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Premio Campiello Junior 2022
Gli autori finalisti raccontano i loro libri

Si avvicina la giornata della proclamazione del vincitore della prima edizione del Premio Campiello Junior che si terrà venerdì 6 maggio 2022 alle ore 17.30 presso The Big Hall di H-Farm di Roncade (TV).

In attesa di scoprire chi sarà il libro premiato, Fondazione Pirelli ha realizzato tre interviste con gli autori, che raccontano come sono nate le storie e i personaggi e quanto sia importante per loro essere finalisti alla prima edizione di questo nuovo riconoscimento letterario.

Le tre interviste verranno pubblicate su questa pagina:

Antonella Sbuelz, Questa notte non torno, Feltrinelli – mercoledì 27 aprile 2022 ore 11.30

Guido QuarzoAnna Vivarelli, La scatola dei sogni, Editoriale Scienza – giovedì 28 aprile 2022 ore 11.30

Chiara Carminati, Un pinguino a Trieste, Bompiani – venerdì 29 aprile 2022 ore 11.30

Per conoscere tutte le iniziative del Premio Campiello Junior potete visitare i siti web www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org.

Si avvicina la giornata della proclamazione del vincitore della prima edizione del Premio Campiello Junior che si terrà venerdì 6 maggio 2022 alle ore 17.30 presso The Big Hall di H-Farm di Roncade (TV).

In attesa di scoprire chi sarà il libro premiato, Fondazione Pirelli ha realizzato tre interviste con gli autori, che raccontano come sono nate le storie e i personaggi e quanto sia importante per loro essere finalisti alla prima edizione di questo nuovo riconoscimento letterario.

Le tre interviste verranno pubblicate su questa pagina:

Antonella Sbuelz, Questa notte non torno, Feltrinelli – mercoledì 27 aprile 2022 ore 11.30

Guido QuarzoAnna Vivarelli, La scatola dei sogni, Editoriale Scienza – giovedì 28 aprile 2022 ore 11.30

Chiara Carminati, Un pinguino a Trieste, Bompiani – venerdì 29 aprile 2022 ore 11.30

Per conoscere tutte le iniziative del Premio Campiello Junior potete visitare i siti web www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org.

Campiello Junior - Prima edizione - Interviste ai finalisti

Video

Un nuovo Virtual Tour: viaggio immersivo nella Bicocca degli Arcimboldi

La Bicocca degli Arcimboldi, rinascimentale villa di campagna fatta costruire della famiglia degli Arcimboldi alla fine del Quattrocento nella campagna a Nord di Milano, apre le sue porte grazie agli strumenti digitali. Un nuovo virtual tour è disponibile sul sito della Fondazione Pirelli e permetterà a tutte le persone interessate di “navigare” per le stanze della villa, oggi sede di rappresentanza del Gruppo Pirelli, per scoprire la sua pluricentenaria storia e vedere le diverse decorazioni che ne abbelliscono esterni e interni.

Sarà possibile osservare i dettagli dei fregi in terracotta della sua ricca facciata e dei “graffitti” delle sale interne, percorrere il grande scalone fatto realizzare da Piero Portaluppi per visitare la stanza di rappresentanza al primo piano dominata da un elegante camino in arenaria, entrare negli appartementi privati delle dame, ammirando le scene finemente affrescate sulle pareti, e immaginare la vita quotidiana delle nobildonne dell’epoca. E ancora scoprire le decorazioni a nodi intrecciati ispirate al genio leonardesco o salire fino al loggiato all’ultimo piano per dare uno sguardo al panorama.

Grazie inoltre a un notevole apparato di immagini e documenti storici conservati nell’Archivio Storico Pirelli, qui messi a disposizione, si potranno ripercorrere le principali tappe dei cambiamenti intercorsi all’edificio e all’area Bicocca nel corso dei secoli: dalle fotografie storiche che mostrano lo stato di abbandono della villa alla fine dell’Ottocento alla documentazione sull’arrivo in questa zona delle prime fabbriche nei primi anni del Novecento, l’acquisto della villa da parte di Pirelli e le successive prima campagne di restauro dell’edificio. Dalle immagini della trasformazione in museo storico dell’azienda e in asilo per i figli dei dipendenti, fino al “Progetto Bicocca” e agli interventi di restauro degli ultimi decenni.

Un autentico gioiello dell’arte quattrocentesca e un’importante testimonianza della storia di Pirelli, da oggi a disposizione di tutti.

La Bicocca degli Arcimboldi, rinascimentale villa di campagna fatta costruire della famiglia degli Arcimboldi alla fine del Quattrocento nella campagna a Nord di Milano, apre le sue porte grazie agli strumenti digitali. Un nuovo virtual tour è disponibile sul sito della Fondazione Pirelli e permetterà a tutte le persone interessate di “navigare” per le stanze della villa, oggi sede di rappresentanza del Gruppo Pirelli, per scoprire la sua pluricentenaria storia e vedere le diverse decorazioni che ne abbelliscono esterni e interni.

Sarà possibile osservare i dettagli dei fregi in terracotta della sua ricca facciata e dei “graffitti” delle sale interne, percorrere il grande scalone fatto realizzare da Piero Portaluppi per visitare la stanza di rappresentanza al primo piano dominata da un elegante camino in arenaria, entrare negli appartementi privati delle dame, ammirando le scene finemente affrescate sulle pareti, e immaginare la vita quotidiana delle nobildonne dell’epoca. E ancora scoprire le decorazioni a nodi intrecciati ispirate al genio leonardesco o salire fino al loggiato all’ultimo piano per dare uno sguardo al panorama.

Grazie inoltre a un notevole apparato di immagini e documenti storici conservati nell’Archivio Storico Pirelli, qui messi a disposizione, si potranno ripercorrere le principali tappe dei cambiamenti intercorsi all’edificio e all’area Bicocca nel corso dei secoli: dalle fotografie storiche che mostrano lo stato di abbandono della villa alla fine dell’Ottocento alla documentazione sull’arrivo in questa zona delle prime fabbriche nei primi anni del Novecento, l’acquisto della villa da parte di Pirelli e le successive prima campagne di restauro dell’edificio. Dalle immagini della trasformazione in museo storico dell’azienda e in asilo per i figli dei dipendenti, fino al “Progetto Bicocca” e agli interventi di restauro degli ultimi decenni.

Un autentico gioiello dell’arte quattrocentesca e un’importante testimonianza della storia di Pirelli, da oggi a disposizione di tutti.

Come cambia l’agire d’impresa di fronte al cambiamento della realtà

Una tesi di laurea discussa all’Università Politecnica “Giorgio Fuà” contribuisce a capire meglio

 

Business plan, pianificazione strategica e finanziaria delle imprese di fronte a due strumenti nuovi e ad una pandemia sono necessariamente cambiati. Ma come? La risposta è importante, perché indica anche un mutamento particolare nella stessa cultura del produrre con la quale le imprese vengono pensate, create e gestite. Ci ha pensato ad analizzare il cambiamento Consuelo Paoletti con la sua tesi presso l’Università Politecnica delle Marche Facoltà di Economia “Giorgio Fuà”, Corso di Laurea Magistrale in Economia e Management.

“Covid-19, Codice della crisi d’impresa e nuove linee guida EBA: l’impatto sulla pianificazione strategica e finanziaria” – questo il titolo del lavoro -, cerca di analizzare cosa è accaduto nelle imprese di fronte alle “novità” appena accennate. “Questi tre accadimenti – scrive la ricercatrice nell’introduzione alla sua indagine -, hanno colpito da vicino le imprese e alcune di queste non sono state in condizioni di proseguire la loro attività o si trovano ora nella situazione in cui chiudere potrebbe essere la scelta migliore”. Paoletti indaga quindi i motivi di queste situazione. In molti casi – viene spiegato -, questo accade perché viene data poca attenzione alla programmazione e pianificazione, e si sottovalutano alcune potenziali modalità di salvaguardia aziendali. Consuelo Paoletti quindi dichiara apertamente lo scopo della sua indagine: “L’obiettivo è quello mostrare un’applicazione di un business plan, dalla parte ‘qualitativa’ alla parte ‘quantitativa’, integrando quest’ultima con analisi ed indicatori che possono aiutare l’imprenditore ad uniformarsi alle nuove normative, al nuovo mercato e alle nuove regole imposte dalle banche”.

Per arrivare a questo traguardo, la tesi inizia con una messa a fuoco del business plan visto come strumento di base della pianificazione strategica, poi si passa ad approfondire gli “strumenti e le analisi” necessarie per la valutazione complessiva di un progetto d’impresa e, infine, tutto viene messo a confronto con i tre grandi cambiamenti di fronte ai quali l’impresa si è trovata in questi ultimi tempi: il Codice delle crisi d’impresa, le nuove linee guida Eba e la pandemia da Covid-19. Tutto viene sintetizzato infine con due casi studio.

Scrive Paoletti nelle sue conclusioni: “Il presupposto iniziale è la continuità aziendale, senza la quale sarebbe inutile fare qualsiasi tipo di considerazione, di previsione, di analisi del mercato, di ricerca di nuova finanza. Un business plan credibile di oggi conterrà il modello sintetico di previsione della crisi con cui l’imprenditore può mostrare che sta rispettando o meno le soglie imposte dal codice della crisi. Ma come ci ha insegnato il Covid, la pianificazione quinquennale basata su idee ottimistiche che permette di ottenere flussi di cassa prospettici positivi non può essere ritenuta completa senza un’opportuna analisi per scenari che rifletta cambiamenti di mercato soprattutto pessimistici. Una volta ipotizzato lo scenario peggiore il piano potrebbe non sostenere i parametri imposti dall’EBA e la rigida valutazione del credito, l’impresa potrebbe non godere più della finanza che aveva pianificato, la banca comincerà a dubitare della sostenibilità del debito e la ricerca del credito si renderà solo più difficile dopo aver subito un peggioramento del rating”. Messa a punto questa analisi, Paoletti propone quindi un modello circolare che “prevede che se in tutti gli scenari ipotizzati, la società ha la capacità di rispettare le condizioni imposte dalla banca, e non prevede un superamento delle soglie degli indicatori della crisi, la pianificazione può dirsi soddisfacente ed adatta ai nuovi obblighi, vincoli e ai nuovi cambiamenti di mercato”.

Il lavoro di indagine di Consuelo Paoletti si sforza di ordinare entro una logica strumenti teorici di analisi della realtà d’impresa e casi pratici della stessa. Un buon lavoro di analisi.

COVID-19, Codice della crisi d’impresa e nuove linee guida EBA: l’impatto sulla pianificazione strategica e finanziaria

Consuelo Paoletti

Tesi, Università Politecnica delle Marche Facoltà di Economia “Giorgio Fuà”, Corso di Laurea Magistrale in Economia e Management, 2021

Una tesi di laurea discussa all’Università Politecnica “Giorgio Fuà” contribuisce a capire meglio

 

Business plan, pianificazione strategica e finanziaria delle imprese di fronte a due strumenti nuovi e ad una pandemia sono necessariamente cambiati. Ma come? La risposta è importante, perché indica anche un mutamento particolare nella stessa cultura del produrre con la quale le imprese vengono pensate, create e gestite. Ci ha pensato ad analizzare il cambiamento Consuelo Paoletti con la sua tesi presso l’Università Politecnica delle Marche Facoltà di Economia “Giorgio Fuà”, Corso di Laurea Magistrale in Economia e Management.

“Covid-19, Codice della crisi d’impresa e nuove linee guida EBA: l’impatto sulla pianificazione strategica e finanziaria” – questo il titolo del lavoro -, cerca di analizzare cosa è accaduto nelle imprese di fronte alle “novità” appena accennate. “Questi tre accadimenti – scrive la ricercatrice nell’introduzione alla sua indagine -, hanno colpito da vicino le imprese e alcune di queste non sono state in condizioni di proseguire la loro attività o si trovano ora nella situazione in cui chiudere potrebbe essere la scelta migliore”. Paoletti indaga quindi i motivi di queste situazione. In molti casi – viene spiegato -, questo accade perché viene data poca attenzione alla programmazione e pianificazione, e si sottovalutano alcune potenziali modalità di salvaguardia aziendali. Consuelo Paoletti quindi dichiara apertamente lo scopo della sua indagine: “L’obiettivo è quello mostrare un’applicazione di un business plan, dalla parte ‘qualitativa’ alla parte ‘quantitativa’, integrando quest’ultima con analisi ed indicatori che possono aiutare l’imprenditore ad uniformarsi alle nuove normative, al nuovo mercato e alle nuove regole imposte dalle banche”.

Per arrivare a questo traguardo, la tesi inizia con una messa a fuoco del business plan visto come strumento di base della pianificazione strategica, poi si passa ad approfondire gli “strumenti e le analisi” necessarie per la valutazione complessiva di un progetto d’impresa e, infine, tutto viene messo a confronto con i tre grandi cambiamenti di fronte ai quali l’impresa si è trovata in questi ultimi tempi: il Codice delle crisi d’impresa, le nuove linee guida Eba e la pandemia da Covid-19. Tutto viene sintetizzato infine con due casi studio.

Scrive Paoletti nelle sue conclusioni: “Il presupposto iniziale è la continuità aziendale, senza la quale sarebbe inutile fare qualsiasi tipo di considerazione, di previsione, di analisi del mercato, di ricerca di nuova finanza. Un business plan credibile di oggi conterrà il modello sintetico di previsione della crisi con cui l’imprenditore può mostrare che sta rispettando o meno le soglie imposte dal codice della crisi. Ma come ci ha insegnato il Covid, la pianificazione quinquennale basata su idee ottimistiche che permette di ottenere flussi di cassa prospettici positivi non può essere ritenuta completa senza un’opportuna analisi per scenari che rifletta cambiamenti di mercato soprattutto pessimistici. Una volta ipotizzato lo scenario peggiore il piano potrebbe non sostenere i parametri imposti dall’EBA e la rigida valutazione del credito, l’impresa potrebbe non godere più della finanza che aveva pianificato, la banca comincerà a dubitare della sostenibilità del debito e la ricerca del credito si renderà solo più difficile dopo aver subito un peggioramento del rating”. Messa a punto questa analisi, Paoletti propone quindi un modello circolare che “prevede che se in tutti gli scenari ipotizzati, la società ha la capacità di rispettare le condizioni imposte dalla banca, e non prevede un superamento delle soglie degli indicatori della crisi, la pianificazione può dirsi soddisfacente ed adatta ai nuovi obblighi, vincoli e ai nuovi cambiamenti di mercato”.

Il lavoro di indagine di Consuelo Paoletti si sforza di ordinare entro una logica strumenti teorici di analisi della realtà d’impresa e casi pratici della stessa. Un buon lavoro di analisi.

COVID-19, Codice della crisi d’impresa e nuove linee guida EBA: l’impatto sulla pianificazione strategica e finanziaria

Consuelo Paoletti

Tesi, Università Politecnica delle Marche Facoltà di Economia “Giorgio Fuà”, Corso di Laurea Magistrale in Economia e Management, 2021

Oltre il Pil: in memoria di Jean-Paul Fitoussi rileggendo il liberalismo sociale di Keynes

Pensieri sparsi, per ricordare Jean-Paul Fitoussi, uno dei migliori economisti di questi nostri tempi inquieti e difficili. Pensieri sui valori dell’economia, sull’insufficienza del Pil come strumento di misurazione dello sviluppo economico (indica la quantità, non apprezza la qualità della crescita), sulla necessità che la cosiddetta “scienza triste” guardi più alle persone che non all’accumulazione del denaro.
Pensieri che possono partire da un giudizio di Tony Judt, storico tra i più lucidi della seconda metà del Novecento: “Sappiamo quanto costano le cose, ma non quanto valgono. Non ci chiediamo più, di una sentenza di tribunale o di una legge, se sia buona, o equa, o giusta, o corretta, se contribuirà a rendere migliore la società o il mondo. Erano queste, un tempo, le domande politiche per eccellenza. Dobbiamo reimparare a porcele”. La frase è tratta da “Guasto è il mondo”, pubblicato in Italia da Laterza e scritto nel 2010, poco prima della sua morte. In quelle pagine, una sorta di testamento politico e morale, si insiste sulle responsabilità della politica e del lavoro intellettuale e si condensano riflessioni, sui nodi irrisolti del secolo appena trascorso e sugli squilibri degli anni in corso (tracce ampie sono in “Novecento. Il secolo degli intellettuali e della politica”, una lunga e affascinante conversazione con Timothy Snyder, pubblicata nel 2012 sempre da Laterza).
C’è, nella riflessioni di Judt, la piena consapevolezza delle gravi carenze, analitiche e strategiche, della tendenza culturale dominante nel passaggio di secolo, quella del liberismo, del market fundamentalism, del “mercatismo” e dell’individualismo senza limiti cara ai politici alla Margareth Thatcher (“There is no society”) e alla Ronald Reagan e agli economisti monetaristi della “scuola di Chicago” guidata da Milton Friedman (premio Nobel per l’economia nel 1976). E la sottolineatura dell’importanza di ripensare riforme politiche e strategie economiche nel segno di un intervento pubblico e privato sull’economia che stimoli verso la sostenibilità e i migliori equilibri sociali.

Sono i temi che riporteranno alla ribalta il pensiero di John Maynard Keynes, un liberalismo con forti venature sociali e stimoleranno il passaggio verso un pensiero economico attento meno all’ideologia dello shareholder value (il primato dei profitti e dei valori di Borsa nella gestione delle imprese) e molto di più agli stakeholders values (l’attenzione prioritaria da riservare alle comunità su cui insiste l’impresa, ai dipendenti, ai fornitori, ai consumatori, alle persone).
Tramonta il predominio di Friedman, si rilegge Keynes, appunto (depurato dalle poco keynesiane derive assistenzialiste dei lettori italiani più superficiali). E trovano spazio qualificato, nel discorso pubblici, gli economisti come Joseph Stiglitz (premio Nobel per l’economia nel 2001) e, appunto, Jean-Paul Fitoussi. I due, insieme con Amartya Sen (premio Nobel per l’economia. ) guidano la Commissione per una nuova misurazione dello sviluppo economico e del progresso sociale voluta nel 2008 dall’allora presidente francese Nicholas Sarkozy e contribuiscono a una svolta radicale del pensiero economico verso la cosiddetta “economia giusta”, “circolare” e “civile” e la sostenibilità ambientale e sociale. Un terreno in cui si incontrano il pensiero di Papa Francesco, le elaborazioni di vasti settori della migliore letteratura economica e, dopo la Grande Crisi finanziaria del 2008, l’impegno sulla sostenibilità ambientale e sociale di potenti istituzioni economiche, come la più grande società d’investimenti del mondo, BlackRock, guidato da Larry Fink.

Fitoussi, di questo mondo, è riferimento essenziale. Alcune indicazioni tratte dai suoi scritti ne offrono chiara testimonianza: “Da tempo, seguendo il pensiero dominante, i poteri pubblici hanno puntato i riflettori sulla stabilità dei prezzi quale obiettivo della politica economica – che dovrebbe anche consentire la massima crescita del Pil – e sulla teoria dei mercati concorrenziali per legittimare la propria azione”. Criticamente, “La crescita del Pil si è accompagnata a una profonda miseria sociale e la deregolamentazione dei mercati è stata il preludio al loro peggior funzionamento dai tempi della crisi degli anni Trenta del Novecento. Non sono stati accesi i lampioni giusti e si è cercato di agire a partire da una rappresentazione teorica del mondo che non aveva molto a che fare con il mondo reale, fissando obiettivi relativamente mal misurati (il Pil, per esempio) e non veramente importanti per la società”. Insomma, “Il Pil sarebbe una misura economica utile se riuscisse almeno a rendere l’idea della distribuzione della ricchezza di una nazione. Però il Pil può avere segno positivo anche quando l’80% della ricchezza va all’1% della popolazione”. In sintesi, “L’economia è in espansione solo quando l’aumento del benessere è distribuito tra la maggioranza della popolazione”.
Sono riflessioni che si ritrovano in un libro che vale la pena leggere, “Misurare ciò che conta. Al di là del Pil”, scritto da Stiglitz, Fitoussi e Martine Durand e pubblicato nel 2021 da Einaudi. Non tanto e non solo il Pil, ma il Bes (l’indice che misura il Benessere Equo e Sostenibile, è stato messo a punto dall’Istat e fa già da riferimento per la scrittura delle leggi Finanziarie italiane), non tanto la quantità della crescita economica (comunque necessaria, contro le illusioni della cosiddetta “decrescita felice”) quanto soprattutto la qualità dello sviluppo, con una robusta attenzione ai temi della salute, dell’istruzione, dell’inclusione sociale, della sicurezza sul lavoro e della partecipazione di giovani e donne ai processi produttivi e sociali. La rilettura di Keynes a la Fitoussi, appunto. Impegnato a proporre scelte fuori dalla falsa antinomia tra Stato e mercato (servono entrambi, con ruoli diversi e convergenti, in una sintonia riformista attenta allo sviluppo e al lavoro). E con un occhio di particolare riguardo per le politiche della Ue, di cui Fitoussi è stato un convinto sostenitore, per andare al di là dell’ortodossia ordoliberista dei parametri e insistere sugli investimenti pubblici per lo sviluppo (il Recovery Fund Next Generation Ue per rispondere alla crisi della pandemia da Covid19 ne è solida conferma).

C’è una tendenza del pensiero economico italiano che è andata in queste direzioni e che Fitoussi conosceva bene e apprezzava: quello di Franco Modigliani (premio Nobel per l’economia nel 1985), di Claudio Napoleoni e di Federico Caffè (il maestro del premier Mario Draghi, improvvisamente e misteriosamente scomparso nella primavera del 1987, proprio mentre nel mondo economico trionfava il liberismo più accentuato e da lui nettamente avversato; sulle eventuali ragioni della sua scomparsa hanno scritto tra gli altri Ermanno Rea, “L’ultima lezione”, Einaudi, l’allievo prediletto Bruno Amoroso e, di recente, Guido Maria Brera, “Dimmi cosa vedi tu da lì”, Solferino).
C’è un’altra riflessione utile da ricordare, parlando di riscoperta di Keynes e di Fitoussi. E la troviamo nelle pagine di Zygmunt Bauman, in “Vite che non possiamo permetterci”, Laterza: “La società può elevarsi a comunità solo finché protegge efficacemente i suoi membri dagli orrori gemelli della miseria e dell’umiliazione, del terrore di essere esclusi e condannati alla ‘ridondanza sociale’ o comunque marchiati come ‘rifiuti umani’”. Una buona lezione contemporanea.

(Photo by Sophie Bassouls/Sygma/Sygma via Getty Images)

Pensieri sparsi, per ricordare Jean-Paul Fitoussi, uno dei migliori economisti di questi nostri tempi inquieti e difficili. Pensieri sui valori dell’economia, sull’insufficienza del Pil come strumento di misurazione dello sviluppo economico (indica la quantità, non apprezza la qualità della crescita), sulla necessità che la cosiddetta “scienza triste” guardi più alle persone che non all’accumulazione del denaro.
Pensieri che possono partire da un giudizio di Tony Judt, storico tra i più lucidi della seconda metà del Novecento: “Sappiamo quanto costano le cose, ma non quanto valgono. Non ci chiediamo più, di una sentenza di tribunale o di una legge, se sia buona, o equa, o giusta, o corretta, se contribuirà a rendere migliore la società o il mondo. Erano queste, un tempo, le domande politiche per eccellenza. Dobbiamo reimparare a porcele”. La frase è tratta da “Guasto è il mondo”, pubblicato in Italia da Laterza e scritto nel 2010, poco prima della sua morte. In quelle pagine, una sorta di testamento politico e morale, si insiste sulle responsabilità della politica e del lavoro intellettuale e si condensano riflessioni, sui nodi irrisolti del secolo appena trascorso e sugli squilibri degli anni in corso (tracce ampie sono in “Novecento. Il secolo degli intellettuali e della politica”, una lunga e affascinante conversazione con Timothy Snyder, pubblicata nel 2012 sempre da Laterza).
C’è, nella riflessioni di Judt, la piena consapevolezza delle gravi carenze, analitiche e strategiche, della tendenza culturale dominante nel passaggio di secolo, quella del liberismo, del market fundamentalism, del “mercatismo” e dell’individualismo senza limiti cara ai politici alla Margareth Thatcher (“There is no society”) e alla Ronald Reagan e agli economisti monetaristi della “scuola di Chicago” guidata da Milton Friedman (premio Nobel per l’economia nel 1976). E la sottolineatura dell’importanza di ripensare riforme politiche e strategie economiche nel segno di un intervento pubblico e privato sull’economia che stimoli verso la sostenibilità e i migliori equilibri sociali.

Sono i temi che riporteranno alla ribalta il pensiero di John Maynard Keynes, un liberalismo con forti venature sociali e stimoleranno il passaggio verso un pensiero economico attento meno all’ideologia dello shareholder value (il primato dei profitti e dei valori di Borsa nella gestione delle imprese) e molto di più agli stakeholders values (l’attenzione prioritaria da riservare alle comunità su cui insiste l’impresa, ai dipendenti, ai fornitori, ai consumatori, alle persone).
Tramonta il predominio di Friedman, si rilegge Keynes, appunto (depurato dalle poco keynesiane derive assistenzialiste dei lettori italiani più superficiali). E trovano spazio qualificato, nel discorso pubblici, gli economisti come Joseph Stiglitz (premio Nobel per l’economia nel 2001) e, appunto, Jean-Paul Fitoussi. I due, insieme con Amartya Sen (premio Nobel per l’economia. ) guidano la Commissione per una nuova misurazione dello sviluppo economico e del progresso sociale voluta nel 2008 dall’allora presidente francese Nicholas Sarkozy e contribuiscono a una svolta radicale del pensiero economico verso la cosiddetta “economia giusta”, “circolare” e “civile” e la sostenibilità ambientale e sociale. Un terreno in cui si incontrano il pensiero di Papa Francesco, le elaborazioni di vasti settori della migliore letteratura economica e, dopo la Grande Crisi finanziaria del 2008, l’impegno sulla sostenibilità ambientale e sociale di potenti istituzioni economiche, come la più grande società d’investimenti del mondo, BlackRock, guidato da Larry Fink.

Fitoussi, di questo mondo, è riferimento essenziale. Alcune indicazioni tratte dai suoi scritti ne offrono chiara testimonianza: “Da tempo, seguendo il pensiero dominante, i poteri pubblici hanno puntato i riflettori sulla stabilità dei prezzi quale obiettivo della politica economica – che dovrebbe anche consentire la massima crescita del Pil – e sulla teoria dei mercati concorrenziali per legittimare la propria azione”. Criticamente, “La crescita del Pil si è accompagnata a una profonda miseria sociale e la deregolamentazione dei mercati è stata il preludio al loro peggior funzionamento dai tempi della crisi degli anni Trenta del Novecento. Non sono stati accesi i lampioni giusti e si è cercato di agire a partire da una rappresentazione teorica del mondo che non aveva molto a che fare con il mondo reale, fissando obiettivi relativamente mal misurati (il Pil, per esempio) e non veramente importanti per la società”. Insomma, “Il Pil sarebbe una misura economica utile se riuscisse almeno a rendere l’idea della distribuzione della ricchezza di una nazione. Però il Pil può avere segno positivo anche quando l’80% della ricchezza va all’1% della popolazione”. In sintesi, “L’economia è in espansione solo quando l’aumento del benessere è distribuito tra la maggioranza della popolazione”.
Sono riflessioni che si ritrovano in un libro che vale la pena leggere, “Misurare ciò che conta. Al di là del Pil”, scritto da Stiglitz, Fitoussi e Martine Durand e pubblicato nel 2021 da Einaudi. Non tanto e non solo il Pil, ma il Bes (l’indice che misura il Benessere Equo e Sostenibile, è stato messo a punto dall’Istat e fa già da riferimento per la scrittura delle leggi Finanziarie italiane), non tanto la quantità della crescita economica (comunque necessaria, contro le illusioni della cosiddetta “decrescita felice”) quanto soprattutto la qualità dello sviluppo, con una robusta attenzione ai temi della salute, dell’istruzione, dell’inclusione sociale, della sicurezza sul lavoro e della partecipazione di giovani e donne ai processi produttivi e sociali. La rilettura di Keynes a la Fitoussi, appunto. Impegnato a proporre scelte fuori dalla falsa antinomia tra Stato e mercato (servono entrambi, con ruoli diversi e convergenti, in una sintonia riformista attenta allo sviluppo e al lavoro). E con un occhio di particolare riguardo per le politiche della Ue, di cui Fitoussi è stato un convinto sostenitore, per andare al di là dell’ortodossia ordoliberista dei parametri e insistere sugli investimenti pubblici per lo sviluppo (il Recovery Fund Next Generation Ue per rispondere alla crisi della pandemia da Covid19 ne è solida conferma).

C’è una tendenza del pensiero economico italiano che è andata in queste direzioni e che Fitoussi conosceva bene e apprezzava: quello di Franco Modigliani (premio Nobel per l’economia nel 1985), di Claudio Napoleoni e di Federico Caffè (il maestro del premier Mario Draghi, improvvisamente e misteriosamente scomparso nella primavera del 1987, proprio mentre nel mondo economico trionfava il liberismo più accentuato e da lui nettamente avversato; sulle eventuali ragioni della sua scomparsa hanno scritto tra gli altri Ermanno Rea, “L’ultima lezione”, Einaudi, l’allievo prediletto Bruno Amoroso e, di recente, Guido Maria Brera, “Dimmi cosa vedi tu da lì”, Solferino).
C’è un’altra riflessione utile da ricordare, parlando di riscoperta di Keynes e di Fitoussi. E la troviamo nelle pagine di Zygmunt Bauman, in “Vite che non possiamo permetterci”, Laterza: “La società può elevarsi a comunità solo finché protegge efficacemente i suoi membri dagli orrori gemelli della miseria e dell’umiliazione, del terrore di essere esclusi e condannati alla ‘ridondanza sociale’ o comunque marchiati come ‘rifiuti umani’”. Una buona lezione contemporanea.

(Photo by Sophie Bassouls/Sygma/Sygma via Getty Images)

Crescere per davvero

La situazione demografica italiana è sempre più difficile. Un libro appena pubblicato spiega perché e, soprattutto, come fare superare le difficoltà

 

L’Italia è uno dei paesi al mondo in cui l’inver­no demografico è più accentuato. Constatazione importante e grave, che tocca numerosi aspetti del vivere sociale, ma anche dell’economia e della produzione. Un paese senza giovani, di fatto, un paese senza futuro. Una prospettiva che, evidentemente, non può essere accettabile sul lungo periodo. E’ attorno a questi temi – che toccano anche le politiche d’impresa e la stessa cultura d’impresa -, che ragiona Alessandro Rosina (ordinario di demografia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove dirige il Center for Applied Statistics in Business and Economics), nel suo ultimo libro “Crisi demografica. Politiche per un paese che ha smesso di crescere” e che ha nello stesso titolo il suo tratto caratteristico di non essere solo un’analisi (ben condotta) della situazione demografica italiana ma anche una sorta di vademecum di quanto occorrerebbe fare per uscire da questa stessa situazione.

L’autore, in ogni caso, parte da una lucida fotografia di quanto è acceduto e sta accadendo spiegando quindi che se gli attuali andamenti non verranno invertiti, inevitabilmente si andrà incontro a criticità irrimediabili. Alla base di tutto, viene precisato, non è un minor numero di figli desiderati, ma politiche meno efficienti a favore delle famiglie e delle nuove generazioni: una condizione che distingue l’Italia dagli altri paesi alle prese con gli stessi problemi. Tutto, poi, è stato reso più complesso (e per certi versi drammatico) dagli effetti dello scatenarsi della pandemia di Covid-19 (anche se l’autore precisa che le cause della bassa natalità devono essere ricercate più indietro nel tempo, appunto). Rosina quindi spiega come oggi ci si trovi di fronte a un bivio ineludibile: da un lato c’è il sentiero stretto e in salita che porta alla nuova fase di sviluppo eco­nomico e sociale resa possibile dai fondi europei (non a caso denominati Next Generation Eu), e, dall’altro, se questa occasione unica non verrà colta, l’ampia strada verso un declino irreversi­bile e insostenibile. Cosa occorre per intraprendere la strada giusta?  La risposta di Rosina è contemporaneamente semplice e complessa: grande chiarezza di intenti e ancor più grande determi­nazione nell’imboccare il percorso verso il futuro.

Si tratta, lo scrive lo stesso Rosina di qualcosa di fattibile anche per l’Italia, a patto che vengano avviate “concrete politiche sistemiche” – dai servizi per l’infanzia all’assegno unico e universale per i figli, fino a incisive riforme del mondo del lavoro – per consentire alle nuove ge­nerazioni di sentirsi davvero protagoniste in un paese che cresce con loro.

Scrive l’autore nelle ultime righe del suo libro: “per superare gli squilibri demografici crescenti accumulati non è necessaria qualche strana cura, ma semplicemente fare ancora di più e ancora meglio quello che dovremmo comunque fare come Paese, ovvero mettere le persone nelle condizioni di poter realizzare insieme e con successo (…) i propri obiettivi professionali e i propri progetti di vita”.

Il libro di Alessandro Rosina costituisce una buona sintesi dello stato di fatto e delle prospettive di un tema che deve essere all’attenzione di tutti.

Crisi demografica. Politiche per un paese che ha smesso di crescere

Alessandro Rosina

Vita e Pensiero, 2022

La situazione demografica italiana è sempre più difficile. Un libro appena pubblicato spiega perché e, soprattutto, come fare superare le difficoltà

 

L’Italia è uno dei paesi al mondo in cui l’inver­no demografico è più accentuato. Constatazione importante e grave, che tocca numerosi aspetti del vivere sociale, ma anche dell’economia e della produzione. Un paese senza giovani, di fatto, un paese senza futuro. Una prospettiva che, evidentemente, non può essere accettabile sul lungo periodo. E’ attorno a questi temi – che toccano anche le politiche d’impresa e la stessa cultura d’impresa -, che ragiona Alessandro Rosina (ordinario di demografia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove dirige il Center for Applied Statistics in Business and Economics), nel suo ultimo libro “Crisi demografica. Politiche per un paese che ha smesso di crescere” e che ha nello stesso titolo il suo tratto caratteristico di non essere solo un’analisi (ben condotta) della situazione demografica italiana ma anche una sorta di vademecum di quanto occorrerebbe fare per uscire da questa stessa situazione.

L’autore, in ogni caso, parte da una lucida fotografia di quanto è acceduto e sta accadendo spiegando quindi che se gli attuali andamenti non verranno invertiti, inevitabilmente si andrà incontro a criticità irrimediabili. Alla base di tutto, viene precisato, non è un minor numero di figli desiderati, ma politiche meno efficienti a favore delle famiglie e delle nuove generazioni: una condizione che distingue l’Italia dagli altri paesi alle prese con gli stessi problemi. Tutto, poi, è stato reso più complesso (e per certi versi drammatico) dagli effetti dello scatenarsi della pandemia di Covid-19 (anche se l’autore precisa che le cause della bassa natalità devono essere ricercate più indietro nel tempo, appunto). Rosina quindi spiega come oggi ci si trovi di fronte a un bivio ineludibile: da un lato c’è il sentiero stretto e in salita che porta alla nuova fase di sviluppo eco­nomico e sociale resa possibile dai fondi europei (non a caso denominati Next Generation Eu), e, dall’altro, se questa occasione unica non verrà colta, l’ampia strada verso un declino irreversi­bile e insostenibile. Cosa occorre per intraprendere la strada giusta?  La risposta di Rosina è contemporaneamente semplice e complessa: grande chiarezza di intenti e ancor più grande determi­nazione nell’imboccare il percorso verso il futuro.

Si tratta, lo scrive lo stesso Rosina di qualcosa di fattibile anche per l’Italia, a patto che vengano avviate “concrete politiche sistemiche” – dai servizi per l’infanzia all’assegno unico e universale per i figli, fino a incisive riforme del mondo del lavoro – per consentire alle nuove ge­nerazioni di sentirsi davvero protagoniste in un paese che cresce con loro.

Scrive l’autore nelle ultime righe del suo libro: “per superare gli squilibri demografici crescenti accumulati non è necessaria qualche strana cura, ma semplicemente fare ancora di più e ancora meglio quello che dovremmo comunque fare come Paese, ovvero mettere le persone nelle condizioni di poter realizzare insieme e con successo (…) i propri obiettivi professionali e i propri progetti di vita”.

Il libro di Alessandro Rosina costituisce una buona sintesi dello stato di fatto e delle prospettive di un tema che deve essere all’attenzione di tutti.

Crisi demografica. Politiche per un paese che ha smesso di crescere

Alessandro Rosina

Vita e Pensiero, 2022

La P Lunga nel mondo

È il 1872 quando un giovane ingegnere di ventitré anni, Giovanni Battista Pirelli, reduce da un grand tour tra Svizzera, Francia, Germania e Belgio, rientra in patria con l’obiettivo di esportare «una industria nuova o ancora poco diffusa in Italia», quella del caucciù, con le sue applicazioni produttive. Dal 1873 i prodotti Pirelli prendono forma nel primo stabilimento di Milano, lungo il fiume “Sevesetto”. All’interno della fabbrica lavorano quaranta operai e cinque impiegati. Qui, agli articoli di gomma destinati alle macchine industriali, alla navigazione, alle ferrovie, si affiancano in pochi anni beni di consumo come giocattoli, articoli di abbigliamento e merceria. Superando brillantemente le inevitabili difficoltà di un’attività pionieristica, nel giro di dieci anni, nel 1883, la Pirelli può contare su oltre 300 operai e rami produttivi in continua espansione. L’azienda sottrae il monopolio del settore cavi agli inglesi grazie alle ricerche dei più grandi elettrotecnici dell’epoca (Emanuele Jona, Leopoldo e Luigi Emanueli), assicurandosi anche la fornitura di cavi-energia per le cascate del Niagara e per il Nilo, e inaugura stabilimenti in Spagna, Inghilterra, Belgio, Francia e Argentina.

La crescita da qui in poi è esponenziale, anche oltre oceano. Solamente trent’anni dopo l’apertura della prima fabbrica di Milano, con l’inaugurazione nel 1902 dello stabilimento di Villanueva y Geltrù in Spagna, l’azienda diventa una delle primissime multinazionali italiane. È il 1913 quando la Pirelli sbarca in Inghilterra, a Southampton, è il 1917 quando arriva in Argentina. A cinquant’anni dalla fondazione, nel 1922, l’azienda conta anche innumerevoli organizzazioni commerciali in tre continenti e due piantagioni di alberi da gomma in Indonesia.

Per celebrare il grande successo raggiunto, la società decide di allestire all’interno del suo secondo stabilimento milanese, nell’area della Bicocca, un Museo Storico delle Industrie Pirelli. Il Gruppo racconta attraverso pannelli iconografici, macchinari, documenti e un’esposizione di materie prime la sua crescita, non solo dal punto di vista dell’evoluzione industriale, ma anche dei prodotti e delle piantagioni acquisite. Per farlo affida a due dipendenti, Domenico Bonamici e Umberto Ubaldi (entrambi diplomati in Belle Arti e disegnatori rispettivamente per le piante e le sezioni di fabbrica e per l’Ufficio Tecnico Pneumatici) la realizzazione di una serie di disegni destinati sia all’allestimento, sia alla pubblicazione del volume La Pirelli & C. nel suo cinquantenario.

Tra i vari disegni realizzati per l’occasione, il Cartello delle Organizzazioni Pirelli illustra le numerose sedi commerciali estere e le piantagioni di gomma della ditta sparse in tutto il mondo, altri bozzetti raffigurano l’aumento nella produzione di articoli sportivi, pneumatici e conduttori dall’avvio al 1922, altri ancora esibiscono la crescita nella produzione di gomma greggia e il suo consumo a livello internazionale. E ancora, Le organizzazioni Pirelli nel cinquantenario della ditta rappresenta la Società Italiana Pirelli come un lago dal quale si diramano in forma di ruscelli e fiumi le consociate estere (Produits Pirelli, Société Francaise, Société Belge, Cauciù Pirelli, Pirelli LTD, Comercial Pirelli, Pirelli S.A. Platense, Agenzia Cairo, Pirelli Giava) e sfociano nelle varie sedi internazionali (da Londra a Siviglia, da Bucarest a Bruxelles, da Parigi a Zurigo fino al Cairo e all’Indonesia). Ma non solo, dal lago che rappresenta la Società Italiana si dipanano verso le montagne i corsi fluviali che illustrano le grandi fabbriche di Milano, Bicocca, Vercurago, Southampton, Villanueva i Geltrù e Buenos Aires. Più in lontananza, infine, si scorgono le piantagioni di Malacca e Giava in Indonesia da cui tutto ha origine.

A 150 anni dalla sua fondazione, le diramazioni della società sono ancora più capillari e articolate, con più di centosessanta punti vendita in tutto il mondo e diciannove stabilimenti in dodici Paesi. Un’espansione che parte da lontano ma rappresenta, al contempo, la base sulla quale Pirelli ha costruito il proprio presente e immagina il proprio futuro.

È il 1872 quando un giovane ingegnere di ventitré anni, Giovanni Battista Pirelli, reduce da un grand tour tra Svizzera, Francia, Germania e Belgio, rientra in patria con l’obiettivo di esportare «una industria nuova o ancora poco diffusa in Italia», quella del caucciù, con le sue applicazioni produttive. Dal 1873 i prodotti Pirelli prendono forma nel primo stabilimento di Milano, lungo il fiume “Sevesetto”. All’interno della fabbrica lavorano quaranta operai e cinque impiegati. Qui, agli articoli di gomma destinati alle macchine industriali, alla navigazione, alle ferrovie, si affiancano in pochi anni beni di consumo come giocattoli, articoli di abbigliamento e merceria. Superando brillantemente le inevitabili difficoltà di un’attività pionieristica, nel giro di dieci anni, nel 1883, la Pirelli può contare su oltre 300 operai e rami produttivi in continua espansione. L’azienda sottrae il monopolio del settore cavi agli inglesi grazie alle ricerche dei più grandi elettrotecnici dell’epoca (Emanuele Jona, Leopoldo e Luigi Emanueli), assicurandosi anche la fornitura di cavi-energia per le cascate del Niagara e per il Nilo, e inaugura stabilimenti in Spagna, Inghilterra, Belgio, Francia e Argentina.

La crescita da qui in poi è esponenziale, anche oltre oceano. Solamente trent’anni dopo l’apertura della prima fabbrica di Milano, con l’inaugurazione nel 1902 dello stabilimento di Villanueva y Geltrù in Spagna, l’azienda diventa una delle primissime multinazionali italiane. È il 1913 quando la Pirelli sbarca in Inghilterra, a Southampton, è il 1917 quando arriva in Argentina. A cinquant’anni dalla fondazione, nel 1922, l’azienda conta anche innumerevoli organizzazioni commerciali in tre continenti e due piantagioni di alberi da gomma in Indonesia.

Per celebrare il grande successo raggiunto, la società decide di allestire all’interno del suo secondo stabilimento milanese, nell’area della Bicocca, un Museo Storico delle Industrie Pirelli. Il Gruppo racconta attraverso pannelli iconografici, macchinari, documenti e un’esposizione di materie prime la sua crescita, non solo dal punto di vista dell’evoluzione industriale, ma anche dei prodotti e delle piantagioni acquisite. Per farlo affida a due dipendenti, Domenico Bonamici e Umberto Ubaldi (entrambi diplomati in Belle Arti e disegnatori rispettivamente per le piante e le sezioni di fabbrica e per l’Ufficio Tecnico Pneumatici) la realizzazione di una serie di disegni destinati sia all’allestimento, sia alla pubblicazione del volume La Pirelli & C. nel suo cinquantenario.

Tra i vari disegni realizzati per l’occasione, il Cartello delle Organizzazioni Pirelli illustra le numerose sedi commerciali estere e le piantagioni di gomma della ditta sparse in tutto il mondo, altri bozzetti raffigurano l’aumento nella produzione di articoli sportivi, pneumatici e conduttori dall’avvio al 1922, altri ancora esibiscono la crescita nella produzione di gomma greggia e il suo consumo a livello internazionale. E ancora, Le organizzazioni Pirelli nel cinquantenario della ditta rappresenta la Società Italiana Pirelli come un lago dal quale si diramano in forma di ruscelli e fiumi le consociate estere (Produits Pirelli, Société Francaise, Société Belge, Cauciù Pirelli, Pirelli LTD, Comercial Pirelli, Pirelli S.A. Platense, Agenzia Cairo, Pirelli Giava) e sfociano nelle varie sedi internazionali (da Londra a Siviglia, da Bucarest a Bruxelles, da Parigi a Zurigo fino al Cairo e all’Indonesia). Ma non solo, dal lago che rappresenta la Società Italiana si dipanano verso le montagne i corsi fluviali che illustrano le grandi fabbriche di Milano, Bicocca, Vercurago, Southampton, Villanueva i Geltrù e Buenos Aires. Più in lontananza, infine, si scorgono le piantagioni di Malacca e Giava in Indonesia da cui tutto ha origine.

A 150 anni dalla sua fondazione, le diramazioni della società sono ancora più capillari e articolate, con più di centosessanta punti vendita in tutto il mondo e diciannove stabilimenti in dodici Paesi. Un’espansione che parte da lontano ma rappresenta, al contempo, la base sulla quale Pirelli ha costruito il proprio presente e immagina il proprio futuro.

Gino Boccasile, grande firma per Pirelli

Grazie al tepore emanato dalla borsa per l’acqua calda Pirelli, un uovo si schiude, dando alla luce un pulcino. È l’immagine scelta dal pittore Gino Boccasile nel 1952 per pubblicizzare la boule Pirelli, uno tra i primi prodotti in gomma realizzati dall’azienda fin dalla fine dell’Ottocento, ritratto negli anni Cinquanta da diversi artisti. Si pensi ad esempio alla campagna di Raymond Savignac del 1953, con un bambino che abbraccia la boule, protagonista anche della divertente animazione dei fratelli Pagot “Freddo, semifreddo, caldo”. I bozzetti originali di queste pubblicità, realizzati a tempera su carta e firmati dagli autori, sono conservati nel nostro Archivio Storico, insieme ad alcuni dei loro esiti a stampa: cartelli vetrina, vetrofanie, cartellini prezzi, usati dai negozi per l’allestimento delle vetrine. Boccasile scompare prematuramente nel 1952, a soli 51 anni, al culmine di un’intensa carriera di cartellonista e illustratore, soprattutto per giornali satirici e riviste di moda. In particolare, tra il 1937 e 1938 disegna le copertine della rivista “Le grandi firme”, ideando una figura femminile, nota come proprio “la signorina Grandi Firme” , che in quel periodo porta Boccasile a una grande notorietà. Non a caso, nello stesso 1938 Boccasile viene chiamato dall’azienda della P lunga a realizzare una pubblicità per l’abbigliamento, nella quale l’artista ripropone le sue figure femminili, donne eleganti in impermeabili Pirelli.

Grazie al tepore emanato dalla borsa per l’acqua calda Pirelli, un uovo si schiude, dando alla luce un pulcino. È l’immagine scelta dal pittore Gino Boccasile nel 1952 per pubblicizzare la boule Pirelli, uno tra i primi prodotti in gomma realizzati dall’azienda fin dalla fine dell’Ottocento, ritratto negli anni Cinquanta da diversi artisti. Si pensi ad esempio alla campagna di Raymond Savignac del 1953, con un bambino che abbraccia la boule, protagonista anche della divertente animazione dei fratelli Pagot “Freddo, semifreddo, caldo”. I bozzetti originali di queste pubblicità, realizzati a tempera su carta e firmati dagli autori, sono conservati nel nostro Archivio Storico, insieme ad alcuni dei loro esiti a stampa: cartelli vetrina, vetrofanie, cartellini prezzi, usati dai negozi per l’allestimento delle vetrine. Boccasile scompare prematuramente nel 1952, a soli 51 anni, al culmine di un’intensa carriera di cartellonista e illustratore, soprattutto per giornali satirici e riviste di moda. In particolare, tra il 1937 e 1938 disegna le copertine della rivista “Le grandi firme”, ideando una figura femminile, nota come proprio “la signorina Grandi Firme” , che in quel periodo porta Boccasile a una grande notorietà. Non a caso, nello stesso 1938 Boccasile viene chiamato dall’azienda della P lunga a realizzare una pubblicità per l’abbigliamento, nella quale l’artista ripropone le sue figure femminili, donne eleganti in impermeabili Pirelli.

Storia economica e film d’autore

Con la visione del film Welcome Venice (2021) di Andrea Segre, attualmente in concorso ai David di Donatello,  si è conclusa la decima edizione del corso di aggiornamento e formazione per docenti Cinema & Storia, promosso da Fondazione ISEC e Fondazione Pirelli, per il secondo anno consecutivo in collaborazione con il cinema Beltrade di Milano.

Attraverso gli incontri online (cinque lezioni e un laboratorio), 200 docenti iscritti da tutta Italia hanno potuto approfondire la storia economica del nostro Paese, dall’Unità nazionale fino all’epoca contemporanea, acquisendo gli strumenti utili a integrare la prospettiva economica all’interno dei percorsi didattici.

Come da tradizione, il corso è stato avviato dalla lezione tenuta dal professor Marco Meriggi, docente di Storia delle Istituzioni Politiche all’Università degli Studi di Napoli Federico II, che ha offerto uno sguardo sul periodo preunitario attraverso una serie di momenti che influenzano ancora il nostro presente.

Ad affiancare questa prima lezione è stato selezionato il film Lazzaro Felice (2018), di Alice Rohrwacher, definito fiaba politica, che narra cinquant’anni della storia italiana attraverso le vicende del “candido” protagonista.

Il secondo appuntamento è stato curato da Monica Naldi, tra i responsabili del Cinema Beltrade che, con il laboratorio Il cinema in classe, ha suggerito ai docenti alcuni esempi per un impiego ideale del cinema a fini didattici. A partire dalla scelta dei titoli e alle modalità di approfondimento per permettere allo strumento cinematografico di stimolare la curiosità e l’interesse degli studenti.

La professoressa Vera Negri Zamagni, del dipartimento di Scienze Economiche dell’Università di Bologna, ha analizzato, durante la seconda lezione del corso, l’epoca della nascita dello Stato italiano. È stato possibile approfondire il complesso percorso che l’Italia ha dovuto affrontare per avviare il suo processo di modernizzazione attraverso l’industria, a partire da una realtà economicamente e socialmente arretrata e segnata da profonde diseguaglianze.

Il contrasto tra classe operaria e dirigente di una fabbrica tessile torinese alla fine dell’Ottocento è al centro di uno dei capolavori di Mario Monicelli, I compagni (1963), scelto a rappresentare i cambiamenti in atto verso la fine del XIX secolo.

La terza lezione è stata tenuta dal professor Mario Perugini, docente di Storia Economica all’Università degli studi di Catania e all’Università Bocconi di Milano, che si è soffermato sul periodo storico tra le due guerre mondiali per ricostruire quello straordinario scenario che permetterà la grande crescita dell’industria italiana, in un intreccio virtuoso di impresa pubblica e privata.

Il film di Franco Rossi, Giovinezza, Giovinezza (1969) ha condotto i fruitori del corso attraverso il racconto dell’amicizia di tre giovani universitari ferraresi, le cui strade si separano con l’avvento della guerra, in un equilibrio tra la cronaca dei sentimenti privati e la dimensione storico-politica.

Il direttore di Fondazione Pirelli, Antonio Calabrò, ha condotto una lezione sulla fase successiva al secondo conflitto mondiale che, in pochi anni e grazie a scelte politiche, economiche e sociali, ha reso possibile una radicale trasformazione dell’industria, del lavoro, dei consumi e dei costumi degli italiani, e per questo motivo definita “miracolo economico”.

La storia, in parte autobiografica, del film Il Posto di Ermanno Olmi (1961) ritrae magistralmente i profondi cambiamenti di questo periodo storico nella società italiana delle grandi città, tratteggiando personaggi rimasti indelebili nel cinema italiano e capaci di ispirare intere generazioni di cineasti.

 Con l’ultima lezione del corso, condotta dal professor Marco Doria, docente di Storia Economica e Storia delle Relazioni Economiche Internazionali presso l’Università di Genova, i partecipanti si sono confrontati con l’epoca contemporanea. Dai processi di globalizzazione, con il conseguente riassestamento degli equilibri economici internazionali che hanno messo in evidenza la fragile struttura industriale italiana caratterizzata da una moltitudine di piccole imprese, alle grandi opportunità che si aprono per il nostro Paese, conosciuto nel mondo per la qualità e originalità dei suoi prodotti.

L’attualità è stata quindi descritta nelle scene di Welcome Venice, che come tutti gli altri film selezionati per il corso, è stato introdotto e commentato dal cinema Beltrade. È lo scontro tra due fratelli, pescatori della Giudecca, a mostrare i forti cambiamenti in atto nella vita e nell’identità di Venezia e della sua gente, causati dall’impatto sempre più profondo del turismo globale.

L’anniversario dei primi dieci anni del corso Cinema & Storia non poteva essere migliore, confermando come chiave del suo successo l’opportunità offerta ai docenti di approfondire tematiche trasversali alle diverse discipline scolastiche e migliorare l’utilizzo dello strumento cinematografico in classe.

Con la visione del film Welcome Venice (2021) di Andrea Segre, attualmente in concorso ai David di Donatello,  si è conclusa la decima edizione del corso di aggiornamento e formazione per docenti Cinema & Storia, promosso da Fondazione ISEC e Fondazione Pirelli, per il secondo anno consecutivo in collaborazione con il cinema Beltrade di Milano.

Attraverso gli incontri online (cinque lezioni e un laboratorio), 200 docenti iscritti da tutta Italia hanno potuto approfondire la storia economica del nostro Paese, dall’Unità nazionale fino all’epoca contemporanea, acquisendo gli strumenti utili a integrare la prospettiva economica all’interno dei percorsi didattici.

Come da tradizione, il corso è stato avviato dalla lezione tenuta dal professor Marco Meriggi, docente di Storia delle Istituzioni Politiche all’Università degli Studi di Napoli Federico II, che ha offerto uno sguardo sul periodo preunitario attraverso una serie di momenti che influenzano ancora il nostro presente.

Ad affiancare questa prima lezione è stato selezionato il film Lazzaro Felice (2018), di Alice Rohrwacher, definito fiaba politica, che narra cinquant’anni della storia italiana attraverso le vicende del “candido” protagonista.

Il secondo appuntamento è stato curato da Monica Naldi, tra i responsabili del Cinema Beltrade che, con il laboratorio Il cinema in classe, ha suggerito ai docenti alcuni esempi per un impiego ideale del cinema a fini didattici. A partire dalla scelta dei titoli e alle modalità di approfondimento per permettere allo strumento cinematografico di stimolare la curiosità e l’interesse degli studenti.

La professoressa Vera Negri Zamagni, del dipartimento di Scienze Economiche dell’Università di Bologna, ha analizzato, durante la seconda lezione del corso, l’epoca della nascita dello Stato italiano. È stato possibile approfondire il complesso percorso che l’Italia ha dovuto affrontare per avviare il suo processo di modernizzazione attraverso l’industria, a partire da una realtà economicamente e socialmente arretrata e segnata da profonde diseguaglianze.

Il contrasto tra classe operaria e dirigente di una fabbrica tessile torinese alla fine dell’Ottocento è al centro di uno dei capolavori di Mario Monicelli, I compagni (1963), scelto a rappresentare i cambiamenti in atto verso la fine del XIX secolo.

La terza lezione è stata tenuta dal professor Mario Perugini, docente di Storia Economica all’Università degli studi di Catania e all’Università Bocconi di Milano, che si è soffermato sul periodo storico tra le due guerre mondiali per ricostruire quello straordinario scenario che permetterà la grande crescita dell’industria italiana, in un intreccio virtuoso di impresa pubblica e privata.

Il film di Franco Rossi, Giovinezza, Giovinezza (1969) ha condotto i fruitori del corso attraverso il racconto dell’amicizia di tre giovani universitari ferraresi, le cui strade si separano con l’avvento della guerra, in un equilibrio tra la cronaca dei sentimenti privati e la dimensione storico-politica.

Il direttore di Fondazione Pirelli, Antonio Calabrò, ha condotto una lezione sulla fase successiva al secondo conflitto mondiale che, in pochi anni e grazie a scelte politiche, economiche e sociali, ha reso possibile una radicale trasformazione dell’industria, del lavoro, dei consumi e dei costumi degli italiani, e per questo motivo definita “miracolo economico”.

La storia, in parte autobiografica, del film Il Posto di Ermanno Olmi (1961) ritrae magistralmente i profondi cambiamenti di questo periodo storico nella società italiana delle grandi città, tratteggiando personaggi rimasti indelebili nel cinema italiano e capaci di ispirare intere generazioni di cineasti.

 Con l’ultima lezione del corso, condotta dal professor Marco Doria, docente di Storia Economica e Storia delle Relazioni Economiche Internazionali presso l’Università di Genova, i partecipanti si sono confrontati con l’epoca contemporanea. Dai processi di globalizzazione, con il conseguente riassestamento degli equilibri economici internazionali che hanno messo in evidenza la fragile struttura industriale italiana caratterizzata da una moltitudine di piccole imprese, alle grandi opportunità che si aprono per il nostro Paese, conosciuto nel mondo per la qualità e originalità dei suoi prodotti.

L’attualità è stata quindi descritta nelle scene di Welcome Venice, che come tutti gli altri film selezionati per il corso, è stato introdotto e commentato dal cinema Beltrade. È lo scontro tra due fratelli, pescatori della Giudecca, a mostrare i forti cambiamenti in atto nella vita e nell’identità di Venezia e della sua gente, causati dall’impatto sempre più profondo del turismo globale.

L’anniversario dei primi dieci anni del corso Cinema & Storia non poteva essere migliore, confermando come chiave del suo successo l’opportunità offerta ai docenti di approfondire tematiche trasversali alle diverse discipline scolastiche e migliorare l’utilizzo dello strumento cinematografico in classe.

Come crescere per davvero

L’ultimo libro di Espen Stoknes delinea un percorso possibile verso lo sviluppo equilibrato e sostenibile

  

Come crescere creando valore e quindi sviluppo, benessere ed equità (anche ambientale). Il tema è sulle ribalte mondiali. E con ragione e a maggior ragione dopo lo scoppio della guerra Russia-Ucraina. In discussione, infatti, sono non solo gli equilibri politici, ma i modelli di sviluppo che si vogliono per seguire.

A ragionare attorno a questi argomenti, ci si è messo Espen Stoknes – psicologo, economista, ricercatore che si occupa di strategie per affrontare i cambiamenti climatici, nonché imprenditore nell’ambito delle tecnologie green. Il risultato è “L’economia di domani. Una guida per creare una crescita sana e green”, un libro appena tradotto in Italia che ha come obiettivo quello di riformulare la delicata questione della crescita economica.

Andando oltre gli steccati che separano i fautori e i detrattori, Stoknes argomenta a favore di una crescita sana e cioè una crescita rigenerativa che non spreca risorse, che risolve i problemi anziché nasconderli con il greenwashing, che fa valere principi di equità anziché esasperare le disuguaglianze. Stoknes  sostiene che la società moderna dispone già degli strumenti per creare questo tipo di crescita, ma sottolinea come il successo dipenderà dal modo in cui si riuscirà a organizzare le innovazioni, le pratiche di governo e i comportamenti individuali.

Il libro quindi inizia con un ragionamento sulla necessità di riformulare il concetto di crescita partendo dalle innovazioni. L’autore, quindi, fornisce una sorta di “bussola per la crescita” basata su alcuni capisaldi: la necessità di evitare gli sprechi, l’esigenza di distinguere bene il tipo di crescita al quale si tende, l’obbligo di arrivare ad una crescita inclusiva e non per pochi. L’ultima parte del libro, quindi viene dedicata ad una serie di precetti operativi attraverso i quali arrivare al traguardo di uno sviluppo equilibrato e compatible con l’ambiente oltre che naturalmente con l’uomo.

La crescita sana – è il pensiero di Stoknes  -, ripensa la creazione di valore, considerandola una risorsa intelligente e inclusiva. La crescita sana produce profitti misurabili, rende le risorse sempre più produttive e più redistribuite. E’ naturalmente un percorso complesso quello indicato da Espen Stoknes, ma non è un percorso impossibile. Il tema di fondo per affrontarlo con successo, è tuttavia sempre lo stesso: l’impegno dei singoli che si trasforma in un impegno delle comunità.

L’economia di domani. Una guida per creare una crescita sana e green

Espen Stoknes

Franco Angeli, 2022

L’ultimo libro di Espen Stoknes delinea un percorso possibile verso lo sviluppo equilibrato e sostenibile

  

Come crescere creando valore e quindi sviluppo, benessere ed equità (anche ambientale). Il tema è sulle ribalte mondiali. E con ragione e a maggior ragione dopo lo scoppio della guerra Russia-Ucraina. In discussione, infatti, sono non solo gli equilibri politici, ma i modelli di sviluppo che si vogliono per seguire.

A ragionare attorno a questi argomenti, ci si è messo Espen Stoknes – psicologo, economista, ricercatore che si occupa di strategie per affrontare i cambiamenti climatici, nonché imprenditore nell’ambito delle tecnologie green. Il risultato è “L’economia di domani. Una guida per creare una crescita sana e green”, un libro appena tradotto in Italia che ha come obiettivo quello di riformulare la delicata questione della crescita economica.

Andando oltre gli steccati che separano i fautori e i detrattori, Stoknes argomenta a favore di una crescita sana e cioè una crescita rigenerativa che non spreca risorse, che risolve i problemi anziché nasconderli con il greenwashing, che fa valere principi di equità anziché esasperare le disuguaglianze. Stoknes  sostiene che la società moderna dispone già degli strumenti per creare questo tipo di crescita, ma sottolinea come il successo dipenderà dal modo in cui si riuscirà a organizzare le innovazioni, le pratiche di governo e i comportamenti individuali.

Il libro quindi inizia con un ragionamento sulla necessità di riformulare il concetto di crescita partendo dalle innovazioni. L’autore, quindi, fornisce una sorta di “bussola per la crescita” basata su alcuni capisaldi: la necessità di evitare gli sprechi, l’esigenza di distinguere bene il tipo di crescita al quale si tende, l’obbligo di arrivare ad una crescita inclusiva e non per pochi. L’ultima parte del libro, quindi viene dedicata ad una serie di precetti operativi attraverso i quali arrivare al traguardo di uno sviluppo equilibrato e compatible con l’ambiente oltre che naturalmente con l’uomo.

La crescita sana – è il pensiero di Stoknes  -, ripensa la creazione di valore, considerandola una risorsa intelligente e inclusiva. La crescita sana produce profitti misurabili, rende le risorse sempre più produttive e più redistribuite. E’ naturalmente un percorso complesso quello indicato da Espen Stoknes, ma non è un percorso impossibile. Il tema di fondo per affrontarlo con successo, è tuttavia sempre lo stesso: l’impegno dei singoli che si trasforma in un impegno delle comunità.

L’economia di domani. Una guida per creare una crescita sana e green

Espen Stoknes

Franco Angeli, 2022

La trasformazione dopo la pandemia

Una raccolta di ricerche mette a fuoco i temi attorno ai quali fondare un nuovo modo di vivere e lavorare

Com’è cambiato il mondo dopo la pandemia da Covid-19? L’interrogativo non è di quelli impossibili, ma di quelli doverosi. Ha cercato di rispondervi la raccolta di ricerche e interventi presentati al Festival della famiglia di Trento, che adesso ha trovato ospitalità in “La ‘società’ trasformata: verso un’economia della sostenibilità? Sfide e opportunità dopo la pandemia da Covid-19”. Luciano Malfer e Ilaria Antonini, curatori dell’antologia, hanno riunito le indagini attorno ai concetti di economia, famiglia, sostenibilità post pandemia: i temi attorno ai quali si è sviluppata la discussione nell’ambito del Festival.

“Cosa ci insegna una pandemia. Sfide per una nuova sostenibilità sociale”, è stato quindi il primo tema attorno al quale si è ragionato per poi passare ad approfondire alcuni aspetti particolari: il telelavoro, la necessità di creare “reti familiari”, le relazioni famiglia-scuola-territorio, le “sfide” per il futuro costituite dal lavoro femminile, dalla presenza e dal ruolo degli anziani e dal tema della disabilità. Le indagini, sono poi proseguite affrontando temi più ampi come il cambio dei luoghi di vita e di lavoro, i temi legati alla demografia, alle nuove reti sul territorio. Ne emerge un quadro vasti e complesso, nel quale trovano posto numerosi aspetti del vivere sociale.

“Nei prossimi anni – scrivo Vera e Stefano Zamagni in una delle indagini raccolte -, si misurerà la volontà di autorità pubbliche, imprenditoria e sindacato di far fronte al sostegno della famiglia, se non per la condivisione del suo valore intrinseco almeno per limitare gli effetti più negativi del suo indebolimento: la crisi delle nascite, le carenze educative dei giovani, l’impoverimento di coppie separate e i costi in crescita esplosiva dell’assistenza agli anziani. Ma soprattutto si misureranno i cambiamenti culturali e organizzativi che la società civile sarà in grado di mettere in campo, perché alla fine è sempre alla responsabilità dei cittadini che fanno capo le trasformazioni della società e sono sempre i cittadini a riconoscere quali sono le istituzioni e le politiche capaci di aumentare la loro felicità”.

Il lavoro di raccolta e sintesi svolto da Malfer e Antonini, è un buon vademecum su un tema estremamente complesso, dalle innumerevoli implicazioni che toccano la cultura della società come quella del produrre.

La “società” trasformata: verso un’economia della sostenibilità? Sfide e opportunità dopo la pandemia da Covid-19

Luciano Malfer e Ilaria Antonini (a cura di)

Atti del Festival della famiglia Trento 2020

Una raccolta di ricerche mette a fuoco i temi attorno ai quali fondare un nuovo modo di vivere e lavorare

Com’è cambiato il mondo dopo la pandemia da Covid-19? L’interrogativo non è di quelli impossibili, ma di quelli doverosi. Ha cercato di rispondervi la raccolta di ricerche e interventi presentati al Festival della famiglia di Trento, che adesso ha trovato ospitalità in “La ‘società’ trasformata: verso un’economia della sostenibilità? Sfide e opportunità dopo la pandemia da Covid-19”. Luciano Malfer e Ilaria Antonini, curatori dell’antologia, hanno riunito le indagini attorno ai concetti di economia, famiglia, sostenibilità post pandemia: i temi attorno ai quali si è sviluppata la discussione nell’ambito del Festival.

“Cosa ci insegna una pandemia. Sfide per una nuova sostenibilità sociale”, è stato quindi il primo tema attorno al quale si è ragionato per poi passare ad approfondire alcuni aspetti particolari: il telelavoro, la necessità di creare “reti familiari”, le relazioni famiglia-scuola-territorio, le “sfide” per il futuro costituite dal lavoro femminile, dalla presenza e dal ruolo degli anziani e dal tema della disabilità. Le indagini, sono poi proseguite affrontando temi più ampi come il cambio dei luoghi di vita e di lavoro, i temi legati alla demografia, alle nuove reti sul territorio. Ne emerge un quadro vasti e complesso, nel quale trovano posto numerosi aspetti del vivere sociale.

“Nei prossimi anni – scrivo Vera e Stefano Zamagni in una delle indagini raccolte -, si misurerà la volontà di autorità pubbliche, imprenditoria e sindacato di far fronte al sostegno della famiglia, se non per la condivisione del suo valore intrinseco almeno per limitare gli effetti più negativi del suo indebolimento: la crisi delle nascite, le carenze educative dei giovani, l’impoverimento di coppie separate e i costi in crescita esplosiva dell’assistenza agli anziani. Ma soprattutto si misureranno i cambiamenti culturali e organizzativi che la società civile sarà in grado di mettere in campo, perché alla fine è sempre alla responsabilità dei cittadini che fanno capo le trasformazioni della società e sono sempre i cittadini a riconoscere quali sono le istituzioni e le politiche capaci di aumentare la loro felicità”.

Il lavoro di raccolta e sintesi svolto da Malfer e Antonini, è un buon vademecum su un tema estremamente complesso, dalle innumerevoli implicazioni che toccano la cultura della società come quella del produrre.

La “società” trasformata: verso un’economia della sostenibilità? Sfide e opportunità dopo la pandemia da Covid-19

Luciano Malfer e Ilaria Antonini (a cura di)

Atti del Festival della famiglia Trento 2020

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