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Cultura d’impresa, il primato veneto e la competitività nello scenario Ue

Quattro città insieme, per fare da “capitale della cultura d’impresa” nel 2022. Quattro territori tra i più produttivi e competitivi in Italia e, perché no? in Europa, una “area vasta” ricca di manifatture e servizi, per raccontare storie industriali e parlare, con lo sguardo rivolto al futuro, delle dimensioni specifiche dell’intraprendenza e cioè la creatività, l’innovazione, la competitività, la crescita. Padova e Treviso, Venezia e Rovigo hanno vinto la gara per fare quest’anno da punto di riferimento della cultura d’impresa, dando così seguito a un’iniziativa lanciata alcuni anni fa da Confindustria (le capitali precedenti sono state Genova e Alba). La cerimonia di apertura è stata celebrata il 5 aprile in un affollato Teatro Goldoni a Venezia. E ci si prepara a 80 iniziative, nei prossimi mesi, per ragionare, tra imprenditori, responsabili delle istituzioni, attori politici e sociali, personalità della cultura, di come fare vivere e valorizzare, anche in tempi così difficili di crisi e tensioni geopolitiche, l’attitudine italiana a “fare, fare bene e fare del bene”.

Di cosa parliamo, infatti, quando diciamo “cultura d’impresa”? Di un aspetto della cultura più generale che sa legare, in modo originale, saperi umanistici e conoscenze scientifiche, progetti e prodotti, industria e servizi, passioni delle persone e sofisticate tecnologie. E, ancora, memoria di un’antica sapienza manifatturiera e sguardo lungo verso il futuro dell’economia sostenibile. Una cultura politecnica, per dirla in sintesi. E un racconto “degli italiani abituati, fin dal Medio Evo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”, per usare, ancora una volta, la brillantissima sintesi di Carlo Maria Cipolla, grande storico dell’economia.

Cultura – s’è detto dal palcoscenico del Teatro Goldoni di Venezia – è, naturalmente, letteratura, musica, pittura e scultura, cinema e fotografia, tutte le forme molteplici della rappresentazione (che dovrebbe stabilire relazioni fertili pure con il mondo dell’impresa e del lavoro). Ma cultura è anche scienza, matematica, fisica, un brevetto industriale e una formula chimica che cambia industria e consumi oltre che qualità della vita (come quella del polipropilene con cui Giulio Natta vince nel 1963 il Nobel per la chimica). Cultura è un contratto di lavoro che definisce le relazioni di potere e di lavoro tra i soggetti che fanno vivere un’impresa. Cultura, un bilancio e un budget. Cultura, i linguaggi innovativi digitali del marketing, della pubblicità e della comunicazione. Cultura, il design che dagli anni Cinquanta a oggi, legando bellezza a funzionalità, ha fatto da cardine dello sviluppo industriale e delle competitività internazionale dell’impresa italiana. I musei e gli archivi riuniti in Museimpresa ne offrono, da vent’anni, straordinarie testimonianze.

E cultura, naturalmente, è anche l’architettura industriale che connota le fabbriche Olivetti a Ivrea e Pozzuoli e i luoghi del lavoro Pirelli, dal Grattacielo progettato da Gio Ponti alla ristrutturazione della Bicocca firmata da Vittorio Gregotti (dalla fabbrica industriale di pneumatici e cavi all’attuale “fabbrica del sapere” dell’università) sino alla “fabbrica bella” firmata da Renzo Piano per il Polo Industriale di Settimo Torinese, luminosa, trasparente, sicura e sostenibile, tra quattrocento alberi di ciliegio. Una cultura trasformativa riassumibile nella sintesi dell’ “umanesimo industriale” che oggi si aggiorna in “umanesimo digitale”. E nei tentativi di ricomposizione delle antinomie novecentesche tra Kultur e Zivilization, la “cultura alta” e le tecnologie e i saperi della vita quotidiana.

Le fabbriche o, meglio ancora, le neo-fabbriche digitali ne sono luoghi esemplari. Nella stagione contemporanea dell’economia della conoscenza e dell’Intelligenza Artificiale, infatti, è indispensabile lavorare a nuove sintesi intellettuali, all’incrocio tra le molteplicità delle conoscenze e delle competenze. Pensare a relazioni multidisciplinari tra ingegneria e filosofia, matematica e sociologia, economia e neuroscienze, giurisprudenza e meccatronica, proprio per fare fronte alla complessità che segna il nostro tempo controverso e inquieto.
Per capire meglio il senso delle relazioni politecniche, basta prendere in mano “Il sistema periodico” di Primo Levi e leggere: “Il sistema periodico di Mendeleev, che imparavamo laboriosamente a dipanare, era una poesia, la più alta e più solenne di tutte le poesie digerite al liceo”. Levi, un chimico industriale. E, contemporaneamente, uno straordinario poeta, uno dei principali protagonisti della letteratura del Novecento.

Sono proprio tutte queste dimensioni della cultura d’impresa a fare da possibile leva di crescita delle nostre imprese nel nuovo contesto competitivo, reso molto più difficile e conflittuale dagli eventi drammatici che stiamo vivendo, dalle conseguenze del Climate change alla pandemia da Covid 19 e alla recessione e, adesso, dalle drammatiche evoluzioni della guerra in Ucraina e della crisi dei tradizionali meccanismi di potere e di scambio.
Si ricompongono le catene del valore, in una nuova dimensione di “ri-globalizzazione selettiva”. Si definiscono relazioni competitive nuove, man mano che si intensificano i fenomeni di backshoring o reshoring, il ritorno delle strutture produttive industriali nei paesi d’origine, con l’Europa come rinnovata piattaforma manifatturiera. E proprio la presa di coscienza della Ue sulla necessità di una propria autonomia strategica (per non essere schiacciata dai conflitti delle superpotenze) chiede una serie di scelte politiche su sicurezza, energia e tecnologia che spingono con urgenza non solo verso un cambio di paradigma delle relazioni politiche e dello sviluppo economico e sociale ma anche verso nuove e migliori scelte di politica industriale e sociale.

Proprio in questo contesto di rilettura critica del catalogo delle idee che hanno guidato le recenti stagioni della globalizzazione e dell’economia digitale e di scrittura di nuove mappe della conoscenza, della produzione e dei consumi, la cultura d’impresa italiana (memoria e innovazione, design e sostenibilità ambientale e sociale, attenzione alle persone e flessibile e sofisticata Intelligenza Artificiale) ha un valore straordinario per la crescita dell’economia circolare e civile e per rilanciare il ruolo dell’Italia nel contesto competitivo europeo.
Le nostre imprese – s’è detto a Venezia, parlando del “nuovo triangolo industriale” Lombardia-Veneto ed Emilia – hanno in sé risorse essenziali: la forza innovativa d’un dinamico capitale sociale e la profondità d’una cultura plasmata dall’umanesimo industriale che ha contraddistinto la nostra storia economica. E può ben continuare a fare futuro.

(foto Getty Images)

Quattro città insieme, per fare da “capitale della cultura d’impresa” nel 2022. Quattro territori tra i più produttivi e competitivi in Italia e, perché no? in Europa, una “area vasta” ricca di manifatture e servizi, per raccontare storie industriali e parlare, con lo sguardo rivolto al futuro, delle dimensioni specifiche dell’intraprendenza e cioè la creatività, l’innovazione, la competitività, la crescita. Padova e Treviso, Venezia e Rovigo hanno vinto la gara per fare quest’anno da punto di riferimento della cultura d’impresa, dando così seguito a un’iniziativa lanciata alcuni anni fa da Confindustria (le capitali precedenti sono state Genova e Alba). La cerimonia di apertura è stata celebrata il 5 aprile in un affollato Teatro Goldoni a Venezia. E ci si prepara a 80 iniziative, nei prossimi mesi, per ragionare, tra imprenditori, responsabili delle istituzioni, attori politici e sociali, personalità della cultura, di come fare vivere e valorizzare, anche in tempi così difficili di crisi e tensioni geopolitiche, l’attitudine italiana a “fare, fare bene e fare del bene”.

Di cosa parliamo, infatti, quando diciamo “cultura d’impresa”? Di un aspetto della cultura più generale che sa legare, in modo originale, saperi umanistici e conoscenze scientifiche, progetti e prodotti, industria e servizi, passioni delle persone e sofisticate tecnologie. E, ancora, memoria di un’antica sapienza manifatturiera e sguardo lungo verso il futuro dell’economia sostenibile. Una cultura politecnica, per dirla in sintesi. E un racconto “degli italiani abituati, fin dal Medio Evo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”, per usare, ancora una volta, la brillantissima sintesi di Carlo Maria Cipolla, grande storico dell’economia.

Cultura – s’è detto dal palcoscenico del Teatro Goldoni di Venezia – è, naturalmente, letteratura, musica, pittura e scultura, cinema e fotografia, tutte le forme molteplici della rappresentazione (che dovrebbe stabilire relazioni fertili pure con il mondo dell’impresa e del lavoro). Ma cultura è anche scienza, matematica, fisica, un brevetto industriale e una formula chimica che cambia industria e consumi oltre che qualità della vita (come quella del polipropilene con cui Giulio Natta vince nel 1963 il Nobel per la chimica). Cultura è un contratto di lavoro che definisce le relazioni di potere e di lavoro tra i soggetti che fanno vivere un’impresa. Cultura, un bilancio e un budget. Cultura, i linguaggi innovativi digitali del marketing, della pubblicità e della comunicazione. Cultura, il design che dagli anni Cinquanta a oggi, legando bellezza a funzionalità, ha fatto da cardine dello sviluppo industriale e delle competitività internazionale dell’impresa italiana. I musei e gli archivi riuniti in Museimpresa ne offrono, da vent’anni, straordinarie testimonianze.

E cultura, naturalmente, è anche l’architettura industriale che connota le fabbriche Olivetti a Ivrea e Pozzuoli e i luoghi del lavoro Pirelli, dal Grattacielo progettato da Gio Ponti alla ristrutturazione della Bicocca firmata da Vittorio Gregotti (dalla fabbrica industriale di pneumatici e cavi all’attuale “fabbrica del sapere” dell’università) sino alla “fabbrica bella” firmata da Renzo Piano per il Polo Industriale di Settimo Torinese, luminosa, trasparente, sicura e sostenibile, tra quattrocento alberi di ciliegio. Una cultura trasformativa riassumibile nella sintesi dell’ “umanesimo industriale” che oggi si aggiorna in “umanesimo digitale”. E nei tentativi di ricomposizione delle antinomie novecentesche tra Kultur e Zivilization, la “cultura alta” e le tecnologie e i saperi della vita quotidiana.

Le fabbriche o, meglio ancora, le neo-fabbriche digitali ne sono luoghi esemplari. Nella stagione contemporanea dell’economia della conoscenza e dell’Intelligenza Artificiale, infatti, è indispensabile lavorare a nuove sintesi intellettuali, all’incrocio tra le molteplicità delle conoscenze e delle competenze. Pensare a relazioni multidisciplinari tra ingegneria e filosofia, matematica e sociologia, economia e neuroscienze, giurisprudenza e meccatronica, proprio per fare fronte alla complessità che segna il nostro tempo controverso e inquieto.
Per capire meglio il senso delle relazioni politecniche, basta prendere in mano “Il sistema periodico” di Primo Levi e leggere: “Il sistema periodico di Mendeleev, che imparavamo laboriosamente a dipanare, era una poesia, la più alta e più solenne di tutte le poesie digerite al liceo”. Levi, un chimico industriale. E, contemporaneamente, uno straordinario poeta, uno dei principali protagonisti della letteratura del Novecento.

Sono proprio tutte queste dimensioni della cultura d’impresa a fare da possibile leva di crescita delle nostre imprese nel nuovo contesto competitivo, reso molto più difficile e conflittuale dagli eventi drammatici che stiamo vivendo, dalle conseguenze del Climate change alla pandemia da Covid 19 e alla recessione e, adesso, dalle drammatiche evoluzioni della guerra in Ucraina e della crisi dei tradizionali meccanismi di potere e di scambio.
Si ricompongono le catene del valore, in una nuova dimensione di “ri-globalizzazione selettiva”. Si definiscono relazioni competitive nuove, man mano che si intensificano i fenomeni di backshoring o reshoring, il ritorno delle strutture produttive industriali nei paesi d’origine, con l’Europa come rinnovata piattaforma manifatturiera. E proprio la presa di coscienza della Ue sulla necessità di una propria autonomia strategica (per non essere schiacciata dai conflitti delle superpotenze) chiede una serie di scelte politiche su sicurezza, energia e tecnologia che spingono con urgenza non solo verso un cambio di paradigma delle relazioni politiche e dello sviluppo economico e sociale ma anche verso nuove e migliori scelte di politica industriale e sociale.

Proprio in questo contesto di rilettura critica del catalogo delle idee che hanno guidato le recenti stagioni della globalizzazione e dell’economia digitale e di scrittura di nuove mappe della conoscenza, della produzione e dei consumi, la cultura d’impresa italiana (memoria e innovazione, design e sostenibilità ambientale e sociale, attenzione alle persone e flessibile e sofisticata Intelligenza Artificiale) ha un valore straordinario per la crescita dell’economia circolare e civile e per rilanciare il ruolo dell’Italia nel contesto competitivo europeo.
Le nostre imprese – s’è detto a Venezia, parlando del “nuovo triangolo industriale” Lombardia-Veneto ed Emilia – hanno in sé risorse essenziali: la forza innovativa d’un dinamico capitale sociale e la profondità d’una cultura plasmata dall’umanesimo industriale che ha contraddistinto la nostra storia economica. E può ben continuare a fare futuro.

(foto Getty Images)

Plinio Codognato, grande autore di manifesti per la pubblicità Pirelli

Nato il 13 aprile 1878 a Verona, Plinio Codognato realizza alcuni tra i più famosi manifesti pubblicitari del primo Novecento per aziende del settore automobilistico e ciclistico, come Atala, Fiat, OM e Pirelli, ma non solo.  Formatosi all’Accadema delle Belle Arti di Verona, diretta da Mosè Bianchi, si dedica fin da subito alla grafica pubblicitaria e nel 1906 è tra i partecipanti alla I Esposizione d’arte nella pubblicità presso l’Esposizione internazionale del Sempione, a Milano. Dopo un primo periodo di attività a Verona, dove realizza manifesti per la Fiera Cavalli e per le stagioni liriche dell’Arena, nel 1918 si trasferisce definitivamente nel capoluogo lombardo, e qui prende il via il periodo più fecondo della sua produzione, nonchè la collaborazione con importanti marchi industriali, in particolar modo la Fiat.

Già nel 1915 Codognato realizza una prima pubblicità per la Pirelli, destinata ad avere una grande fortuna. Così la descrive “L’impresa moderna” nel gennaio del 1916: “Un bel bambino in bicicletta, con le gambe larghe e il volto sorridente che pareva scendere per una china venendo incontro a chi lo osservava”. L’Italia è appena entrata in guerra e i colori del vestito del bambino sono quelli della bandiera nazionale. La pubblicità ha una notevole fortuna negli anni seguenti ed è riprodotta su diverse riviste, tra cui la “Rivista mensile del Touring Club Italiano” che la pubblica sulla copertina del numero di aprile del 1917, ma anche su targhe di metallo, agende e bolli chiudi lettera.

Quasi un’istantanea di un bambino in bicicletta su una discesa, che nel 1952 il Servizio Propaganda della Pirelli decide di riproporre, bandendo un concorso tra i figli dei dipendenti, alla ricerca di un bambino che posi per il rifacimento della pubblicità “per ripetere, a 35 anni di distanza, lo stesso cartello a colori ma con un bambino dei nostri tempi”, recita l’annuncio sull’house organ “Fatti e Notizie”. In tutta la sua produzione Codognato resta fedele a uno stile classicheggiante, con figure mitologiche, centauri, fauni, aquile, associati a prodotti moderni quali automobili e biciclette, come nella pubblicità dei cicli Fiat gommati Pirelli, conservata presso la Collezione Salce di Treviso, alternato a uno stile più realistico e spiritoso, che si fa a tratti satirico e grottesco: ne è un esempio anche il manifesto dei cicli Ancora con gomme Pirelli, recente acquisizione del nostro Archivio Storico, che raffigura la maschera carnevalesca di Meneghino mentre imbraccia una bicicletta. Ancora attivo negli anni Trenta, durante i quali continua a realizzare, tra le altre, le pubblicità di veicoli gommati Pirelli, come il manifesto della Fiat Balilla conservato sempre a Treviso, Codognato muore a Milano nel 1940. Con la sua arte e il suo stile lascia un’eredità artistica senza tempo.

Nato il 13 aprile 1878 a Verona, Plinio Codognato realizza alcuni tra i più famosi manifesti pubblicitari del primo Novecento per aziende del settore automobilistico e ciclistico, come Atala, Fiat, OM e Pirelli, ma non solo.  Formatosi all’Accadema delle Belle Arti di Verona, diretta da Mosè Bianchi, si dedica fin da subito alla grafica pubblicitaria e nel 1906 è tra i partecipanti alla I Esposizione d’arte nella pubblicità presso l’Esposizione internazionale del Sempione, a Milano. Dopo un primo periodo di attività a Verona, dove realizza manifesti per la Fiera Cavalli e per le stagioni liriche dell’Arena, nel 1918 si trasferisce definitivamente nel capoluogo lombardo, e qui prende il via il periodo più fecondo della sua produzione, nonchè la collaborazione con importanti marchi industriali, in particolar modo la Fiat.

Già nel 1915 Codognato realizza una prima pubblicità per la Pirelli, destinata ad avere una grande fortuna. Così la descrive “L’impresa moderna” nel gennaio del 1916: “Un bel bambino in bicicletta, con le gambe larghe e il volto sorridente che pareva scendere per una china venendo incontro a chi lo osservava”. L’Italia è appena entrata in guerra e i colori del vestito del bambino sono quelli della bandiera nazionale. La pubblicità ha una notevole fortuna negli anni seguenti ed è riprodotta su diverse riviste, tra cui la “Rivista mensile del Touring Club Italiano” che la pubblica sulla copertina del numero di aprile del 1917, ma anche su targhe di metallo, agende e bolli chiudi lettera.

Quasi un’istantanea di un bambino in bicicletta su una discesa, che nel 1952 il Servizio Propaganda della Pirelli decide di riproporre, bandendo un concorso tra i figli dei dipendenti, alla ricerca di un bambino che posi per il rifacimento della pubblicità “per ripetere, a 35 anni di distanza, lo stesso cartello a colori ma con un bambino dei nostri tempi”, recita l’annuncio sull’house organ “Fatti e Notizie”. In tutta la sua produzione Codognato resta fedele a uno stile classicheggiante, con figure mitologiche, centauri, fauni, aquile, associati a prodotti moderni quali automobili e biciclette, come nella pubblicità dei cicli Fiat gommati Pirelli, conservata presso la Collezione Salce di Treviso, alternato a uno stile più realistico e spiritoso, che si fa a tratti satirico e grottesco: ne è un esempio anche il manifesto dei cicli Ancora con gomme Pirelli, recente acquisizione del nostro Archivio Storico, che raffigura la maschera carnevalesca di Meneghino mentre imbraccia una bicicletta. Ancora attivo negli anni Trenta, durante i quali continua a realizzare, tra le altre, le pubblicità di veicoli gommati Pirelli, come il manifesto della Fiat Balilla conservato sempre a Treviso, Codognato muore a Milano nel 1940. Con la sua arte e il suo stile lascia un’eredità artistica senza tempo.

La grafica e la tecnologia di Pirelli in mostra al Guggenheim Museum di Bilbao

Fondazione Pirelli partecipa alla mostra Motion. Autos, Art, Architecture, dall’8 aprile al 18 settembre 2022 al Guggenheim Museum di Bilbao. L’esposizione, curata da Lord Norman Foster, Manuel Cirauqui e Lekha Hileman Waitoller, celebra la dimensione artistica dell’automobile, ripercorrendone la storia in relazione ai campi della pittura, della scultura, del design, dell’architettura, della fotografia e del cinema.

Un vasto percorso espositivo che si snoda attraverso cinque tematiche principali, a guidare l’impostazione cronologica della mostra: Beginnings, Sculptures, Popularising, Sporting, Visionaries, Americana e Future. Circa 40 modelli di autovetture e oltre 300 opere tra dipinti, sculture di grandi artisti, fotografie e documenti audiovisivi, quaderni di schizzi, oltre ai modelli di alcuni dei più influenti architetti e designer del secolo scorso. Tra queste opere anche bozzetti originali di storiche pubblicità per pneumatici Pirelli, tutti datati tra gli anni Cinquanta e Sessanta e provenienti dalla Fondazione, che testimoniano l’alto livello qualitativo e innovativo raggiunto dall’azienda nel campo della comunicazione visiva. Le creazioni grafiche dei grandi maestri del design italiano e internazionale, come Pavel Micheal Engelmann, Alan Fletcher, Ezio Bonini, Armando Testa, solo per citarne alcuni, dialogano con le autovetture nella sala dedicata allo Sporting.

Qui si raccontano gli anni del Boom economico del dopoguerra e le nuove esigenze tecniche delle corse di Formula 1 che hanno portato le automobili a un notevole sviluppo tecnologico ed estetico, e a un successivo ampliamento del mercato delle auto sportive, nel cui design, per soddisfare la fantasia di velocità e avventura, convergono arte e moda. Le automobili sono ritratte come oggetti di culto da artisti come Andy Warhol e da scenografi come Ken Adam. Gli esempi più emblematici sono diventati immagini potenti sul grande schermo, emulando le celebrità delle  star di Hollywood. Anche Pirelli partecipa a queste profonde trasformazioni sociali e culturali e le opere grafiche del nostro Archivio Storico,  esposte in mostra accanto a una fotografia del Grattacielo Pirelli – primo headquarters dell’azienda, progettato dall’architetto Gio Ponti, mostrano l’importante ruolo culturale e tecnologico ricoperto in quegli anni dalla Pirelli.

Fondazione Pirelli partecipa alla mostra Motion. Autos, Art, Architecture, dall’8 aprile al 18 settembre 2022 al Guggenheim Museum di Bilbao. L’esposizione, curata da Lord Norman Foster, Manuel Cirauqui e Lekha Hileman Waitoller, celebra la dimensione artistica dell’automobile, ripercorrendone la storia in relazione ai campi della pittura, della scultura, del design, dell’architettura, della fotografia e del cinema.

Un vasto percorso espositivo che si snoda attraverso cinque tematiche principali, a guidare l’impostazione cronologica della mostra: Beginnings, Sculptures, Popularising, Sporting, Visionaries, Americana e Future. Circa 40 modelli di autovetture e oltre 300 opere tra dipinti, sculture di grandi artisti, fotografie e documenti audiovisivi, quaderni di schizzi, oltre ai modelli di alcuni dei più influenti architetti e designer del secolo scorso. Tra queste opere anche bozzetti originali di storiche pubblicità per pneumatici Pirelli, tutti datati tra gli anni Cinquanta e Sessanta e provenienti dalla Fondazione, che testimoniano l’alto livello qualitativo e innovativo raggiunto dall’azienda nel campo della comunicazione visiva. Le creazioni grafiche dei grandi maestri del design italiano e internazionale, come Pavel Micheal Engelmann, Alan Fletcher, Ezio Bonini, Armando Testa, solo per citarne alcuni, dialogano con le autovetture nella sala dedicata allo Sporting.

Qui si raccontano gli anni del Boom economico del dopoguerra e le nuove esigenze tecniche delle corse di Formula 1 che hanno portato le automobili a un notevole sviluppo tecnologico ed estetico, e a un successivo ampliamento del mercato delle auto sportive, nel cui design, per soddisfare la fantasia di velocità e avventura, convergono arte e moda. Le automobili sono ritratte come oggetti di culto da artisti come Andy Warhol e da scenografi come Ken Adam. Gli esempi più emblematici sono diventati immagini potenti sul grande schermo, emulando le celebrità delle  star di Hollywood. Anche Pirelli partecipa a queste profonde trasformazioni sociali e culturali e le opere grafiche del nostro Archivio Storico,  esposte in mostra accanto a una fotografia del Grattacielo Pirelli – primo headquarters dell’azienda, progettato dall’architetto Gio Ponti, mostrano l’importante ruolo culturale e tecnologico ricoperto in quegli anni dalla Pirelli.

Emozioni d’impresa

Una raccolta di saggi collega le neuroscienze e la gestione aziendale

 

Nelle aziende contano anche le emozioni e i sentimenti. Constatazione che può apparire fuori luogo, ma che, invece, ha più di un fondamento nella realtà. Tanto che sempre di più nella gestione d’impresa occorre tenere conto anche di questi aspetti. Cultura d’impresa a tutto tondo, quindi, quella che deve essere costruita e coltivata. E’ su questi assunti che si basa la raccolta di saggi “Il cervello al lavoro. Neuroscienze in azienda: dalla teoria alla pratica” curato da Riccardo Bubbio e in procinto di essere pubblicato.

Bubbio ha messo insieme l’antologia di approfondimenti sul “cervello in azienda” partendo da una constatazione: le emozioni, i sentimenti e i processi mentali, tutto quello che avviene nel nostro cervello ha un ruolo fondamentale nel nostro lavoro e dentro l’azienda in cui operiamo. Da qui la necessità di avvalersi dei risultati della ricerca scientifica anche nel riprogettare gli ambienti di lavoro e la sua organizzazione. Il libro, tuttavia, ha un pregio e cioè quello di essere una raccolta di esperienze concrete e non solo di teorie. Ed è la dimostrazione di quanto sia possibile adattare quanto sappiamo nello studio della mente umana per interventi di vario genere, da come progettare un percorso formativo a come organizzare una campagna di comunicazione interna.

Le circa duecento pagine di testo, iniziano quindi con un inquadramento di quanto riassunto nell’immagine della “mente al lavoro”, per poi passare ad approfondire i contributi che le neuroscienze possono dare all’organizzazione del lavoro e del cambiamento nelle aziende e quindi ad analizzare più a vicino il tema del benessere organizzativo visto come “una soluzione vincente per azienda e dipendenti”. Un’altra parte della raccolta, poi, prende in considerazione il tema dell’imparare e imparare come passaggio fondamentale accanto a quello del gioco come strumenti di apprendimento anche in azienda. Il libro poi affronta il ruolo delle emozioni nel marketing, dei pregiudizi nei processi decisionali per chiudere con un capitolo dedicato all’etica e all’impresa.

“Mi sento di poter affermare – scrive il curatore nel prologo del libro – che le aziende sono conversazioni, sono fatte di esseri umani, suonano umane, sono fatte dalle Emozioni generate dalla mente delle Persone che ne fanno parte”.

Il cervello al lavoro. Neuroscienze in azienda: dalla teoria alla pratica

Riccardo Bubbio (a cura di)

Franco Angeli, 2022

Una raccolta di saggi collega le neuroscienze e la gestione aziendale

 

Nelle aziende contano anche le emozioni e i sentimenti. Constatazione che può apparire fuori luogo, ma che, invece, ha più di un fondamento nella realtà. Tanto che sempre di più nella gestione d’impresa occorre tenere conto anche di questi aspetti. Cultura d’impresa a tutto tondo, quindi, quella che deve essere costruita e coltivata. E’ su questi assunti che si basa la raccolta di saggi “Il cervello al lavoro. Neuroscienze in azienda: dalla teoria alla pratica” curato da Riccardo Bubbio e in procinto di essere pubblicato.

Bubbio ha messo insieme l’antologia di approfondimenti sul “cervello in azienda” partendo da una constatazione: le emozioni, i sentimenti e i processi mentali, tutto quello che avviene nel nostro cervello ha un ruolo fondamentale nel nostro lavoro e dentro l’azienda in cui operiamo. Da qui la necessità di avvalersi dei risultati della ricerca scientifica anche nel riprogettare gli ambienti di lavoro e la sua organizzazione. Il libro, tuttavia, ha un pregio e cioè quello di essere una raccolta di esperienze concrete e non solo di teorie. Ed è la dimostrazione di quanto sia possibile adattare quanto sappiamo nello studio della mente umana per interventi di vario genere, da come progettare un percorso formativo a come organizzare una campagna di comunicazione interna.

Le circa duecento pagine di testo, iniziano quindi con un inquadramento di quanto riassunto nell’immagine della “mente al lavoro”, per poi passare ad approfondire i contributi che le neuroscienze possono dare all’organizzazione del lavoro e del cambiamento nelle aziende e quindi ad analizzare più a vicino il tema del benessere organizzativo visto come “una soluzione vincente per azienda e dipendenti”. Un’altra parte della raccolta, poi, prende in considerazione il tema dell’imparare e imparare come passaggio fondamentale accanto a quello del gioco come strumenti di apprendimento anche in azienda. Il libro poi affronta il ruolo delle emozioni nel marketing, dei pregiudizi nei processi decisionali per chiudere con un capitolo dedicato all’etica e all’impresa.

“Mi sento di poter affermare – scrive il curatore nel prologo del libro – che le aziende sono conversazioni, sono fatte di esseri umani, suonano umane, sono fatte dalle Emozioni generate dalla mente delle Persone che ne fanno parte”.

Il cervello al lavoro. Neuroscienze in azienda: dalla teoria alla pratica

Riccardo Bubbio (a cura di)

Franco Angeli, 2022

Educazione all’impresa come educazione a tutto tondo

Una ricerca di pedagogia indaga da un punto di vista diverso il concetto di entrepreneurial education

 

Educare all’imprenditorialità. E non solo per creare un’impresa “efficace ed efficiente”, ma per riuscire a dare un’organizzazione alla propria crescita. Tema complesso, quello dell’educazione all’impresa (prima di tutto di se stessi). Tema che viene affrontato da Letizia Gamberi (dottoranda di ricerca, Dipartimento di Formazione, Lingue, Intercultura, Letterature e Psicologia, Università degli Studi di Firenze), con il suo contributo “Entrepreneurial education: nuove prospettive di ricerca per l’educazione in età adulta” nell’ambito di una raccolta di ricerche sull’educazione degli adulti oltre la pandemia ospitata in  Epale Journal del dicembre 2021.

Gamberi ragiona partendo dalle categorie di entrepreneurship e di entrepreneurial education osservate da un punto di vista pedagogico. L’idea sviluppata nell’intervento è che l’educazione degli adulti appaia ancora distante da queste categorie, ricondotte ancora troppo spesso ad una dimensione economicistica. Da qui, quindi, uno sforzo di oltrepassare il semplice ambito economico (che comunque deve essere tenuto in conto) per arrivare ad un orizzonte più vasto. La ricerca, scrive quindi Gamberi, “si fonda su una visione amplia dei temi e affonda le radici nel value creation approach, assunto come denominatore comune tra entrepreneurship e educazione”. In altri termini, l’entrepreneurship viene vista come uno strumento di crescita “sempre più centrale per promuovere la costruzione proattiva dei progetti professionali e di vita dei giovani adulti”.

Per sviluppare la sua indagine, Letizia Gamberi parte quindi prima dalla messa a punto delle definizioni di entrepreneurship e di entrepreneurial education, poi delinea con attenzione l’ambito della propria ricerca (lo studio del contributo che queste due categorie offrono in particolare ai giovani attraverso l’analisi di una serie di programmi di insegnamento), e, infine, ne analizza i risultati. “L’entrepreneurial education – scrive quindi Gamberi -, deve essere letta come motore per dotare gli studenti di attitudini e competenze per navigare nell’incertezza del mondo di oggi, accentuata dalla recentissima pandemia”. A patto, tuttavia, che si sfrutti una delle doti principali proprie del fare impresa: riuscire ad affiancare alla libertà di scelta un continuo dialogo e confronto con l’ambiente circostante.

Entrepreneurial education: nuove prospettive di ricerca per l’educazione in età adulta

Letizia Gamberi

Epale Journal, n. 10 Dicembre 2021, pagg. 22-30

Una ricerca di pedagogia indaga da un punto di vista diverso il concetto di entrepreneurial education

 

Educare all’imprenditorialità. E non solo per creare un’impresa “efficace ed efficiente”, ma per riuscire a dare un’organizzazione alla propria crescita. Tema complesso, quello dell’educazione all’impresa (prima di tutto di se stessi). Tema che viene affrontato da Letizia Gamberi (dottoranda di ricerca, Dipartimento di Formazione, Lingue, Intercultura, Letterature e Psicologia, Università degli Studi di Firenze), con il suo contributo “Entrepreneurial education: nuove prospettive di ricerca per l’educazione in età adulta” nell’ambito di una raccolta di ricerche sull’educazione degli adulti oltre la pandemia ospitata in  Epale Journal del dicembre 2021.

Gamberi ragiona partendo dalle categorie di entrepreneurship e di entrepreneurial education osservate da un punto di vista pedagogico. L’idea sviluppata nell’intervento è che l’educazione degli adulti appaia ancora distante da queste categorie, ricondotte ancora troppo spesso ad una dimensione economicistica. Da qui, quindi, uno sforzo di oltrepassare il semplice ambito economico (che comunque deve essere tenuto in conto) per arrivare ad un orizzonte più vasto. La ricerca, scrive quindi Gamberi, “si fonda su una visione amplia dei temi e affonda le radici nel value creation approach, assunto come denominatore comune tra entrepreneurship e educazione”. In altri termini, l’entrepreneurship viene vista come uno strumento di crescita “sempre più centrale per promuovere la costruzione proattiva dei progetti professionali e di vita dei giovani adulti”.

Per sviluppare la sua indagine, Letizia Gamberi parte quindi prima dalla messa a punto delle definizioni di entrepreneurship e di entrepreneurial education, poi delinea con attenzione l’ambito della propria ricerca (lo studio del contributo che queste due categorie offrono in particolare ai giovani attraverso l’analisi di una serie di programmi di insegnamento), e, infine, ne analizza i risultati. “L’entrepreneurial education – scrive quindi Gamberi -, deve essere letta come motore per dotare gli studenti di attitudini e competenze per navigare nell’incertezza del mondo di oggi, accentuata dalla recentissima pandemia”. A patto, tuttavia, che si sfrutti una delle doti principali proprie del fare impresa: riuscire ad affiancare alla libertà di scelta un continuo dialogo e confronto con l’ambiente circostante.

Entrepreneurial education: nuove prospettive di ricerca per l’educazione in età adulta

Letizia Gamberi

Epale Journal, n. 10 Dicembre 2021, pagg. 22-30

Il valore dei buoni maestri per le battaglie culturali e civili e la ripresa economica Ue

La tragedia di una guerra, nel cuore dell’Europa, con le atrocità, il dolore delle vittime, i pericoli di un allargamento del fronte del conflitto, sino a paventare il rischio atomico. E, sul fronte economico e sociale, le ombre dell’intreccio tra inflazione e recessione. Viviamo settimane di cupezza, mentre sono tutt’altro che dissolti i contagi della pandemia da Covid19 con il suo strascico di morte e infermità di lunga durata. E resta d’attualità l’incombere di catastrofi da climate change. Il tempo presente è drammatico, tra “la società del rischio” teorizzata da Ulrich Beck e “l’età dell’incertezza” in una dimensione ben più complessa di quella pur analizzata con lungimiranza, alla fine degli anni Settanta del Novecento, da John Kenneth Galbraith. E la “società liquida”, sfuggente, multiforme e contraddittoria lucidamente descritta da Zygmunt Bauman si ritrova molto più carica di tensioni e afflitta da “retrotopia”, da nostalgia d’un passato apprezzato come luogo magico di stabilità e buon futuro. Si incrinano i miti del “progresso”, della “ragione”, della crescita economica di lunga durata e della globalizzazione trionfante perché positiva per tutti. E, nel fluire doloroso di eventi che sino a ieri non avevamo previsto (appaiono in scena i “cigni neri” rari e inattesi delle crisi radicali), crescono delusioni, rancori, fughe sconsiderate nel “pensiero magico” e nelle teorie dei “complotti” e cresce il fascino per i leader autoritari, per le scorciatoie dell’assolutismo.

Accettare il declino e il degrado? Lasciarsi “assorbire dall’inferno”? Tutt’altro. Semmai, rileggendo la sapiente conclusione de “Le città invisibili” di Italo Calvino, è necessario “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

La guerra, la pandemia ancora in corso e le devastazioni ambientali sono il nostro “inferno”. E c’è, appunto in stagioni così difficili e controverse, una chiara responsabilità per gli intellettuali e per gli attori sociali che hanno a cuore qualità e stabilità di un migliore futuro: approfondire pensieri critici sugli equilibri politici, economici e sociali da ricostruire e scrivere nuove e migliori mappe della conoscenza d’un mondo in trasformazione. Pensieri critici fondati su scienza e competenze, tutto il contrario del vociare vanitoso e scomposto nei talk show in Tv e sui social media. E mappe di valori e relazioni, spoglie di nostalgie e pensieri malinconici e dense, semmai, di progetti e strumenti per nuove governance che investano relazioni, interessi, affari, valori.

Sono tempi in cui affidarsi a buoni maestri, valorizzando il senso etimologico della parola, quel magister forte del magis, che indica qualità, ben diverso dal plus che indica qualità (una distinzione ben messa in evidenza da un sapiente giurista, Natalino Irti). E in cui, appunto in nome del valore del pensiero critico, imparare a distinguere più e meglio di prima, cultura da propaganda, intelligenza da conformismo (c’è del conformismo anche nella cancel culture e nei vezzi salottieri controcorrente), conoscenza e sincera volontà di entrare nel merito di conflitti e contraddizioni e corsa incoerente a strappare consensi nei sondaggi d’opinione senza curarsi delle conseguenze sugli assetti politici e sociali.

Restiamo ancora sul latino, lingua esatta, del “ragionare”, per ricordare (lo avevamo fatto nel blog dell’1 febbraio) la distinzione tra loquens (chi parla comunque, indipendentemente dal peso e dal valore di ciò che dice) ed eloquens (chi parla bene sapendo ciò che dice). E affidiamoci alla chiarezza francese che sa distinguere écrivain (lo scrittore, prendendo ad esempio Pascal, admirable écrivain, secondo Saint-Beuve) da écrivant (chi fa scrittura tecnica, burocratica, senza spessore né qualità intellettuale e creativa).

E’ il tempo dei maestri capaci di parlare, scrivere, ragionare. E ingaggiare una vera e propria battaglia delle idee per difendere, riaffermare e rilanciare i valori della società aperta, della democrazia liberale che è tutt’altro che “decadente e obsoleta”, del pensiero critico e dello sviluppo sostenibile, ambientale e sociale, maturato nell’ambito della democrazia economica e dell’economia di mercato.

E’ il tempo del dialogo, naturalmente, tra l’Occidente democratico e il resto del mondo, apprezzando le diversità di culture e valori, senza pretendere di “esportare la democrazia” ma anche senza rinunciare a difendere lo “Stato di diritto” (vale la pena, a proposito, di rileggere le opere di Giovanni Sartori, un grande maestro della democrazia liberale e parlamentare, a cinque anni dalla sua scomparsa, come suggerisce correttamente il “Corriere della Sera” di domenica 3 aprile).

E’ il tempo di insistere sul ruolo e il peso di una Ue che, dopo aver organizzato una positiva risposta alla pandemia e alle sue conseguenze economiche con il Recovery Plan Next Generation,  adesso ragiona di autonomia e sicurezza strategica, parlando di politiche comuni per la difesa, l’energia e la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica. E ha ragione Lucrezia Reichlin quando sostiene che “per rispondere alla crisi ucraina serve una nuova governance economica” (“Il Sole24Ore”, 2 aprile) per “lo sviluppo di una capacità economica comune” per fare fronte a recessione, transizione energetica e digitale, risposte alle tensioni sociali conseguenti.

Nessuno sa bene come e quando usciremo da questa crisi. Sappiamo però che servono risposte politiche e culturali all’altezza delle sfide geopolitiche che investono non solo il mondo degli affari, ma soprattutto gli assetti democratici e civili, un intero sistema di valori cui non rinunciare.

Rieccoci, così, all’orizzonte largo dei buoni maestri. Rileggendo, con un filo di speranza, le parole del profeta Isaia: “Sentinella, dimmi, quanto resta ancora della notte?”. ”La notte sta per finire, ma l’alba non è ancora spuntata; tornate di nuovo perciò a domandare; non vi stancate, insistete!”. In questo tempo tagliente e incerto, serve andare avanti, a capire, a cercare, senza cedere allo sconforto e alla resa.

La tragedia di una guerra, nel cuore dell’Europa, con le atrocità, il dolore delle vittime, i pericoli di un allargamento del fronte del conflitto, sino a paventare il rischio atomico. E, sul fronte economico e sociale, le ombre dell’intreccio tra inflazione e recessione. Viviamo settimane di cupezza, mentre sono tutt’altro che dissolti i contagi della pandemia da Covid19 con il suo strascico di morte e infermità di lunga durata. E resta d’attualità l’incombere di catastrofi da climate change. Il tempo presente è drammatico, tra “la società del rischio” teorizzata da Ulrich Beck e “l’età dell’incertezza” in una dimensione ben più complessa di quella pur analizzata con lungimiranza, alla fine degli anni Settanta del Novecento, da John Kenneth Galbraith. E la “società liquida”, sfuggente, multiforme e contraddittoria lucidamente descritta da Zygmunt Bauman si ritrova molto più carica di tensioni e afflitta da “retrotopia”, da nostalgia d’un passato apprezzato come luogo magico di stabilità e buon futuro. Si incrinano i miti del “progresso”, della “ragione”, della crescita economica di lunga durata e della globalizzazione trionfante perché positiva per tutti. E, nel fluire doloroso di eventi che sino a ieri non avevamo previsto (appaiono in scena i “cigni neri” rari e inattesi delle crisi radicali), crescono delusioni, rancori, fughe sconsiderate nel “pensiero magico” e nelle teorie dei “complotti” e cresce il fascino per i leader autoritari, per le scorciatoie dell’assolutismo.

Accettare il declino e il degrado? Lasciarsi “assorbire dall’inferno”? Tutt’altro. Semmai, rileggendo la sapiente conclusione de “Le città invisibili” di Italo Calvino, è necessario “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

La guerra, la pandemia ancora in corso e le devastazioni ambientali sono il nostro “inferno”. E c’è, appunto in stagioni così difficili e controverse, una chiara responsabilità per gli intellettuali e per gli attori sociali che hanno a cuore qualità e stabilità di un migliore futuro: approfondire pensieri critici sugli equilibri politici, economici e sociali da ricostruire e scrivere nuove e migliori mappe della conoscenza d’un mondo in trasformazione. Pensieri critici fondati su scienza e competenze, tutto il contrario del vociare vanitoso e scomposto nei talk show in Tv e sui social media. E mappe di valori e relazioni, spoglie di nostalgie e pensieri malinconici e dense, semmai, di progetti e strumenti per nuove governance che investano relazioni, interessi, affari, valori.

Sono tempi in cui affidarsi a buoni maestri, valorizzando il senso etimologico della parola, quel magister forte del magis, che indica qualità, ben diverso dal plus che indica qualità (una distinzione ben messa in evidenza da un sapiente giurista, Natalino Irti). E in cui, appunto in nome del valore del pensiero critico, imparare a distinguere più e meglio di prima, cultura da propaganda, intelligenza da conformismo (c’è del conformismo anche nella cancel culture e nei vezzi salottieri controcorrente), conoscenza e sincera volontà di entrare nel merito di conflitti e contraddizioni e corsa incoerente a strappare consensi nei sondaggi d’opinione senza curarsi delle conseguenze sugli assetti politici e sociali.

Restiamo ancora sul latino, lingua esatta, del “ragionare”, per ricordare (lo avevamo fatto nel blog dell’1 febbraio) la distinzione tra loquens (chi parla comunque, indipendentemente dal peso e dal valore di ciò che dice) ed eloquens (chi parla bene sapendo ciò che dice). E affidiamoci alla chiarezza francese che sa distinguere écrivain (lo scrittore, prendendo ad esempio Pascal, admirable écrivain, secondo Saint-Beuve) da écrivant (chi fa scrittura tecnica, burocratica, senza spessore né qualità intellettuale e creativa).

E’ il tempo dei maestri capaci di parlare, scrivere, ragionare. E ingaggiare una vera e propria battaglia delle idee per difendere, riaffermare e rilanciare i valori della società aperta, della democrazia liberale che è tutt’altro che “decadente e obsoleta”, del pensiero critico e dello sviluppo sostenibile, ambientale e sociale, maturato nell’ambito della democrazia economica e dell’economia di mercato.

E’ il tempo del dialogo, naturalmente, tra l’Occidente democratico e il resto del mondo, apprezzando le diversità di culture e valori, senza pretendere di “esportare la democrazia” ma anche senza rinunciare a difendere lo “Stato di diritto” (vale la pena, a proposito, di rileggere le opere di Giovanni Sartori, un grande maestro della democrazia liberale e parlamentare, a cinque anni dalla sua scomparsa, come suggerisce correttamente il “Corriere della Sera” di domenica 3 aprile).

E’ il tempo di insistere sul ruolo e il peso di una Ue che, dopo aver organizzato una positiva risposta alla pandemia e alle sue conseguenze economiche con il Recovery Plan Next Generation,  adesso ragiona di autonomia e sicurezza strategica, parlando di politiche comuni per la difesa, l’energia e la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica. E ha ragione Lucrezia Reichlin quando sostiene che “per rispondere alla crisi ucraina serve una nuova governance economica” (“Il Sole24Ore”, 2 aprile) per “lo sviluppo di una capacità economica comune” per fare fronte a recessione, transizione energetica e digitale, risposte alle tensioni sociali conseguenti.

Nessuno sa bene come e quando usciremo da questa crisi. Sappiamo però che servono risposte politiche e culturali all’altezza delle sfide geopolitiche che investono non solo il mondo degli affari, ma soprattutto gli assetti democratici e civili, un intero sistema di valori cui non rinunciare.

Rieccoci, così, all’orizzonte largo dei buoni maestri. Rileggendo, con un filo di speranza, le parole del profeta Isaia: “Sentinella, dimmi, quanto resta ancora della notte?”. ”La notte sta per finire, ma l’alba non è ancora spuntata; tornate di nuovo perciò a domandare; non vi stancate, insistete!”. In questo tempo tagliente e incerto, serve andare avanti, a capire, a cercare, senza cedere allo sconforto e alla resa.

Giovanni Pirelli. Una vita, molte vite

«Se tiro le somme posso dire questo: di due persone con cui faccio conoscenza una mi chiede se sono il Pirelli delle gomme e una se sono il Pirelli delle Lettere

Figura di rilievo in una delle più importanti stagioni del Novecento, Giovanni Pirelli era destinato a una vita d’imprenditore industriale. E tuttavia ne vive molte altre, e molto diverse. Soldato, tenente degli Alpini, aspirante aviatore, partigiano, scrittore, storico, attivista politico e intellettuale. Figlio di Alberto, è l’esempio vivente di uno dei moniti paterni: “Essere sempre uomo del proprio tempo”. Giovanni Pirelli attraversa infatti tutti i momenti cruciali del Secolo Breve italiano: la guerra e la Resistenza, la militanza politica, la diplomazia e il dialogo con il mondo della fabbrica.

Del Novecento, Giovanni Pirelli interpreta tutte le inquietudini e gli esiti provocati in primo luogo dalla Seconda Guerra Mondiale. L’esperienza del conflitto, a cui partecipa prima come soldato e poi come ufficiale, lo porta ad abbandonare l’iniziale entusiasmo di difesa dell’onore della Nazione in favore di una ricerca disillusa di “nuova realtà”. Attento e sensibile osservatore dei luoghi e degli uomini che lo circondano, infatti, sceglie una strategica posizione “di frontiera”, sul confine di molti orizzonti. Il suo è un animo spinto alla meditazione e al pensiero intellettuale che si delinea definitivamente quando entra a far parte della Resistenza. Da qui in poi, le scelte sono chiare: si iscrive al Partito Socialista Italiano, non succede al padre in azienda, asseconda la sua vocazione facendo della Resistenza una parte essenziale della sua produzione intellettuale.

Dalla poliedricità culturale di Giovanni Pirelli emerge, infatti, un elemento distintivo: la capacità di fondere storia e letteratura. Sin dal suo libro d’esordio, “L’altro elemento”, pubblicato per la collana “I gettoni” di Einaudi nel 1952, diventa uno dei più grandi testimoni del disastro bellico. A differenziarlo dalle poche altre voci sul tema, come quelle di Mario Rigoni Stern e Nuto Revelli, è il punto di osservazione: il suo status di borghese istruito e figlio di uno dei più grandi imprenditori e diplomatici dell’epoca gli permette una maggiore comprensione delle dinamiche internazionali. Curatore, insieme a Piero Malvezzi, di una delle raccolte più importanti della letteratura memorialistica, “Lettere di condannati a morte della Resistenza Italiana”, alla fine degli anni Cinquanta pubblica per la “Rivista Pirelli”, sotto lo pseudonimo di Franco Fellini, due articoli dedicati al viaggio compiuto in Egitto con l’amico Renato Guttuso. È durante la Ricostruzione che trova riscontro alle sue nuove posizioni nelle discussioni politico-culturali organizzate alla Libreria Einaudi. Qui conosce Paul Èluard, Ernest Hemingway, Elio Vittorini, John Steinbeck e molti altri e trova lo spazio per esprimersi attraverso teatro, scrittura, cinema, musica, raccolta documentaria e ricerca storica.

Figura complessa e affascinante, la sua esperienza umana si conclude prematuramente il 3 aprile 1973 per un incidente d’auto. La varietà dei suoi interessi e rapporti si riassume in un ritratto polifonico dell’“erede ribelle”, impossibile da irrigidire in contorni perfettamente delineati.

«Se tiro le somme posso dire questo: di due persone con cui faccio conoscenza una mi chiede se sono il Pirelli delle gomme e una se sono il Pirelli delle Lettere

Figura di rilievo in una delle più importanti stagioni del Novecento, Giovanni Pirelli era destinato a una vita d’imprenditore industriale. E tuttavia ne vive molte altre, e molto diverse. Soldato, tenente degli Alpini, aspirante aviatore, partigiano, scrittore, storico, attivista politico e intellettuale. Figlio di Alberto, è l’esempio vivente di uno dei moniti paterni: “Essere sempre uomo del proprio tempo”. Giovanni Pirelli attraversa infatti tutti i momenti cruciali del Secolo Breve italiano: la guerra e la Resistenza, la militanza politica, la diplomazia e il dialogo con il mondo della fabbrica.

Del Novecento, Giovanni Pirelli interpreta tutte le inquietudini e gli esiti provocati in primo luogo dalla Seconda Guerra Mondiale. L’esperienza del conflitto, a cui partecipa prima come soldato e poi come ufficiale, lo porta ad abbandonare l’iniziale entusiasmo di difesa dell’onore della Nazione in favore di una ricerca disillusa di “nuova realtà”. Attento e sensibile osservatore dei luoghi e degli uomini che lo circondano, infatti, sceglie una strategica posizione “di frontiera”, sul confine di molti orizzonti. Il suo è un animo spinto alla meditazione e al pensiero intellettuale che si delinea definitivamente quando entra a far parte della Resistenza. Da qui in poi, le scelte sono chiare: si iscrive al Partito Socialista Italiano, non succede al padre in azienda, asseconda la sua vocazione facendo della Resistenza una parte essenziale della sua produzione intellettuale.

Dalla poliedricità culturale di Giovanni Pirelli emerge, infatti, un elemento distintivo: la capacità di fondere storia e letteratura. Sin dal suo libro d’esordio, “L’altro elemento”, pubblicato per la collana “I gettoni” di Einaudi nel 1952, diventa uno dei più grandi testimoni del disastro bellico. A differenziarlo dalle poche altre voci sul tema, come quelle di Mario Rigoni Stern e Nuto Revelli, è il punto di osservazione: il suo status di borghese istruito e figlio di uno dei più grandi imprenditori e diplomatici dell’epoca gli permette una maggiore comprensione delle dinamiche internazionali. Curatore, insieme a Piero Malvezzi, di una delle raccolte più importanti della letteratura memorialistica, “Lettere di condannati a morte della Resistenza Italiana”, alla fine degli anni Cinquanta pubblica per la “Rivista Pirelli”, sotto lo pseudonimo di Franco Fellini, due articoli dedicati al viaggio compiuto in Egitto con l’amico Renato Guttuso. È durante la Ricostruzione che trova riscontro alle sue nuove posizioni nelle discussioni politico-culturali organizzate alla Libreria Einaudi. Qui conosce Paul Èluard, Ernest Hemingway, Elio Vittorini, John Steinbeck e molti altri e trova lo spazio per esprimersi attraverso teatro, scrittura, cinema, musica, raccolta documentaria e ricerca storica.

Figura complessa e affascinante, la sua esperienza umana si conclude prematuramente il 3 aprile 1973 per un incidente d’auto. La varietà dei suoi interessi e rapporti si riassume in un ritratto polifonico dell’“erede ribelle”, impossibile da irrigidire in contorni perfettamente delineati.

Marcello Dudovich, maestro della cartellonistica industriale

Il percorso artistico di Marcello Dudovich, pittore e illustratore attivo tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, ha seguito un itinerario non convenzionale. A sessant’anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 31 marzo 1962, è ancora oggi considerato uno dei massimi esponenti della cartellonistica pubblicitaria italiana. Le sue opere rappresentano la migliore espressione dell’evoluzione storico-sociale dell’arte applicata all’industria, il miglior campo di sperimentazione di un’arte “di sintesi”, che con pochi ed essenziali tratti riesce nel comunicare una pluralità di significati.

Artigiani, fabbriche, industrie in espansione. I primi anni del Novecento sono gli anni delle due e quattro ruote, della velocità, dell’adrenalina, delle automobili, delle competizioni su pista e dei primi raid intercontinentali. Sono gli anni delle grandi industrie come FIAT, Alfa Romeo, Bugatti, Legnano e ovviamente Pirelli, e degli artisti chiamati a raccontare i prodotti inaugurando un nuovo ciclo nella comunicazione visiva d’impresa. Non è un caso che a Milano, la strada di Dudovich incroci molte di queste realtà.

Per la Pirelli realizza manifesti di pneumatici, ma anche di impermeabili, abbandonando l’influenza liberty a favore di un tratto più lineare, che esalta il marchio di fabbrica. Gli elementi testuali come lo slogan, il prodotto e i marchi, acquisiscono sempre maggiore rilevanza, a discapito della rappresentazione pura del prodotto. Come nel caso della recente acquisizione del nostro Archivio Storico: un manifesto pubblicitario degli anni Venti dedicato alla fornitura di pneumatici Pirelli per i cicli Dei, stampato dalla Litografia G. B. Virtuani & C., che esalta al contempo la perfezione dei telai realizzati da Umberto Dei e le performance garantite dai pneumatici, che si era già affermato per innovazione e tenuta di strada su due e quattro ruote. A completare il messaggio è la figura del ciclista che richiama immediatamente le vittorie dello stesso Umberto Dei, famoso per aver battuto i grandi del ciclismo in sella alla sua bici, pur senza preparazione atletica. Un manifesto, insomma, che intreccia più livelli e più storie con pochi, essenziali e definiti tratti. Una caratteristica che, anche i grandi graphic designer degli anni Cinquanta o le grandi agenzie degli anni Novanta-Duemila, sapranno codificare e mantenere in uno stile unico, lo “Stile Pirelli”.

Il percorso artistico di Marcello Dudovich, pittore e illustratore attivo tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, ha seguito un itinerario non convenzionale. A sessant’anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 31 marzo 1962, è ancora oggi considerato uno dei massimi esponenti della cartellonistica pubblicitaria italiana. Le sue opere rappresentano la migliore espressione dell’evoluzione storico-sociale dell’arte applicata all’industria, il miglior campo di sperimentazione di un’arte “di sintesi”, che con pochi ed essenziali tratti riesce nel comunicare una pluralità di significati.

Artigiani, fabbriche, industrie in espansione. I primi anni del Novecento sono gli anni delle due e quattro ruote, della velocità, dell’adrenalina, delle automobili, delle competizioni su pista e dei primi raid intercontinentali. Sono gli anni delle grandi industrie come FIAT, Alfa Romeo, Bugatti, Legnano e ovviamente Pirelli, e degli artisti chiamati a raccontare i prodotti inaugurando un nuovo ciclo nella comunicazione visiva d’impresa. Non è un caso che a Milano, la strada di Dudovich incroci molte di queste realtà.

Per la Pirelli realizza manifesti di pneumatici, ma anche di impermeabili, abbandonando l’influenza liberty a favore di un tratto più lineare, che esalta il marchio di fabbrica. Gli elementi testuali come lo slogan, il prodotto e i marchi, acquisiscono sempre maggiore rilevanza, a discapito della rappresentazione pura del prodotto. Come nel caso della recente acquisizione del nostro Archivio Storico: un manifesto pubblicitario degli anni Venti dedicato alla fornitura di pneumatici Pirelli per i cicli Dei, stampato dalla Litografia G. B. Virtuani & C., che esalta al contempo la perfezione dei telai realizzati da Umberto Dei e le performance garantite dai pneumatici, che si era già affermato per innovazione e tenuta di strada su due e quattro ruote. A completare il messaggio è la figura del ciclista che richiama immediatamente le vittorie dello stesso Umberto Dei, famoso per aver battuto i grandi del ciclismo in sella alla sua bici, pur senza preparazione atletica. Un manifesto, insomma, che intreccia più livelli e più storie con pochi, essenziali e definiti tratti. Una caratteristica che, anche i grandi graphic designer degli anni Cinquanta o le grandi agenzie degli anni Novanta-Duemila, sapranno codificare e mantenere in uno stile unico, lo “Stile Pirelli”.

“Curare” per fare meglio e crescere di più

Condensato in un libro pubblicato da poco, un approccio diverso alla realtà che tutti dobbiamo affrontare

 

Resilienza e complessità, ma anche attenzione all’altro. Senza perdere di vista obiettivi e traguardi (anche d’impresa) da raggiungere. E’ la sintesi del difficile equilibrio che serve per tenere in piedi organizzazioni della produzione, sistemai sociali, famiglie e anche singole vite d’individui. Ed è attorno a questo equilibrio che ragiona Valeria Cantoni Mamiani con il suo ultimo libro “Leadership di cura. Dal controllo alle relazioni” appena pubblicato con una bella prefazione di Pierluigi Celli che onestamente dichiara di non essere sicuro di essere sempre d’accordo con l’autrice ma che comunque l’impresa letteraria appena conclusa è “uno dei tentativi più ragionati, e interiormente partecipati, di decifrare, al di là delle mode, il groviglio di percezioni e, spesso, di luoghi comuni che caratterizzano la letteratura e la pratica manageriale”.

Il libro parte da una constatazione: dopo l’epoca della resilienza, il 2020 è stato l’anno di una nuova consapevolezza, quella della vulnerabilità vista come una condizione universale da cui ripartire per ripensare la società, le organizzazioni, il lavoro, il potere e le sue gerarchie. L’autrice quindi si pone di fronte ad una necessità: chi ricopre posizioni di potere deve creare nuove scale di valori che rendano le proprie organizzazioni sostenibili per tutti.
Nel libro quindi viene dimostrato perché e come si possa oggi praticare una nuova forma di leadership di cura, attenta, presente, coinvolgente e in ascolto. Caratteristica fondamentale è la capacità di prendersi cura delle persone lasciando spazio alla loro autonomia: la nuova leadership preferisce la collaborazione alla competizione e si concentra sull’interpretazione dei bisogni reali, coinvolgendo nella loro definizione i destinatari dei benefici nell’organizzazione.
Si rende così possibile, è la tesi di Valeria Cantoni Mamiani, un superamento dei concetti contrapposti di paternalismo autoritario e maternalismo accudente per fare posto ad un atteggiamento caratterizzato dall’ascolto, passando da una cultura del controllo alla fioritura delle relazioni.
Chi legge, passa quindi da un inquadramento del “contesto in cui viviamo” ad un’analisi dei bisogni e delle emozioni per arrivare alla messa a fuoco delle linee guida di una cultura volta alla “pratica della cura” e quindi alla definizione di una “nuova autorevolezza”.

Ha ragione Celli: non è obbligatorio essere d’accordo con tutto ciò che si legge in questo libro, ma lo è certamente leggerlo e rendersi conto di avere tra le mani una preziosa guida per ripensare comportamenti e modelli organizzativi consolidati, ormai inutilizzabili nella loro orgogliosa fatuità.

Leadership di cura. Dal controllo alle relazioni

Valeria Cantoni Mamiani

Vita e Pensiero, 2021

Condensato in un libro pubblicato da poco, un approccio diverso alla realtà che tutti dobbiamo affrontare

 

Resilienza e complessità, ma anche attenzione all’altro. Senza perdere di vista obiettivi e traguardi (anche d’impresa) da raggiungere. E’ la sintesi del difficile equilibrio che serve per tenere in piedi organizzazioni della produzione, sistemai sociali, famiglie e anche singole vite d’individui. Ed è attorno a questo equilibrio che ragiona Valeria Cantoni Mamiani con il suo ultimo libro “Leadership di cura. Dal controllo alle relazioni” appena pubblicato con una bella prefazione di Pierluigi Celli che onestamente dichiara di non essere sicuro di essere sempre d’accordo con l’autrice ma che comunque l’impresa letteraria appena conclusa è “uno dei tentativi più ragionati, e interiormente partecipati, di decifrare, al di là delle mode, il groviglio di percezioni e, spesso, di luoghi comuni che caratterizzano la letteratura e la pratica manageriale”.

Il libro parte da una constatazione: dopo l’epoca della resilienza, il 2020 è stato l’anno di una nuova consapevolezza, quella della vulnerabilità vista come una condizione universale da cui ripartire per ripensare la società, le organizzazioni, il lavoro, il potere e le sue gerarchie. L’autrice quindi si pone di fronte ad una necessità: chi ricopre posizioni di potere deve creare nuove scale di valori che rendano le proprie organizzazioni sostenibili per tutti.
Nel libro quindi viene dimostrato perché e come si possa oggi praticare una nuova forma di leadership di cura, attenta, presente, coinvolgente e in ascolto. Caratteristica fondamentale è la capacità di prendersi cura delle persone lasciando spazio alla loro autonomia: la nuova leadership preferisce la collaborazione alla competizione e si concentra sull’interpretazione dei bisogni reali, coinvolgendo nella loro definizione i destinatari dei benefici nell’organizzazione.
Si rende così possibile, è la tesi di Valeria Cantoni Mamiani, un superamento dei concetti contrapposti di paternalismo autoritario e maternalismo accudente per fare posto ad un atteggiamento caratterizzato dall’ascolto, passando da una cultura del controllo alla fioritura delle relazioni.
Chi legge, passa quindi da un inquadramento del “contesto in cui viviamo” ad un’analisi dei bisogni e delle emozioni per arrivare alla messa a fuoco delle linee guida di una cultura volta alla “pratica della cura” e quindi alla definizione di una “nuova autorevolezza”.

Ha ragione Celli: non è obbligatorio essere d’accordo con tutto ciò che si legge in questo libro, ma lo è certamente leggerlo e rendersi conto di avere tra le mani una preziosa guida per ripensare comportamenti e modelli organizzativi consolidati, ormai inutilizzabili nella loro orgogliosa fatuità.

Leadership di cura. Dal controllo alle relazioni

Valeria Cantoni Mamiani

Vita e Pensiero, 2021

Impresa sociale e basta?

Una ricerca appena pubblicata collega i numerosi punti di una parte importante dell’economia contemporanea

Imprese sociali tra settore pubblico e imprese a scopo di lucro: soggetti ibridi che vanno compresi. E che non devono essere trattati come aziende semplicemente buoniste. Tema complesso, quello delle imprese sociali. Che va affrontato con grande attenzione – anche per lo spazio che queste entità si stanno guadagnando -, per le potenzialità che queste strutture hanno e per la particolare cultura del produrre che detengono.

E’ utile in questo senso leggere “L’impresa sociale: dai concetti teorici all’applicazione a livello di policy” di Giulia Galera e Stefania Chiomento apparso nei primi mesi del 2022. L’intervento è una buona sintesi dello stato dell’arte degli studi e della pratica esercitata in questa parte dell’economia.

“Negli ultimi vent’anni – scrivono le due ricercatrici all’inizio del saggio -, vi è stata una straordinaria crescita dell’interesse nei confronti del variegato insieme di soggetti che sono collocati tra il settore pubblico e quello delle imprese a scopo di lucro. Non solo molti economisti, studiosi di management e sociologi, ma anche scienziati della politica, storici, antropologi e psicologi si sono dedicati allo studio di questo fenomeno, o di alcuni suoi aspetti, contribuendo a illustrarne le determinanti, le potenzialità, i limiti e le dinamiche evolutive da diverse prospettive disciplinari”.

La ricerca è utile perché prima di tutto ha un obiettivo: mettere a confronto i vari concetti utilizzati per inquadrare diversi aspetti del fenomeno in questione. Perché, in effetti, l’idea di impresa sociale spesso viene affiancata, sovrapposta, confusa con quelle di economia sociale, economia solidale, economia sociale e solidale, terzo settore. Occorre ordine, quindi. Che è ciò che Galera e Chiomento provano a fare. Accanto a tutto questo, poi, l’articolo riflette sul termine innovazione sociale, altro grande concetto che spesso si ritrova nei dibattiti sul tema.

L’intervento delle due ricercatrici di Euricse, inizia quindi correttamente con la messa a fuoco del concetto teorico di impresa sociale per poi passare all’esame delle principali ricerche su di esso e quindi alle sue applicazioni. Dopo un passaggio sugli aspetti legislativi che in Italia in questi ultimi anni toccano l’ambito d’azione delle imprese di questo tipo, il saggio passa quindi ad affrontare l’economia sociale, poi l’economia solidale e quindi il connubio delle due discipline; tutto per arrivare ad approfondire le linee del cosiddetto terzo settore e, infine, dell’innovazione sociale. Galera e Chiomento non si fermano però qui cercando di applicare la teoria alla quotidianità concreta delle situazioni (per mezzo anche di una interessante e utile tabella comparativa).

L’intervento Giulia Galera e Stefania Chiomento che prova a definire e organizzare concetti e pratiche che ruotano intorno all’impresa sociale, è una buona lettura per comprendere meglio cosa sta accadendo in una porzione importante dell’economia contemporanea.

L’impresa sociale: dai concetti teorici all’applicazione a livello di policy

Giulia Galera, Stefania Chiomento

Impresa Sociale, n. 1/2022

Una ricerca appena pubblicata collega i numerosi punti di una parte importante dell’economia contemporanea

Imprese sociali tra settore pubblico e imprese a scopo di lucro: soggetti ibridi che vanno compresi. E che non devono essere trattati come aziende semplicemente buoniste. Tema complesso, quello delle imprese sociali. Che va affrontato con grande attenzione – anche per lo spazio che queste entità si stanno guadagnando -, per le potenzialità che queste strutture hanno e per la particolare cultura del produrre che detengono.

E’ utile in questo senso leggere “L’impresa sociale: dai concetti teorici all’applicazione a livello di policy” di Giulia Galera e Stefania Chiomento apparso nei primi mesi del 2022. L’intervento è una buona sintesi dello stato dell’arte degli studi e della pratica esercitata in questa parte dell’economia.

“Negli ultimi vent’anni – scrivono le due ricercatrici all’inizio del saggio -, vi è stata una straordinaria crescita dell’interesse nei confronti del variegato insieme di soggetti che sono collocati tra il settore pubblico e quello delle imprese a scopo di lucro. Non solo molti economisti, studiosi di management e sociologi, ma anche scienziati della politica, storici, antropologi e psicologi si sono dedicati allo studio di questo fenomeno, o di alcuni suoi aspetti, contribuendo a illustrarne le determinanti, le potenzialità, i limiti e le dinamiche evolutive da diverse prospettive disciplinari”.

La ricerca è utile perché prima di tutto ha un obiettivo: mettere a confronto i vari concetti utilizzati per inquadrare diversi aspetti del fenomeno in questione. Perché, in effetti, l’idea di impresa sociale spesso viene affiancata, sovrapposta, confusa con quelle di economia sociale, economia solidale, economia sociale e solidale, terzo settore. Occorre ordine, quindi. Che è ciò che Galera e Chiomento provano a fare. Accanto a tutto questo, poi, l’articolo riflette sul termine innovazione sociale, altro grande concetto che spesso si ritrova nei dibattiti sul tema.

L’intervento delle due ricercatrici di Euricse, inizia quindi correttamente con la messa a fuoco del concetto teorico di impresa sociale per poi passare all’esame delle principali ricerche su di esso e quindi alle sue applicazioni. Dopo un passaggio sugli aspetti legislativi che in Italia in questi ultimi anni toccano l’ambito d’azione delle imprese di questo tipo, il saggio passa quindi ad affrontare l’economia sociale, poi l’economia solidale e quindi il connubio delle due discipline; tutto per arrivare ad approfondire le linee del cosiddetto terzo settore e, infine, dell’innovazione sociale. Galera e Chiomento non si fermano però qui cercando di applicare la teoria alla quotidianità concreta delle situazioni (per mezzo anche di una interessante e utile tabella comparativa).

L’intervento Giulia Galera e Stefania Chiomento che prova a definire e organizzare concetti e pratiche che ruotano intorno all’impresa sociale, è una buona lettura per comprendere meglio cosa sta accadendo in una porzione importante dell’economia contemporanea.

L’impresa sociale: dai concetti teorici all’applicazione a livello di policy

Giulia Galera, Stefania Chiomento

Impresa Sociale, n. 1/2022

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