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Memoria, heritage  e prodotto

Sintetizzati in un libro agile e concreto i legami tra la storia aziendale e il marketing

Memoria e storia come strumenti di promozione della propria immagine e del proprio prodotto. Heritage, cioè, inteso come attributo del prodotto fatto da una serie di contenuti simbolici come il legame con il passato, la figura del fondatore, della sua famiglia, le tecniche di lavorazione delle origini, le persone che hanno reso celebre il prodotto o la marca, il contesto storico, il territorio di origine. Concetto complesso, quello dell’heritage, che va ben inteso e adoperato con attenzione. Concetto che fa parte della buona cultura d’impresa, quando, appunto, viene ben inquadrato nelle sue potenzialità ma anche nei suoi limiti.

Un valido contributo in questa direzione arriva da “Heritage di prodotto e di marca” scritto da Fabrizio Mosca (che insegna da tempo economia e gestione delle imprese  oltre che marketing e strategie delle imprese presso l’Università di Torino e la sua Scuola di Amministrazione Aziendale).

Il libro affronta da una particolare ottica il tema heritage. E cioè dal punto di vista del marketing delle imprese che operano nei mercati globali del lusso. Una visione particolare, la cui conoscenza, tuttavia, può far bene anche ad altri comparti caratterizzati dalla specificità dei mercati.

Mosca parte dal presupposto che nell’ambito del marketing l’impresa debba adottare strategie di richiamo e valorizzazione dell’heritage per competere nei mercati dei beni a elevato valore simbolico; in questo ambito, infatti, è fonte di vantaggio competitivo durevole e difficilmente imitabile poter disporre di un prodotto e di una marca dotati di una competenza distintiva unica, come una storia antica, associata a un mito, alla figura indimenticabile del fondatore, di una famiglia o a un luogo di creazione simbolico iniziale. Heritage, quindi, come vero strumento di lavoro associato alle qualità tecniche del prodotto che deve accompagnare. L’importanza di questi attributi immateriali – è opinione dell’autore -, segna anche la profonda diversità tra i mercati del lusso e della moda e quelli dei beni di consumo e durevoli, per i quali l’heritage è meno importante.
E’ da questi principi che Mosca, in poco meno di duecento pagine, raccoglie teoria e pratica dell’heritage. Tutto inizia quindi dall’analisi e interpretazione della letteratura e dei principali modelli di riferimento relativi all’heritage. Si passa poi all’inquadramento del product service concept – inteso quale sommatoria di attributi tangibili, intangibili e simbolici -, per arrivare all’ideazione di un modello di riferimento specifico per i beni di lusso per valorizzare l’heritage basato su una analisi dei contenuti di 150 marche. Successivamente, Fabrizio Mosca identifica le azioni di marketing operativo e strategico che le imprese mettono in atto per gestire e rievocare in chiave moderna l’heritage stesso.

Teoria, quindi, accanto ad una buona dose di operatività. Il connubio di questi due elementi rende utile il libro che da un lato racconta un importante pezzo della buona cultura d’impresa ma, dall’altro, fornisce strumenti reali per le imprese che vogliano capire di più e quindi intraprendere un proprio percorso di sviluppo anche nell’ambito dell’heritage. Bella ma soprattutto interessante la tabella finale del libro (che occupa diverse pagine), nelle quali per ogni azienda che opera nel vasto comparto del lusso vengono sintetizzati i diversi elementi che compongono la strategia di heritage.

Heritage di prodotto e di marca

Fabrizio Mosca

Franco Angeli, 2022

Sintetizzati in un libro agile e concreto i legami tra la storia aziendale e il marketing

Memoria e storia come strumenti di promozione della propria immagine e del proprio prodotto. Heritage, cioè, inteso come attributo del prodotto fatto da una serie di contenuti simbolici come il legame con il passato, la figura del fondatore, della sua famiglia, le tecniche di lavorazione delle origini, le persone che hanno reso celebre il prodotto o la marca, il contesto storico, il territorio di origine. Concetto complesso, quello dell’heritage, che va ben inteso e adoperato con attenzione. Concetto che fa parte della buona cultura d’impresa, quando, appunto, viene ben inquadrato nelle sue potenzialità ma anche nei suoi limiti.

Un valido contributo in questa direzione arriva da “Heritage di prodotto e di marca” scritto da Fabrizio Mosca (che insegna da tempo economia e gestione delle imprese  oltre che marketing e strategie delle imprese presso l’Università di Torino e la sua Scuola di Amministrazione Aziendale).

Il libro affronta da una particolare ottica il tema heritage. E cioè dal punto di vista del marketing delle imprese che operano nei mercati globali del lusso. Una visione particolare, la cui conoscenza, tuttavia, può far bene anche ad altri comparti caratterizzati dalla specificità dei mercati.

Mosca parte dal presupposto che nell’ambito del marketing l’impresa debba adottare strategie di richiamo e valorizzazione dell’heritage per competere nei mercati dei beni a elevato valore simbolico; in questo ambito, infatti, è fonte di vantaggio competitivo durevole e difficilmente imitabile poter disporre di un prodotto e di una marca dotati di una competenza distintiva unica, come una storia antica, associata a un mito, alla figura indimenticabile del fondatore, di una famiglia o a un luogo di creazione simbolico iniziale. Heritage, quindi, come vero strumento di lavoro associato alle qualità tecniche del prodotto che deve accompagnare. L’importanza di questi attributi immateriali – è opinione dell’autore -, segna anche la profonda diversità tra i mercati del lusso e della moda e quelli dei beni di consumo e durevoli, per i quali l’heritage è meno importante.
E’ da questi principi che Mosca, in poco meno di duecento pagine, raccoglie teoria e pratica dell’heritage. Tutto inizia quindi dall’analisi e interpretazione della letteratura e dei principali modelli di riferimento relativi all’heritage. Si passa poi all’inquadramento del product service concept – inteso quale sommatoria di attributi tangibili, intangibili e simbolici -, per arrivare all’ideazione di un modello di riferimento specifico per i beni di lusso per valorizzare l’heritage basato su una analisi dei contenuti di 150 marche. Successivamente, Fabrizio Mosca identifica le azioni di marketing operativo e strategico che le imprese mettono in atto per gestire e rievocare in chiave moderna l’heritage stesso.

Teoria, quindi, accanto ad una buona dose di operatività. Il connubio di questi due elementi rende utile il libro che da un lato racconta un importante pezzo della buona cultura d’impresa ma, dall’altro, fornisce strumenti reali per le imprese che vogliano capire di più e quindi intraprendere un proprio percorso di sviluppo anche nell’ambito dell’heritage. Bella ma soprattutto interessante la tabella finale del libro (che occupa diverse pagine), nelle quali per ogni azienda che opera nel vasto comparto del lusso vengono sintetizzati i diversi elementi che compongono la strategia di heritage.

Heritage di prodotto e di marca

Fabrizio Mosca

Franco Angeli, 2022

Occupazione giovanile, come fare

Una serie di ricerche raccolte in volume, spiega i passi da compiere e la bontà delle reti locali per generare occupabilità

 

Essere giovani e trovare lavoro. Anche in un mondo complesso come quello di oggi. Traguardo da raggiungere mettendo insieme competenze personali, reti sul territorio, esigenze delle imprese. percorso non facile, quello da intraprendere. Eppure un percorso possibile.

E’ attorno a questi temi che ragionano le ricerche raccolte in “Competenze trasversali e digitali per il futuro del lavoro: il caso del progetto Engage” e curato da una squadra di autori fatta da ricercatori e professionisti del territorio. In particolare, i saggi raccolti nel volume affrontano il tema dell’occupabilità dei giovani con particolare riferimento ad una esperienza di ricerca volta all’analisi di digital soft skills che sono oggi ritenute vitali per il futuro del lavoro. La pubblicazione è infatti l’esito di un progetto complesso (Engage) che ha visto la collaborazione di imprese del territorio, enti del terzo settore e Università finalizzato a ridurre il divario tra domanda e offerta di lavoro. Tra le indagini raccolte, dopo un punto sulle relazioni tra università e occupabilità delle persone, la raccolta contiene, tra le altre, una ricerca sui supporti possibili oggi per lo sviluppo delle competenze digitali e trasversali, un approfondimento del possibile modello di autovalutazione delle soft skills realizzato specificatamente per il progetto Engage, la descrizione del progetto Engage per la promozione delle Career Management Skills tra studenti-target di scuola e università, l’analisi del metodo delle Career Management Skills a supporto delle pratiche di orientamento permanente e placement per i giovani.

Oltre a tutto questo, l’insieme delle ricerche è anche un valido esempio di buona prassi con la quale la ricerca costruisce reti per lo sviluppo e la progettazione di una comunità che possa essere inclusiva ma anche capace di generare ulteriori stimoli di sviluppo.

Ed è proprio dal connubio tra analisi sul campo di quanto è fattibile e creazione di una rete di ricerca e applicazione delle azioni intraprese, che nasce la parte migliore delle ricerche presentate: un esempio di lavoro sul territorio per far crescere l’occupazione ma anche la cultura d’impresa diffusa su di esso.

Competenze trasversali e digitali per il futuro del lavoro: il caso del progetto Engage

AA.VV., Franco Angeli, 2022

Una serie di ricerche raccolte in volume, spiega i passi da compiere e la bontà delle reti locali per generare occupabilità

 

Essere giovani e trovare lavoro. Anche in un mondo complesso come quello di oggi. Traguardo da raggiungere mettendo insieme competenze personali, reti sul territorio, esigenze delle imprese. percorso non facile, quello da intraprendere. Eppure un percorso possibile.

E’ attorno a questi temi che ragionano le ricerche raccolte in “Competenze trasversali e digitali per il futuro del lavoro: il caso del progetto Engage” e curato da una squadra di autori fatta da ricercatori e professionisti del territorio. In particolare, i saggi raccolti nel volume affrontano il tema dell’occupabilità dei giovani con particolare riferimento ad una esperienza di ricerca volta all’analisi di digital soft skills che sono oggi ritenute vitali per il futuro del lavoro. La pubblicazione è infatti l’esito di un progetto complesso (Engage) che ha visto la collaborazione di imprese del territorio, enti del terzo settore e Università finalizzato a ridurre il divario tra domanda e offerta di lavoro. Tra le indagini raccolte, dopo un punto sulle relazioni tra università e occupabilità delle persone, la raccolta contiene, tra le altre, una ricerca sui supporti possibili oggi per lo sviluppo delle competenze digitali e trasversali, un approfondimento del possibile modello di autovalutazione delle soft skills realizzato specificatamente per il progetto Engage, la descrizione del progetto Engage per la promozione delle Career Management Skills tra studenti-target di scuola e università, l’analisi del metodo delle Career Management Skills a supporto delle pratiche di orientamento permanente e placement per i giovani.

Oltre a tutto questo, l’insieme delle ricerche è anche un valido esempio di buona prassi con la quale la ricerca costruisce reti per lo sviluppo e la progettazione di una comunità che possa essere inclusiva ma anche capace di generare ulteriori stimoli di sviluppo.

Ed è proprio dal connubio tra analisi sul campo di quanto è fattibile e creazione di una rete di ricerca e applicazione delle azioni intraprese, che nasce la parte migliore delle ricerche presentate: un esempio di lavoro sul territorio per far crescere l’occupazione ma anche la cultura d’impresa diffusa su di esso.

Competenze trasversali e digitali per il futuro del lavoro: il caso del progetto Engage

AA.VV., Franco Angeli, 2022

I valori del patrimonio industriale per sviluppare conoscenze high tech e una migliore competitività

L’industria italiana, in tempi così controversi di crisi e metamorfosi, prova a scrivere i nuovi itinerari di una migliore “storia al futuro”. Fa leva sul patrimonio di idee, conoscenze, esperienze, per ridefinire i cardini della competitività. Insiste sulla forza di un “umanesimo industriale” che si declina in “umanesimo digitale”. E usa una parola che sa di antico, heritage, eredità, per ragionare su come costruire più solide radici produttive, nella stagione della “ri-globalizzazione selettiva” (ne abbiamo parlato in blog precedenti), in mercati diventati più esigenti e severi. L’industria, dunque, è di fronte a una vera e propria sfida culturale, innanzitutto.

Ecco la prospettiva su cui soffermarsi: “l’avvenire della memoria”, nella relazione critica tra la consapevolezza della storia e la volontà di costruzione di un’innovazione sostenibile. La responsabilità di tutte le donne e gli uomini d’impresa e dunque di cultura politecnica, sta nell’investire sul nostro patrimonio (luoghi, prodotti e processi produttivi, tecniche di ricerca e lavoro, brevetti, relazioni industriali, rapporti di mercato, linguaggi) e farne leva di competitività e di sviluppo sostenibile ambientale e sociale. Gli “Stati Generali del Patrimonio Industriale”, organizzati a Roma dal 9 all’11 giugno da Aipai, Ticcih (The International Committee for the Conservation of the Industrial Heritage) e Museimpresa, sono un appuntamento fondamentale di questo impegno, con un rapporto essenziale tra il mondo universitario e quello della cultura d’impresa, tra la storia e il futuro. Dando alla nostalgia il posto che le spetta e riducendo al minimo gli spazi per la “retrotopia”, l’illusione, così ben individuata da Zygmunt Bauman, di chi idealizza il passato come tempo più rassicurante ed è incapace di guardare ai tempi in arrivo “con speranza e fiducia”.

Che ruolo ha, dunque, la conoscenza storica nella cultura d’impresa? E come legarla alle dimensioni specifiche dell’intraprendenza e cioè la creatività, l’innovazione, la crescita? Perché, insomma, investire sulla valorizzazione del patrimonio industriale e sui musei e gli archivi d’impresa?

Una prima risposta la si può trovare nelle parole di Fernand Braudel, uno dei maggiori storici del Novecento: “Essere stati è una condizione per essere”. Storia con l’attenzione rivolta al futuro.

Ci si può affidare anche alle pagine di Edmondo Berselli, straordinario scrittore capace di mescolare l’osservazione politica e sociale allo sguardo ironico su costumi e culture del quotidiano: “La vita va salvata per intero e c’è un unico modo per farlo: riscrivendola, trasfigurando sulla pagina il suo respiro. Rianimandola di continuo, grazie all’uso della memoria”. Dopo la sua prematura scomparsa, nel 2010, restano sempre forti, di lui, i ricordi e la sapienza dei buoni libri: “E’ un principio dell’ermeneutica: cambia chi legge, cambia chi ascolta, cambia il punto di vista, quindi cambia anche il testo”. E proprio così quel testo, il testo della vita vissuta, dell’esperienza, della conoscenza e dunque della storia, continua a vivere.

La memoria sfida il tempo e costruisce le basi del futuro. L’avvenire della memoria si svela come l’opposto del suo apparente ossimoro. E trova posto nel mondo dell’innovazione, delle radicali trasformazioni che innervano l’economia, le relazioni di produzione e consumo, l’industria.

I musei e gli archivi storici delle imprese riuniti in Museimpresa, l’associazione nata più di vent’anni fa per iniziativa di Assolombarda e Confindustria, ne offrono testimonianze esemplari.

Di cosa parliamo, infatti, quando diciamo “cultura d’impresa”? Di un aspetto della cultura più generale che sa legare, in modo originale, proprio qui in Italia, saperi umanistici e conoscenze scientifiche, progetti e prodotti, industria e servizi, passioni delle persone e sofisticate tecnologie. Una cultura politecnica, per dirla in sintesi.Una cultura trasformativa.

Le fabbriche o, meglio ancora, le neo-fabbriche digitali ne sono, appunto, luoghi paradigmatici. Nella stagione contemporanea dell’economia della conoscenza e dell’Intelligenza Artificiale, infatti, è indispensabile lavorare a nuove sintesi intellettuali, all’incrocio tra le molteplicità delle competenze, tra ingegneria e filosofia, meccatronica e sociologia, economia e neuroscienze, ridisegnando così nuove mappe del sapere e del fare.

Sono proprio queste dimensioni della cultura d’impresa a fare da leva di crescita delle nostre imprese nel nuovo contesto competitivo, reso molto più difficile e conflittuale dagli eventi drammatici che stiamo vivendo, tra conseguenze del Climate change, pandemia, recessione e guerra.

C’è, appunto, una grande capacità produttiva su cui fare leva per competere in condizioni migliori, nei territori dell’impresa diffusa, nei distretti industriali, nelle reti d’impresa e nelle supply chain. E vale la pena ascoltare la lezione di Renzo Piano, teorico del «rammendo del territorio», per saperne di più: «Ho passato una vita a costruire luoghi pubblici: scuole, biblioteche, musei, teatri… E poi strade, piazze, ponti. Luoghi dove la gente condivide gli stessi valori e le stesse emozioni, impara la tolleranza. Luoghi di urbanità che celebrano il rito dell’incontro, dove la città è intesa come civiltà. Posti per un mondo migliore, capaci di accendere una luce negli occhi di coloro che li attraversano».

È da qui che si può ricominciare. Da una civiltà urbana che segue il cambiamento e si mette in relazione più equilibrata con il suo territorio. E da un’industria che affonda le radici della propria competitività internazionale nella sapienza dei territori. Eredità industriale e sguardo al futuro.

I musei e gli archivi d’impresa e le associazioni culturali e accademiche che si occupano di patrimonio industriale mostrano, in questo contesto, dimensioni e peculiarità specifiche. Sono luoghi di conservazione della Storia che si racconta attraverso prodotti, immagini, documenti, brevetti, contratti di lavoro, disegni tecnici, etc. Testimoniano le relazioni tra le manifatture e i territori circostanti, nascono all’interno di un percorso imprenditoriale e raccontano il passato in funzione dell’innovazione.

Alla base, c’è la consapevolezza del legame forte tra il patrimonio culturale e l’attitudine a costruire, nelle imprese, lavoro, benessere, inclusione sociale. Si testimonia, attraverso oggetti e documenti, che c’è una profonda cultura del “saper fare, e fare bene” e che la cultura materiale (come hanno insegnato gli storici riuniti attorno alla rivista Annales d’histoire économique et sociale in Francia) è un aspetto fondamentale della storia e della cultura generale. Storia, dunque, in quanto storia della fabbrica, del produrre, dei servizi, delle relazioni dentro le trasformazioni economiche e sociali.

Una testimonianza cardine è quella del design. Qualità, bellezza, funzionalità, distintività. Perché in un oggetto di design, in un robot industriale, in una componente del vasto mondo dell’automotive e dell’industria aeronautica, meccatronica, chimica e della gomma c’è sempre anche l’immagine del Paese e delle sue molteplici qualità.

Gio Ponti, architetto e designer italiano fra i più importanti del dopoguerra, progettista del Grattacielo Pirelli (da oltre sessant’anni simbolo della più dinamica identità industriale italiana) sintetizza il fenomeno con poche e decisive parole: “In Italia l’arte si è innamorata dell’industria. Ed è per questo che l’industria è un fatto culturale”. Ecco perché il patrimonio industriale e i musei d’impresa, con i luoghi, gli oggetti e i documenti che custodiscono e valorizzano, finiscono con il diventare ambasciatori dello stile italiano nel mondo. E dunque asset di competitività.

L’industria italiana, in tempi così controversi di crisi e metamorfosi, prova a scrivere i nuovi itinerari di una migliore “storia al futuro”. Fa leva sul patrimonio di idee, conoscenze, esperienze, per ridefinire i cardini della competitività. Insiste sulla forza di un “umanesimo industriale” che si declina in “umanesimo digitale”. E usa una parola che sa di antico, heritage, eredità, per ragionare su come costruire più solide radici produttive, nella stagione della “ri-globalizzazione selettiva” (ne abbiamo parlato in blog precedenti), in mercati diventati più esigenti e severi. L’industria, dunque, è di fronte a una vera e propria sfida culturale, innanzitutto.

Ecco la prospettiva su cui soffermarsi: “l’avvenire della memoria”, nella relazione critica tra la consapevolezza della storia e la volontà di costruzione di un’innovazione sostenibile. La responsabilità di tutte le donne e gli uomini d’impresa e dunque di cultura politecnica, sta nell’investire sul nostro patrimonio (luoghi, prodotti e processi produttivi, tecniche di ricerca e lavoro, brevetti, relazioni industriali, rapporti di mercato, linguaggi) e farne leva di competitività e di sviluppo sostenibile ambientale e sociale. Gli “Stati Generali del Patrimonio Industriale”, organizzati a Roma dal 9 all’11 giugno da Aipai, Ticcih (The International Committee for the Conservation of the Industrial Heritage) e Museimpresa, sono un appuntamento fondamentale di questo impegno, con un rapporto essenziale tra il mondo universitario e quello della cultura d’impresa, tra la storia e il futuro. Dando alla nostalgia il posto che le spetta e riducendo al minimo gli spazi per la “retrotopia”, l’illusione, così ben individuata da Zygmunt Bauman, di chi idealizza il passato come tempo più rassicurante ed è incapace di guardare ai tempi in arrivo “con speranza e fiducia”.

Che ruolo ha, dunque, la conoscenza storica nella cultura d’impresa? E come legarla alle dimensioni specifiche dell’intraprendenza e cioè la creatività, l’innovazione, la crescita? Perché, insomma, investire sulla valorizzazione del patrimonio industriale e sui musei e gli archivi d’impresa?

Una prima risposta la si può trovare nelle parole di Fernand Braudel, uno dei maggiori storici del Novecento: “Essere stati è una condizione per essere”. Storia con l’attenzione rivolta al futuro.

Ci si può affidare anche alle pagine di Edmondo Berselli, straordinario scrittore capace di mescolare l’osservazione politica e sociale allo sguardo ironico su costumi e culture del quotidiano: “La vita va salvata per intero e c’è un unico modo per farlo: riscrivendola, trasfigurando sulla pagina il suo respiro. Rianimandola di continuo, grazie all’uso della memoria”. Dopo la sua prematura scomparsa, nel 2010, restano sempre forti, di lui, i ricordi e la sapienza dei buoni libri: “E’ un principio dell’ermeneutica: cambia chi legge, cambia chi ascolta, cambia il punto di vista, quindi cambia anche il testo”. E proprio così quel testo, il testo della vita vissuta, dell’esperienza, della conoscenza e dunque della storia, continua a vivere.

La memoria sfida il tempo e costruisce le basi del futuro. L’avvenire della memoria si svela come l’opposto del suo apparente ossimoro. E trova posto nel mondo dell’innovazione, delle radicali trasformazioni che innervano l’economia, le relazioni di produzione e consumo, l’industria.

I musei e gli archivi storici delle imprese riuniti in Museimpresa, l’associazione nata più di vent’anni fa per iniziativa di Assolombarda e Confindustria, ne offrono testimonianze esemplari.

Di cosa parliamo, infatti, quando diciamo “cultura d’impresa”? Di un aspetto della cultura più generale che sa legare, in modo originale, proprio qui in Italia, saperi umanistici e conoscenze scientifiche, progetti e prodotti, industria e servizi, passioni delle persone e sofisticate tecnologie. Una cultura politecnica, per dirla in sintesi.Una cultura trasformativa.

Le fabbriche o, meglio ancora, le neo-fabbriche digitali ne sono, appunto, luoghi paradigmatici. Nella stagione contemporanea dell’economia della conoscenza e dell’Intelligenza Artificiale, infatti, è indispensabile lavorare a nuove sintesi intellettuali, all’incrocio tra le molteplicità delle competenze, tra ingegneria e filosofia, meccatronica e sociologia, economia e neuroscienze, ridisegnando così nuove mappe del sapere e del fare.

Sono proprio queste dimensioni della cultura d’impresa a fare da leva di crescita delle nostre imprese nel nuovo contesto competitivo, reso molto più difficile e conflittuale dagli eventi drammatici che stiamo vivendo, tra conseguenze del Climate change, pandemia, recessione e guerra.

C’è, appunto, una grande capacità produttiva su cui fare leva per competere in condizioni migliori, nei territori dell’impresa diffusa, nei distretti industriali, nelle reti d’impresa e nelle supply chain. E vale la pena ascoltare la lezione di Renzo Piano, teorico del «rammendo del territorio», per saperne di più: «Ho passato una vita a costruire luoghi pubblici: scuole, biblioteche, musei, teatri… E poi strade, piazze, ponti. Luoghi dove la gente condivide gli stessi valori e le stesse emozioni, impara la tolleranza. Luoghi di urbanità che celebrano il rito dell’incontro, dove la città è intesa come civiltà. Posti per un mondo migliore, capaci di accendere una luce negli occhi di coloro che li attraversano».

È da qui che si può ricominciare. Da una civiltà urbana che segue il cambiamento e si mette in relazione più equilibrata con il suo territorio. E da un’industria che affonda le radici della propria competitività internazionale nella sapienza dei territori. Eredità industriale e sguardo al futuro.

I musei e gli archivi d’impresa e le associazioni culturali e accademiche che si occupano di patrimonio industriale mostrano, in questo contesto, dimensioni e peculiarità specifiche. Sono luoghi di conservazione della Storia che si racconta attraverso prodotti, immagini, documenti, brevetti, contratti di lavoro, disegni tecnici, etc. Testimoniano le relazioni tra le manifatture e i territori circostanti, nascono all’interno di un percorso imprenditoriale e raccontano il passato in funzione dell’innovazione.

Alla base, c’è la consapevolezza del legame forte tra il patrimonio culturale e l’attitudine a costruire, nelle imprese, lavoro, benessere, inclusione sociale. Si testimonia, attraverso oggetti e documenti, che c’è una profonda cultura del “saper fare, e fare bene” e che la cultura materiale (come hanno insegnato gli storici riuniti attorno alla rivista Annales d’histoire économique et sociale in Francia) è un aspetto fondamentale della storia e della cultura generale. Storia, dunque, in quanto storia della fabbrica, del produrre, dei servizi, delle relazioni dentro le trasformazioni economiche e sociali.

Una testimonianza cardine è quella del design. Qualità, bellezza, funzionalità, distintività. Perché in un oggetto di design, in un robot industriale, in una componente del vasto mondo dell’automotive e dell’industria aeronautica, meccatronica, chimica e della gomma c’è sempre anche l’immagine del Paese e delle sue molteplici qualità.

Gio Ponti, architetto e designer italiano fra i più importanti del dopoguerra, progettista del Grattacielo Pirelli (da oltre sessant’anni simbolo della più dinamica identità industriale italiana) sintetizza il fenomeno con poche e decisive parole: “In Italia l’arte si è innamorata dell’industria. Ed è per questo che l’industria è un fatto culturale”. Ecco perché il patrimonio industriale e i musei d’impresa, con i luoghi, gli oggetti e i documenti che custodiscono e valorizzano, finiscono con il diventare ambasciatori dello stile italiano nel mondo. E dunque asset di competitività.

Pirelli e le Esposizioni Universali: Parigi 1900 e Saint Louis 1904

Londra, 1851. In Hyde Park si tiene la prima Esposizione Universale della storia: circa 14.000 espositori suddivisi tra le sezioni  dedicate a materie prime, macchine e invenzioni, prodotti manifatturieri e belle arti. Da allora inizia la storia delle esposizioni universali, manifestazioni commerciali ma anche culturali, tenute periodicamente in grandi città del mondo, nelle quali i Paesi espongono i progressi raggiunti nella produzione industriale, nella scienza, nella tecnologia. Nel 1889 l’Expo universale si tiene invece a Parigi: si celebrano i 100 anni della Rivoluzione francese e Gustave Eiffel realizza una torre metallica alta oltre 300 metri. Sappiamo che Giovanni Battista Pirelli è presente alla manifestazione. In una lettera a Giuseppe Borghero, direttore dello stabilimento Pirelli di La Spezia dove si producono cavi telegrafici sottomarini, lo invita infatti a visitare la parte dedicata all’elettricità: “Sono di recente ritorno dall’esposizione e quando Ella voglia limitarsi a una rapida visita generale per dedicare un esame più particolarmente alla parte meccanica ed elettrica, una settimana Le può bastare largamente”.

La Pirelli, che aveva iniziato molto presto a presentare i propri prodotti in fiere nazionali e di settore (come le esposizioni generali italiane del 1881 e del 1884, o quella internazionale di panificazione e macinazione di Milano nel 1897, con un padiglione dedicato all’elettricità), partecipa per la prima volta a una Esposizione Universale nel 1900, proprio a Parigi. Della sua già vasta produzione di articoli in gomma si decide di presentare solo i prodotti relativi all’elettricità, anche per la mancanza di spazio di cui, si legge in un opuscolo, “soffre tutta la Sezione italiana”. Nello stand, della misura di 10 x 5 metri, sono esposti campioni di cavi di ogni sorta, isolati in guttaperca, in materie tessili, in caoutchouc vulcanizzato, per telegrafi, telefoni, luce elettrica, trasporto di energia a distanza. E poi, i cavi sottomarini – con l’esposizione, in una teca in cristallo, del modellino della nave posa cavi “Città di Milano” –  e i cavi sotterranei, tra cui un cavo di tipo speciale, per il trasporto di energia a 2500 volt, in grado di illuminare 500 lampade disposte su un quadro all’interno dello stand, dimostrando la capacità dei cavi Pirelli di trasportare l’energia elettrica ad altissime tensioni. La Pirelli e la Franco Tosi, azienda metalmeccanica presente in mostra con tre motrici a vapore di 1200 cavalli per centrali elettriche, si aggiudicano il Grand Prix conferito dall’Esposizione.

Nel 1904 la Pirelli partecipa all’Esposizione internazionale della Lousiana, la “Louisiana Purchaise”, con la supervisione diretta di Piero Pirelli, recatosi negli Stati Uniti anche per osservare l’industria americana e stipulare nuovi accordi commerciali e di fornitura. Qui lo spazio a disposizione è molto più ampio, come sottolinea il capo dipartimento elettricità dell’Expo, nella lettera, datata 11 maggio 1903, con cui invita la Pirelli a partecipare: la presenta come un’occasione da non perdere, per lo spazio disponibile, molto più ampio delle fiere organizzate sino a quel momento (500 ettari), per la partecipazione  di espositori da tutta Europa ma anche da America latina, Canada, Cina e Giappone e la possibilità dunque di entrare in contatto con i rappresentanti di questi paesi nonchè con quelli degli Stati Uniti.

Nello stand di Saint Louis la Pirelli fa una larga mostra campionaria dei propri prodotti di caoutchouc (articoli tecnici, articoli sanitari e di merceria, giocattoli, palloni colorati e un vestito da palombaro) e di fili e cavi elettrici isolati e viene premiata con il “grand prix” nella sezione “manifatture” gruppo “industria della gomma elastica e della guttaperca” e con la medaglia d’oro nella sezione “elettricità” , gruppo “telegrafia e telefonia”. Il più alto riconoscimento, quest’ultimo, assegnato a un’industria di cavi elettrici tra quelle presenti, sia americane sia europee. Una medaglia d’oro dell’Esposizione viene conferita anche all’ingegner Emanuele Jona, che aveva partecipato al Congresso internazionale di elettrotecnica tenutosi in città dal 12 al 17 settembre 1904, presentando importanti novità nel campo dei cavi elettrici ad elevatissima tensione, che avevano provocato una grande eco nel campo dell’elettrotecnica internazionale. Come previsto, l’Esposizione è una buona occasione per intrecciare importanti relazioni in ambito professionale. Scrive infatti ai Pirelli l’ingegner Elvio Soleri, membro dell’Associazione Elettrotecnica Italiana, che “i signori Holmes brothers di Chicago desiderano entrare in rapporti con voi per rappresentanza,  che la canadese  Compagnie Internationale d’Électricité desidera entrare immediatamente in corrispondenza” e che il rappresentante della Ontario Power Co ha lasciato il proprio biglietto da visita.

Una rete di relazioni con il mondo dell’industria che continua oggi, anche attraverso la partecipazione alle recenti fiere ed esposizioni di rilievo internazionale.

Londra, 1851. In Hyde Park si tiene la prima Esposizione Universale della storia: circa 14.000 espositori suddivisi tra le sezioni  dedicate a materie prime, macchine e invenzioni, prodotti manifatturieri e belle arti. Da allora inizia la storia delle esposizioni universali, manifestazioni commerciali ma anche culturali, tenute periodicamente in grandi città del mondo, nelle quali i Paesi espongono i progressi raggiunti nella produzione industriale, nella scienza, nella tecnologia. Nel 1889 l’Expo universale si tiene invece a Parigi: si celebrano i 100 anni della Rivoluzione francese e Gustave Eiffel realizza una torre metallica alta oltre 300 metri. Sappiamo che Giovanni Battista Pirelli è presente alla manifestazione. In una lettera a Giuseppe Borghero, direttore dello stabilimento Pirelli di La Spezia dove si producono cavi telegrafici sottomarini, lo invita infatti a visitare la parte dedicata all’elettricità: “Sono di recente ritorno dall’esposizione e quando Ella voglia limitarsi a una rapida visita generale per dedicare un esame più particolarmente alla parte meccanica ed elettrica, una settimana Le può bastare largamente”.

La Pirelli, che aveva iniziato molto presto a presentare i propri prodotti in fiere nazionali e di settore (come le esposizioni generali italiane del 1881 e del 1884, o quella internazionale di panificazione e macinazione di Milano nel 1897, con un padiglione dedicato all’elettricità), partecipa per la prima volta a una Esposizione Universale nel 1900, proprio a Parigi. Della sua già vasta produzione di articoli in gomma si decide di presentare solo i prodotti relativi all’elettricità, anche per la mancanza di spazio di cui, si legge in un opuscolo, “soffre tutta la Sezione italiana”. Nello stand, della misura di 10 x 5 metri, sono esposti campioni di cavi di ogni sorta, isolati in guttaperca, in materie tessili, in caoutchouc vulcanizzato, per telegrafi, telefoni, luce elettrica, trasporto di energia a distanza. E poi, i cavi sottomarini – con l’esposizione, in una teca in cristallo, del modellino della nave posa cavi “Città di Milano” –  e i cavi sotterranei, tra cui un cavo di tipo speciale, per il trasporto di energia a 2500 volt, in grado di illuminare 500 lampade disposte su un quadro all’interno dello stand, dimostrando la capacità dei cavi Pirelli di trasportare l’energia elettrica ad altissime tensioni. La Pirelli e la Franco Tosi, azienda metalmeccanica presente in mostra con tre motrici a vapore di 1200 cavalli per centrali elettriche, si aggiudicano il Grand Prix conferito dall’Esposizione.

Nel 1904 la Pirelli partecipa all’Esposizione internazionale della Lousiana, la “Louisiana Purchaise”, con la supervisione diretta di Piero Pirelli, recatosi negli Stati Uniti anche per osservare l’industria americana e stipulare nuovi accordi commerciali e di fornitura. Qui lo spazio a disposizione è molto più ampio, come sottolinea il capo dipartimento elettricità dell’Expo, nella lettera, datata 11 maggio 1903, con cui invita la Pirelli a partecipare: la presenta come un’occasione da non perdere, per lo spazio disponibile, molto più ampio delle fiere organizzate sino a quel momento (500 ettari), per la partecipazione  di espositori da tutta Europa ma anche da America latina, Canada, Cina e Giappone e la possibilità dunque di entrare in contatto con i rappresentanti di questi paesi nonchè con quelli degli Stati Uniti.

Nello stand di Saint Louis la Pirelli fa una larga mostra campionaria dei propri prodotti di caoutchouc (articoli tecnici, articoli sanitari e di merceria, giocattoli, palloni colorati e un vestito da palombaro) e di fili e cavi elettrici isolati e viene premiata con il “grand prix” nella sezione “manifatture” gruppo “industria della gomma elastica e della guttaperca” e con la medaglia d’oro nella sezione “elettricità” , gruppo “telegrafia e telefonia”. Il più alto riconoscimento, quest’ultimo, assegnato a un’industria di cavi elettrici tra quelle presenti, sia americane sia europee. Una medaglia d’oro dell’Esposizione viene conferita anche all’ingegner Emanuele Jona, che aveva partecipato al Congresso internazionale di elettrotecnica tenutosi in città dal 12 al 17 settembre 1904, presentando importanti novità nel campo dei cavi elettrici ad elevatissima tensione, che avevano provocato una grande eco nel campo dell’elettrotecnica internazionale. Come previsto, l’Esposizione è una buona occasione per intrecciare importanti relazioni in ambito professionale. Scrive infatti ai Pirelli l’ingegner Elvio Soleri, membro dell’Associazione Elettrotecnica Italiana, che “i signori Holmes brothers di Chicago desiderano entrare in rapporti con voi per rappresentanza,  che la canadese  Compagnie Internationale d’Électricité desidera entrare immediatamente in corrispondenza” e che il rappresentante della Ontario Power Co ha lasciato il proprio biglietto da visita.

Una rete di relazioni con il mondo dell’industria che continua oggi, anche attraverso la partecipazione alle recenti fiere ed esposizioni di rilievo internazionale.

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Passaggi di mano d’impresa

Una ricerca del Politecnico di Milano studia cosa accade nella realtà

L’impresa che deve continuare oltre chi l’ha pensata e creata. Obiettivo comune a tutti gli imprenditori e manager avveduti, ma anche traguardo non facile da raggiungere. Anche tenendo conto della diversità delle condizioni che caratterizzano di volta in volta le imprese che sono protagoniste del passaggio da una mano all’altra. E traguardo che, poi, si complica quando il trasferimento di titolarità avviene nell’ambito di una stessa famiglia.

Per questo, oltre alla teoria, è importante comprendere la pratica che di volta in volta caratterizza le situazioni reali.

Ecco perché serve leggere “Family Business Succession: A Business Case Study on HEAT S.r.l.”, tesi di ricerca di Roberto Cortinovis discussa recentemente al Politecnico di Milano.

Obiettivo dichiarato dell’indagine, spiega l’autore, è quello di studiare quanto caratterizza “una successione in un’impresa familiare, tenendo conto delle figure coinvolte e dei principali punti da tenere in considerazione”. Cortinovis, quindi, entra subito nel cuore del problema: “Molte teorie hanno cercato di standardizzare le caratteristiche comuni che possono essere trovate nelle diverse aziende familiari, ma, a causa della loro eterogeneità, alcune considerazioni e ipotesi specifiche devono essere” verificate per ogni caso.

La ricerca prende prima in considerazione l’apparato teorico che consente una prima interpretazione della realtà e, poi, affronta un caso concreto con la HEAT S.r.l., piccola-media impresa italiana, fondata e gestita da Pierangelo: la figura  “che presto andrà in pensione”. L’azienda, viene quindi precisato, coinvolge tre proprietari, Pierangelo e i suoi due fratelli, e anche le loro famiglie, specialmente i loro figli, che dovrebbero essere la seconda generazione che continuerà l’attività nel corso degli anni.

Quello studiato da Cortinovis è, in altri termini, un tipico caso reale del sistema industriale italiano. Ed è per questo che la ricerca risulta essere interessante.

Family Business Succession: A Business Case Study on HEAT S.r.l.

Roberto Cortinovis

Tesi, Politecnico di Milano, Master of Management Engineering, 2022

Una ricerca del Politecnico di Milano studia cosa accade nella realtà

L’impresa che deve continuare oltre chi l’ha pensata e creata. Obiettivo comune a tutti gli imprenditori e manager avveduti, ma anche traguardo non facile da raggiungere. Anche tenendo conto della diversità delle condizioni che caratterizzano di volta in volta le imprese che sono protagoniste del passaggio da una mano all’altra. E traguardo che, poi, si complica quando il trasferimento di titolarità avviene nell’ambito di una stessa famiglia.

Per questo, oltre alla teoria, è importante comprendere la pratica che di volta in volta caratterizza le situazioni reali.

Ecco perché serve leggere “Family Business Succession: A Business Case Study on HEAT S.r.l.”, tesi di ricerca di Roberto Cortinovis discussa recentemente al Politecnico di Milano.

Obiettivo dichiarato dell’indagine, spiega l’autore, è quello di studiare quanto caratterizza “una successione in un’impresa familiare, tenendo conto delle figure coinvolte e dei principali punti da tenere in considerazione”. Cortinovis, quindi, entra subito nel cuore del problema: “Molte teorie hanno cercato di standardizzare le caratteristiche comuni che possono essere trovate nelle diverse aziende familiari, ma, a causa della loro eterogeneità, alcune considerazioni e ipotesi specifiche devono essere” verificate per ogni caso.

La ricerca prende prima in considerazione l’apparato teorico che consente una prima interpretazione della realtà e, poi, affronta un caso concreto con la HEAT S.r.l., piccola-media impresa italiana, fondata e gestita da Pierangelo: la figura  “che presto andrà in pensione”. L’azienda, viene quindi precisato, coinvolge tre proprietari, Pierangelo e i suoi due fratelli, e anche le loro famiglie, specialmente i loro figli, che dovrebbero essere la seconda generazione che continuerà l’attività nel corso degli anni.

Quello studiato da Cortinovis è, in altri termini, un tipico caso reale del sistema industriale italiano. Ed è per questo che la ricerca risulta essere interessante.

Family Business Succession: A Business Case Study on HEAT S.r.l.

Roberto Cortinovis

Tesi, Politecnico di Milano, Master of Management Engineering, 2022

L’avventura dell’impresa

Il saggio-romanzo sulla vita di Francesco Cirio fa capire meglio cosa significhi fare l’imprenditore

 

Imprese come avventure. Senza azzardo, s’intende, ma certamente con una buona dose di capacità di rischiare. Con avvedutezza, magari. E con la voglia di riuscire, a tutti i costi. Storie che nessun manuale di buona gestione e di management  riuscirebbe a sintetizzare. Storie che negli anni si ripetono, tutte diverse eppure tutte unite da un filo rosso. Storie che a leggerle fanno imparare molto. Anche se magari appaiono (e ogni tanto sono) un po’ romanzate.

E’ il caso di “Che il mondo ti somigli”, libro appena pubblicato ispirato alla vita di Francesco Cirio, fondatore dell’omonima azienda: un piemontese di origini umili il cui racconto è quello di un giovane alla ricerca di riscatto per sé e la sua famiglia, in un’Italia di metà ottocento dominata dalle divisioni sociali.

Scritto a quattro mani da Allegra Groppelli e Beba Slijepcevic il libro si snoda in un continuo gioco di rimando tra la fine della vita di Cirio e le tappe del suo cammino imprenditoriale: la partenza dalla campagna, l’arrivo in città (a Torino), i primi lavori, la scoperta di un metodo nuovo di conservazione degli alimenti, la crescita di un’azienda che presto diventerà famosa in tutto il mondo di allora. Vita in salita, ma vita di successo non priva, comunque, di dolori e problemi. “Gli piaceva il profumo che gli lasciava addosso un mestiere ben fatto”, scrivono le due autrici di Cirio ad un certo punto del libro. Che si legge davvero come un romanzo (e che dichiara di esserlo all’inizio), ma che riflette i tratti essenziali reali della azienda Cirio arrivata fino ad oggi.

Scritto con mani esperte nelle sceneggiature, il libro si fa leggere tutto e a tratti pare davvero frutto d’invenzione (che d’altra parte viene anche ammessa dalle autrici), ma rimane un libro utile da leggere per capire davvero di più e meglio di una delle aziende che (nel bene e nel male) hanno fatto la storia industriale del Paese.

“Sogni, fai, e poi un qualcosa si avvera. Se non ti risparmi, può anche superare le aspettative. Ma niente è tuo per sempre. Alla fine bisogna saper lasciare andare”, viene fatto dire al protagonista nelle ultime pagine della sua storia. E bello è uno degli ultimi passaggi del libro posto come sintesi del profilo di Francesco Cirio: “Un grande uomo, industriale, innovatore, commerciante, sognatore, che aveva accresciuto la ricchezza del Paese”. Innovatore e sognatore: come deve essere ogni imprenditore.

Che il mondo ti somigli. La saga di Francesco Cirio

Allegra Groppelli, Beba Slijepcevic

Sperling & Kupfer, 2022

Il saggio-romanzo sulla vita di Francesco Cirio fa capire meglio cosa significhi fare l’imprenditore

 

Imprese come avventure. Senza azzardo, s’intende, ma certamente con una buona dose di capacità di rischiare. Con avvedutezza, magari. E con la voglia di riuscire, a tutti i costi. Storie che nessun manuale di buona gestione e di management  riuscirebbe a sintetizzare. Storie che negli anni si ripetono, tutte diverse eppure tutte unite da un filo rosso. Storie che a leggerle fanno imparare molto. Anche se magari appaiono (e ogni tanto sono) un po’ romanzate.

E’ il caso di “Che il mondo ti somigli”, libro appena pubblicato ispirato alla vita di Francesco Cirio, fondatore dell’omonima azienda: un piemontese di origini umili il cui racconto è quello di un giovane alla ricerca di riscatto per sé e la sua famiglia, in un’Italia di metà ottocento dominata dalle divisioni sociali.

Scritto a quattro mani da Allegra Groppelli e Beba Slijepcevic il libro si snoda in un continuo gioco di rimando tra la fine della vita di Cirio e le tappe del suo cammino imprenditoriale: la partenza dalla campagna, l’arrivo in città (a Torino), i primi lavori, la scoperta di un metodo nuovo di conservazione degli alimenti, la crescita di un’azienda che presto diventerà famosa in tutto il mondo di allora. Vita in salita, ma vita di successo non priva, comunque, di dolori e problemi. “Gli piaceva il profumo che gli lasciava addosso un mestiere ben fatto”, scrivono le due autrici di Cirio ad un certo punto del libro. Che si legge davvero come un romanzo (e che dichiara di esserlo all’inizio), ma che riflette i tratti essenziali reali della azienda Cirio arrivata fino ad oggi.

Scritto con mani esperte nelle sceneggiature, il libro si fa leggere tutto e a tratti pare davvero frutto d’invenzione (che d’altra parte viene anche ammessa dalle autrici), ma rimane un libro utile da leggere per capire davvero di più e meglio di una delle aziende che (nel bene e nel male) hanno fatto la storia industriale del Paese.

“Sogni, fai, e poi un qualcosa si avvera. Se non ti risparmi, può anche superare le aspettative. Ma niente è tuo per sempre. Alla fine bisogna saper lasciare andare”, viene fatto dire al protagonista nelle ultime pagine della sua storia. E bello è uno degli ultimi passaggi del libro posto come sintesi del profilo di Francesco Cirio: “Un grande uomo, industriale, innovatore, commerciante, sognatore, che aveva accresciuto la ricchezza del Paese”. Innovatore e sognatore: come deve essere ogni imprenditore.

Che il mondo ti somigli. La saga di Francesco Cirio

Allegra Groppelli, Beba Slijepcevic

Sperling & Kupfer, 2022

Il violino di Accardo per il Canto della fabbrica: ecco la musica per raccontare l’industria digitale

Quale musica per raccontare la fabbrica? Ieri i “Quattro colpi di sirena” della Seconda Sinfonia di Dmitrij Shostakovich, scritta nel 1937 evocando l’industria dei primi del Novecento, acciaio, fumo, fatica pesante della produzione in serie. Poi, nella seconda metà del secolo, le composizioni di John Cage, Luciano Berio e Luigi Nono: rumori metallici, conflitti, dissonanze. E oggi? Il violino di Salvatore Accardo e gli archi dell’Orchestra da Camera Italiana per “Il Canto della fabbrica” che interpreta i ritmi della manifattura digitale degli anni Duemila, computer, robot e file dell’Intelligenza Artificiale. Tutta un’altra cultura d’impresa, un’altra idea della relazione tra macchine e persone che vi lavorano, tra industria e ambiente. Cambia, nel corso del tempo, la manifattura, nei rapidi mutamenti high-tech e del predominio dell’economia della conoscenza. Cambia radicalmente, appunto, anche la musica per raccontarla.

La fabbrica del Novecento aveva dato forma alla razionalità dominante nel secolo, applicata alle logiche della produzione e del consumo di massa, con tutto il carico dei conflitti e delle mediazioni per attenuarli. Ma quella razionalità ha avuto una cadenza storica. E oggi viviamo la trasformazione di gran parte delle regole e delle ricadute produttive, come conseguenza delle profonde innovazioni scientifiche e tecnologiche. Anche la razionalità economica cambia verso. La fabbrica digitale ne è metamorfosi, innovando produzioni e prodotti, materiali, mestieri e professioni, linguaggi, radicamenti sui territori e adattamenti ai mercati globali, con masse di consumatori sempre più ampie ma anche nicchie sempre più definite.

Neo-fabbriche o post-fabbriche? Manifatture, comunque, in cui l’innovazione è via via più rapida e sorprendente. Che musica, di tutto questo, può dunque interpretare l’anima? L’ispirazione, visto che di musica stiamo parlando, non può non essere ritrovata in una frase di Gustav Mahler: «La tradizione è salvaguardia del fuoco, non adorazione delle ceneri». Sintesi straordinaria di contemporaneità lungo il crinale sempre mobile di memoria e futuro.

La storia de “Il Canto della fabbrica”, un progetto della Fondazione Pirelli, comincia con un incontro. Tra gli ingegneri, i tecnici, gli operai specializzati di un’industria ad alta tecnologia digitale, e i musicisti di un’orchestra d’archi. Un confronto originale di linguaggi, competenze, visioni. Uno scambio aperto d’esperienze. Nasce così, nel corso degli ultimi mesi del 2017, quel Canto, un “ricercare” su quattro note che dà forma musicale ai ritmi e ai suoni di una delle più innovative strutture produttive, lo stabilimento Pirelli di Settimo Torinese, una “fabbrica bella” e cioè trasparente, inclusiva, sostenibile, luminosa, sicura e dunque più produttiva e competitiva, con la “Spina”, la struttura di servizi e di laboratori di ricerca, progettata da Renzo Piano, architetto particolarmente attento alla bellezza, all’ambiente (il corpo centrale è circondato da 400 alberi di ciliegio, “la fabbrica nel giardino dei ciliegi”, per usare una suggestiva evocazione letteraria) e, naturalmente, sensibilissimo alla musica e grande amico e ammiratore di Accardo.Quella “fabbrica bella” non è affatto un’operazione cosmetica. Ma è il risultato della scelta d’imprimere ancora una volta ai luoghi del lavoro produttivo il segno forte d’una grande operazione culturale, che interpreta il tempo e ne sottolinea i cambiamenti: un intervento economico ma anche una scelta civile, un’affermazione profonda di cultura d’impresa sostenibile. Cultura del fare bene. E del ben essere.

La musica de “Il Canto della fabbrica”, in questo processo, è un capitolo essenziale. Con una dimensione carica di convergenze e contrasti: il massimo dell’incorporeità, la musica, con le note che abitano nell’aria e nell’anima; e il massimo della materialità, la fabbrica: macchine, acciaio, gomma, peso, prodotto. Ma il contrasto è solo parziale. Perché una fabbrica non è soltanto in suoi macchinari. Ma le idee da cui nasce, le passioni da cui origina e che ispira, gli stati d’animo che ne accompagnano i ritmi, la creatività che ne segna l’evoluzione. Dalla materialità si torna nei territori dell’incorporeo, con un processo ancora più accentuato in tempi di fabbrica digital, di bit e data. E il linguaggio comune, tra musica e fabbrica, sta in un’altra dimensione del pensiero creativo e produttivo: la matematica.
L’autore del Canto è Francesco Fiore, uno dei maggiori musicisti italiani, che ha pensato la composizione per l’interpretazione di Salvatore Accardo e degli archi dell’Orchestra da Camera Italiana da lui diretta, con Laura Gorna primo violino. Musica nata dalla fabbrica, dunque. Ed eseguita in prima mondiale proprio là dov’era cominciata la sua concezione, nel Polo Industriale di Settimo, nel pomeriggio dell’8 settembre 2017, durante MiTo (il festival di musica tra Milano e Torino), davanti a un pubblico di un migliaio di persone (parecchi i dipendenti dello stabilimento e i loro familiari). La musica è tornata in fabbrica e da lì se ne va in giro, per i palcoscenici del mondo.

Adesso arriva a Trento, al Festival dell’Economia, la sera del 3 giugno. Non un evento, nella volatilità delle rappresentazioni culturali che affollano i calendari delle manifestazioni. Ma qualcosa di più: la forma d’un processo profondo di cambiamento che segna culture, comportamenti, relazioni. E racconto, una vera e propria nuova struttura narrativa, nella “leggerezza” calviniana della musica. Fabbrica globale, musica globale.
Qual è, ancora oggi, il senso di questo incontro?
Si parte, appunto, dalle considerazioni sulla straordinaria mutazione delle fabbriche ancora in corso, con Industry 4.0, in un’Italia che resta comunque il secondo paese manifatturiero europeo dopo la Germania. Cambiano gli apparati produttivi, le macchine diventano digitali, la meccanica si definisce da tempo «meccatronica» (l’elettronica, cioè, ne è sempre più componente essenziale). Robot. Computer. Relazioni web via via più fitte. Big data. Internet of things. Data science e data analysis. Tute blu che diventano camici bianchi. Tablet per guidare una confezionatrice o un tornio e coordinare tutte le fasi delle supply chain sino alla logistica e ai mercati. Mansioni che crescono per consapevolezza e qualità. Conoscenze che si sviluppano. Resta, insomma, l’attitudine italiana alla manifattura di qualità, ma con un’anima high-tech. Cambiano naturalmente pure il lavoro e le competenze delle persone.

La “fabbrica bella” ha un nuovo volto e una nuova cultura. Anche una sua musica. L’innovazione, in questa rappresentazione, coglie e sviluppa i ritmi del tempo. Suggerisce suoni.
Eccolo, dunque, “Il canto della fabbrica”. Osservazione, ascolto, scoperta. E dialogo. Tra gli strumenti, le macchine (i mescolatori, le calandre, i robot Next Mirs) e i violini, i violoncelli e le viole. Tra i tecnici dell’industria e i musicisti. Ritmi da cui farsi ispirare e da rielaborare, e silenzi, come intervalli della produzione e “spazio interiore di risonanza della musica” (secondo la lezione innovativa d’un grande musicista, Salvatore Sciarrino). La produzione rivela inedite sonorità. La musica dell’Orchestra ne è un’originale interpretazione. Lavoro. Cultura e racconto musicale. Creatività frutto di ibridazione.
Innovazione e cambiamento, appunto. Vita. “Senza la musica la vita sarebbe un errore”, ama dire Accardo citando Friedrich Nietzsche.
Racconta il maestro Fiore, sottolineando i temi ispiratori: «Una fabbrica intesa come luogo dell’uomo che interviene nell’ambiente naturale per creare un suo spazio di lavoro, e dove il sapere e il lavoro comune devono trovare una sintesi in un prodotto finale: appunto, la musica. Il silenzioso balletto dei robot con i loro movimenti d’una grazia meccanica così estranea al gesto naturale dell’uomo. La coesistenza del vecchio e del nuovo, fatica umana e automi apparentemente impassibili e instancabili, antichi macchinari e computer di ultimissima generazione. Tutto questo ho cercato di riversare nel mio brano: come da un’idea o cellula primigenia (nel caso specifico le note mi-do-sol-do diesis) si possa, attraverso la trasformazione e l’elaborazione, creare qualcosa che non perda il contatto con l’elemento generante, ma segua le varie ramificazioni, a volte contraddittorie o contrastanti che un processo di sviluppo può portare”.

Musica e comunità. Ricorda Salvatore Accardo: “Con Francesco Fiore abbiamo passato quasi un anno a provare, sperimentare suoni e armonie. E abbiamo condiviso l’importanza del ‘fare con mano’, toccando la materia, in questo caso musicale, strumentale, plasmandola secondo le caratteristiche degli interpreti, rinnovando un sapere antico”.
“Fare con mano”, si dice anche del lavoro di fabbrica: manifattura. Ed è affascinante, insiste Accardo, “questa convergenza creativa tra musicisti e tecnici, uomini e donne di cultura musicale e ingegneri e operai. Il lavoro e il suono. Sintesi di profonda emozione”.

Quale musica per raccontare la fabbrica? Ieri i “Quattro colpi di sirena” della Seconda Sinfonia di Dmitrij Shostakovich, scritta nel 1937 evocando l’industria dei primi del Novecento, acciaio, fumo, fatica pesante della produzione in serie. Poi, nella seconda metà del secolo, le composizioni di John Cage, Luciano Berio e Luigi Nono: rumori metallici, conflitti, dissonanze. E oggi? Il violino di Salvatore Accardo e gli archi dell’Orchestra da Camera Italiana per “Il Canto della fabbrica” che interpreta i ritmi della manifattura digitale degli anni Duemila, computer, robot e file dell’Intelligenza Artificiale. Tutta un’altra cultura d’impresa, un’altra idea della relazione tra macchine e persone che vi lavorano, tra industria e ambiente. Cambia, nel corso del tempo, la manifattura, nei rapidi mutamenti high-tech e del predominio dell’economia della conoscenza. Cambia radicalmente, appunto, anche la musica per raccontarla.

La fabbrica del Novecento aveva dato forma alla razionalità dominante nel secolo, applicata alle logiche della produzione e del consumo di massa, con tutto il carico dei conflitti e delle mediazioni per attenuarli. Ma quella razionalità ha avuto una cadenza storica. E oggi viviamo la trasformazione di gran parte delle regole e delle ricadute produttive, come conseguenza delle profonde innovazioni scientifiche e tecnologiche. Anche la razionalità economica cambia verso. La fabbrica digitale ne è metamorfosi, innovando produzioni e prodotti, materiali, mestieri e professioni, linguaggi, radicamenti sui territori e adattamenti ai mercati globali, con masse di consumatori sempre più ampie ma anche nicchie sempre più definite.

Neo-fabbriche o post-fabbriche? Manifatture, comunque, in cui l’innovazione è via via più rapida e sorprendente. Che musica, di tutto questo, può dunque interpretare l’anima? L’ispirazione, visto che di musica stiamo parlando, non può non essere ritrovata in una frase di Gustav Mahler: «La tradizione è salvaguardia del fuoco, non adorazione delle ceneri». Sintesi straordinaria di contemporaneità lungo il crinale sempre mobile di memoria e futuro.

La storia de “Il Canto della fabbrica”, un progetto della Fondazione Pirelli, comincia con un incontro. Tra gli ingegneri, i tecnici, gli operai specializzati di un’industria ad alta tecnologia digitale, e i musicisti di un’orchestra d’archi. Un confronto originale di linguaggi, competenze, visioni. Uno scambio aperto d’esperienze. Nasce così, nel corso degli ultimi mesi del 2017, quel Canto, un “ricercare” su quattro note che dà forma musicale ai ritmi e ai suoni di una delle più innovative strutture produttive, lo stabilimento Pirelli di Settimo Torinese, una “fabbrica bella” e cioè trasparente, inclusiva, sostenibile, luminosa, sicura e dunque più produttiva e competitiva, con la “Spina”, la struttura di servizi e di laboratori di ricerca, progettata da Renzo Piano, architetto particolarmente attento alla bellezza, all’ambiente (il corpo centrale è circondato da 400 alberi di ciliegio, “la fabbrica nel giardino dei ciliegi”, per usare una suggestiva evocazione letteraria) e, naturalmente, sensibilissimo alla musica e grande amico e ammiratore di Accardo.Quella “fabbrica bella” non è affatto un’operazione cosmetica. Ma è il risultato della scelta d’imprimere ancora una volta ai luoghi del lavoro produttivo il segno forte d’una grande operazione culturale, che interpreta il tempo e ne sottolinea i cambiamenti: un intervento economico ma anche una scelta civile, un’affermazione profonda di cultura d’impresa sostenibile. Cultura del fare bene. E del ben essere.

La musica de “Il Canto della fabbrica”, in questo processo, è un capitolo essenziale. Con una dimensione carica di convergenze e contrasti: il massimo dell’incorporeità, la musica, con le note che abitano nell’aria e nell’anima; e il massimo della materialità, la fabbrica: macchine, acciaio, gomma, peso, prodotto. Ma il contrasto è solo parziale. Perché una fabbrica non è soltanto in suoi macchinari. Ma le idee da cui nasce, le passioni da cui origina e che ispira, gli stati d’animo che ne accompagnano i ritmi, la creatività che ne segna l’evoluzione. Dalla materialità si torna nei territori dell’incorporeo, con un processo ancora più accentuato in tempi di fabbrica digital, di bit e data. E il linguaggio comune, tra musica e fabbrica, sta in un’altra dimensione del pensiero creativo e produttivo: la matematica.
L’autore del Canto è Francesco Fiore, uno dei maggiori musicisti italiani, che ha pensato la composizione per l’interpretazione di Salvatore Accardo e degli archi dell’Orchestra da Camera Italiana da lui diretta, con Laura Gorna primo violino. Musica nata dalla fabbrica, dunque. Ed eseguita in prima mondiale proprio là dov’era cominciata la sua concezione, nel Polo Industriale di Settimo, nel pomeriggio dell’8 settembre 2017, durante MiTo (il festival di musica tra Milano e Torino), davanti a un pubblico di un migliaio di persone (parecchi i dipendenti dello stabilimento e i loro familiari). La musica è tornata in fabbrica e da lì se ne va in giro, per i palcoscenici del mondo.

Adesso arriva a Trento, al Festival dell’Economia, la sera del 3 giugno. Non un evento, nella volatilità delle rappresentazioni culturali che affollano i calendari delle manifestazioni. Ma qualcosa di più: la forma d’un processo profondo di cambiamento che segna culture, comportamenti, relazioni. E racconto, una vera e propria nuova struttura narrativa, nella “leggerezza” calviniana della musica. Fabbrica globale, musica globale.
Qual è, ancora oggi, il senso di questo incontro?
Si parte, appunto, dalle considerazioni sulla straordinaria mutazione delle fabbriche ancora in corso, con Industry 4.0, in un’Italia che resta comunque il secondo paese manifatturiero europeo dopo la Germania. Cambiano gli apparati produttivi, le macchine diventano digitali, la meccanica si definisce da tempo «meccatronica» (l’elettronica, cioè, ne è sempre più componente essenziale). Robot. Computer. Relazioni web via via più fitte. Big data. Internet of things. Data science e data analysis. Tute blu che diventano camici bianchi. Tablet per guidare una confezionatrice o un tornio e coordinare tutte le fasi delle supply chain sino alla logistica e ai mercati. Mansioni che crescono per consapevolezza e qualità. Conoscenze che si sviluppano. Resta, insomma, l’attitudine italiana alla manifattura di qualità, ma con un’anima high-tech. Cambiano naturalmente pure il lavoro e le competenze delle persone.

La “fabbrica bella” ha un nuovo volto e una nuova cultura. Anche una sua musica. L’innovazione, in questa rappresentazione, coglie e sviluppa i ritmi del tempo. Suggerisce suoni.
Eccolo, dunque, “Il canto della fabbrica”. Osservazione, ascolto, scoperta. E dialogo. Tra gli strumenti, le macchine (i mescolatori, le calandre, i robot Next Mirs) e i violini, i violoncelli e le viole. Tra i tecnici dell’industria e i musicisti. Ritmi da cui farsi ispirare e da rielaborare, e silenzi, come intervalli della produzione e “spazio interiore di risonanza della musica” (secondo la lezione innovativa d’un grande musicista, Salvatore Sciarrino). La produzione rivela inedite sonorità. La musica dell’Orchestra ne è un’originale interpretazione. Lavoro. Cultura e racconto musicale. Creatività frutto di ibridazione.
Innovazione e cambiamento, appunto. Vita. “Senza la musica la vita sarebbe un errore”, ama dire Accardo citando Friedrich Nietzsche.
Racconta il maestro Fiore, sottolineando i temi ispiratori: «Una fabbrica intesa come luogo dell’uomo che interviene nell’ambiente naturale per creare un suo spazio di lavoro, e dove il sapere e il lavoro comune devono trovare una sintesi in un prodotto finale: appunto, la musica. Il silenzioso balletto dei robot con i loro movimenti d’una grazia meccanica così estranea al gesto naturale dell’uomo. La coesistenza del vecchio e del nuovo, fatica umana e automi apparentemente impassibili e instancabili, antichi macchinari e computer di ultimissima generazione. Tutto questo ho cercato di riversare nel mio brano: come da un’idea o cellula primigenia (nel caso specifico le note mi-do-sol-do diesis) si possa, attraverso la trasformazione e l’elaborazione, creare qualcosa che non perda il contatto con l’elemento generante, ma segua le varie ramificazioni, a volte contraddittorie o contrastanti che un processo di sviluppo può portare”.

Musica e comunità. Ricorda Salvatore Accardo: “Con Francesco Fiore abbiamo passato quasi un anno a provare, sperimentare suoni e armonie. E abbiamo condiviso l’importanza del ‘fare con mano’, toccando la materia, in questo caso musicale, strumentale, plasmandola secondo le caratteristiche degli interpreti, rinnovando un sapere antico”.
“Fare con mano”, si dice anche del lavoro di fabbrica: manifattura. Ed è affascinante, insiste Accardo, “questa convergenza creativa tra musicisti e tecnici, uomini e donne di cultura musicale e ingegneri e operai. Il lavoro e il suono. Sintesi di profonda emozione”.

Fondazione Pirelli al Festival dell’Economia di Trento 2022

La Fondazione Pirelli parteciperà al Festival dell’Economia di Trento 2022, organizzato dalla Provincia autonoma di Trento e dal Gruppo 24 ORE in collaborazione con l’Università di Trento e il Comune di Trento, con due appuntamenti legati alla valorizzazione della cultura d’impresa aziendale.

Il 3 giugno alle ore 17.00, presso la Biblioteca Comunale della città, Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli – insieme a Paolo Bricco, inviato de Il Sole 24 Ore, presenterà il libro “Una storia al futuro. Pirelli, 150 anni di industria, innovazione, cultura”. Il nuovo volume, curato da Fondazione Pirelli ed edito da Marsilio, è un racconto a più voci delle principali innovazioni tecnologiche di Pirelli dalla fondazione dell’azienda, nel 1872, fino ai giorni nostri.

Alle ore 19 e 30 si proseguirà con il concerto “Il Canto della Fabbrica” presso la Filarmonica, dove Il Maestro Salvatore Accardo, direttore e violino solista, insieme all’Orchestra da Camera Italiana, eseguiranno il Concerto per pianoforte no. 1 di J.S. Bach – con Gile Bae come pianista solista – e il Quartetto in mi minore di Giuseppe Verdi. Fulcro del programma musicale della serata sarà Il Canto della Fabbrica, il brano musicale ispirato ai ritmi della fabbrica digitale Pirelli di Settimo Torinese. Commissionato dalla Fondazione Pirelli nel 2017 al compositore Francesco Fiore per il violino del Maestro Accardo, è un tentativo di rappresentazione in musica della fabbrica contemporanea – bella e cioè ben progettata, luminosa, sicura, sostenibile – e delle sue più recenti trasformazioni.

Proprio oggi e domani, 1 e 2 giugno 2022, le note de “Il Canto della Fabbrica” risuoneranno anche all’interno dell’Auditorium dell’Headquarters Pirelli a Milano dove il Maestro Salvatore Accardo, il primo violino Laura Gorna e gli orchestrali sono ospiti per le prove del concerto.

La Fondazione Pirelli parteciperà al Festival dell’Economia di Trento 2022, organizzato dalla Provincia autonoma di Trento e dal Gruppo 24 ORE in collaborazione con l’Università di Trento e il Comune di Trento, con due appuntamenti legati alla valorizzazione della cultura d’impresa aziendale.

Il 3 giugno alle ore 17.00, presso la Biblioteca Comunale della città, Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli – insieme a Paolo Bricco, inviato de Il Sole 24 Ore, presenterà il libro “Una storia al futuro. Pirelli, 150 anni di industria, innovazione, cultura”. Il nuovo volume, curato da Fondazione Pirelli ed edito da Marsilio, è un racconto a più voci delle principali innovazioni tecnologiche di Pirelli dalla fondazione dell’azienda, nel 1872, fino ai giorni nostri.

Alle ore 19 e 30 si proseguirà con il concerto “Il Canto della Fabbrica” presso la Filarmonica, dove Il Maestro Salvatore Accardo, direttore e violino solista, insieme all’Orchestra da Camera Italiana, eseguiranno il Concerto per pianoforte no. 1 di J.S. Bach – con Gile Bae come pianista solista – e il Quartetto in mi minore di Giuseppe Verdi. Fulcro del programma musicale della serata sarà Il Canto della Fabbrica, il brano musicale ispirato ai ritmi della fabbrica digitale Pirelli di Settimo Torinese. Commissionato dalla Fondazione Pirelli nel 2017 al compositore Francesco Fiore per il violino del Maestro Accardo, è un tentativo di rappresentazione in musica della fabbrica contemporanea – bella e cioè ben progettata, luminosa, sicura, sostenibile – e delle sue più recenti trasformazioni.

Proprio oggi e domani, 1 e 2 giugno 2022, le note de “Il Canto della Fabbrica” risuoneranno anche all’interno dell’Auditorium dell’Headquarters Pirelli a Milano dove il Maestro Salvatore Accardo, il primo violino Laura Gorna e gli orchestrali sono ospiti per le prove del concerto.

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Prove 1 Giugno 2022 Headquarters Pirelli

Giovanni Battista Pirelli, ingegnere del caucciù

Premio Campiello: Annunciati i finalisti della 60a edizione

Oggi, venerdì 27 maggio è stata annunciata la cinquina finalista del Premio Campiello, il prestigioso premio letterario assegnato a opere di narrativa italiana istituito nel 1962 per volontà degli Industriali del Veneto e sostenuto anche quest’anno da Pirelli.

Nel corso della Cerimonia la Giuria dei Letterati ha votato gli oltre 300 libri ammessi al concorso dal Comitato Tecnico, scegliendo i cinque libri finalisti:

“Nova” di Fabio Bacà – Adelphi Editore

“La foglia di fico. Storie di alberi, donne, uomini” di Antonio Pascale – Einaudi Editore

“Stradario aggiornato di tutti i miei baci” di Daniela Ranieri – Ponte alle Grazie Editore

“Il tuffatore” di Elena Stancanelli – La nave di Teseo

“I miei stupidi intenti” di Bernardo Zannoni – Sellerio Editore

Nei prossimi mesi la Giuria dei Trecento Lettori leggerà i cinque testi, scegliendo tra loro il vincitore che verrà proclamato a Venezia il 3 settembre 2022.

Durante la Cerimonia di Selezione è stato inoltre annunciato il vincitore del Premio Campiello Opera Prima, riconoscimento attribuito dal 2004 ad un autore al suo esordio letterario. A vincere l’ambito premio è stato , “Altro nulla da dichiarare” di Francesca Valente (Einaudi Editore)

Per rivedere la Cerimonia di Selezione clicca qui.

Oggi, venerdì 27 maggio è stata annunciata la cinquina finalista del Premio Campiello, il prestigioso premio letterario assegnato a opere di narrativa italiana istituito nel 1962 per volontà degli Industriali del Veneto e sostenuto anche quest’anno da Pirelli.

Nel corso della Cerimonia la Giuria dei Letterati ha votato gli oltre 300 libri ammessi al concorso dal Comitato Tecnico, scegliendo i cinque libri finalisti:

“Nova” di Fabio Bacà – Adelphi Editore

“La foglia di fico. Storie di alberi, donne, uomini” di Antonio Pascale – Einaudi Editore

“Stradario aggiornato di tutti i miei baci” di Daniela Ranieri – Ponte alle Grazie Editore

“Il tuffatore” di Elena Stancanelli – La nave di Teseo

“I miei stupidi intenti” di Bernardo Zannoni – Sellerio Editore

Nei prossimi mesi la Giuria dei Trecento Lettori leggerà i cinque testi, scegliendo tra loro il vincitore che verrà proclamato a Venezia il 3 settembre 2022.

Durante la Cerimonia di Selezione è stato inoltre annunciato il vincitore del Premio Campiello Opera Prima, riconoscimento attribuito dal 2004 ad un autore al suo esordio letterario. A vincere l’ambito premio è stato , “Altro nulla da dichiarare” di Francesca Valente (Einaudi Editore)

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