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Tempi di crisi: il ritorno dello Stato e la necessità di non ripetere gli sprechi della spesa pubblica

Le crisi recenti, dalla pandemia da Covid 19 alla guerra in Ucraina, dai disastri ambientali alle difficoltà delle economie globali tra recessione, aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime e carenze di beni intermedi (i microchip) e di efficienze logistiche (le strozzature dei trasporti marittimi) hanno riportato in primo piano il peso e il ruolo degli Stati nazionali. Il globalismo, come ideologia del primato dei mercati, sembra entrato in un cono d’ombra. Gli interessi delle nazioni tornano in primo piano. Si avverte l’eco di valori e interessi che vengono dai secoli dei nazionalismo, che si amplificano con le sonorità stridenti del sovranismo. E tutto il mondo entra in fibrillazione, sotto l’onda d’urto degli squilibri multipolari. Tensioni geopolitiche nuove appesantiscono antichi conflitti. E ambiziosi protagonismi mettono sotto stress relazioni economiche, commerciali e sociali che avevano segnato gli scenari internazionali degli ultimi trent’anni. Siamo, insomma, nel cuore di una drammatica “età dell’incertezza”. In cui non si intravvedono risposte chiare, rassicuranti.

Si pone qui, in termini nuovi, anche un’altra delle grandi questioni che hanno occupato il dibattito politico contemporaneo, quella delle relazioni tra Stato e mercato, nel ripensamento critico che coinvolge la letteratura politica ed economica soprattutto delle democrazie occidentali.

Oggi la riflessione, in estrema sintesi, ci obbliga a parlare di necessità di avere contemporaneamente “più Stato” e “più mercato”, nel senso di uno Stato migliore, più giusto ed efficiente nell’uso produttivo della spesa pubblica per investimenti e della leva fiscale come stimolo e riequilibrio e di un mercato aperto e ben regolato, capace di fare vivere intraprendenza, concorrenza, merito, razionale impiego delle risorse per la crescita delle imprese e lo sviluppo economico e – qui si ritorna allo Stato – per la diffusione del benessere sociale.

Per capire meglio e guardare in profondità anche all’attuale situazione italiana, ci si può affidare alle sapienti pagine di “Bentornato Stato, ma…” di Giuliano Amato, pubblicato da Il Mulino, uno Stato “immune dai suoi vecchi vizi e lontano, in ogni circostanza, dall’hybris dell’accentramento autoritario”. Amato, infatti, è uomo di studi e di governo, ha l’esperienza lunga della politica vissuta da protagonista, la competenza del civil servant (da ex presidente dell’Autorità Antitrust) e la solidità della conoscenza del grande giurista (è stato appena eletto presidente della Corte Costituzionale). E spiega che il ritorno dell’intervento pubblico, appunto in stagioni di grandi e drammatiche crisi quali quelle che stiamo vivendo e di cui abbiamo detto all’inizio, deve sapere resistere alle pressioni di clientele, corporazioni e potenti gruppi di interesse (multinazionali high tech comprese) e fare scelte strategiche per indirizzare le risorse disponibili verso fini di interesse generale, comune.

Non uno “Stato provvidenza” prigioniero delle spinte alla continuazione della spesa pubblica clientelare (aggravando le politiche dell’espansione del debito pubblico, inaugurate già negli anni Ottanta, frenate dai vincoli per l’ingresso nell’euro e poi riesplose con recenti provvedimenti improduttivi, come il reddito di cittadinanza e “quota cento” per mandare costosamente in pensione anticipata centinaia di migliaia di persone) né uno Stato gestore diretto di imprese economiche (se non in condizioni transitorie di emergenza) ma uno Stato capace di “bilanciare” le pressioni contingenti e di definire le priorità delle scelte politiche sia nel tempo immediato della crisi sia nel tempo lungo delle strategie di ripresa.

Nel libro di Amato si individua bene un rischio: quello di approfittare dell’occasione offerta dalle ingenti risorse messe a disposizione dal Pnrr secondo le indicazioni del Recovery Plan Next Generation della Ue per piegare la spesa pubblica alle distorte funzioni di ricostruzione e rafforzamento del consenso per forze politiche spregiudicate, inclini all’assistenzialismo. E, ben consapevole delle logiche e della culture della Ue, Amato ricorda come l’attuale marginalità dell’ortodossia ordoliberista e dell’ossessione ideologica per il pareggio di bilancio dei singoli paesi Ue non sia affatto il “via libera” alla spesa pubblica fuori controllo ma, semmai, implichi una nuova cultura politica della spesa stessa. Per investimenti produttivi e non per affari correnti (di corporazioni e clientele, appunto). Sulla scia della lungimirante indicazione di Mario Draghi, da ex presidente della Bce, sulla differenza tra “debito buono” e “debito cattivo”. Una indicazione strategica responsabile di straordinario valore proprio in queste nostri mesi di crisi e tempeste di guerra.

Il rilancio della Ue e della sua vitale esigenze di autonomia e sicurezza strategica sotto l’assalto degli autoritarismi, si fonda sui pilastri della politica estera e della difesa comune, dell’energia e della ricerca scientifica e tecnologica. E chiede politiche straordinarie di investimento. Con un coordinamento tra gli Stati e le strutture di un ordinamento sovranazionale qual è, appunto, la Ue, per contribuire a un “New global Order”. Una responsabilità “pubblica” che lega democrazia liberale ed economia di mercato.

C’è, insomma, nell’ottimo libro di Amato, un’idea chiara dei valori della “lungimiranza della politica” e di una “democrazia governante”. E si delinea un buon orizzonte per riaffermare il primato e i valori della democrazia, sfidata dagli autoritarismi. E una pratica che dà spazio e ruolo alle forze sociali e alle loro rappresentanze, ai “corpi intermedi” su cui si articola la democrazia liberale.

Le crisi recenti, dalla pandemia da Covid 19 alla guerra in Ucraina, dai disastri ambientali alle difficoltà delle economie globali tra recessione, aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime e carenze di beni intermedi (i microchip) e di efficienze logistiche (le strozzature dei trasporti marittimi) hanno riportato in primo piano il peso e il ruolo degli Stati nazionali. Il globalismo, come ideologia del primato dei mercati, sembra entrato in un cono d’ombra. Gli interessi delle nazioni tornano in primo piano. Si avverte l’eco di valori e interessi che vengono dai secoli dei nazionalismo, che si amplificano con le sonorità stridenti del sovranismo. E tutto il mondo entra in fibrillazione, sotto l’onda d’urto degli squilibri multipolari. Tensioni geopolitiche nuove appesantiscono antichi conflitti. E ambiziosi protagonismi mettono sotto stress relazioni economiche, commerciali e sociali che avevano segnato gli scenari internazionali degli ultimi trent’anni. Siamo, insomma, nel cuore di una drammatica “età dell’incertezza”. In cui non si intravvedono risposte chiare, rassicuranti.

Si pone qui, in termini nuovi, anche un’altra delle grandi questioni che hanno occupato il dibattito politico contemporaneo, quella delle relazioni tra Stato e mercato, nel ripensamento critico che coinvolge la letteratura politica ed economica soprattutto delle democrazie occidentali.

Oggi la riflessione, in estrema sintesi, ci obbliga a parlare di necessità di avere contemporaneamente “più Stato” e “più mercato”, nel senso di uno Stato migliore, più giusto ed efficiente nell’uso produttivo della spesa pubblica per investimenti e della leva fiscale come stimolo e riequilibrio e di un mercato aperto e ben regolato, capace di fare vivere intraprendenza, concorrenza, merito, razionale impiego delle risorse per la crescita delle imprese e lo sviluppo economico e – qui si ritorna allo Stato – per la diffusione del benessere sociale.

Per capire meglio e guardare in profondità anche all’attuale situazione italiana, ci si può affidare alle sapienti pagine di “Bentornato Stato, ma…” di Giuliano Amato, pubblicato da Il Mulino, uno Stato “immune dai suoi vecchi vizi e lontano, in ogni circostanza, dall’hybris dell’accentramento autoritario”. Amato, infatti, è uomo di studi e di governo, ha l’esperienza lunga della politica vissuta da protagonista, la competenza del civil servant (da ex presidente dell’Autorità Antitrust) e la solidità della conoscenza del grande giurista (è stato appena eletto presidente della Corte Costituzionale). E spiega che il ritorno dell’intervento pubblico, appunto in stagioni di grandi e drammatiche crisi quali quelle che stiamo vivendo e di cui abbiamo detto all’inizio, deve sapere resistere alle pressioni di clientele, corporazioni e potenti gruppi di interesse (multinazionali high tech comprese) e fare scelte strategiche per indirizzare le risorse disponibili verso fini di interesse generale, comune.

Non uno “Stato provvidenza” prigioniero delle spinte alla continuazione della spesa pubblica clientelare (aggravando le politiche dell’espansione del debito pubblico, inaugurate già negli anni Ottanta, frenate dai vincoli per l’ingresso nell’euro e poi riesplose con recenti provvedimenti improduttivi, come il reddito di cittadinanza e “quota cento” per mandare costosamente in pensione anticipata centinaia di migliaia di persone) né uno Stato gestore diretto di imprese economiche (se non in condizioni transitorie di emergenza) ma uno Stato capace di “bilanciare” le pressioni contingenti e di definire le priorità delle scelte politiche sia nel tempo immediato della crisi sia nel tempo lungo delle strategie di ripresa.

Nel libro di Amato si individua bene un rischio: quello di approfittare dell’occasione offerta dalle ingenti risorse messe a disposizione dal Pnrr secondo le indicazioni del Recovery Plan Next Generation della Ue per piegare la spesa pubblica alle distorte funzioni di ricostruzione e rafforzamento del consenso per forze politiche spregiudicate, inclini all’assistenzialismo. E, ben consapevole delle logiche e della culture della Ue, Amato ricorda come l’attuale marginalità dell’ortodossia ordoliberista e dell’ossessione ideologica per il pareggio di bilancio dei singoli paesi Ue non sia affatto il “via libera” alla spesa pubblica fuori controllo ma, semmai, implichi una nuova cultura politica della spesa stessa. Per investimenti produttivi e non per affari correnti (di corporazioni e clientele, appunto). Sulla scia della lungimirante indicazione di Mario Draghi, da ex presidente della Bce, sulla differenza tra “debito buono” e “debito cattivo”. Una indicazione strategica responsabile di straordinario valore proprio in queste nostri mesi di crisi e tempeste di guerra.

Il rilancio della Ue e della sua vitale esigenze di autonomia e sicurezza strategica sotto l’assalto degli autoritarismi, si fonda sui pilastri della politica estera e della difesa comune, dell’energia e della ricerca scientifica e tecnologica. E chiede politiche straordinarie di investimento. Con un coordinamento tra gli Stati e le strutture di un ordinamento sovranazionale qual è, appunto, la Ue, per contribuire a un “New global Order”. Una responsabilità “pubblica” che lega democrazia liberale ed economia di mercato.

C’è, insomma, nell’ottimo libro di Amato, un’idea chiara dei valori della “lungimiranza della politica” e di una “democrazia governante”. E si delinea un buon orizzonte per riaffermare il primato e i valori della democrazia, sfidata dagli autoritarismi. E una pratica che dà spazio e ruolo alle forze sociali e alle loro rappresentanze, ai “corpi intermedi” su cui si articola la democrazia liberale.

Premio Campiello Junior 2022
Conosciamo gli autori finalisti

Martedì 5 aprile 2022 alle ore 17.30 si terrà un incontro per far conoscere, a tutti i ragazzi appassionati di lettura, i tre libri finalisti della prima edizione del Premio Campiello Junior:

Chiara Carminati, Un pinguino a Trieste, Bompiani

Guido QuarzoAnna Vivarelli, La scatola dei sogni, Editoriale Scienza

Antonella Sbuelz, Questa notte non torno, Feltrinelli

Nel corso dell’evento, organizzato dalla Fondazione Pirelli e dalla Fondazione il Campiello e che si svolgerà in streaming, gli autori racconteranno come sono nati i personaggi e le storie che hanno animato i loro racconti, in una conversazione con Chiara Lagani, Martino Negri e David Tolin, membri della Giuria di Selezione. Introdurrà l’evento Roberto Piumini, Presidente della Giuria di Selezione.

Nelle prossime settimane i ragazzi che fanno parte della Giuria dei Lettori dovranno esprimere la loro preferenza, scegliendo il libro che si aggiudicherà l’ambito Premio. La proclamazione del vincitore si terrà venerdì 6 maggio 2022.

Per seguire la diretta streaming clicca qui.

Maggiori informazioni sulle iniziative del Premio Campiello Junior ai siti www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org.

Martedì 5 aprile 2022 alle ore 17.30 si terrà un incontro per far conoscere, a tutti i ragazzi appassionati di lettura, i tre libri finalisti della prima edizione del Premio Campiello Junior:

Chiara Carminati, Un pinguino a Trieste, Bompiani

Guido QuarzoAnna Vivarelli, La scatola dei sogni, Editoriale Scienza

Antonella Sbuelz, Questa notte non torno, Feltrinelli

Nel corso dell’evento, organizzato dalla Fondazione Pirelli e dalla Fondazione il Campiello e che si svolgerà in streaming, gli autori racconteranno come sono nati i personaggi e le storie che hanno animato i loro racconti, in una conversazione con Chiara Lagani, Martino Negri e David Tolin, membri della Giuria di Selezione. Introdurrà l’evento Roberto Piumini, Presidente della Giuria di Selezione.

Nelle prossime settimane i ragazzi che fanno parte della Giuria dei Lettori dovranno esprimere la loro preferenza, scegliendo il libro che si aggiudicherà l’ambito Premio. La proclamazione del vincitore si terrà venerdì 6 maggio 2022.

Per seguire la diretta streaming clicca qui.

Maggiori informazioni sulle iniziative del Premio Campiello Junior ai siti www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org.

Governare l’incertezza

Uno degli ultimi interventi del Governatore di Banca d’Italia fornisce gli elementi utili a capire meglio la sitiazione che stiamo vivendo

L’incertezza, la necessità di sviluppo e i vincoli da superare, il problema delle materie prime e dell’energia, la necessità di non perdere l’attenzione alle interrelazioni tra economia e società. I tempi che – nostro malgrado -, si stanno attraversando sono densi di quelle che i commentatori chiamano “sfide”. Che tutti – nei rispettivi ruoli e funzioni – devono in qualche modo comprendere e, poi, affrontare positivamente. E’ per questo che può far bene leggere “Transizione energetica, finanza e clima: sfide e opportunità”, l’intervento che Ignazio Visco – governatoore di Banca d’Italia -, ha svolto il 14 marzo 2022 in occasione del XIII Conferenza MAECI – Banca d’Italia con i Delegati e gli Addetti finanziari accreditati all’estero.

La sostanza di quanto esposto da Visco viene colta già delle prime righe dell’intervento: “L’incontro di oggi cade in un momento tragico: i gravi eventi di queste settimane hanno gettato un’ombra di acuta incertezza su un’economia mondiale che già negli ultimi quindici anni aveva subito gli sconvolgimenti conseguenti prima alla crisi finanziaria globale, poi alla pandemia. Il contesto emerso dalla fine della guerra fredda sembra ora essere rimesso in questione. Sono divenuti incerti il quadro di integrazione economica e finanziaria internazionale e l’articolato assetto multilaterale che, pur tra molte difficoltà, era riuscito a mantenere in vita il dialogo e la cooperazione. Crepe già erano emerse negli ultimi anni; oggi è a repentaglio la pace nel nostro continente, elemento cruciale degli equilibri determinatisi nel secondo dopoguerra del secolo scorso. Si tratta di una cesura profonda, oltre che drammatica, che non potrà che portare a equilibri diversi, ancorché ora difficili da definire”. Momento cruciale, quindi. Che il governatore poi precisa affrontando alcuni argomenti fondamentali. Prima di tutto, la necessità di affrontare la transizione verso forme di reperimento di energia più efficaci, poi il dovere direttamente collegato alla transizione energetica di dare risposte chiare al cambiamento climatico. Ma non solo. Visco, infatti tocca anche il significato e il ruolo dell’Europa unita, non solo dal punto di vista geopolitico, ma pure – e per certi versi soprattutto -, per quanto riguarda proprio le politiche dell’energia e dei cambiamenti del clima.  Il governatore della banca centrale, poi, arriva a ragionare sugli aspetti finanziari che tutto questo immancabilmente determina.

Coesione e cooperazione appaiono, nel ragionamento condotto da Ignazio Visco, le vere “parole d’ordine” necessarie per affrontare, non solo con cognizione di causa ma con efficacia e razionalità, una congiuntura complessa, difficile e rischiosa. La lettura dell’intervento del governatore di Banca d’Italia contribuisce davvero a fornire gli strumenti conoscitivi importanti per agire nella direzione giusta.

Transizione energetica, finanza e clima: sfide e opportunità

Ignazio Visco

XIII Conferenza MAECI – Banca d’Italia con i Delegati e gli Addetti finanziari accreditati all’estero, Banca d’Italia, Salone dei Partecipanti 14 marzo 2022

Uno degli ultimi interventi del Governatore di Banca d’Italia fornisce gli elementi utili a capire meglio la sitiazione che stiamo vivendo

L’incertezza, la necessità di sviluppo e i vincoli da superare, il problema delle materie prime e dell’energia, la necessità di non perdere l’attenzione alle interrelazioni tra economia e società. I tempi che – nostro malgrado -, si stanno attraversando sono densi di quelle che i commentatori chiamano “sfide”. Che tutti – nei rispettivi ruoli e funzioni – devono in qualche modo comprendere e, poi, affrontare positivamente. E’ per questo che può far bene leggere “Transizione energetica, finanza e clima: sfide e opportunità”, l’intervento che Ignazio Visco – governatoore di Banca d’Italia -, ha svolto il 14 marzo 2022 in occasione del XIII Conferenza MAECI – Banca d’Italia con i Delegati e gli Addetti finanziari accreditati all’estero.

La sostanza di quanto esposto da Visco viene colta già delle prime righe dell’intervento: “L’incontro di oggi cade in un momento tragico: i gravi eventi di queste settimane hanno gettato un’ombra di acuta incertezza su un’economia mondiale che già negli ultimi quindici anni aveva subito gli sconvolgimenti conseguenti prima alla crisi finanziaria globale, poi alla pandemia. Il contesto emerso dalla fine della guerra fredda sembra ora essere rimesso in questione. Sono divenuti incerti il quadro di integrazione economica e finanziaria internazionale e l’articolato assetto multilaterale che, pur tra molte difficoltà, era riuscito a mantenere in vita il dialogo e la cooperazione. Crepe già erano emerse negli ultimi anni; oggi è a repentaglio la pace nel nostro continente, elemento cruciale degli equilibri determinatisi nel secondo dopoguerra del secolo scorso. Si tratta di una cesura profonda, oltre che drammatica, che non potrà che portare a equilibri diversi, ancorché ora difficili da definire”. Momento cruciale, quindi. Che il governatore poi precisa affrontando alcuni argomenti fondamentali. Prima di tutto, la necessità di affrontare la transizione verso forme di reperimento di energia più efficaci, poi il dovere direttamente collegato alla transizione energetica di dare risposte chiare al cambiamento climatico. Ma non solo. Visco, infatti tocca anche il significato e il ruolo dell’Europa unita, non solo dal punto di vista geopolitico, ma pure – e per certi versi soprattutto -, per quanto riguarda proprio le politiche dell’energia e dei cambiamenti del clima.  Il governatore della banca centrale, poi, arriva a ragionare sugli aspetti finanziari che tutto questo immancabilmente determina.

Coesione e cooperazione appaiono, nel ragionamento condotto da Ignazio Visco, le vere “parole d’ordine” necessarie per affrontare, non solo con cognizione di causa ma con efficacia e razionalità, una congiuntura complessa, difficile e rischiosa. La lettura dell’intervento del governatore di Banca d’Italia contribuisce davvero a fornire gli strumenti conoscitivi importanti per agire nella direzione giusta.

Transizione energetica, finanza e clima: sfide e opportunità

Ignazio Visco

XIII Conferenza MAECI – Banca d’Italia con i Delegati e gli Addetti finanziari accreditati all’estero, Banca d’Italia, Salone dei Partecipanti 14 marzo 2022

Concreti archivi digitali

Condensata in un libro teoria e pratica della digitalizzazione applicata all’heritage

 

Il futuro che rivisita il passato e lo rende più fruibile e comprensibile. Non un artificio fatto di linguaggio e immagini, ma un’operazione concreta. Che mette a disposizione di tutti nuove fonti di conoscenza. Ed è l’intersezione tra tecniche digitali, archivi e patrimoni culturali e d’impresa ad essere uno degli esempi più importanti e interessanti in questa direzione.

A ragionarci sopra, partendo dagli archvi culturali in senso lato -, è stata Margherita Tufarelli (Università degli studi di Firenze) con il suo “Design, Heritage e cultura digitale. Scenari per il progetto nell’archivio diffuso” appena pubblicato.

Tufarelli ha cercato di mettere insieme in un unico ragionamento, le possibilità offerte dalle tecniche di digitalizzazione più innovative del momento, le numerose presenze di archivi culturali in Italia e tutto ciò che viene compreso nel concetto di heritage. Forte della sua esperienza pluriannuale di ricerca e lavoro in questi ambiti, l’autrice del libro pubblicato da Firenze University Press affronta il tema – non facile – in quattro passaggi – “da patrimonio ad heritage, da oggetti a processi”, “design per/e/del Cultural Heritage”, “Memoria digitale”, “da luogo di conservazione a strumento di progetto” -, caratterizzati sempre dallo sforzo di coniugare teoria ed esperienza di diversi anni di esperienza tra design e degli archivi culturali.

Scrive Tufarelli: “L’impatto delle tecnologie digitali sembrerebbe aver prodotto un metaverso in cui reale e digitale si fondo in una sorta di nuova materialità dalle caratteristiche fisiche inedite, e tutte da scoprire, che danno cita a nuovi terreni di sperimentazione caratterizzati dalla disponibilità, dalla pervasività e dall’accessibilità. La nuova materia che viene via via configurandosi appare come il prodotto di interazioni continue tra nuovi media e nuovi strumenti che innescano una complessa manovra culturale di fondo, trovandosi ad incidere sulle dinamiche della produzione di contenuti culturali così come sulla loro trasmissione”.

Viene così delineata una sorta di rappresentazione delle possibilità che nascono dalla attenta coniugazione tra tecniche digitali e archivi culturali. Un modello che può essere con efficacia trasposto anche nell’ambito degli archivi e dei musei d’impresa.

Design, Heritage e cultura digitale. Scenari per il progetto nell’archivio diffuso

Margherita Tufarelli

Firenze University Press, 2022

Condensata in un libro teoria e pratica della digitalizzazione applicata all’heritage

 

Il futuro che rivisita il passato e lo rende più fruibile e comprensibile. Non un artificio fatto di linguaggio e immagini, ma un’operazione concreta. Che mette a disposizione di tutti nuove fonti di conoscenza. Ed è l’intersezione tra tecniche digitali, archivi e patrimoni culturali e d’impresa ad essere uno degli esempi più importanti e interessanti in questa direzione.

A ragionarci sopra, partendo dagli archvi culturali in senso lato -, è stata Margherita Tufarelli (Università degli studi di Firenze) con il suo “Design, Heritage e cultura digitale. Scenari per il progetto nell’archivio diffuso” appena pubblicato.

Tufarelli ha cercato di mettere insieme in un unico ragionamento, le possibilità offerte dalle tecniche di digitalizzazione più innovative del momento, le numerose presenze di archivi culturali in Italia e tutto ciò che viene compreso nel concetto di heritage. Forte della sua esperienza pluriannuale di ricerca e lavoro in questi ambiti, l’autrice del libro pubblicato da Firenze University Press affronta il tema – non facile – in quattro passaggi – “da patrimonio ad heritage, da oggetti a processi”, “design per/e/del Cultural Heritage”, “Memoria digitale”, “da luogo di conservazione a strumento di progetto” -, caratterizzati sempre dallo sforzo di coniugare teoria ed esperienza di diversi anni di esperienza tra design e degli archivi culturali.

Scrive Tufarelli: “L’impatto delle tecnologie digitali sembrerebbe aver prodotto un metaverso in cui reale e digitale si fondo in una sorta di nuova materialità dalle caratteristiche fisiche inedite, e tutte da scoprire, che danno cita a nuovi terreni di sperimentazione caratterizzati dalla disponibilità, dalla pervasività e dall’accessibilità. La nuova materia che viene via via configurandosi appare come il prodotto di interazioni continue tra nuovi media e nuovi strumenti che innescano una complessa manovra culturale di fondo, trovandosi ad incidere sulle dinamiche della produzione di contenuti culturali così come sulla loro trasmissione”.

Viene così delineata una sorta di rappresentazione delle possibilità che nascono dalla attenta coniugazione tra tecniche digitali e archivi culturali. Un modello che può essere con efficacia trasposto anche nell’ambito degli archivi e dei musei d’impresa.

Design, Heritage e cultura digitale. Scenari per il progetto nell’archivio diffuso

Margherita Tufarelli

Firenze University Press, 2022

Tre ragazzi italiani su dieci scelgono un futuro di lavoro e vita all’estero

Dov’è il futuro per i giovani italiani? All’estero, dicono tre ragazzi su dieci, intenzionati a lasciare l’Italia per trovare migliori condizioni di lavoro e di vita. E a muoverli è la ricerca di una dimensione professionale soddisfacente, di una reale autonomia finanziaria e, per le ragazze, d’una  possibilità concreta di superare il divario di genere che, nel nostro paese, incide ancora molto su redditi e opportunità di carriere.

I dati sono contenuti del Rapporto 2021 della Fondazione Visentini/Luiss, presentato nei giorni scorsi a Roma (IlSole24Ore, 10 marzo). E confermano come continui la “fuga dei cervelli”, con numeri crescenti anno dopo anno. Erano più di 50 mila i giovani (15-34 anni) andati via soltanto nel 2019, alla vigilia della pandemia, secondo dati del Rapporto Migrantes sugli “Italiani nel mondo”. 250mila nel decennio 2009-2018 secondo il Rapporto annuale 2019 sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Leone Moressa. E 300mila secondo l’Unione europea delle cooperative su dati Istat 2019 (qui sono compresi quelli che vanno a studiare all’estero, non solo a lavorare) con un aumento del 33% negli ultimi cinque anni. Una perdita di capitale umano ma anche di capitale sociale impressionante, se si considera che a partire sono, mediamente, i più intraprendenti, ambiziosi, determinati, animati da un forte spirito d’innovazione e di voglia di scoperta.

Il peso di questa perdita? Lo si può ben vedere, per esempio, nel fatto che “l’industria del made in Italy è a caccia di 346mila talenti” (IlSole24Ore, 9 marzo), secondo dati della Fondazione Altagamma per cui la manifattura nei settori moda, design, arredamento, nautica, automotive e alimentare di qualità ha più difficoltà a trovare il 40% delle professionalità richieste e addirittura il 50% dei profili tecnici. E, più in generale, resta scoperto il 40% dei posti che sia l’industria che i servizi mettono sul mercato del lavoro (Indagine Excelsior Unioncamere-Anpal, Il Sole24Ore 22 febbraio: ne abbiamo parlato nel blog dell’8 marzo). Il futuro, con la crescente “fuga dei cervelli”, non potrà che essere peggiore.

Ma guardiamo meglio i dati del Rapporto della Fondazione Visentini, per cercare di capire le motivazioni di fondo delle tensioni migratorie dei nostri giovani.  L’indagine è stata condotta nella primavera del ‘21 fra oltre 3mila ragazze e ragazzi della scuola secondaria di secondo grado in tutta Italia, cercando di capire aspirazioni e preoccupazioni. E al primo posto c’è “un lavoro soddisfacente”, seguito da “autonomia finanziaria”, “benessere della famiglia”, “difficoltà di fare carriera”, “degrado ambientale”, “salute mentale e fisica”. Per raggiungere questi obiettivi il 29% è pronto ad andare all’estero. L’80% si dicono “fiduciosi” nel futuro, ma lo sono abbastanza di meno per quel che riguarda il loro futuro in Italia. E la sollecitazione maggiore, a chi governa, è investire sulla formazione, non solo scolastica, ma di lungo periodo: una leva fondamentale di crescita personale, affermazione professionale, benessere.

Il Pnrr, secondo le indicazioni del Recovery Plan Next Generation Ue, come sappiamo, punta a rispondere a queste esigenze. Ma è una sfida aperta. Per le nuove generazioni, ancora un catalogo di buone intenzioni. La pandemia, con i due anni di rallentamento della vita economica e civile e adesso, nel cuore della ripresa, i guasti provocati dall’invasione russa e dalla guerra in Ucraina, aggravano il quadro delle difficoltà per le nuove generazioni e ne incrinano sicurezza e fiducia.

Ma quali sono i dati più generali dell’emigrazione italiana verso gli altri paesi dell’Europa e del mondo? Per capirlo, vale la pena leggere l’ultima edizione del Rapporto Migrantes 2021, in cui si nota innanzitutto che “nell’ultimo anno l’aumento della popolazione AIRE (gli italiani residenti all’estero) è stato del 3%, ma questo dato diventa il 6,9% dal 2019, il 13,6% negli ultimi cinque anni, ben l’82% dal 2006, anno della prima edizione del Rapporto Italiani nel Mondo. La differenza di genere è quasi scomparsa: le donne sono il 48,1% del totale degli italiani all’estero: “Un processo – sostiene il Rapporto Migrantes – che è, allo stesso tempo, di femminilizzazione e di familiarizzazione. A partire, infatti, sono sicuramente oggi moltissime donne alla ricerca di realizzazione personale e professionale, ma vi sono anche tanti nuclei familiari con figli al seguito, legati o meno da matrimonio. Stando ai dati dell’Ufficio Centrale di Statistica del Ministero dell’Interno aggiornati all’inizio del 2020, su quasi 5,5 milioni di residenti all’estero, le famiglie sono 3.223.486”.

Per comprendere davvero cosa stia capitando alla mobilità italiana, il Rapporto Migrantes cita una serie di dati: + 76,8% l’aumento dei minori; + 179% circa l’aumento dei cittadini iscritti all’AIRE tra i 19 e i 40 anni; +158,1% i nati all’estero da cittadini AIRE; +128,6% le acquisizioni di cittadinanza e +42,7% le iscrizioni all’Anagrafe con la motivazione espatrio: “Si tratta di una popolazione che, nel suo complesso, crescendo si sta sempre più ringiovanendo, ma mentre l’America, soprattutto meridionale, cresce grazie alle acquisizioni di cittadinanza, l’Europa vive effettivamente una nuova stagione migratoria caratterizzata da recenti iscrizioni per espatrio e da nascite da cittadini già residenti all’estero”.

Al 1° gennaio 2021, la comunità strutturale dei connazionali residenti all’estero è costituita da 5.652.080 unità, il 9,5% degli oltre 59,2 milioni di italiani residenti in Italia. Di questi italiani all’estero, il 45,5% ha tra i 18 e i 49 anni (oltre 2,5 milioni), il 15% è un minore (848 mila circa di cui il 6,8% ha meno di 10 anni) e il 20,3% ha più di 65 anni (oltre 1,1 milione di cui il 10,7%, cioè circa 600 mila, ha più di 75 anni). Il 53,0% è iscritto da meno di 15 anni, il 47,0% da più di 15 anni.

La Sicilia, con oltre 798 mila iscrizioni, è la regione con la comunità più numerosa di residenti all’estero. Seguita da Lombardia (561 mila), Campania (quasi 531 mila), Lazio (quasi 489 mila), Veneto (479 mila) e Calabria (430 mila). E le comunità più grandi di cittadini italiani iscritti all’AIRE sono l’Argentina (884.187, il 15,6% del totale), la Germania, la Svizzera. Poi, il Brasile, la Francia, il Regno Unito e gli Stati Uniti.

Commenta il Rapporto Migrantes: “L’Italia sta vivendo da poco più di un decennio una nuova stagione migratoria, ma le conseguenze di questo percorso sono apparse, in tutta la loro evidenza, nell’ultimo quinquennio aggravando una strada che l’Italia sta pericolosamente percorrendo velocemente e a senso unico, caratterizzata da svuotamento e spopolamento, dove alle partenze non corrispondono i ritorni. Se, peraltro, a lasciare l’Italia sono i giovani nel pieno della loro vitalità personale e creatività professionale, è su questi che si deve concentrare l’attenzione e l’azione”.

Torniamo, così, al bisogno di buona politica. Lavoro, formazione, redditi, qualità della vita sono l’obiettivo. Per non bruciare le possibilità di un’intera nuova generazione.

(foto Getty Images)

Dov’è il futuro per i giovani italiani? All’estero, dicono tre ragazzi su dieci, intenzionati a lasciare l’Italia per trovare migliori condizioni di lavoro e di vita. E a muoverli è la ricerca di una dimensione professionale soddisfacente, di una reale autonomia finanziaria e, per le ragazze, d’una  possibilità concreta di superare il divario di genere che, nel nostro paese, incide ancora molto su redditi e opportunità di carriere.

I dati sono contenuti del Rapporto 2021 della Fondazione Visentini/Luiss, presentato nei giorni scorsi a Roma (IlSole24Ore, 10 marzo). E confermano come continui la “fuga dei cervelli”, con numeri crescenti anno dopo anno. Erano più di 50 mila i giovani (15-34 anni) andati via soltanto nel 2019, alla vigilia della pandemia, secondo dati del Rapporto Migrantes sugli “Italiani nel mondo”. 250mila nel decennio 2009-2018 secondo il Rapporto annuale 2019 sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Leone Moressa. E 300mila secondo l’Unione europea delle cooperative su dati Istat 2019 (qui sono compresi quelli che vanno a studiare all’estero, non solo a lavorare) con un aumento del 33% negli ultimi cinque anni. Una perdita di capitale umano ma anche di capitale sociale impressionante, se si considera che a partire sono, mediamente, i più intraprendenti, ambiziosi, determinati, animati da un forte spirito d’innovazione e di voglia di scoperta.

Il peso di questa perdita? Lo si può ben vedere, per esempio, nel fatto che “l’industria del made in Italy è a caccia di 346mila talenti” (IlSole24Ore, 9 marzo), secondo dati della Fondazione Altagamma per cui la manifattura nei settori moda, design, arredamento, nautica, automotive e alimentare di qualità ha più difficoltà a trovare il 40% delle professionalità richieste e addirittura il 50% dei profili tecnici. E, più in generale, resta scoperto il 40% dei posti che sia l’industria che i servizi mettono sul mercato del lavoro (Indagine Excelsior Unioncamere-Anpal, Il Sole24Ore 22 febbraio: ne abbiamo parlato nel blog dell’8 marzo). Il futuro, con la crescente “fuga dei cervelli”, non potrà che essere peggiore.

Ma guardiamo meglio i dati del Rapporto della Fondazione Visentini, per cercare di capire le motivazioni di fondo delle tensioni migratorie dei nostri giovani.  L’indagine è stata condotta nella primavera del ‘21 fra oltre 3mila ragazze e ragazzi della scuola secondaria di secondo grado in tutta Italia, cercando di capire aspirazioni e preoccupazioni. E al primo posto c’è “un lavoro soddisfacente”, seguito da “autonomia finanziaria”, “benessere della famiglia”, “difficoltà di fare carriera”, “degrado ambientale”, “salute mentale e fisica”. Per raggiungere questi obiettivi il 29% è pronto ad andare all’estero. L’80% si dicono “fiduciosi” nel futuro, ma lo sono abbastanza di meno per quel che riguarda il loro futuro in Italia. E la sollecitazione maggiore, a chi governa, è investire sulla formazione, non solo scolastica, ma di lungo periodo: una leva fondamentale di crescita personale, affermazione professionale, benessere.

Il Pnrr, secondo le indicazioni del Recovery Plan Next Generation Ue, come sappiamo, punta a rispondere a queste esigenze. Ma è una sfida aperta. Per le nuove generazioni, ancora un catalogo di buone intenzioni. La pandemia, con i due anni di rallentamento della vita economica e civile e adesso, nel cuore della ripresa, i guasti provocati dall’invasione russa e dalla guerra in Ucraina, aggravano il quadro delle difficoltà per le nuove generazioni e ne incrinano sicurezza e fiducia.

Ma quali sono i dati più generali dell’emigrazione italiana verso gli altri paesi dell’Europa e del mondo? Per capirlo, vale la pena leggere l’ultima edizione del Rapporto Migrantes 2021, in cui si nota innanzitutto che “nell’ultimo anno l’aumento della popolazione AIRE (gli italiani residenti all’estero) è stato del 3%, ma questo dato diventa il 6,9% dal 2019, il 13,6% negli ultimi cinque anni, ben l’82% dal 2006, anno della prima edizione del Rapporto Italiani nel Mondo. La differenza di genere è quasi scomparsa: le donne sono il 48,1% del totale degli italiani all’estero: “Un processo – sostiene il Rapporto Migrantes – che è, allo stesso tempo, di femminilizzazione e di familiarizzazione. A partire, infatti, sono sicuramente oggi moltissime donne alla ricerca di realizzazione personale e professionale, ma vi sono anche tanti nuclei familiari con figli al seguito, legati o meno da matrimonio. Stando ai dati dell’Ufficio Centrale di Statistica del Ministero dell’Interno aggiornati all’inizio del 2020, su quasi 5,5 milioni di residenti all’estero, le famiglie sono 3.223.486”.

Per comprendere davvero cosa stia capitando alla mobilità italiana, il Rapporto Migrantes cita una serie di dati: + 76,8% l’aumento dei minori; + 179% circa l’aumento dei cittadini iscritti all’AIRE tra i 19 e i 40 anni; +158,1% i nati all’estero da cittadini AIRE; +128,6% le acquisizioni di cittadinanza e +42,7% le iscrizioni all’Anagrafe con la motivazione espatrio: “Si tratta di una popolazione che, nel suo complesso, crescendo si sta sempre più ringiovanendo, ma mentre l’America, soprattutto meridionale, cresce grazie alle acquisizioni di cittadinanza, l’Europa vive effettivamente una nuova stagione migratoria caratterizzata da recenti iscrizioni per espatrio e da nascite da cittadini già residenti all’estero”.

Al 1° gennaio 2021, la comunità strutturale dei connazionali residenti all’estero è costituita da 5.652.080 unità, il 9,5% degli oltre 59,2 milioni di italiani residenti in Italia. Di questi italiani all’estero, il 45,5% ha tra i 18 e i 49 anni (oltre 2,5 milioni), il 15% è un minore (848 mila circa di cui il 6,8% ha meno di 10 anni) e il 20,3% ha più di 65 anni (oltre 1,1 milione di cui il 10,7%, cioè circa 600 mila, ha più di 75 anni). Il 53,0% è iscritto da meno di 15 anni, il 47,0% da più di 15 anni.

La Sicilia, con oltre 798 mila iscrizioni, è la regione con la comunità più numerosa di residenti all’estero. Seguita da Lombardia (561 mila), Campania (quasi 531 mila), Lazio (quasi 489 mila), Veneto (479 mila) e Calabria (430 mila). E le comunità più grandi di cittadini italiani iscritti all’AIRE sono l’Argentina (884.187, il 15,6% del totale), la Germania, la Svizzera. Poi, il Brasile, la Francia, il Regno Unito e gli Stati Uniti.

Commenta il Rapporto Migrantes: “L’Italia sta vivendo da poco più di un decennio una nuova stagione migratoria, ma le conseguenze di questo percorso sono apparse, in tutta la loro evidenza, nell’ultimo quinquennio aggravando una strada che l’Italia sta pericolosamente percorrendo velocemente e a senso unico, caratterizzata da svuotamento e spopolamento, dove alle partenze non corrispondono i ritorni. Se, peraltro, a lasciare l’Italia sono i giovani nel pieno della loro vitalità personale e creatività professionale, è su questi che si deve concentrare l’attenzione e l’azione”.

Torniamo, così, al bisogno di buona politica. Lavoro, formazione, redditi, qualità della vita sono l’obiettivo. Per non bruciare le possibilità di un’intera nuova generazione.

(foto Getty Images)

Pirelli Ercole: un pneumatico “mitologico”

Ercole”. Con questo nome Pirelli, nel 1901, decide di affacciarsi sul mercato dei pneumatici per automobili. Il primo pneumatico Pirelli, brevettato nel 1901, evoca così la forza del leggendario eroe greco capace di avere la meglio, ancora neonato, su due serpenti o di affrontare le celebri dodici fatiche. È un compito arduo quello di affermare tecnicamente e introdurre commercialmente questo nuovo pneumatico. Molte sono infatti le sfide da superare, legate all’incremento continuo della velocità, dell’accelerazione e dell’aumento dei carichi delle nuove vetture che vanno diffondendosi proprio nei primi anni del Novecento. La tecnologia dei pneumatici è ancora tutta da inventare: la maggiore criticità è quella di mantenere fissa la copertura del cerchio durante la marcia. Gli ingegneri e i tecnici di Pirelli immaginano così due grossi “talloni” inesestensibili da incastrare nel canale del cerchione. I talloni, combaciando, racchiudono interamente la camera d’aria e la costringono a mantenere la forma circolare. Un sistema di aggancio più vantaggioso rispetto agli altri al tempo in circolazione, significativo dell’attenzione dell’azienda per la tecnologia e l’innovazione. Già nel 1902 e poi nel 1903 la Pirelli pubblica un vero e proprio libretto di istruzioni per spiegare in maniera chiara e dettagliata come montare e smontare i nuovi pneumatici. Un’operazione, quella del cambio gomme, all’epoca piuttosto complicata che richiede tempo e pazienza, ma che è ampiamente ricompensata dalla libertà e dalla riduzione dei tempi di percorrenza dei viaggi dei primi avventurosi piloti.

Ercole”. Con questo nome Pirelli, nel 1901, decide di affacciarsi sul mercato dei pneumatici per automobili. Il primo pneumatico Pirelli, brevettato nel 1901, evoca così la forza del leggendario eroe greco capace di avere la meglio, ancora neonato, su due serpenti o di affrontare le celebri dodici fatiche. È un compito arduo quello di affermare tecnicamente e introdurre commercialmente questo nuovo pneumatico. Molte sono infatti le sfide da superare, legate all’incremento continuo della velocità, dell’accelerazione e dell’aumento dei carichi delle nuove vetture che vanno diffondendosi proprio nei primi anni del Novecento. La tecnologia dei pneumatici è ancora tutta da inventare: la maggiore criticità è quella di mantenere fissa la copertura del cerchio durante la marcia. Gli ingegneri e i tecnici di Pirelli immaginano così due grossi “talloni” inesestensibili da incastrare nel canale del cerchione. I talloni, combaciando, racchiudono interamente la camera d’aria e la costringono a mantenere la forma circolare. Un sistema di aggancio più vantaggioso rispetto agli altri al tempo in circolazione, significativo dell’attenzione dell’azienda per la tecnologia e l’innovazione. Già nel 1902 e poi nel 1903 la Pirelli pubblica un vero e proprio libretto di istruzioni per spiegare in maniera chiara e dettagliata come montare e smontare i nuovi pneumatici. Un’operazione, quella del cambio gomme, all’epoca piuttosto complicata che richiede tempo e pazienza, ma che è ampiamente ricompensata dalla libertà e dalla riduzione dei tempi di percorrenza dei viaggi dei primi avventurosi piloti.

Svilupparsi anche dai conflitti

Un libro appena pubblicato in Italia, ragiona sul complesso rapporto tra impresa, stakeholder e occasioni di crescita

Strette tra le esigenze di bilancio (da chiudere comunque per bene) e quelle dei cosiddetti stakeholder, le imprese devono cercare continuamente un proprio assetto produttivo e organizzativo che consenta loro di crescere e svilupparsi, oltre che contrastare concorrenza e variabilità esterne. Compiti non facili, che mettono in gioco ogni giorno non solo l’organizzazione ma anche la stessa cultura del produrre e quindi la visione dei compiti e degli obiettivi imprenditoriali.
E’ attorno a questo nodo di argomenti che Sarah Kaplan ha scritto “L’ impresa a 360 gradi. Dai compromessi con gli stakeholder alla trasformazione organizzativa” appena tradotto in Italia. Il libro prende le mosse proprio dalla considerazione della realtà nella quale si muovono le aziende chiamate a rispondere alle richieste, crescenti e pressanti, di stakeholder diversi. Perché in questa categoria finiscono i consumatori che vogliono prodotti socialmente responsabili ma anche economicamente sostenibili per le loro tasche, i dipendenti che chiedono lavori che diano loro un senso, gli investitori che vagliano i criteri ambientali, sociali e di governance; ma ci sono anche i cosiddetti “clicktivisti” che sono capaci di scatenare tempeste social non appena un’azienda compia un passo falso.
Chi amministra e organizza le aziende – è una delle idee principali di tutto il libro -, ha imparato da tutte queste condizioni che le imprese devono essere attori sociali oltre che commerciali, ma che le pressioni dei vari stakeholder esigono spesso di trovare un compromesso con l’imperativo di generare risultati finanziari per gli azionisti.
Il quesito al quale Kaplan cerca di dare risposta è quindi chiarissimo. Come fanno le aziende a rispondere a tutte queste domande senza cadere in politiche ambientali o di pari opportunità semplicemente di facciata? La risposta è complessa, viene raccontata in circa 240 pagine scritte in modo leggibilissimo e ruota attorno ai limiti del modello basato sul valore condiviso, illusoriamente capace, secondo l’autrice, di generare vantaggi per tutti. In “cambio” del concetto di valore condiviso, invece, Kaplan offre un percorso per esplorare i modi in cui le aziende possono affrontare i conflitti reali, innovando a partire da questi ultimi e talvolta persino prosperando in mezzo a essi. E, anzi, dimostrando come la mentalità del valore condiviso possa di fatto ostacolare il progresso e come, invece, dal conflitto – quando ben gestito -, possano nascere “occasioni di resilienza e trasformazione organizzativa”.
Come di fronte ad ogni libro che sia scritto con chiarezza e che presenti idee ben delineate, anche in questo caso chi legge non è obbligato a condividere tutto ciò che nelle pagine trova scritto. La bontà del libro di Kaplan è anche questa: suscitare interrogativi e dibattiti, generare – in altre parole -, conflitti che possano essere positivi per le imprese e la cultura del produrre.

L’impresa a 360 gradi. Dai compromessi con gli stakeholder alla trasformazione organizzativa
Sarah Kaplan
Egea, 2020

Un libro appena pubblicato in Italia, ragiona sul complesso rapporto tra impresa, stakeholder e occasioni di crescita

Strette tra le esigenze di bilancio (da chiudere comunque per bene) e quelle dei cosiddetti stakeholder, le imprese devono cercare continuamente un proprio assetto produttivo e organizzativo che consenta loro di crescere e svilupparsi, oltre che contrastare concorrenza e variabilità esterne. Compiti non facili, che mettono in gioco ogni giorno non solo l’organizzazione ma anche la stessa cultura del produrre e quindi la visione dei compiti e degli obiettivi imprenditoriali.
E’ attorno a questo nodo di argomenti che Sarah Kaplan ha scritto “L’ impresa a 360 gradi. Dai compromessi con gli stakeholder alla trasformazione organizzativa” appena tradotto in Italia. Il libro prende le mosse proprio dalla considerazione della realtà nella quale si muovono le aziende chiamate a rispondere alle richieste, crescenti e pressanti, di stakeholder diversi. Perché in questa categoria finiscono i consumatori che vogliono prodotti socialmente responsabili ma anche economicamente sostenibili per le loro tasche, i dipendenti che chiedono lavori che diano loro un senso, gli investitori che vagliano i criteri ambientali, sociali e di governance; ma ci sono anche i cosiddetti “clicktivisti” che sono capaci di scatenare tempeste social non appena un’azienda compia un passo falso.
Chi amministra e organizza le aziende – è una delle idee principali di tutto il libro -, ha imparato da tutte queste condizioni che le imprese devono essere attori sociali oltre che commerciali, ma che le pressioni dei vari stakeholder esigono spesso di trovare un compromesso con l’imperativo di generare risultati finanziari per gli azionisti.
Il quesito al quale Kaplan cerca di dare risposta è quindi chiarissimo. Come fanno le aziende a rispondere a tutte queste domande senza cadere in politiche ambientali o di pari opportunità semplicemente di facciata? La risposta è complessa, viene raccontata in circa 240 pagine scritte in modo leggibilissimo e ruota attorno ai limiti del modello basato sul valore condiviso, illusoriamente capace, secondo l’autrice, di generare vantaggi per tutti. In “cambio” del concetto di valore condiviso, invece, Kaplan offre un percorso per esplorare i modi in cui le aziende possono affrontare i conflitti reali, innovando a partire da questi ultimi e talvolta persino prosperando in mezzo a essi. E, anzi, dimostrando come la mentalità del valore condiviso possa di fatto ostacolare il progresso e come, invece, dal conflitto – quando ben gestito -, possano nascere “occasioni di resilienza e trasformazione organizzativa”.
Come di fronte ad ogni libro che sia scritto con chiarezza e che presenti idee ben delineate, anche in questo caso chi legge non è obbligato a condividere tutto ciò che nelle pagine trova scritto. La bontà del libro di Kaplan è anche questa: suscitare interrogativi e dibattiti, generare – in altre parole -, conflitti che possano essere positivi per le imprese e la cultura del produrre.

L’impresa a 360 gradi. Dai compromessi con gli stakeholder alla trasformazione organizzativa
Sarah Kaplan
Egea, 2020

Welfare in Italia, dove e come

Il quarto rapporto sul tema curato da Michele Tiraboschi, conferma la complessità dell’argomento ma anche la sua necessità

 

Capire di più e meglio del welfare  in Italia e, quindi, usarlo in modo maggiormente efficace. Per i lavoratori e le imprese. Chiarezza, quindi, in prima fila. E precisione nei contenuti.

Sono i tratti caratteristici delle ricerche contenute in “WELFARE for PEOPLE”, il quarto rapporto sul welfare occupazionale e aziendale in Italia curato da Michele Tiraboschi. Una sorta di guida ad un tema affascinante e importante che, spesso, è però trattato con eccessiva superficialità. Per questo, i curatori nelle prime righe della raccolta evidenziano “l’ambizione di fornire un contributo utile allo sviluppo ordinato del welfare aziendale/occupazionale”. Perché uno dei problemi da affrontare sta proprio nel “disordine” dovuto all’entusiasmo su un argomento e su attività che – a ben vedere – non sono novità dell’oggi ma che oggi hanno trovato nuovi spazi di espansione e applicazione.

Le ricerche ospitate dalla raccolta coordinata da Tiraboschi sono state quindi dettate dallo “sforzo di sviluppare un ragionamento sufficientemente articolato, ma agile nell’impianto e semplice nella forma comunicativa”.

Alla base di tutto una “mappa” del welfare in Italia che parte dall’analisi di quanto accade, viene spiegato, “nel vasto universo della contrattazione collettiva (nazionale, territoriale e aziendale) secondo una prospettiva metodologica di relazioni industriali che consente di ricondurre a sistema una pluralità di frammenti di welfare che, se visti in modo isolato, offrono una lettura parziale e anche distorta del fenomeno”. Un’operazione resa possibile dalla banca dati “fareContrattazione” realizzata dal centro studi ADAPT, che contiene, oltre a tutti i principali contratti collettivi nazionali di riferimento espressione dei sistemi di relazioni industriali dotati di una maggiore rappresentatività comparata, oltre 2.800 tra contratti aziendali e territoriali.

Al di là dei numeri e delle analisi, sono poi almeno tre i passaggi da considerare per una migliore comprensione del welfare in Italia e che derivano dalle indagini condotte dal gruppo di studio di Tiraboschi. Prima di tutta la “grande trasformazione” ancora in corso che il welfare  rappresenta nelle relazioni industriali, poi le relazioni tra welfare e pandemia e, infine, quelle tra welfare e territorio (di cui vengono posti in questa edizione alcuni casi emblematici). Tutto con una grande attenzione a quanto già accennato: la necessità di misurare con affidabilità quanto sta accadendo.

Il lavoro di Michele Tiraboschi e dei  “suoi” ricercatori ha il gran pregio non solo di parlar chiaro a tutti, ma anche di fornire una mappa aggiornata di quanto accade: ciò che è indispensabile per istituzioni e imprese per capire meglio e fare ancora meglio.

WELFARE for PEOPLE. Quarto rapporto su IL WELFARE OCCUPAZIONALE E AZIENDALE IN ITALIA. Il welfare occupazionale e aziendale in Italia

Michele Tiraboschi (a cura di)

Adapt/Intesa Sanpaolo, 2021

Il quarto rapporto sul tema curato da Michele Tiraboschi, conferma la complessità dell’argomento ma anche la sua necessità

 

Capire di più e meglio del welfare  in Italia e, quindi, usarlo in modo maggiormente efficace. Per i lavoratori e le imprese. Chiarezza, quindi, in prima fila. E precisione nei contenuti.

Sono i tratti caratteristici delle ricerche contenute in “WELFARE for PEOPLE”, il quarto rapporto sul welfare occupazionale e aziendale in Italia curato da Michele Tiraboschi. Una sorta di guida ad un tema affascinante e importante che, spesso, è però trattato con eccessiva superficialità. Per questo, i curatori nelle prime righe della raccolta evidenziano “l’ambizione di fornire un contributo utile allo sviluppo ordinato del welfare aziendale/occupazionale”. Perché uno dei problemi da affrontare sta proprio nel “disordine” dovuto all’entusiasmo su un argomento e su attività che – a ben vedere – non sono novità dell’oggi ma che oggi hanno trovato nuovi spazi di espansione e applicazione.

Le ricerche ospitate dalla raccolta coordinata da Tiraboschi sono state quindi dettate dallo “sforzo di sviluppare un ragionamento sufficientemente articolato, ma agile nell’impianto e semplice nella forma comunicativa”.

Alla base di tutto una “mappa” del welfare in Italia che parte dall’analisi di quanto accade, viene spiegato, “nel vasto universo della contrattazione collettiva (nazionale, territoriale e aziendale) secondo una prospettiva metodologica di relazioni industriali che consente di ricondurre a sistema una pluralità di frammenti di welfare che, se visti in modo isolato, offrono una lettura parziale e anche distorta del fenomeno”. Un’operazione resa possibile dalla banca dati “fareContrattazione” realizzata dal centro studi ADAPT, che contiene, oltre a tutti i principali contratti collettivi nazionali di riferimento espressione dei sistemi di relazioni industriali dotati di una maggiore rappresentatività comparata, oltre 2.800 tra contratti aziendali e territoriali.

Al di là dei numeri e delle analisi, sono poi almeno tre i passaggi da considerare per una migliore comprensione del welfare in Italia e che derivano dalle indagini condotte dal gruppo di studio di Tiraboschi. Prima di tutta la “grande trasformazione” ancora in corso che il welfare  rappresenta nelle relazioni industriali, poi le relazioni tra welfare e pandemia e, infine, quelle tra welfare e territorio (di cui vengono posti in questa edizione alcuni casi emblematici). Tutto con una grande attenzione a quanto già accennato: la necessità di misurare con affidabilità quanto sta accadendo.

Il lavoro di Michele Tiraboschi e dei  “suoi” ricercatori ha il gran pregio non solo di parlar chiaro a tutti, ma anche di fornire una mappa aggiornata di quanto accade: ciò che è indispensabile per istituzioni e imprese per capire meglio e fare ancora meglio.

WELFARE for PEOPLE. Quarto rapporto su IL WELFARE OCCUPAZIONALE E AZIENDALE IN ITALIA. Il welfare occupazionale e aziendale in Italia

Michele Tiraboschi (a cura di)

Adapt/Intesa Sanpaolo, 2021

La sicurezza Ue sta nelle scelte comuni per difesa, energia, scienza e high tech

Una fastosa reggia, Versailles, testimonianza d’un mondo, l’assolutismo regale francese, travolto dalle idee nuove dell’Illuminismo e della Rivoluzione del 1789. Ma anche un luogo simbolo d’un grande fallimento storico, dopo le laboriose trattative successive alla fine della Prima Guerra Mondiale, con un fronte dei vincitori affetto da avida miopia (Francia e Gran Bretagna), dal disinteresse degli Usa per un buon equilibrio mondiale e dalla debolezza dell’Italia e con una grande sconfitta, la Germania, condannata all’eccessiva pesantezza dei danni di guerra da restituire e delle sanzioni punitive, tanto da covare crisi, rancore e, poi, frenesia di rivalsa sino al successo del nazismo (lo capì bene il giovane e già autorevole John Maynard Keynes, che abbandonò polemicamente la delegazione inglese e ne spiegò le ragioni in un libro lucido e profetico, “Le conseguenze economiche della pace”, che per fortuna fu tenuto in gran conto, anni dopo, dagli autori del Piano Marshall indispensabile a superare i disastri della Seconda Guerra Mondiale, finanziando la ricostruzione e il rilancio anche dei paesi sconfitti).
Adesso, tra gli stucchi raffinati, gli specchi dorati e gli arazzi preziosi di Versailles, si sono riuniti, nei giorni scorsi, i capi di Stato e di governo che compongono il Consiglio Europeo, per definire scelte politiche comuni di fronte ai drammatici problemi posti dalla guerra in Ucraina: sanzioni rafforzate nei confronti della Russia, nuovi sostegni all’Ucraina e ai suoi abitanti vittime dell’invasione, impegni per ridurre drasticamente la dipendenza energetica dal gas e dal petrolio di Mosca.

Impegni di principio e insufficienti scelte operative, lontane comunque nel tempo, hanno sostenuto gli osservatori più critici. Un importante e positivo passo avanti per una Ue più coesa e attiva nella costruzione della propria autonomia e sicurezza, ha commentato invece il presidente del Consiglio Mario Draghi, sensibile attore di tutti i principali progressi dell’Europa come autorevole protagonista della costruzione di nuovi scenari globali. Positivo, tutto sommato, anche il giudizio di Giampiero Massolo, diplomatico di grande esperienza: “Il Consiglio Europeo di Versailles ha confermato una tendenza importante: l’attenzione crescente degli Stati a definire un interesse europeo prevalente rispetto a quelli nazionali. In sostanza, la disponibilità ad agire insieme per ridurre la vulnerabilità complessiva dell’Unione a beneficio di ciascun Paese” (la Repubblica, 14 marzo). Una scelta che avrà positive conseguenze.
La guerra, con i suoi lutti e le sue ferite, va avanti, tragicamente. E ci tocca confrontarci ogni giorno con quello che giustamente Hegel chiamava “il fardello della storia”. Ma anche, contemporaneamente, è indispensabile costruire pensieri lunghi sul futuro. Prendere atto delle nostre debolezze, della “forza ma anche dei limiti delle società aperte” (ricordati con efficacia da Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, 13 marzo). E avere consapevolezza dei costi, economici e sociali, di un’Europa che vuole crescere, in peso internazionale e dunque in sicurezza, nei nuovi scenari di un mondo multipolare fortemente conflittuale e di una nuova “guerra fredda” carica di rischi di evoluzioni “calde”.

Ecco il punto chiave: è necessario fare scelte efficaci per rilanciare e rafforzare la Ue come grande soggetto del riequilibrio internazionale e operare per favorirne l’autonomia strategica. E cioè costruire una politica di sicurezza europea incardinata su tre grandi pilastri: la politica estera e la difesa (con ben maggiore incisività degli attuali accordi Pesc), l’energia e le forniture di materie prime strategiche (le “terre rare”) e la ricerca scientifica e tecnologica. Con tutte le implicazioni politiche ed economiche conseguenti.
“Solo una Ue politicamente coesa potrà affrontare con successo le sfide globali”, commenta Paolo Gentiloni, Commissario per gli Affari Economici e Monetari a Bruxelles (Il Sole24Ore, 26 febbraio). E, ancora più chiaramente: “La storia sta portando la Ue a un punto di svolta: “Dopo il momento della solidarietà contro il Covid, adesso è il tempo dell’autonomia, soprattutto in campo energetico e della difesa” (La Stampa, 7 marzo).

La collocazione strategica è chiara: un’Europa atlantica e mediterranea, vicina agli Usa (anche in nome dei comuni ideali di democrazia liberale e di valori dell’economia di mercato, da difendere, valorizzare e rilanciare, con una vera e propria “battaglia delle idee”) ma anche dialogante con Cina e Russia e sensibile alle culture e agli interessi di altre aree del mondo, dall’Africa al Sud America. Un mondo multipolare, appunto. Capace di scelte comuni o almeno convergenti sui temi che riguardano l’ambiente, la qualità della vita, le libertà, il futuro. Un mondo di scambi, commerci, relazioni.
Rimarranno, certo, le tendenze economiche globali. Si acuiranno parecchie tensioni. Ma sarà necessario impegnarsi per definire un New Global Order, cercando di dare un senso migliore e un potere più incisivo non solo all’Onu, ma anche alla Wto. Una rete di solide ma anche ben equilibrate relazioni commerciali è una positiva condizione di attenuazione dei contrasti neo-imperialisti, nazionalisti, sovranisti.
L’autonomia strategica della Ue comporta non soltanto una politica energetica comune, ma anche migliori scelte di politica industriale (che si ripercuote sulle esigenze della difesa) e di politica fiscale (un bilancio comune per gli investimenti in tecnologie, armamenti, ricerca scientifica, cybersecurity e Intelligenza Artificiale). Dunque, una più tempestiva governance per le scelte politiche ed economiche di fronte alle crisi, superando il principio dell’obbligo dell’unanimità.

Guardiamo meglio all’industria. Aumenta il numero di aziende che stanno radicalmente modificando le loro catene di produzione del valore, le supply chain, le reti delle forniture (lo abbiamo già documentato nel blog del 23 novembre scorso). Cambiando strada rispetto a scelte diffuse degli anni scorsi (si andava a produrre là dove c’erano costi minori e condizioni di produzione migliori, dal Far East a certe aree dell’Europa orientale) per tornare a produrre vicino casa.
Va avanti il backshoring o reshoring, il ritorno delle fabbriche dall’estero. Le catene di fornitura, insomma, si accorciano. Le esperienze vissute nella stagione della pandemia da Covid19 hanno confermato che le filiere lunghe ed estese (per esempio per la produzione di molecole essenziali per l’industria farmaceutica in India), sono quanto mai fragili e precarie. Possono essere bloccate da carenze di materie prime, da strozzature nel sistema dei trasporti e da tensioni di ogni tipo, guerre e avventurismi compresi, come ci insegna appunto l’invasione russa dell’Ucraina. Oppure interrotte da crisi legate al cybercrime. Meglio provare a produrre in sicurezza. E dunque riportare le filiere produttive, le forniture in ambienti più rassicuranti e opportunamente gestiti, sotto controllo.

Un backshoring che, naturalmente, non può essere pensato nei confini dei singoli paesi europei. Ma deve saper considerare tutta la Ue come comune piattaforma produttiva, da rendere più competitiva a livello internazionale. Le scelte di Bruxelles di investire massicciamente nella produzione di microchip sono già una indicazione positiva, da seguire come esempio in altri settori.
Si continuerà, naturalmente, a produrre nel Far East. Ma guardando, da parte delle imprese europee, più a logiche local for local, alla produzione al servizio dei mercati interni delle aree in cui si investe che non alle strategie d’un tempo basate sui grandi volumi di esportazioni e scambi. Non è certo una svolta protezionista. Ma una modifica delle ragioni di competitività, proprio perché le imprese possano fare valere la loro capacità produttiva e la loro qualità sui mercati del mondo, in condizioni di maggiore autonomia e sicurezza.
Istituzioni europee e industria, insomma, devono collaborare per definire una vera e propria road map della transizione. Anche questo, vuol dire autonomia strategica. E, dunque, libertà e sicurezza.

(foto China Photos/Getty Images)

Una fastosa reggia, Versailles, testimonianza d’un mondo, l’assolutismo regale francese, travolto dalle idee nuove dell’Illuminismo e della Rivoluzione del 1789. Ma anche un luogo simbolo d’un grande fallimento storico, dopo le laboriose trattative successive alla fine della Prima Guerra Mondiale, con un fronte dei vincitori affetto da avida miopia (Francia e Gran Bretagna), dal disinteresse degli Usa per un buon equilibrio mondiale e dalla debolezza dell’Italia e con una grande sconfitta, la Germania, condannata all’eccessiva pesantezza dei danni di guerra da restituire e delle sanzioni punitive, tanto da covare crisi, rancore e, poi, frenesia di rivalsa sino al successo del nazismo (lo capì bene il giovane e già autorevole John Maynard Keynes, che abbandonò polemicamente la delegazione inglese e ne spiegò le ragioni in un libro lucido e profetico, “Le conseguenze economiche della pace”, che per fortuna fu tenuto in gran conto, anni dopo, dagli autori del Piano Marshall indispensabile a superare i disastri della Seconda Guerra Mondiale, finanziando la ricostruzione e il rilancio anche dei paesi sconfitti).
Adesso, tra gli stucchi raffinati, gli specchi dorati e gli arazzi preziosi di Versailles, si sono riuniti, nei giorni scorsi, i capi di Stato e di governo che compongono il Consiglio Europeo, per definire scelte politiche comuni di fronte ai drammatici problemi posti dalla guerra in Ucraina: sanzioni rafforzate nei confronti della Russia, nuovi sostegni all’Ucraina e ai suoi abitanti vittime dell’invasione, impegni per ridurre drasticamente la dipendenza energetica dal gas e dal petrolio di Mosca.

Impegni di principio e insufficienti scelte operative, lontane comunque nel tempo, hanno sostenuto gli osservatori più critici. Un importante e positivo passo avanti per una Ue più coesa e attiva nella costruzione della propria autonomia e sicurezza, ha commentato invece il presidente del Consiglio Mario Draghi, sensibile attore di tutti i principali progressi dell’Europa come autorevole protagonista della costruzione di nuovi scenari globali. Positivo, tutto sommato, anche il giudizio di Giampiero Massolo, diplomatico di grande esperienza: “Il Consiglio Europeo di Versailles ha confermato una tendenza importante: l’attenzione crescente degli Stati a definire un interesse europeo prevalente rispetto a quelli nazionali. In sostanza, la disponibilità ad agire insieme per ridurre la vulnerabilità complessiva dell’Unione a beneficio di ciascun Paese” (la Repubblica, 14 marzo). Una scelta che avrà positive conseguenze.
La guerra, con i suoi lutti e le sue ferite, va avanti, tragicamente. E ci tocca confrontarci ogni giorno con quello che giustamente Hegel chiamava “il fardello della storia”. Ma anche, contemporaneamente, è indispensabile costruire pensieri lunghi sul futuro. Prendere atto delle nostre debolezze, della “forza ma anche dei limiti delle società aperte” (ricordati con efficacia da Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, 13 marzo). E avere consapevolezza dei costi, economici e sociali, di un’Europa che vuole crescere, in peso internazionale e dunque in sicurezza, nei nuovi scenari di un mondo multipolare fortemente conflittuale e di una nuova “guerra fredda” carica di rischi di evoluzioni “calde”.

Ecco il punto chiave: è necessario fare scelte efficaci per rilanciare e rafforzare la Ue come grande soggetto del riequilibrio internazionale e operare per favorirne l’autonomia strategica. E cioè costruire una politica di sicurezza europea incardinata su tre grandi pilastri: la politica estera e la difesa (con ben maggiore incisività degli attuali accordi Pesc), l’energia e le forniture di materie prime strategiche (le “terre rare”) e la ricerca scientifica e tecnologica. Con tutte le implicazioni politiche ed economiche conseguenti.
“Solo una Ue politicamente coesa potrà affrontare con successo le sfide globali”, commenta Paolo Gentiloni, Commissario per gli Affari Economici e Monetari a Bruxelles (Il Sole24Ore, 26 febbraio). E, ancora più chiaramente: “La storia sta portando la Ue a un punto di svolta: “Dopo il momento della solidarietà contro il Covid, adesso è il tempo dell’autonomia, soprattutto in campo energetico e della difesa” (La Stampa, 7 marzo).

La collocazione strategica è chiara: un’Europa atlantica e mediterranea, vicina agli Usa (anche in nome dei comuni ideali di democrazia liberale e di valori dell’economia di mercato, da difendere, valorizzare e rilanciare, con una vera e propria “battaglia delle idee”) ma anche dialogante con Cina e Russia e sensibile alle culture e agli interessi di altre aree del mondo, dall’Africa al Sud America. Un mondo multipolare, appunto. Capace di scelte comuni o almeno convergenti sui temi che riguardano l’ambiente, la qualità della vita, le libertà, il futuro. Un mondo di scambi, commerci, relazioni.
Rimarranno, certo, le tendenze economiche globali. Si acuiranno parecchie tensioni. Ma sarà necessario impegnarsi per definire un New Global Order, cercando di dare un senso migliore e un potere più incisivo non solo all’Onu, ma anche alla Wto. Una rete di solide ma anche ben equilibrate relazioni commerciali è una positiva condizione di attenuazione dei contrasti neo-imperialisti, nazionalisti, sovranisti.
L’autonomia strategica della Ue comporta non soltanto una politica energetica comune, ma anche migliori scelte di politica industriale (che si ripercuote sulle esigenze della difesa) e di politica fiscale (un bilancio comune per gli investimenti in tecnologie, armamenti, ricerca scientifica, cybersecurity e Intelligenza Artificiale). Dunque, una più tempestiva governance per le scelte politiche ed economiche di fronte alle crisi, superando il principio dell’obbligo dell’unanimità.

Guardiamo meglio all’industria. Aumenta il numero di aziende che stanno radicalmente modificando le loro catene di produzione del valore, le supply chain, le reti delle forniture (lo abbiamo già documentato nel blog del 23 novembre scorso). Cambiando strada rispetto a scelte diffuse degli anni scorsi (si andava a produrre là dove c’erano costi minori e condizioni di produzione migliori, dal Far East a certe aree dell’Europa orientale) per tornare a produrre vicino casa.
Va avanti il backshoring o reshoring, il ritorno delle fabbriche dall’estero. Le catene di fornitura, insomma, si accorciano. Le esperienze vissute nella stagione della pandemia da Covid19 hanno confermato che le filiere lunghe ed estese (per esempio per la produzione di molecole essenziali per l’industria farmaceutica in India), sono quanto mai fragili e precarie. Possono essere bloccate da carenze di materie prime, da strozzature nel sistema dei trasporti e da tensioni di ogni tipo, guerre e avventurismi compresi, come ci insegna appunto l’invasione russa dell’Ucraina. Oppure interrotte da crisi legate al cybercrime. Meglio provare a produrre in sicurezza. E dunque riportare le filiere produttive, le forniture in ambienti più rassicuranti e opportunamente gestiti, sotto controllo.

Un backshoring che, naturalmente, non può essere pensato nei confini dei singoli paesi europei. Ma deve saper considerare tutta la Ue come comune piattaforma produttiva, da rendere più competitiva a livello internazionale. Le scelte di Bruxelles di investire massicciamente nella produzione di microchip sono già una indicazione positiva, da seguire come esempio in altri settori.
Si continuerà, naturalmente, a produrre nel Far East. Ma guardando, da parte delle imprese europee, più a logiche local for local, alla produzione al servizio dei mercati interni delle aree in cui si investe che non alle strategie d’un tempo basate sui grandi volumi di esportazioni e scambi. Non è certo una svolta protezionista. Ma una modifica delle ragioni di competitività, proprio perché le imprese possano fare valere la loro capacità produttiva e la loro qualità sui mercati del mondo, in condizioni di maggiore autonomia e sicurezza.
Istituzioni europee e industria, insomma, devono collaborare per definire una vera e propria road map della transizione. Anche questo, vuol dire autonomia strategica. E, dunque, libertà e sicurezza.

(foto China Photos/Getty Images)

Premio Campiello Junior
Un incontro dedicato ai giovani giurati

Prosegue il percorso del Premio Campiello Junior, in avvicinamento alla proclamazione del vincitore della prima edizione che si terrà venerdì 6 maggio 2022.

Per i ragazzi che fanno parte della Giuria dei Lettori è il momento di leggere e di scegliere il loro libro preferito. Mercoledì 9 marzo 2022 oltre cento giovanissimi giurati, provenienti dalle scuole di tutta Italia e anche dall’estero, hanno partecipato a un incontro a loro dedicato, organizzato da Fondazione Pirelli e da Fondazione Il Campiello.

I ragazzi hanno avuto la possibilità di condividere la loro passione per la lettura e le loro prime impressioni sui tre libri finalisti in un dialogo con il team di Fondazione Pirelli Educational, insieme a Chiara Lagani e Michela Possamai, due membri della Giuria di Selezione del Premio che a dicembre ha scelto i tre finalisti tra i tantissimi libri candidati.

I giovani lettori della Giuria hanno dimostrato un grande amore per i libri e tanta voglia di esprimere le loro opinioni. La scelta che faranno nelle prossime settimane contribuirà a determinare quale libro si aggiudicherà il prestigioso riconoscimento.

Il prossimo appuntamento, dedicato a tutti gli appassionati di lettura, si terrà in streaming martedì 5 aprile 2022 con la partecipazione degli scrittori dei libri finalisti: Chiara Carminati, Guido Quarzo, Anna Vivarelli e Antonella Sbuelz, i quali potranno raccontare ai ragazzi in prima persona come sono nati i personaggi e le storie che animano i loro racconti.

Maggiori informazioni sulle iniziative del Premio Campiello Junior ai siti www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org

Prosegue il percorso del Premio Campiello Junior, in avvicinamento alla proclamazione del vincitore della prima edizione che si terrà venerdì 6 maggio 2022.

Per i ragazzi che fanno parte della Giuria dei Lettori è il momento di leggere e di scegliere il loro libro preferito. Mercoledì 9 marzo 2022 oltre cento giovanissimi giurati, provenienti dalle scuole di tutta Italia e anche dall’estero, hanno partecipato a un incontro a loro dedicato, organizzato da Fondazione Pirelli e da Fondazione Il Campiello.

I ragazzi hanno avuto la possibilità di condividere la loro passione per la lettura e le loro prime impressioni sui tre libri finalisti in un dialogo con il team di Fondazione Pirelli Educational, insieme a Chiara Lagani e Michela Possamai, due membri della Giuria di Selezione del Premio che a dicembre ha scelto i tre finalisti tra i tantissimi libri candidati.

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Il prossimo appuntamento, dedicato a tutti gli appassionati di lettura, si terrà in streaming martedì 5 aprile 2022 con la partecipazione degli scrittori dei libri finalisti: Chiara Carminati, Guido Quarzo, Anna Vivarelli e Antonella Sbuelz, i quali potranno raccontare ai ragazzi in prima persona come sono nati i personaggi e le storie che animano i loro racconti.

Maggiori informazioni sulle iniziative del Premio Campiello Junior ai siti www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org

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