldoni contenenti documenti di tutti i tipi: come si è detto dalle schede del personale alle buste paga, ai cartellini, alla corrispondenza, e oltre 7.000 tra mappe, piani minerari, foto e disegni di macchinari. Un patrimonio di enorme valore per ricostruire la storia dello sfruttamento minerario delle Colline Metallifere della Toscana tra la fine dell’800 e la fine del ‘900. Soldatini ha lavorato per dieci nel riordino della mole di documenti recuperati nelle miniere: un lavoro certosino di catalogazione, che ha beneficiato del sostegno e della collaborazione di istituzioni ed enti locali. E che adesso si condensa in una ricerca che è anche catalogo e strumento di lavoro.

Ma cose emerge da tutto questo? Di fatto, un’altra testimonianza profonda di lavoro lunga quasi un secolo, ma anche della capacità tecnologica di un’industria di cui troppo presto si è persa memoria.

E che, invece, proprio sul territorio è stata mantenuta viva anche attraverso iniziative di volontariato importanti (che tra l’altro hanno poi consentito l’avvio della catalogazione dei documenti).

Ma non solo. La ricerca di Simonetta Soldatini è infatti adesso uno strumento di lavoro per altri approfondimenti e per la creazione di altri racconti d’impresa. Uno strumento quindi di crescita culturale in senso vasto, a disposizione non solo degli studiosi ma, per esempio, dei giovani e delle scuole. Da consiltare e leggere, ma soprattutto da usare per capire un pezzo del passato di tutti noi.

Gli archivi minerari Montecatini – Montedison, Solmine a Massa Marittima (1898-1989): inventario

Simonetta Soldatini (a cura di), Polistampa, 2022

L’avventura di un imprenditore

La vicenda umana e imprenditoriale di Adriano Olivetti raccontata a tutto tondo

 

Imprenditore e, quindi, prima di tutto, essere umano. Con tutte le sue contraddizioni, ma anche con tutti i suoi sogni e la forza di realizzarli. Un modello, ogni volta diverso, di capacità di intraprendere. Di fare impresa, appunto. Per questo, proprio l’impresa e la sua cultura non possono essere concetti costretti solamente in ambiti teorici. L’impresa, in altri termini, non è solo organizzazione della produzione, tecnica e, oggi, automatismi e digitalizzazione. L’impresa è anche qualcosa d’altro. Di molto altro. Qualcosa che può essere compresa solo attraverso il racconto di vite di uomini (e donne) che le imprese le hanno pensate, realizzate e fatte crescere. E’ il caso di Adriano Olivetti del quale adesso viene pubblicata una nuova biografia che prova a mettere per davvero insieme l’uomo Adriano prima dell’Olivetti imprenditore.

“Adriano Olivetti, un italiano del Novecento” scritto da Paolo Bricco è il risultato di un lungo lavoro di ricerca, analisi, interpretazione, racconto della vita di uno degli imprenditori che hanno insegnato a fare impresa a tutto il mondo. E dato lustro all’Italia. Un mito, si è spesso detto, ma anche semplicemente un uomo non tutto d’un pezzo ma pieno di contraddizioni. Eppure geniale. Forse proprio per questo geniale.

Bricco è stato capace di ripercorrere la vita di Olivetti immersa nella vicenda industriale e sociale, politica e culturale dell’Italia tra la fine dell’Ottocento e il boom economico, senza però darne un’immagine agiografica ma, anzi, cogliendone tutta la sua essenza umana. Da una parte, quindi, chi legge ripercorre le tappe dell’uomo dedito ad un’impresa altro dalla semplice organizzazione della produzione per far profitto; dall’altra, nelle pagine di Bricco si colgono le contraddizioni, i conflitti e le generose incompiutezze dell’essere umano Adriano. Nelle poco meno di 500 pagine (che comunque si leggono come un romanzo), si colgono così i legami profondi e tormentati con i famigliari, le due mogli e le altre donne amate; la passione per l’organizzazione scientifica del lavoro e l’attrazione per la spiritualità, l’astrologia e la sapienza orientale; il complesso percorso dal socialismo di famiglia degli anni Venti all’adesione teorica al corporativismo e al suo concreto inserimento nella società fascista degli anni Trenta; gli avventurosi rapporti, alla caduta del regime, con i servizi segreti inglesi e americani e la perpetua tentazione del demone della politica, con il fallimento della trasformazione del Movimento di Comunità in un partito tradizionale; l’identità dell’industriale che intuisce le nuove frontiere tecnologiche (l’elettronica) e che unifica il sapere umanistico e la cultura tecno-manifatturiera, senza però riuscire a superare i limiti del capitalismo famigliare. Un mondo, insomma, nel quale Adriano Olivetti è il centro senza però esserne il protagonista assoluto. Perché, si coglie bene nelle pagine di Bricco, nel ruolo di vero nucleo forte della storia c’è un’utopia (in parte anche realizzata). Quella della fabbrica come un luogo bello in cui vivere e lavorare. Un luogo in cui tecnica e umanità si fondo con armonia. Un ambito “che – come lo stesso Olivetti ebbe e a dire -, crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate fra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto”. Utopia, si diceva, ma concreta. Che ha improntato di fatto tutta la vicenda della Olivetti e della quale ancora oggi si coglie molto.

Il libro di Paolo Bricco racconta tutto questo, senza tralasciare nulla e dando ad ogni particolare il suo giusto spazio. Il frutto di dieci anni di ricerche e scrittura, è una prova letteraria che si legge a tratti come un romanzo d’avventura. Come, d’altra parte, è la vita di ogni buon imprenditore.

Adriano Olivetti, un italiano del Novecento

Paolo Bricco

Rizzoli, 2022

La vicenda umana e imprenditoriale di Adriano Olivetti raccontata a tutto tondo

 

Imprenditore e, quindi, prima di tutto, essere umano. Con tutte le sue contraddizioni, ma anche con tutti i suoi sogni e la forza di realizzarli. Un modello, ogni volta diverso, di capacità di intraprendere. Di fare impresa, appunto. Per questo, proprio l’impresa e la sua cultura non possono essere concetti costretti solamente in ambiti teorici. L’impresa, in altri termini, non è solo organizzazione della produzione, tecnica e, oggi, automatismi e digitalizzazione. L’impresa è anche qualcosa d’altro. Di molto altro. Qualcosa che può essere compresa solo attraverso il racconto di vite di uomini (e donne) che le imprese le hanno pensate, realizzate e fatte crescere. E’ il caso di Adriano Olivetti del quale adesso viene pubblicata una nuova biografia che prova a mettere per davvero insieme l’uomo Adriano prima dell’Olivetti imprenditore.

“Adriano Olivetti, un italiano del Novecento” scritto da Paolo Bricco è il risultato di un lungo lavoro di ricerca, analisi, interpretazione, racconto della vita di uno degli imprenditori che hanno insegnato a fare impresa a tutto il mondo. E dato lustro all’Italia. Un mito, si è spesso detto, ma anche semplicemente un uomo non tutto d’un pezzo ma pieno di contraddizioni. Eppure geniale. Forse proprio per questo geniale.

Bricco è stato capace di ripercorrere la vita di Olivetti immersa nella vicenda industriale e sociale, politica e culturale dell’Italia tra la fine dell’Ottocento e il boom economico, senza però darne un’immagine agiografica ma, anzi, cogliendone tutta la sua essenza umana. Da una parte, quindi, chi legge ripercorre le tappe dell’uomo dedito ad un’impresa altro dalla semplice organizzazione della produzione per far profitto; dall’altra, nelle pagine di Bricco si colgono le contraddizioni, i conflitti e le generose incompiutezze dell’essere umano Adriano. Nelle poco meno di 500 pagine (che comunque si leggono come un romanzo), si colgono così i legami profondi e tormentati con i famigliari, le due mogli e le altre donne amate; la passione per l’organizzazione scientifica del lavoro e l’attrazione per la spiritualità, l’astrologia e la sapienza orientale; il complesso percorso dal socialismo di famiglia degli anni Venti all’adesione teorica al corporativismo e al suo concreto inserimento nella società fascista degli anni Trenta; gli avventurosi rapporti, alla caduta del regime, con i servizi segreti inglesi e americani e la perpetua tentazione del demone della politica, con il fallimento della trasformazione del Movimento di Comunità in un partito tradizionale; l’identità dell’industriale che intuisce le nuove frontiere tecnologiche (l’elettronica) e che unifica il sapere umanistico e la cultura tecno-manifatturiera, senza però riuscire a superare i limiti del capitalismo famigliare. Un mondo, insomma, nel quale Adriano Olivetti è il centro senza però esserne il protagonista assoluto. Perché, si coglie bene nelle pagine di Bricco, nel ruolo di vero nucleo forte della storia c’è un’utopia (in parte anche realizzata). Quella della fabbrica come un luogo bello in cui vivere e lavorare. Un luogo in cui tecnica e umanità si fondo con armonia. Un ambito “che – come lo stesso Olivetti ebbe e a dire -, crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede, infine, che gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate fra capitale e lavoro. Crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto”. Utopia, si diceva, ma concreta. Che ha improntato di fatto tutta la vicenda della Olivetti e della quale ancora oggi si coglie molto.

Il libro di Paolo Bricco racconta tutto questo, senza tralasciare nulla e dando ad ogni particolare il suo giusto spazio. Il frutto di dieci anni di ricerche e scrittura, è una prova letteraria che si legge a tratti come un romanzo d’avventura. Come, d’altra parte, è la vita di ogni buon imprenditore.

Adriano Olivetti, un italiano del Novecento

Paolo Bricco

Rizzoli, 2022

I valori della conoscenza e del mercato per costruire un Mezzogiorno europeo 

Per parlare di Mezzogiorno si può fare leva su due parole. Conoscenza. E mercato. Evitare le vecchie cattive abitudini delle rivendicazioni “riparazioniste” (“…lo Stato che, dall’unificazione d’Italia in poi, ha umiliato ed emarginato il Sud ci deve dare…), le nostalgie neo-borboniche e le tentazioni assistenziali (il Reddito di cittadinanza come scorciatoia per trovare lavoro è solo l’ultima cattiva strada). E ragionare invece di investimenti produttivi sulle infrastrutture, a cominciare da quelle formative (scuole e università di qualità) e dalle reti digitali. E sostenere tutto ciò che serve per promuovere l’intraprendenza, la produttività, la competitività, mettendo le imprese in condizione di crescere ed esprimere le proprie caratteristiche essenziali: essere attori sociali positivi del benessere e del cambiamento.

Il Mezzogiorno, in sintesi, va ripensato come un’area economica fortemente integrata nell’Unione Europea e uno spazio dinamico nel ridisegno delle mappe di un Mediterraneo diventato strategico nelle relazioni geopolitiche e geoeconomiche internazionali (la guerra in Ucraina è l’ultimo, drammatico capitolo di una serie di cambiamenti di vasta portata).

Proprio le opportunità offerte dalle evoluzioni della “economia della conoscenza” e dell’“economia digitale”, con le implicazioni connesse alle straordinarie applicazioni dell’Intelligenza Artificiale a tutti i settori dell’industria, dei servizi e della cultura, innovando profondamente le dimensioni dello spazio e del tempo, mettono il Mezzogiorno in condizione di pensare non più tanto ai “ritardi di crescita da recuperare” quanto soprattutto alle occasioni da cogliere in termini di sviluppo. Uno sviluppo economico e civile, uno sviluppo sostenibile ambientale e sociale.

E’ un nuovo contesto, europeo e internazionale, che va ben compreso andando oltre gli sguardi angusti del localismo e del provincialismo clientelare. E che pone sfide inedite non solo a Bruxelles e a Roma e Milano, le due capitali italiane del potere politico e dell’economia innovativa, alla pubblica amministrazione e agli attori sociali, a cominciare dalle imprese, ma anche ai soggetti più moderni e intraprendenti del Sud.

Sono questi i temi risuonati al Forum “Verso Sud” organizzato, a metà maggio, a Sorrento, dalla ministra per il Mezzogiorno e la coesione territoriale Mara Carfagna (“In mille convegni, il Sud è stato definito ‘piattaforma logistica nel Mediterraneo’. E noi quella piattaforma oggi la realizziamo grazie a importanti investimenti nei porti – 1,2 miliardi – e grazie alla riforma e all’infrastrutturazione delle Zone Economiche Speciali, che sono il ‘cuore’ della nostra scommessa di sviluppo. Luoghi dove sarà finalmente conveniente, più facile, più rapido investire grazie a una burocrazia ridotta e a una tassazione agevolata”). E, alla fine della scorsa settimana, a Palermo, per “Med in Italy”, un incontro nazionale promosso dai Giovani Imprenditori di Confindustria presieduti da Riccardo Di Stefano. “Med” come Mediterraneo, appunto, in cui fare risaltare la centralità del nostro Mezzogiorno e su cui “investire e innovare”.

Una centralità, naturalmente, non solo geografica. Ma politica ed economica. In un mondo che sta ridisegnando le rotte degli scambi e le relazioni dei poteri, sotto la spinta degli eventi drammatici che stiamo vivendo (le conseguenze del Climate change, la pandemia da Covid 19 e la recessione, adesso la guerra in Ucraina che investe direttamente le responsabilità dell’Europa) accelerano la spinta verso un vero e proprio “cambio di paradigma” dei rapporti politici e dello sviluppo economico e sociale.

Serve, appunto, una rilettura critica del catalogo delle idee che hanno guidato le recenti stagioni della globalizzazione e dell’economia digitale e la progettazione di una “ri-globalizzazione selettiva” con processi di reshoring che accorcino le supply chain (la lunghezza le rende fragili e oramai poco efficienti) e le rilocalizzino nel cuore dell’Europa industriale, senza cedere a tentazioni protezioniste ma riqualificando e rilanciando tutto il sistema degli scambi internazionali in una condizione da fair trade, da commercio ben regolato.

Il ritorno a produrre in Europa e dunque in Italia mette in gioco proprio il Mezzogiorno. Da rendere attrattivo per risorse, investimenti, talenti. Come area di insediamenti produttivi high tech. Ma anche di servizi, infrastrutture logistiche (porti, “vie del mare”, interporti collegati alla modernizzazione ferroviaria e aeroportuale). E centri di conoscenza.

Il Mezzogiorno è territorio di intelligenze. Di capitale umano creativo. Di ragazze e ragazzi che sono costretti, da anni, a prendere la via dell’abbandono delle città e dei paesi d’origine per cercare altrove, da Milano alle grandi città dell’Europa e del mondo, migliori occasioni di lavoro e di vita. E di una diffusa imprenditorialità che, pur debole, resiste, nonostante tutti i condizionamenti negativi (una sub-cultura della clientela, un diffuso livello di inefficienza e corruzione della pubblica amministrazione, una tentazione comoda dell’ assistenzialismo, una caduta nelle strade del “sommerso” e nelle tante pieghe dell’economia criminale e delle pressioni di una mafia che “dà pane e morte”).

Ecco il punto chiave. Sono le ragazze e i ragazzi del Sud i destinatari essenziali di quel Recovery Fund chiamato appunto Next Generation Eu che guarda soprattutto all’Italia e al Mezzogiorno (cui sono destinati il 40% dei fondi nazionali, se sarà in grado di spenderli con progetti produttivi e riforme radicali). E le scuole e le università in cui hanno studiato sono dunque da riqualificare e rilanciare, liberandole anche dalla soffocanti baronie familiari che ne umiliano le qualità. E da fare crescere, in una relazione virtuosa di collaborazione con i migliori atenei d’Italia e d’Europa. E con il sistema delle imprese.

Gli investimenti di Apple e di altre aziende high tech a Napoli nel 2021 sono indicatori di una tendenza a valorizzare, nelle città meridionali, le intelligenze e le competenze locali. E, proprio nei giorni scorsi, altre notizie rilevanti arrivano da Pirelli in Puglia e da Bip in Sicilia. La Pirelli, venerdì, ha annunciato l’apertura di un Digital Solutions Center a Bari, in collaborazione con la Regione, l’università e il Politecnico pugliesi e integrato nella rete di servizi software internazionali del gruppo. E Bip (Business Integration Partners, una multinazionale milanese della consulenza, presieduta da Nino Lo Bianco, palermitano) ha presentato il progetto di un Centro di servizi digitali a Palermo, in raccordo con le altre 13 sedi Bip nel mondo. Due conferme rilevanti di come le nuove dimensioni della digital economy e dello smart working offrano straordinarie opportunità di crescita, valorizzazione di competenze, lavoro e affermazione delle capacità e dei progetti delle nuove generazioni, guardando non ai mercati locali, ma al contesto europeo e globale.

Conoscenza. E intraprendenza. Competenze. E mercato, come dicevamo all’inizio.     

E’ necessaria, dunque, la scrittura di nuove mappe della conoscenza, della produzione e dei consumi, per riconsiderare scelte politiche, economiche e culturali sul “progresso” e sugli equilibri geografici, sociali, di genere e di generazione, anche nel Mezzogiorno.

La chiave da usare è quella della sostenibilità, ambientale e sociale. Con una profonda convinzione riformatrice: non si tratta di mettere in campo operazioni da green washing né aggiustamenti assistenziali. Ma di pensare a un nuovo corso politico ed economico, secondo i criteri di una “economia giusta”, circolare, civile (per riprendere la lezione del Papa, della migliore letteratura economica internazionale ma anche dei più sensibili protagonisti della finanza e dell’impresa).

Le imprese italiane hanno in sé risorse essenziali: la forza innovativa d’un dinamico capitale sociale e la profondità d’una cultura plasmata dall’umanesimo industriale che ha contraddistinto la storia economica del Paese. Una cultura in grado di riunire la consapevolezza storica d’una identità aperta e molteplice (il Mezzogiorno ne offre esempi illuminanti) e il futuro dei nostri assetti sociali e civili e, dunque, di definire gli orizzonti dell’“avvenire della memoria”. Un avvenire davvero “mediterraneo”.

Per parlare di Mezzogiorno si può fare leva su due parole. Conoscenza. E mercato. Evitare le vecchie cattive abitudini delle rivendicazioni “riparazioniste” (“…lo Stato che, dall’unificazione d’Italia in poi, ha umiliato ed emarginato il Sud ci deve dare…), le nostalgie neo-borboniche e le tentazioni assistenziali (il Reddito di cittadinanza come scorciatoia per trovare lavoro è solo l’ultima cattiva strada). E ragionare invece di investimenti produttivi sulle infrastrutture, a cominciare da quelle formative (scuole e università di qualità) e dalle reti digitali. E sostenere tutto ciò che serve per promuovere l’intraprendenza, la produttività, la competitività, mettendo le imprese in condizione di crescere ed esprimere le proprie caratteristiche essenziali: essere attori sociali positivi del benessere e del cambiamento.

Il Mezzogiorno, in sintesi, va ripensato come un’area economica fortemente integrata nell’Unione Europea e uno spazio dinamico nel ridisegno delle mappe di un Mediterraneo diventato strategico nelle relazioni geopolitiche e geoeconomiche internazionali (la guerra in Ucraina è l’ultimo, drammatico capitolo di una serie di cambiamenti di vasta portata).

Proprio le opportunità offerte dalle evoluzioni della “economia della conoscenza” e dell’“economia digitale”, con le implicazioni connesse alle straordinarie applicazioni dell’Intelligenza Artificiale a tutti i settori dell’industria, dei servizi e della cultura, innovando profondamente le dimensioni dello spazio e del tempo, mettono il Mezzogiorno in condizione di pensare non più tanto ai “ritardi di crescita da recuperare” quanto soprattutto alle occasioni da cogliere in termini di sviluppo. Uno sviluppo economico e civile, uno sviluppo sostenibile ambientale e sociale.

E’ un nuovo contesto, europeo e internazionale, che va ben compreso andando oltre gli sguardi angusti del localismo e del provincialismo clientelare. E che pone sfide inedite non solo a Bruxelles e a Roma e Milano, le due capitali italiane del potere politico e dell’economia innovativa, alla pubblica amministrazione e agli attori sociali, a cominciare dalle imprese, ma anche ai soggetti più moderni e intraprendenti del Sud.

Sono questi i temi risuonati al Forum “Verso Sud” organizzato, a metà maggio, a Sorrento, dalla ministra per il Mezzogiorno e la coesione territoriale Mara Carfagna (“In mille convegni, il Sud è stato definito ‘piattaforma logistica nel Mediterraneo’. E noi quella piattaforma oggi la realizziamo grazie a importanti investimenti nei porti – 1,2 miliardi – e grazie alla riforma e all’infrastrutturazione delle Zone Economiche Speciali, che sono il ‘cuore’ della nostra scommessa di sviluppo. Luoghi dove sarà finalmente conveniente, più facile, più rapido investire grazie a una burocrazia ridotta e a una tassazione agevolata”). E, alla fine della scorsa settimana, a Palermo, per “Med in Italy”, un incontro nazionale promosso dai Giovani Imprenditori di Confindustria presieduti da Riccardo Di Stefano. “Med” come Mediterraneo, appunto, in cui fare risaltare la centralità del nostro Mezzogiorno e su cui “investire e innovare”.

Una centralità, naturalmente, non solo geografica. Ma politica ed economica. In un mondo che sta ridisegnando le rotte degli scambi e le relazioni dei poteri, sotto la spinta degli eventi drammatici che stiamo vivendo (le conseguenze del Climate change, la pandemia da Covid 19 e la recessione, adesso la guerra in Ucraina che investe direttamente le responsabilità dell’Europa) accelerano la spinta verso un vero e proprio “cambio di paradigma” dei rapporti politici e dello sviluppo economico e sociale.

Serve, appunto, una rilettura critica del catalogo delle idee che hanno guidato le recenti stagioni della globalizzazione e dell’economia digitale e la progettazione di una “ri-globalizzazione selettiva” con processi di reshoring che accorcino le supply chain (la lunghezza le rende fragili e oramai poco efficienti) e le rilocalizzino nel cuore dell’Europa industriale, senza cedere a tentazioni protezioniste ma riqualificando e rilanciando tutto il sistema degli scambi internazionali in una condizione da fair trade, da commercio ben regolato.

Il ritorno a produrre in Europa e dunque in Italia mette in gioco proprio il Mezzogiorno. Da rendere attrattivo per risorse, investimenti, talenti. Come area di insediamenti produttivi high tech. Ma anche di servizi, infrastrutture logistiche (porti, “vie del mare”, interporti collegati alla modernizzazione ferroviaria e aeroportuale). E centri di conoscenza.

Il Mezzogiorno è territorio di intelligenze. Di capitale umano creativo. Di ragazze e ragazzi che sono costretti, da anni, a prendere la via dell’abbandono delle città e dei paesi d’origine per cercare altrove, da Milano alle grandi città dell’Europa e del mondo, migliori occasioni di lavoro e di vita. E di una diffusa imprenditorialità che, pur debole, resiste, nonostante tutti i condizionamenti negativi (una sub-cultura della clientela, un diffuso livello di inefficienza e corruzione della pubblica amministrazione, una tentazione comoda dell’ assistenzialismo, una caduta nelle strade del “sommerso” e nelle tante pieghe dell’economia criminale e delle pressioni di una mafia che “dà pane e morte”).

Ecco il punto chiave. Sono le ragazze e i ragazzi del Sud i destinatari essenziali di quel Recovery Fund chiamato appunto Next Generation Eu che guarda soprattutto all’Italia e al Mezzogiorno (cui sono destinati il 40% dei fondi nazionali, se sarà in grado di spenderli con progetti produttivi e riforme radicali). E le scuole e le università in cui hanno studiato sono dunque da riqualificare e rilanciare, liberandole anche dalla soffocanti baronie familiari che ne umiliano le qualità. E da fare crescere, in una relazione virtuosa di collaborazione con i migliori atenei d’Italia e d’Europa. E con il sistema delle imprese.

Gli investimenti di Apple e di altre aziende high tech a Napoli nel 2021 sono indicatori di una tendenza a valorizzare, nelle città meridionali, le intelligenze e le competenze locali. E, proprio nei giorni scorsi, altre notizie rilevanti arrivano da Pirelli in Puglia e da Bip in Sicilia. La Pirelli, venerdì, ha annunciato l’apertura di un Digital Solutions Center a Bari, in collaborazione con la Regione, l’università e il Politecnico pugliesi e integrato nella rete di servizi software internazionali del gruppo. E Bip (Business Integration Partners, una multinazionale milanese della consulenza, presieduta da Nino Lo Bianco, palermitano) ha presentato il progetto di un Centro di servizi digitali a Palermo, in raccordo con le altre 13 sedi Bip nel mondo. Due conferme rilevanti di come le nuove dimensioni della digital economy e dello smart working offrano straordinarie opportunità di crescita, valorizzazione di competenze, lavoro e affermazione delle capacità e dei progetti delle nuove generazioni, guardando non ai mercati locali, ma al contesto europeo e globale.

Conoscenza. E intraprendenza. Competenze. E mercato, come dicevamo all’inizio.     

E’ necessaria, dunque, la scrittura di nuove mappe della conoscenza, della produzione e dei consumi, per riconsiderare scelte politiche, economiche e culturali sul “progresso” e sugli equilibri geografici, sociali, di genere e di generazione, anche nel Mezzogiorno.

La chiave da usare è quella della sostenibilità, ambientale e sociale. Con una profonda convinzione riformatrice: non si tratta di mettere in campo operazioni da green washing né aggiustamenti assistenziali. Ma di pensare a un nuovo corso politico ed economico, secondo i criteri di una “economia giusta”, circolare, civile (per riprendere la lezione del Papa, della migliore letteratura economica internazionale ma anche dei più sensibili protagonisti della finanza e dell’impresa).

Le imprese italiane hanno in sé risorse essenziali: la forza innovativa d’un dinamico capitale sociale e la profondità d’una cultura plasmata dall’umanesimo industriale che ha contraddistinto la storia economica del Paese. Una cultura in grado di riunire la consapevolezza storica d’una identità aperta e molteplice (il Mezzogiorno ne offre esempi illuminanti) e il futuro dei nostri assetti sociali e civili e, dunque, di definire gli orizzonti dell’“avvenire della memoria”. Un avvenire davvero “mediterraneo”.

1953: un anno “d’oro” per la pubblicità Pirelli

La sera del 7 novembre del 1953, al IV Congresso della Pubblicità a Milano, Dino Villani consegna al Dottor Paolo Polese, in rappresentanza del Gruppo Pirelli, la Palma d’oro per la miglior pubblicità di quell’anno. “Una campagna pubblicitaria che ha raggiunto il traguardo senza forature” recita scherzosamente il telecronista del cinegiornale “La Settimana Incom”. Un premio che, oltre a riconoscere in Pirelli un’azienda all’avanguardia per  la capacità comunicativa, sottolinea più in generale la sempre crescente importanza della pubblicità a partire dal Secondo Dopoguerra. Sono anni di straordinaria effervescenza per la comunicazione visiva italiana e la pubblicità riflette, a volte anche anticipando ed enfatizzando, l’entusiasmo progettuale che caratterizza questo primo periodo del boom economico. Sono gli anni in cui Pirelli realizza, attraverso la stretta collaborazione con grafici e artisti, campagne che entrano di diritto nella storia della grafica italiana, come la pubblicità per le suole Coria Pirelli di Joan Jordan e Ezio Bonini, le réclame del pneumatico Stelvio realizzate da Franco Grignani, Ezio Bonini, Pavel Micheal Engelmann, e ancora quella di Raymond Savignac per le borse di acqua calda Pirelli e tante altre. Per celebrare questo importante riconoscimento la Rivista Pirelli, con l’allora direttore Arturo Tofanelli, commissiona al grafico Erberto Carboni la copertina del sesto e ultimo numero annuale: una rielaborazione grafica del prezioso trofeo a forma di palma. All’interno del numero un articolo a firma V. S. – dietro cui si cela Vittorio Sereni –  che traccia il “Bilancio segreto di un anno di pubblicità”, raccontando questo intenso anno di lavoro “al numero 94 di Viale Abruzzi, secondo piano” e i segreti della creazione di una buona campagna pubblicitaria, in cui è il prodotto, l’oggetto, il padrone assoluto che dispone della penna, della matita dei grafici come di mezzi al suo servizio, dove il pubblicitario è “servo e alla stesso tempo padrone di questa Musa inquietante che sta disputando al cinema il posto di decima Musa”.

La sera del 7 novembre del 1953, al IV Congresso della Pubblicità a Milano, Dino Villani consegna al Dottor Paolo Polese, in rappresentanza del Gruppo Pirelli, la Palma d’oro per la miglior pubblicità di quell’anno. “Una campagna pubblicitaria che ha raggiunto il traguardo senza forature” recita scherzosamente il telecronista del cinegiornale “La Settimana Incom”. Un premio che, oltre a riconoscere in Pirelli un’azienda all’avanguardia per  la capacità comunicativa, sottolinea più in generale la sempre crescente importanza della pubblicità a partire dal Secondo Dopoguerra. Sono anni di straordinaria effervescenza per la comunicazione visiva italiana e la pubblicità riflette, a volte anche anticipando ed enfatizzando, l’entusiasmo progettuale che caratterizza questo primo periodo del boom economico. Sono gli anni in cui Pirelli realizza, attraverso la stretta collaborazione con grafici e artisti, campagne che entrano di diritto nella storia della grafica italiana, come la pubblicità per le suole Coria Pirelli di Joan Jordan e Ezio Bonini, le réclame del pneumatico Stelvio realizzate da Franco Grignani, Ezio Bonini, Pavel Micheal Engelmann, e ancora quella di Raymond Savignac per le borse di acqua calda Pirelli e tante altre. Per celebrare questo importante riconoscimento la Rivista Pirelli, con l’allora direttore Arturo Tofanelli, commissiona al grafico Erberto Carboni la copertina del sesto e ultimo numero annuale: una rielaborazione grafica del prezioso trofeo a forma di palma. All’interno del numero un articolo a firma V. S. – dietro cui si cela Vittorio Sereni –  che traccia il “Bilancio segreto di un anno di pubblicità”, raccontando questo intenso anno di lavoro “al numero 94 di Viale Abruzzi, secondo piano” e i segreti della creazione di una buona campagna pubblicitaria, in cui è il prodotto, l’oggetto, il padrone assoluto che dispone della penna, della matita dei grafici come di mezzi al suo servizio, dove il pubblicitario è “servo e alla stesso tempo padrone di questa Musa inquietante che sta disputando al cinema il posto di decima Musa”.

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Fondazione Pirelli e “Il Potere dei Musei”

Nella Giornata Internazionale dei Musei Fondazione Pirelli è insieme a Icom per raccontare “Il Potere dei Musei”

Si celebra oggi la Giornata Internazionale dei Musei 2022 istituita da ICOM International Council of Museum per diffondere maggior consapevolezza sul ruolo dei musei per lo sviluppo della società. Il messaggio portante di quest’anno verte sul potere dei musei, sulla possibilità e capacità delle istituzioni museali di incidere positivamente nel contesto culturale e sociale in cui agiscono e di far crescere le comunità a cui si rivolgono, a partire dalla nuove generazioni.

Anche la Fondazione Pirelli crede che la didattica museale possa ricoprire un ruolo chiave in questo processo di crescita sempre più consapevole. I musei d’impresa in generale, proprio per la lora natura ibrida di luoghi di conservazione e valorizzazione della memoria, ma allo stesso tempo osservatori privilegiati per guardare al futuro, possono infatti contribuire ad aprire nuove interessanti prospettive di dibattito soprattutto per i più giovani.

I diversi percorsi didattici e creativi proposti da Fondazione Pirelli Educational, rinnovati nei contenuti ogni anno scolastico, mirano a far conoscere a bambini e ragazzi il variegato mondo della cultura d’impresa, fatta di ricerca, tecnologia, innovazione digitale, prodotti, persone, arte e comunicazione, sostenibiltà, welfare. Attraverso visite in presenza all’Archivio Storico, alle mostre temporanee, ai centri produttivi e di Ricerca e Sviluppo aziendali o – a distanza – tramite contenuti multimediali, stumenti digitali come virtual tour, video, cataloghi online, i ragazzi sono guidati nell’approfondimento di diversi argomenti come la storia dell’evoluzione tecnologica, dei progressi scientifici e dei cambiamenti culturali, sociali e di costume del nostro Paese.

L’incontro con la storia più antica e più recente dell’impresa ha però come scopo principale quello di far capire come il patrimonio storico aziendale e quindi in generale la storia d’impresa possa essere una fucina di idee per progettare il nostro futuro. Traendo ispirazione da ciò che è stato fatto nel passato e grazie alla creatività dei ragazzi, il museo diventa un laboratorio da cui prendere ispirazione per progettare, ad esempio, una nuova campagna di comunicazione, realizzare nuovi prodotti o spazi produttivi, trovare nuove soluzioni per stili di vita più sostenibili e, più in generale, per orientare i ragazzi verso percorsi innovativi di sviluppo. L’esperienza del museo e dell’archivio aziendale costituisce quindi un potente strumento in grado di aiutare i giovani fruitori, ma non solo, ad affrontare le sfide del futuro in maniera più consapevole e propositiva.

Nella Giornata Internazionale dei Musei Fondazione Pirelli è insieme a Icom per raccontare “Il Potere dei Musei”

Si celebra oggi la Giornata Internazionale dei Musei 2022 istituita da ICOM International Council of Museum per diffondere maggior consapevolezza sul ruolo dei musei per lo sviluppo della società. Il messaggio portante di quest’anno verte sul potere dei musei, sulla possibilità e capacità delle istituzioni museali di incidere positivamente nel contesto culturale e sociale in cui agiscono e di far crescere le comunità a cui si rivolgono, a partire dalla nuove generazioni.

Anche la Fondazione Pirelli crede che la didattica museale possa ricoprire un ruolo chiave in questo processo di crescita sempre più consapevole. I musei d’impresa in generale, proprio per la lora natura ibrida di luoghi di conservazione e valorizzazione della memoria, ma allo stesso tempo osservatori privilegiati per guardare al futuro, possono infatti contribuire ad aprire nuove interessanti prospettive di dibattito soprattutto per i più giovani.

I diversi percorsi didattici e creativi proposti da Fondazione Pirelli Educational, rinnovati nei contenuti ogni anno scolastico, mirano a far conoscere a bambini e ragazzi il variegato mondo della cultura d’impresa, fatta di ricerca, tecnologia, innovazione digitale, prodotti, persone, arte e comunicazione, sostenibiltà, welfare. Attraverso visite in presenza all’Archivio Storico, alle mostre temporanee, ai centri produttivi e di Ricerca e Sviluppo aziendali o – a distanza – tramite contenuti multimediali, stumenti digitali come virtual tour, video, cataloghi online, i ragazzi sono guidati nell’approfondimento di diversi argomenti come la storia dell’evoluzione tecnologica, dei progressi scientifici e dei cambiamenti culturali, sociali e di costume del nostro Paese.

L’incontro con la storia più antica e più recente dell’impresa ha però come scopo principale quello di far capire come il patrimonio storico aziendale e quindi in generale la storia d’impresa possa essere una fucina di idee per progettare il nostro futuro. Traendo ispirazione da ciò che è stato fatto nel passato e grazie alla creatività dei ragazzi, il museo diventa un laboratorio da cui prendere ispirazione per progettare, ad esempio, una nuova campagna di comunicazione, realizzare nuovi prodotti o spazi produttivi, trovare nuove soluzioni per stili di vita più sostenibili e, più in generale, per orientare i ragazzi verso percorsi innovativi di sviluppo. L’esperienza del museo e dell’archivio aziendale costituisce quindi un potente strumento in grado di aiutare i giovani fruitori, ma non solo, ad affrontare le sfide del futuro in maniera più consapevole e propositiva.

Quando mancano i manager

Una ricerca sociologica esplora le condizioni di imprese e territori nei quali accanto agli imprenditori mancano attori dediti all’organizzazione

 

Imprese, quindi imprenditori, ma anche manager. Binomio importane e delicato quello tra imprenditore e manager. Binomio che può sancire il successo o il fallimento di un’azienda. E che deve essere quindi compreso a fondo. Anche quando la presenza accanto alla proprietà dell’impresa di uomini e donne dediti all’organizzazione, si fa più rarefatta. Ed è proprio partendo da queste situazioni che ha lavorato Vincenzo Fortunato conducendo la sua ricerca  “Classe dirigente, cultura manageriale e sviluppo nel Mezzogiorno” pubblicata recentemente in Sociologia del lavoro.

L’articolo analizza alcuni dei principali risultati che emergono da una recente indagine sulla presenza di manager e dirigenti nelle imprese meridionali e, più in generale sulla scarsa diffusione della cultura manageriale al Sud. Aspetto poco indagato, quello della presenza dei manager nel Mezzogiorno che, quasi sempre, ha lasciato spazio soprattutto al ruolo degli imprenditori, dei sindacati e delle istituzioni. Un errore, perché i manager e i dirigenti aziendali costituiscono, invece, un banco di analisi privilegiato e utile a comprendere le dinamiche all’interno delle imprese, le tensioni con l’imprenditore, gli elementi di arretratezza e innovazione, le potenzialità e i vincoli allo sviluppo di imprese moderne, competitive e in grado di affrontare con successo le sfide dei mercati globali. La presenza più o meno forte di manager, dunque, connota sistema d’impresa e territori in modo potente, condizionando, tra ‘altro, anche le possibilità di sviluppo degli stessi.

Utilizzando i dati di un’indagine sul campo, Fortunato si pone quindi l’obiettivo di approfondire la conoscenza del ruolo del management nel Sud; ma anche la comprensione del livello di diffusione della cultura manageriale come fattore in grado di influire sullo sviluppo delle imprese e quindi dei territori su cui queste insistono. Fortunato, poi, analizza quali possano essere le politiche e gli interventi in grado di rimuovere gli ostacoli e promuovere lo sviluppo della cultura manageriale nelle realtà del Mezzogiorno.

La ricerca di Vincenzo Fortunato è importante non solo per l’aspetto particolare che analizza – che connota tra l’altro una particolare cultura del produrre -, ma anche perché mette a fuoco teoria e pratica dell’argomento, indicando anche possibili strade di crescita per tutto un territorio.

Classe dirigente, cultura manageriale e sviluppo nel Mezzogiorno

Vincenzo Fortunato , Sociologia del lavoro, fascicolo 162, 2022, pagg. 184-207

Una ricerca sociologica esplora le condizioni di imprese e territori nei quali accanto agli imprenditori mancano attori dediti all’organizzazione

 

Imprese, quindi imprenditori, ma anche manager. Binomio importane e delicato quello tra imprenditore e manager. Binomio che può sancire il successo o il fallimento di un’azienda. E che deve essere quindi compreso a fondo. Anche quando la presenza accanto alla proprietà dell’impresa di uomini e donne dediti all’organizzazione, si fa più rarefatta. Ed è proprio partendo da queste situazioni che ha lavorato Vincenzo Fortunato conducendo la sua ricerca  “Classe dirigente, cultura manageriale e sviluppo nel Mezzogiorno” pubblicata recentemente in Sociologia del lavoro.

L’articolo analizza alcuni dei principali risultati che emergono da una recente indagine sulla presenza di manager e dirigenti nelle imprese meridionali e, più in generale sulla scarsa diffusione della cultura manageriale al Sud. Aspetto poco indagato, quello della presenza dei manager nel Mezzogiorno che, quasi sempre, ha lasciato spazio soprattutto al ruolo degli imprenditori, dei sindacati e delle istituzioni. Un errore, perché i manager e i dirigenti aziendali costituiscono, invece, un banco di analisi privilegiato e utile a comprendere le dinamiche all’interno delle imprese, le tensioni con l’imprenditore, gli elementi di arretratezza e innovazione, le potenzialità e i vincoli allo sviluppo di imprese moderne, competitive e in grado di affrontare con successo le sfide dei mercati globali. La presenza più o meno forte di manager, dunque, connota sistema d’impresa e territori in modo potente, condizionando, tra ‘altro, anche le possibilità di sviluppo degli stessi.

Utilizzando i dati di un’indagine sul campo, Fortunato si pone quindi l’obiettivo di approfondire la conoscenza del ruolo del management nel Sud; ma anche la comprensione del livello di diffusione della cultura manageriale come fattore in grado di influire sullo sviluppo delle imprese e quindi dei territori su cui queste insistono. Fortunato, poi, analizza quali possano essere le politiche e gli interventi in grado di rimuovere gli ostacoli e promuovere lo sviluppo della cultura manageriale nelle realtà del Mezzogiorno.

La ricerca di Vincenzo Fortunato è importante non solo per l’aspetto particolare che analizza – che connota tra l’altro una particolare cultura del produrre -, ma anche perché mette a fuoco teoria e pratica dell’argomento, indicando anche possibili strade di crescita per tutto un territorio.

Classe dirigente, cultura manageriale e sviluppo nel Mezzogiorno

Vincenzo Fortunato , Sociologia del lavoro, fascicolo 162, 2022, pagg. 184-207

Narrare un futuro migliore

La possibilità di superare i problemi basata sulla creatività e la socialità degli essere umani

 

Creatività, ingegno e socialità per affrontare, e superare, i nuovi (e vecchi) problemi di fronte ai quali si è trovato il mondo dopo il Covid-19. Risposte solo in apparenza semplici, che Klaus Schwab e Thierry Malleret (fondatore e presidente esecutivo del World Economic Forum il primo, e managing partner di The Monthly Barometer il secondo), propongono nel loro “La grande narrazione. Per un futuro migliore”, un libro appena pubblicato in Italia che ha l’ambizione di analizzare in un numero contenuto di pagine le sfide di fronte alle quali si trova il mondo dopo la pandemia e le possibili strade per superarle.

Il libro riconosce che i problemi ai quali devono essere collettivamente trovate delle risposte sono gravi e molteplici. Le questioni fondamentali sono di natura economica, ambientale, geopolitica, sociale e tecnologica. Questioni, viene spiegato nelle limpide pagine del libro, caratterizzate da tratti comuni come la complessità e la velocità oltre che dalla probabile formazione di utopie e distopie.

Schwab e Malleret, tuttavia, spiegano nella seconda parte del volume che le soluzioni esistono e sono alla nostra portata. I due autori, seguono qui un percorso da sette tappe lungo il quale è possibile, a loro parere, superare i problemi dell’oggi. Nella seconda parte del testo, quindi, si parla di collaborazione e cooperazione, immaginazione e innovazione e poi ancora di moralità e valori, politiche pubbliche, resilienza, del ruolo delle aziende e della tecnologia. Tutti elementi di un unico cammino verso un futuro che possa essere migliore dell’oggi. In questo senso, “La grande narrazione” è un libro ottimista che rifiuta categoricamente la negatività che permea troppe narrazioni apocalittiche. Schwab e Malleret, invece, sostengono che la creatività, l’ingegnosità e la socialità innate negli esseri umani alla fine prevarranno.

Scritto in modo comprensibile e vivace (e nato dalle conversazioni con 50 importanti esperti mondiali di vari ambiti dall’economia alle neuroscienze, dalle biotecnologie alla filosofia), il libro di Schwab e Malleret si legge velocemente ma deve essere letto attentamente. E magari riletto.

 

 

La grande narrazione. Per un futuro migliore

Klaus Schwab , Thierry Malleret

Franco Angeli, 2022

La possibilità di superare i problemi basata sulla creatività e la socialità degli essere umani

 

Creatività, ingegno e socialità per affrontare, e superare, i nuovi (e vecchi) problemi di fronte ai quali si è trovato il mondo dopo il Covid-19. Risposte solo in apparenza semplici, che Klaus Schwab e Thierry Malleret (fondatore e presidente esecutivo del World Economic Forum il primo, e managing partner di The Monthly Barometer il secondo), propongono nel loro “La grande narrazione. Per un futuro migliore”, un libro appena pubblicato in Italia che ha l’ambizione di analizzare in un numero contenuto di pagine le sfide di fronte alle quali si trova il mondo dopo la pandemia e le possibili strade per superarle.

Il libro riconosce che i problemi ai quali devono essere collettivamente trovate delle risposte sono gravi e molteplici. Le questioni fondamentali sono di natura economica, ambientale, geopolitica, sociale e tecnologica. Questioni, viene spiegato nelle limpide pagine del libro, caratterizzate da tratti comuni come la complessità e la velocità oltre che dalla probabile formazione di utopie e distopie.

Schwab e Malleret, tuttavia, spiegano nella seconda parte del volume che le soluzioni esistono e sono alla nostra portata. I due autori, seguono qui un percorso da sette tappe lungo il quale è possibile, a loro parere, superare i problemi dell’oggi. Nella seconda parte del testo, quindi, si parla di collaborazione e cooperazione, immaginazione e innovazione e poi ancora di moralità e valori, politiche pubbliche, resilienza, del ruolo delle aziende e della tecnologia. Tutti elementi di un unico cammino verso un futuro che possa essere migliore dell’oggi. In questo senso, “La grande narrazione” è un libro ottimista che rifiuta categoricamente la negatività che permea troppe narrazioni apocalittiche. Schwab e Malleret, invece, sostengono che la creatività, l’ingegnosità e la socialità innate negli esseri umani alla fine prevarranno.

Scritto in modo comprensibile e vivace (e nato dalle conversazioni con 50 importanti esperti mondiali di vari ambiti dall’economia alle neuroscienze, dalle biotecnologie alla filosofia), il libro di Schwab e Malleret si legge velocemente ma deve essere letto attentamente. E magari riletto.

 

 

La grande narrazione. Per un futuro migliore

Klaus Schwab , Thierry Malleret

Franco Angeli, 2022

Il valore degli intellettuali per riscrivere le mappe di conoscenze e scelte politiche ed economiche

“Non bisogna lasciar giocare gli intellettuali con/ i fiammiferi”, scriveva nel 1946 Jacques Prévert. Perché, “con tante chiacchiere generose sul lavoro/ dei muratori”, ecco che “se lo si lascia solo/ il mondo mentale/ mente/ monumentalmente”. Era maestro d’ironia, Prévert. Poeta sottile, capace di intensi versi d’amore. E dissacrante critico delle ipocrisie sociali. Compresa l’alterigia delle classi colte, gli intellettuali appunto, nei rapporti con i sentimenti “popolari”. Ma era, proprio lui, un grande intellettuale. Capace di letture profonde di idee, passioni e sentimenti. E di indicazioni severe sulle scelte di vita. Tutt’altro che un “chierico” conformista.

Quei versi sugli intellettuali e i fiammiferi ricorrono nelle pagine di un libro lucido e rigoroso, scritto di recente da Sabino Cassese, uno dei migliori giuristi della cultura politica europea, pubblicato da Il Mulino nella stimolante collana “Parole controtempo” e intitolato, appunto, “Intellettuali”.

Nei “tempi bui sia per gli intellettuali, sia per i mezzi di cui si valgono per farsi ascoltare” perché “se ‘uno vale uno’ non c’è differenza tra il sapiente e l’ignorante”, Cassese rilancia i valori dell’impegno intellettuale, lo studio, la ricerca, la divulgazione del sapere e ne sottolinea l’intreccio tra libertà e responsabilità. Proprio in stagioni così difficili, controverse, cariche di nuove sfide politiche, economiche e sociali e di antiche tensioni che si ripropongono in forme nuove (la crisi della globalizzazione, la pandemia, la guerra, i disastri ambientali, le sempre più insopportabili disuguaglianze di diritti, condizioni di vita e opportunità di sviluppo) tocca agli intellettuali porre nel discorso pubblico domande di senso e perfezionare gli strumenti per le risposte.

Il “trionfo del populismo”, insiste Cassese, “nutre il rifiuto degli intellettuali” perché “l’atteggiamento populista e le forze politiche che lo suscitano o lo coltivano sono fondati su un falso egualitarismo che, a seconda dei casi, o dichiara di poter fare a meno degli intellettuali, spesso accusati di avere tradito le aspettative popolari o li relega in una posizione inferiore, oppure ne fa un uso strumentale”.

Una tendenza negativa, cui controbattere con riflessioni accurate sul lavoro intellettuale e sulla necessità di una vera e propria “battaglia delle idee” contro le demagogie, la volgarità faziosa che dilaga in Tv e social media, la diffusione delle fake news, la svalutazione della conoscenza, i premi al demerito degli incompetenti irresponsabili.

Bisogna tornare a studiare, leggere, scrivere, ricercare, approfondire problemi e punti di vista. Disegnare nuove mappe dei sapere. Lavorare sulla relazione tra memoria e futuro, radici e innovazione. E arricchire il capitale sociale delle competenze. Perché “le élite, i competenti, sono un ingrediente critico essenziale della democrazia”.

La sfida riguarda le professioni intellettuali (rileggere Max Weber). Ma anche il mondo politico ed economico, le organizzazioni sociali e le imprese, le strutture di associazione e rappresentanza. A nessuno sono consentite mediocrità, ignoranza, approssimazioni.

La vita economica e sociale non è un talk show. E le complessità della “società del rischio” richiedono risposte approfondite e articolate, pensieri lunghi, indagini rigorose sull’evoluzione degli equilibri sociali e indicazioni sulle cose da fare, in termini di scelte politiche e strumenti di intervento. Un pensiero denso come strumento di lavoro. Una politica come dovere da civil servants.

Racconta Cassese: “Fa parte della tradizione italiana il ruolo dei professori universitari come public intellectuals o public moralists (si pensi solo a Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini, Vilfredo Pareto, Luigi Einaudi). Proprio quando si contrappongono, sbagliando, popolo ed élite, occorre che i membri dell’élite si facciano sentire, e non per restare prigionieri della contrapposizione, ma per mostrare di essere capaci di interpretare la società in cui vivono (e, quindi, il popolo)”. Bisogna, insomma, “reagire all’esaurimento dell’attitudine al dialogo, dovuto alla crisi dei partiti e alla possibilità illimitata di tutti di esprimersi attraverso il web”.

Cassese insiste sul “metodo della riflessione”. Ricorda la rivalutazione, proprio nella stagione della pandemia, dell’importanza della scienza e della ricerca. Conosce bene il peso e il prestigio delle personalità della cultura e delle associazioni di studio e dibattito. Sottolinea il valore della scrittura e del “discorso pubblico” ben informato e dunque capace di critica. E sostiene: “Gli intellettuali debbono insegnare razionalità e dialogo, nonché far sperare in un possibile futuro migliore, che non vuol dire minor severità rispetto a quello che va storto, e proprio per questo vedere un futuro non nero”. E, dunque “non abbandonare il proprio mestiere di studiosi, ma allargarlo, farvi partecipare un pubblico più vasto, se si ha qualcosa da dire che interessi un tale pubblico. Ciò richiede anche capacità di ‘reinventarsi’, ma senza tradire il proprio mestiere”.

In questa reinvenzione, serve rivalutare e rilanciare l’importanza delle parole, dette e scritte, della chiarezza del linguaggio, del peso di ciò che si dice e si fa. C’è bisogno di una “ecologia linguistica che restituisca alla parola il potere di illuminare, non di nascondere e sequestrare la realtà, che ci consenta di capire e leggere il mondo con occhi non affollati da giudizi né offuscati da pregiudizi; che ci insegni l’arte dell’imposizione dei nomi”, come ricorda Ivano Dionigi, latinista, in “Benedetta parola. La rivincita del tempo”, Il Mulino. Una parola che chiarisce. Una parola che insegna. Una parola che crea il cambiamento del mondo.

Una parola che ci guida attraverso la storia. Come, tanto per fare un solo nome, ci ha insegnato Ludwig Wittgenstein: “La nostra lingua è come una vecchia città: un labirinto di viuzze e di larghi, di case vecchie e nuove, di palazzi ampliati in epoche diverse, e, intorno, la cintura dei nuovi quartieri periferici, le strade rettilinee, regolari, i caseggiati tutti uguali… Rappresentarsi una lingua significa rappresentarsi una forma di vita”. Una fondamentale responsabilità intellettuale, lungo le nuove mappe della conoscenza, da riscoprire e, contemporaneamente, riscrivere.

“Non bisogna lasciar giocare gli intellettuali con/ i fiammiferi”, scriveva nel 1946 Jacques Prévert. Perché, “con tante chiacchiere generose sul lavoro/ dei muratori”, ecco che “se lo si lascia solo/ il mondo mentale/ mente/ monumentalmente”. Era maestro d’ironia, Prévert. Poeta sottile, capace di intensi versi d’amore. E dissacrante critico delle ipocrisie sociali. Compresa l’alterigia delle classi colte, gli intellettuali appunto, nei rapporti con i sentimenti “popolari”. Ma era, proprio lui, un grande intellettuale. Capace di letture profonde di idee, passioni e sentimenti. E di indicazioni severe sulle scelte di vita. Tutt’altro che un “chierico” conformista.

Quei versi sugli intellettuali e i fiammiferi ricorrono nelle pagine di un libro lucido e rigoroso, scritto di recente da Sabino Cassese, uno dei migliori giuristi della cultura politica europea, pubblicato da Il Mulino nella stimolante collana “Parole controtempo” e intitolato, appunto, “Intellettuali”.

Nei “tempi bui sia per gli intellettuali, sia per i mezzi di cui si valgono per farsi ascoltare” perché “se ‘uno vale uno’ non c’è differenza tra il sapiente e l’ignorante”, Cassese rilancia i valori dell’impegno intellettuale, lo studio, la ricerca, la divulgazione del sapere e ne sottolinea l’intreccio tra libertà e responsabilità. Proprio in stagioni così difficili, controverse, cariche di nuove sfide politiche, economiche e sociali e di antiche tensioni che si ripropongono in forme nuove (la crisi della globalizzazione, la pandemia, la guerra, i disastri ambientali, le sempre più insopportabili disuguaglianze di diritti, condizioni di vita e opportunità di sviluppo) tocca agli intellettuali porre nel discorso pubblico domande di senso e perfezionare gli strumenti per le risposte.

Il “trionfo del populismo”, insiste Cassese, “nutre il rifiuto degli intellettuali” perché “l’atteggiamento populista e le forze politiche che lo suscitano o lo coltivano sono fondati su un falso egualitarismo che, a seconda dei casi, o dichiara di poter fare a meno degli intellettuali, spesso accusati di avere tradito le aspettative popolari o li relega in una posizione inferiore, oppure ne fa un uso strumentale”.

Una tendenza negativa, cui controbattere con riflessioni accurate sul lavoro intellettuale e sulla necessità di una vera e propria “battaglia delle idee” contro le demagogie, la volgarità faziosa che dilaga in Tv e social media, la diffusione delle fake news, la svalutazione della conoscenza, i premi al demerito degli incompetenti irresponsabili.

Bisogna tornare a studiare, leggere, scrivere, ricercare, approfondire problemi e punti di vista. Disegnare nuove mappe dei sapere. Lavorare sulla relazione tra memoria e futuro, radici e innovazione. E arricchire il capitale sociale delle competenze. Perché “le élite, i competenti, sono un ingrediente critico essenziale della democrazia”.

La sfida riguarda le professioni intellettuali (rileggere Max Weber). Ma anche il mondo politico ed economico, le organizzazioni sociali e le imprese, le strutture di associazione e rappresentanza. A nessuno sono consentite mediocrità, ignoranza, approssimazioni.

La vita economica e sociale non è un talk show. E le complessità della “società del rischio” richiedono risposte approfondite e articolate, pensieri lunghi, indagini rigorose sull’evoluzione degli equilibri sociali e indicazioni sulle cose da fare, in termini di scelte politiche e strumenti di intervento. Un pensiero denso come strumento di lavoro. Una politica come dovere da civil servants.

Racconta Cassese: “Fa parte della tradizione italiana il ruolo dei professori universitari come public intellectuals o public moralists (si pensi solo a Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini, Vilfredo Pareto, Luigi Einaudi). Proprio quando si contrappongono, sbagliando, popolo ed élite, occorre che i membri dell’élite si facciano sentire, e non per restare prigionieri della contrapposizione, ma per mostrare di essere capaci di interpretare la società in cui vivono (e, quindi, il popolo)”. Bisogna, insomma, “reagire all’esaurimento dell’attitudine al dialogo, dovuto alla crisi dei partiti e alla possibilità illimitata di tutti di esprimersi attraverso il web”.

Cassese insiste sul “metodo della riflessione”. Ricorda la rivalutazione, proprio nella stagione della pandemia, dell’importanza della scienza e della ricerca. Conosce bene il peso e il prestigio delle personalità della cultura e delle associazioni di studio e dibattito. Sottolinea il valore della scrittura e del “discorso pubblico” ben informato e dunque capace di critica. E sostiene: “Gli intellettuali debbono insegnare razionalità e dialogo, nonché far sperare in un possibile futuro migliore, che non vuol dire minor severità rispetto a quello che va storto, e proprio per questo vedere un futuro non nero”. E, dunque “non abbandonare il proprio mestiere di studiosi, ma allargarlo, farvi partecipare un pubblico più vasto, se si ha qualcosa da dire che interessi un tale pubblico. Ciò richiede anche capacità di ‘reinventarsi’, ma senza tradire il proprio mestiere”.

In questa reinvenzione, serve rivalutare e rilanciare l’importanza delle parole, dette e scritte, della chiarezza del linguaggio, del peso di ciò che si dice e si fa. C’è bisogno di una “ecologia linguistica che restituisca alla parola il potere di illuminare, non di nascondere e sequestrare la realtà, che ci consenta di capire e leggere il mondo con occhi non affollati da giudizi né offuscati da pregiudizi; che ci insegni l’arte dell’imposizione dei nomi”, come ricorda Ivano Dionigi, latinista, in “Benedetta parola. La rivincita del tempo”, Il Mulino. Una parola che chiarisce. Una parola che insegna. Una parola che crea il cambiamento del mondo.

Una parola che ci guida attraverso la storia. Come, tanto per fare un solo nome, ci ha insegnato Ludwig Wittgenstein: “La nostra lingua è come una vecchia città: un labirinto di viuzze e di larghi, di case vecchie e nuove, di palazzi ampliati in epoche diverse, e, intorno, la cintura dei nuovi quartieri periferici, le strade rettilinee, regolari, i caseggiati tutti uguali… Rappresentarsi una lingua significa rappresentarsi una forma di vita”. Una fondamentale responsabilità intellettuale, lungo le nuove mappe della conoscenza, da riscoprire e, contemporaneamente, riscrivere.

Il Piccolo Teatro e la Pirelli, uno storico legame tra cultura e territorio, a Milano e nel mondo

Il 14 maggio del 1947 nasce il Piccolo Teatro della Città di Milano, al numero 2 di via Rovello. Fondato per iniziativa di Giorgio Strehler, Paolo Grassi e Nina Vinchi, e sostenuto dal Comune di Milano, si propone come teatro municipale “per tutti” con l’obiettivo di offrire spettacoli a un pubblico quanto più ampio possibile. Il progetto trova nella famiglia e nell’azienda Pirelli terreno più che fertile.  “Anche l’operaio non vive di solo pane” titola nel 1947 un trafiletto del Notiziario aziendale – pubblicazione curata dai lavoratori del Gruppo nel dopoguerra – che così continua: “se si vuole rasserenare gli animi dei lavoratori […] occorre avvicinarli all’arte, a un’arte piana e vivificatrice […] Un’iniziativa a questo scopo è sorta recentemente sotto gli auspici del Sindaco di Milano, ed è già in atto. A detto teatro si accede anche con abbonamenti di modesto importo (e lo stesso nostro Centro Culturale vi ha aderito)”. Il Piccolo avvia infatti fin da subito una politica di agevolazioni per associazioni culturali, aziende, per incentivare la partecipazione “popolare”. E alla Pirelli è da poco nato il Centro Culturale, circolo aziendale diretto da Silvestro Severgnini, amico di Paolo Grassi, con lo scopo di offrire ai lavoratori eventi e iniziative nel campo della musica, del teatro, delle arti figurative, del cinema, della letteratura. Il 30 maggio 1947 viene messo in scena proprio al Piccolo Teatro il primo spettacolo organizzato dal Centro Culturale e dedicato ai lavoratori della Pirelli: “L’Albergo dei poveri “ di Massimo Gorkij. Ecco come viene salutata l’iniziativa sulle pagine del Notiziario: “Lavoratori di ogni categoria e loro familiari, dai più alti dirigenti, rappresentati dal dott. Alberto Pirelli e da un suo familiare, al più giovane dei nostri amici operai frequentante la Scuola Aziendale che aveva accompagnato al Teatro la propria madre, tutti senza alcuna distinzione di posti, frammisti gli uni agli altri, per assistere a una delle più umane produzioni del genio teatrale russo”. Negli anni successivi la collaborazione tra il Teatro e la Pirelli viene affiancata dal legame con altre istituzioni culturali milanesi, come la Scala, i Pomeriggi Musicali o il Teatro del Popolo. Con il passare degli anni l’offerta del Centro Culturale è sempre più ampia: nel 1952 arriva a fornire 12.495 presenze alla stagione lirica e concertistica milanese, diventando “per le sue proporzioni un fatto della cultura cittadina” (Rivista Pirelli, “La fabbrica è aperta ai movimenti della cultura”) e, dal 1960, godrà di un proprio prestigioso spazio, l’auditorium all’interno del Grattacielo Pirelli. Il Piccolo e l’azienda continuano a collaborare ancora oggi nello sviluppo di progetti culturali comuni. Ne sono due esempi la messa in scena nel 2012 dello spettacolo “Settimo. La fabbrica e il lavoro” con la regia di Serena Sinigaglia, basato su centinaia di interviste a operai, tecnici e ingegneri dello stabilimento Pirelli di Settimo Torinese e, più recentemente, le celebrazioni del 150° anno di attività del Gruppo Pirelli, portate proprie sul palcoscenico di quel teatro con il quale da più di settant’anni intreccia la sua storia.

Il 14 maggio del 1947 nasce il Piccolo Teatro della Città di Milano, al numero 2 di via Rovello. Fondato per iniziativa di Giorgio Strehler, Paolo Grassi e Nina Vinchi, e sostenuto dal Comune di Milano, si propone come teatro municipale “per tutti” con l’obiettivo di offrire spettacoli a un pubblico quanto più ampio possibile. Il progetto trova nella famiglia e nell’azienda Pirelli terreno più che fertile.  “Anche l’operaio non vive di solo pane” titola nel 1947 un trafiletto del Notiziario aziendale – pubblicazione curata dai lavoratori del Gruppo nel dopoguerra – che così continua: “se si vuole rasserenare gli animi dei lavoratori […] occorre avvicinarli all’arte, a un’arte piana e vivificatrice […] Un’iniziativa a questo scopo è sorta recentemente sotto gli auspici del Sindaco di Milano, ed è già in atto. A detto teatro si accede anche con abbonamenti di modesto importo (e lo stesso nostro Centro Culturale vi ha aderito)”. Il Piccolo avvia infatti fin da subito una politica di agevolazioni per associazioni culturali, aziende, per incentivare la partecipazione “popolare”. E alla Pirelli è da poco nato il Centro Culturale, circolo aziendale diretto da Silvestro Severgnini, amico di Paolo Grassi, con lo scopo di offrire ai lavoratori eventi e iniziative nel campo della musica, del teatro, delle arti figurative, del cinema, della letteratura. Il 30 maggio 1947 viene messo in scena proprio al Piccolo Teatro il primo spettacolo organizzato dal Centro Culturale e dedicato ai lavoratori della Pirelli: “L’Albergo dei poveri “ di Massimo Gorkij. Ecco come viene salutata l’iniziativa sulle pagine del Notiziario: “Lavoratori di ogni categoria e loro familiari, dai più alti dirigenti, rappresentati dal dott. Alberto Pirelli e da un suo familiare, al più giovane dei nostri amici operai frequentante la Scuola Aziendale che aveva accompagnato al Teatro la propria madre, tutti senza alcuna distinzione di posti, frammisti gli uni agli altri, per assistere a una delle più umane produzioni del genio teatrale russo”. Negli anni successivi la collaborazione tra il Teatro e la Pirelli viene affiancata dal legame con altre istituzioni culturali milanesi, come la Scala, i Pomeriggi Musicali o il Teatro del Popolo. Con il passare degli anni l’offerta del Centro Culturale è sempre più ampia: nel 1952 arriva a fornire 12.495 presenze alla stagione lirica e concertistica milanese, diventando “per le sue proporzioni un fatto della cultura cittadina” (Rivista Pirelli, “La fabbrica è aperta ai movimenti della cultura”) e, dal 1960, godrà di un proprio prestigioso spazio, l’auditorium all’interno del Grattacielo Pirelli. Il Piccolo e l’azienda continuano a collaborare ancora oggi nello sviluppo di progetti culturali comuni. Ne sono due esempi la messa in scena nel 2012 dello spettacolo “Settimo. La fabbrica e il lavoro” con la regia di Serena Sinigaglia, basato su centinaia di interviste a operai, tecnici e ingegneri dello stabilimento Pirelli di Settimo Torinese e, più recentemente, le celebrazioni del 150° anno di attività del Gruppo Pirelli, portate proprie sul palcoscenico di quel teatro con il quale da più di settant’anni intreccia la sua storia.

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XX Gara Nazionale di Chimica per la prima volta a Milano

Approda per la prima volta a Milano la Gara Nazionale di Chimica indetta dal Ministero della Pubblica Istruzione e che si svolge dal 2002. Un evento riservato ai migliori studenti delle classi quarte degli istituti tecnici a indirizzo chimico e che viene ospitata dalla scuola di provenienza del vincitore dell’edizione precedente. Nel 2021 la competizione è stata vinta da un giovane chimico dell’Istituto Tecnico Tecnologico “Ettore Molinari” di Milano che quindi avrà l’onore di organizzare questa XX edizione che si terrà dal 17 al 18 Maggio 2022.

Da sempre attenta alla promozione della cultura scientifica e alla divulgazione del costante impegno  dell’azienda nella ricerca di materiali innovativi, Fondazione Pirelli sarà partner di questa iniziativa.

Durante lo svolgimento delle prove dei ragazzi, i docenti accompagnatori avranno l’occasione di visitare gli spazi della Fondazione Pirelli, sede dell’archivio storico aziendale, dove è allestito il percorso espositivo Pirelli, when history builds the future. Il tour guidato proseguirà poi nei laboratori di chimica del Centro di Ricerca e Sviluppo dell’azienda. Qui la sperimentazione è orientata verso materie prime da fonti rinnovabili e riciclate: dalla gomma naturale, alla silice da lolla di riso, dalla lignina ai plastificanti e olii di origine vegetale e materiali riciclati derivati dal trattamento di pneumatici a fine vita.

Sarà possibile così conoscere da vicino il ruolo di avanguardia che nell’arco del tempo e attualmente ricopre Pirelli nello sviluppo tecnico-scientifico dei processi e dei prodotti.

Approda per la prima volta a Milano la Gara Nazionale di Chimica indetta dal Ministero della Pubblica Istruzione e che si svolge dal 2002. Un evento riservato ai migliori studenti delle classi quarte degli istituti tecnici a indirizzo chimico e che viene ospitata dalla scuola di provenienza del vincitore dell’edizione precedente. Nel 2021 la competizione è stata vinta da un giovane chimico dell’Istituto Tecnico Tecnologico “Ettore Molinari” di Milano che quindi avrà l’onore di organizzare questa XX edizione che si terrà dal 17 al 18 Maggio 2022.

Da sempre attenta alla promozione della cultura scientifica e alla divulgazione del costante impegno  dell’azienda nella ricerca di materiali innovativi, Fondazione Pirelli sarà partner di questa iniziativa.

Durante lo svolgimento delle prove dei ragazzi, i docenti accompagnatori avranno l’occasione di visitare gli spazi della Fondazione Pirelli, sede dell’archivio storico aziendale, dove è allestito il percorso espositivo Pirelli, when history builds the future. Il tour guidato proseguirà poi nei laboratori di chimica del Centro di Ricerca e Sviluppo dell’azienda. Qui la sperimentazione è orientata verso materie prime da fonti rinnovabili e riciclate: dalla gomma naturale, alla silice da lolla di riso, dalla lignina ai plastificanti e olii di origine vegetale e materiali riciclati derivati dal trattamento di pneumatici a fine vita.

Sarà possibile così conoscere da vicino il ruolo di avanguardia che nell’arco del tempo e attualmente ricopre Pirelli nello sviluppo tecnico-scientifico dei processi e dei prodotti.

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