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Algoritmi vs umani, la sfida dell’oggi

Un libro-intervista di Miguel Benasayag propone a chi legge un percorso per rimanere umani al cospetto delle macchine

Algoritmi alla guida di tutto. Anche delle nostre vite. E quindi di tutte le organizzazioni sociali ed economiche che gli essere umani possono creare. Edizione moderna della sfida uomo-macchina, il confronto con gli algoritmi che sono dietro i cosiddetti big data, è certamente la sfida del momento. Che deve essere comprese a fondo prima di essere affrontata. Anche nella vita di ogni giorno. Ed è allora più che utile – ma istruttivo e importante – leggere “La tirannia dell’algoritmo” il libro-intervista di Miguel Benasayag (filosofo e psicanalista di origine argentina che ci ha insegnato a difenderci dalle ‘passioni tristi’ alimentate dalla nostra società), scritto con Régis Meyran nel quale il lettore viene messo in guardia dal rischio che siano gli algoritmi dei big data a guidare le nostre democrazie.

Il tema affrontato dal libro – poco più di cento pagine che si devono leggere con grande attenzione -, non è tanto la constatazione che tutti noi e tutte le nostre organizzazioni siano ogni giorno messe a confronto con gli effetti degli algoritmi, quanto sapere come esistere in quanto umani in un tale mondo e quindi fare in modo che, sia pure nell’integrazione utile con l’intelligenza artificiale, non vengano meno le particolarità del vivente, il suo essere imprevedibile e libero, irriducibile a una somma di informazioni, ai parametri della pura efficienza e della performance.

Il ragionamento di Benasayag  vale sul piano individuale, ma anche su quello sociale ed economico. Benasayag fa qui emergere chiaramente come anche le decisioni rilevanti a livello sociale, politico ed economico siano oggi legate alla logica lineare delle macchine, affidate ai calcoli e alla raccolta abnorme dei dati, alla gestione pseudo-razionale di un rapporto causa-effetto che non tiene conto della complessità dei “corpi” individuali e sociali e che insidia le nostre democrazie.

Benasayag quindi si chiede se sia possibile un agire che assuma la sfida di proteggere il vivente, la cultura, la buona politica. E la risposta non è una ricetta infallibile, ma un percorso, un itinerario di “riappropriazione creativa” del rapporto con l’artificiale, un insieme di “soluzioni singolari” di piccole dimensioni e grandissimo impatto umano, qui e ora, capaci di costruire esperienze e pratiche di ibridazione con la tecnica che rispettino il vivente e la sua libertà.

“La tirannia dell’algoritmo” è un libro tutto da leggere, il cui autore non chiede al lettore di essere sempre d’accordo con quanto legge, ma di ragionare sul proprio presente in modo diverso.

La tirannia dell’algoritmo

Miguel Benasayag

Vita e Pensiero, 2020

Un libro-intervista di Miguel Benasayag propone a chi legge un percorso per rimanere umani al cospetto delle macchine

Algoritmi alla guida di tutto. Anche delle nostre vite. E quindi di tutte le organizzazioni sociali ed economiche che gli essere umani possono creare. Edizione moderna della sfida uomo-macchina, il confronto con gli algoritmi che sono dietro i cosiddetti big data, è certamente la sfida del momento. Che deve essere comprese a fondo prima di essere affrontata. Anche nella vita di ogni giorno. Ed è allora più che utile – ma istruttivo e importante – leggere “La tirannia dell’algoritmo” il libro-intervista di Miguel Benasayag (filosofo e psicanalista di origine argentina che ci ha insegnato a difenderci dalle ‘passioni tristi’ alimentate dalla nostra società), scritto con Régis Meyran nel quale il lettore viene messo in guardia dal rischio che siano gli algoritmi dei big data a guidare le nostre democrazie.

Il tema affrontato dal libro – poco più di cento pagine che si devono leggere con grande attenzione -, non è tanto la constatazione che tutti noi e tutte le nostre organizzazioni siano ogni giorno messe a confronto con gli effetti degli algoritmi, quanto sapere come esistere in quanto umani in un tale mondo e quindi fare in modo che, sia pure nell’integrazione utile con l’intelligenza artificiale, non vengano meno le particolarità del vivente, il suo essere imprevedibile e libero, irriducibile a una somma di informazioni, ai parametri della pura efficienza e della performance.

Il ragionamento di Benasayag  vale sul piano individuale, ma anche su quello sociale ed economico. Benasayag fa qui emergere chiaramente come anche le decisioni rilevanti a livello sociale, politico ed economico siano oggi legate alla logica lineare delle macchine, affidate ai calcoli e alla raccolta abnorme dei dati, alla gestione pseudo-razionale di un rapporto causa-effetto che non tiene conto della complessità dei “corpi” individuali e sociali e che insidia le nostre democrazie.

Benasayag quindi si chiede se sia possibile un agire che assuma la sfida di proteggere il vivente, la cultura, la buona politica. E la risposta non è una ricetta infallibile, ma un percorso, un itinerario di “riappropriazione creativa” del rapporto con l’artificiale, un insieme di “soluzioni singolari” di piccole dimensioni e grandissimo impatto umano, qui e ora, capaci di costruire esperienze e pratiche di ibridazione con la tecnica che rispettino il vivente e la sua libertà.

“La tirannia dell’algoritmo” è un libro tutto da leggere, il cui autore non chiede al lettore di essere sempre d’accordo con quanto legge, ma di ragionare sul proprio presente in modo diverso.

La tirannia dell’algoritmo

Miguel Benasayag

Vita e Pensiero, 2020

Sviluppo sostenibile ancora lontano dalle imprese?

Un’ indagine condotta sulle principali business school nel mondo dimostra la scarsa preparazione degli studi nei temi di SDGs

 

Sviluppo sostenibile, traguardo di tutti. Anche delle imprese, che per questo, da tempo, hanno cambiato metodi e approcci alla produzione e al mercato. Cambiamento che ha riguardato anche il bagaglio culturale dei manager e degli stessi imprenditori coinvolti. Giselle Weybrecht, ha però voluto indagare se e quanto le business school di tutto il mondo abbiano coinvolto i loro studenti nell’acquisizione della consapevolezza degli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) concordati nel 2015 fino alla metà del 2020. Weybrecht ha cioè voluto capire se i futuri manager abbiano già acquisito i principi dello sviluppo sostenibile che saranno poi chiamati ad applicare.

“How management education is engaging students in the sustainable development goals”, affronta quindi prima la raccolta dei dati raccolti dalle informazioni presentate dalle scuole stesse. L’autrice arriva quindi a delineare la gamma di approcci segnalati che si riferiscono specificamente agli studenti e menzionano esplicitamente gli SDG.

I risultati sono sorprendenti e mostrano che, sebbene sia stato rilevato un numero crescente di approcci innovativi che potrebbero diventare la base per il modo in cui l’educazione manageriale si avvicina agli SDGs, la maggior parte delle scuole non coinvolge ancora i propri studenti negli SDGs stessi. E non basta, perché delle business school che comunque affrontano anche i temi dello sviluppo sostenibile, la maggior parte offre trattazione limitate e comunque sempre “incorporate” in altre materie. “Si tratta – scrive Giselle Weybrecht

-, di un’occasione mancata per gli studenti, le università e la comunità globale, data l’importante influenza che la formazione manageriale, e per estensione il settore imprenditoriale, ha sulla realizzazione degli obiettivi di sviluppo sostenivile”.

La ricerca di Giselle Weybrecht arriva così a dimostrare quanto sia ancora lunga la strada per arrivare ad una cultura d’impresa che abbia lo sviluppo sostenibile tra le “corde” principali.

How management education is engaging students in the sustainable development goals

Giselle Weybrecht

International Journal of Sustainability in Higher Education, July 2021

Un’ indagine condotta sulle principali business school nel mondo dimostra la scarsa preparazione degli studi nei temi di SDGs

 

Sviluppo sostenibile, traguardo di tutti. Anche delle imprese, che per questo, da tempo, hanno cambiato metodi e approcci alla produzione e al mercato. Cambiamento che ha riguardato anche il bagaglio culturale dei manager e degli stessi imprenditori coinvolti. Giselle Weybrecht, ha però voluto indagare se e quanto le business school di tutto il mondo abbiano coinvolto i loro studenti nell’acquisizione della consapevolezza degli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) concordati nel 2015 fino alla metà del 2020. Weybrecht ha cioè voluto capire se i futuri manager abbiano già acquisito i principi dello sviluppo sostenibile che saranno poi chiamati ad applicare.

“How management education is engaging students in the sustainable development goals”, affronta quindi prima la raccolta dei dati raccolti dalle informazioni presentate dalle scuole stesse. L’autrice arriva quindi a delineare la gamma di approcci segnalati che si riferiscono specificamente agli studenti e menzionano esplicitamente gli SDG.

I risultati sono sorprendenti e mostrano che, sebbene sia stato rilevato un numero crescente di approcci innovativi che potrebbero diventare la base per il modo in cui l’educazione manageriale si avvicina agli SDGs, la maggior parte delle scuole non coinvolge ancora i propri studenti negli SDGs stessi. E non basta, perché delle business school che comunque affrontano anche i temi dello sviluppo sostenibile, la maggior parte offre trattazione limitate e comunque sempre “incorporate” in altre materie. “Si tratta – scrive Giselle Weybrecht

-, di un’occasione mancata per gli studenti, le università e la comunità globale, data l’importante influenza che la formazione manageriale, e per estensione il settore imprenditoriale, ha sulla realizzazione degli obiettivi di sviluppo sostenivile”.

La ricerca di Giselle Weybrecht arriva così a dimostrare quanto sia ancora lunga la strada per arrivare ad una cultura d’impresa che abbia lo sviluppo sostenibile tra le “corde” principali.

How management education is engaging students in the sustainable development goals

Giselle Weybrecht

International Journal of Sustainability in Higher Education, July 2021

Ambiente, la Ue vara un piano ambizioso, da applicare senza distruggere l’industria

Incendi devastanti. E rovinose alluvioni, dopo piogge e grandinate violente. Sono oramai avvenimenti che segnano drammaticamente la nostra attualità e saranno purtroppo sempre più frequenti in futuro. I cambiamenti climatici e il surriscaldamento globale ne sono la causa principale. “The Economist”, con la forza del buon giornalismo, li mette al centro dell’inchiesta di copertina di questa settimana, titolando “No safe place” per dire che tutti siamo in pericolo, nello scenario del “3°C future”, di un riscaldamento della Terra di 3 gradi maggiore rispetto all’era pre-industriale (ci siamo sempre più vicini: il 2021 rischia di essere l’anno più caldo del secolo). L’immagine dei due pinguini spettatori, nel bel mezzo dell’oceano, degli spettacoli Tv sui roghi di foreste e città è esemplare, grazie anche alla forza di un’efficace ironia molto anglosassone.

“I fenomeni estremi delle alluvioni” (in Germania e in Cina, le ultime) e degli incendi (in Canada, in Australia e, adesso, qui da noi in Sardegna) non spariranno, ma “gli adattamenti economici e sociali potrebbero fare diminuire il loro impatto”, scrive il settimanale britannico, indicando anche cosa fare: tagliare le emissioni di CO2, certo, ma soprattutto investire per cambiare i meccanismi di produzione e di consumo (trasporti, condizioni di vita urbane, energie rinnovabili), rendendo concreti di accordi di Parigi sulla sostenibilità e con un impegno dei paesi più ricchi a dare una mano, in questa prospettiva, ai paesi più poveri e fragili.

“The Economist” riflette l’intelligenza di un paio di secoli di buon pragmatismo, con scarse concessioni all’estremismo ideologico (vale la pena leggere, su un altro tema, anche l’editoriale, pubblicato sullo stesso numero, sulle ricerche neurologiche e l’etica scientifica, ricordando che le democrazie liberali non devono cedere il passo alla Cina sulle neuroscienze). E le indicazioni di “The Economist” possono essere un buon viatico nelle elaborazioni delle posizioni Ue in vista della Cop 26 (la Conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici, presieduta da Italia e Regno Unito) in programma in novembre a Glasgow, in Scozia. Conferma il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi: “Vogliamo raggiungere un accordo ambizioso, che coinvolga le economie ricche e quelle emergenti”.
L’Accordo di Parigi sul clima del 2015 aveva già indicato il contenimento dell’aumento della temperatura media globale molto al di sotto dei 2°C, a 1,5°C. Ma nel lungo periodo. Una scelta strategica importante. Seguita però da incertezze, carenze e veri e propri disimpegni, come quello degli Usa nella stagione avventurosa della presidenza Trump. Adesso il tema torna sul tavolo delle strategie politiche responsabili, grazie anche al radicale cambiamento di rotta della presidenza Biden, più sensibile ai temi ambientali.

La Ue, a Bruxelles, si muove con grande determinazione. E il Green Deal annunciato nelle scorse settimane dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen indica obiettivi ambiziosi: riduzione del 100% delle emissioni di CO2 (la “neutralità carbonica”) entro il 2050, con un obiettivo intermedio del taglio del 55% nel 2030 (rispetto ai livelli del 1990); premiare la decarbonizzazione; introdurre una tariffa sui beni extra Ue prodotti con bassi standard ambientali (nel mirino soprattutto le importazioni da Cina e India); tassare i carburanti in base al contenuto energetico; piantare nei paesi Ue 3 miliardi di alberi, per assorbire grandi quantità di anidride carbonica; attivare un fondo sociale da 72 miliardi per co-finanziare incentivi nazionali di altrettanto peso per la green economy.
E’ un piano quanto mai impegnativo. Che viene incontro alla sensibilità delle opinioni pubbliche europee sui temi climatici. E che, nell’attuazione rapida prevista sai responsabili Ue, ha bisogno di una serie di articolazioni.
C’è un tema di politica internazionale, per cercare di convincere le grandi economie manifatturiere e i produttori di energia (Cina, India e altri paesi industriali nel Far East ma anche i paesi arabi e il Brasile) ad accelerare le trasformazioni industriali, mettendo da canto gli impianti a carbone e l’uso massiccio degli altri combustibili fossili (il petrolio, il gas), usando anche le armi della tassazione (la “Cbam”, Carbon border adjustment mechanism, la cosiddetta “tassa sul carbonio”, apprezzata anche da grandi economisti come Paul Krugman, Nobel per l’economia nel 2008: “Lo sforzo di Usa e Ue rischia di essere vanificato, la Terra sta morendo, punire gli irresponsabili”, “La Stampa”, 23 luglio 2021).

E c’è una transizione da definire, per non mettere in ginocchio l’industria europea, a cominciare da quella dell’auto, fortemente colpita dal blocco delle vendite di automobili non elettriche nel 2035 (300mila addetti diretti nel settore automotive in Italia) ma anche quella dei trasporti, del cemento, dell’acciaio e dell’alluminio.
“Ci sono margini di manovra”, assicura Bruxelles. Ci sono misure da prendere, all’interno del Recovery Plan, per la transizione energetica strettamente legata a quella digitale. C’è insomma da definire una nuova politica industriale europea che premi le imprese che hanno già investito sulla sostenibilità e stimolare quelle che ancora non lo hanno fatto o si sono mosse solo parzialmente. E’ una sfida importante, urgente, necessaria, che impegna il governo e le parti sociali, imprese e sindacati. E che ha bisogno di grande attenzione culturale e politica, di informazione attenta e ben documentata, di sensibilità generale da parte di un’opinione pubblica che deve ragionare, capire, condividere obiettivi (come la parte più ampia e responsabile degli italiani sta facendo contro la pandemia, nonostante le fake news e la propaganda dei no vax).
“E’ bene muoversi presto. La transizione ecologica non è un giro di giostra. Sarà necessario convertire e cambiare modelli e lavori. E tutto ciò richiede scelte anche dolorose, ma necessarie. E governare la transizione in maniera ordinata, riducendo i profili di rischio, aumentando l’occupazione e stimolando l’imprenditoria”, sostiene Francesco Starace, amministratore delegato dell’Enel (“Il Sole24Ore”, 17 luglio).

Ci sono, proprio in Italia, imprese all’avanguardia. 432mila aziende dell’industria e dei servizi hanno investito, tra il 2015 e il 2019, in prodotti e tecnologie green, documenta uno studio recente di Symbola e Unioncamere. E oggi, dunque, “il Next Generation Ue e quindi il Pnrr – commenta Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola – sono cruciali per affrontare la crisi e costruire un futuro migliore per l’Italia e l’Europa. La transizione verde è il suo cuore, insieme alla coesione sociale e all’innovazione digitale”. In altri termini, un “Safe place”, per quanto difficile, è ancora possibile.

Incendi devastanti. E rovinose alluvioni, dopo piogge e grandinate violente. Sono oramai avvenimenti che segnano drammaticamente la nostra attualità e saranno purtroppo sempre più frequenti in futuro. I cambiamenti climatici e il surriscaldamento globale ne sono la causa principale. “The Economist”, con la forza del buon giornalismo, li mette al centro dell’inchiesta di copertina di questa settimana, titolando “No safe place” per dire che tutti siamo in pericolo, nello scenario del “3°C future”, di un riscaldamento della Terra di 3 gradi maggiore rispetto all’era pre-industriale (ci siamo sempre più vicini: il 2021 rischia di essere l’anno più caldo del secolo). L’immagine dei due pinguini spettatori, nel bel mezzo dell’oceano, degli spettacoli Tv sui roghi di foreste e città è esemplare, grazie anche alla forza di un’efficace ironia molto anglosassone.

“I fenomeni estremi delle alluvioni” (in Germania e in Cina, le ultime) e degli incendi (in Canada, in Australia e, adesso, qui da noi in Sardegna) non spariranno, ma “gli adattamenti economici e sociali potrebbero fare diminuire il loro impatto”, scrive il settimanale britannico, indicando anche cosa fare: tagliare le emissioni di CO2, certo, ma soprattutto investire per cambiare i meccanismi di produzione e di consumo (trasporti, condizioni di vita urbane, energie rinnovabili), rendendo concreti di accordi di Parigi sulla sostenibilità e con un impegno dei paesi più ricchi a dare una mano, in questa prospettiva, ai paesi più poveri e fragili.

“The Economist” riflette l’intelligenza di un paio di secoli di buon pragmatismo, con scarse concessioni all’estremismo ideologico (vale la pena leggere, su un altro tema, anche l’editoriale, pubblicato sullo stesso numero, sulle ricerche neurologiche e l’etica scientifica, ricordando che le democrazie liberali non devono cedere il passo alla Cina sulle neuroscienze). E le indicazioni di “The Economist” possono essere un buon viatico nelle elaborazioni delle posizioni Ue in vista della Cop 26 (la Conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici, presieduta da Italia e Regno Unito) in programma in novembre a Glasgow, in Scozia. Conferma il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi: “Vogliamo raggiungere un accordo ambizioso, che coinvolga le economie ricche e quelle emergenti”.
L’Accordo di Parigi sul clima del 2015 aveva già indicato il contenimento dell’aumento della temperatura media globale molto al di sotto dei 2°C, a 1,5°C. Ma nel lungo periodo. Una scelta strategica importante. Seguita però da incertezze, carenze e veri e propri disimpegni, come quello degli Usa nella stagione avventurosa della presidenza Trump. Adesso il tema torna sul tavolo delle strategie politiche responsabili, grazie anche al radicale cambiamento di rotta della presidenza Biden, più sensibile ai temi ambientali.

La Ue, a Bruxelles, si muove con grande determinazione. E il Green Deal annunciato nelle scorse settimane dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen indica obiettivi ambiziosi: riduzione del 100% delle emissioni di CO2 (la “neutralità carbonica”) entro il 2050, con un obiettivo intermedio del taglio del 55% nel 2030 (rispetto ai livelli del 1990); premiare la decarbonizzazione; introdurre una tariffa sui beni extra Ue prodotti con bassi standard ambientali (nel mirino soprattutto le importazioni da Cina e India); tassare i carburanti in base al contenuto energetico; piantare nei paesi Ue 3 miliardi di alberi, per assorbire grandi quantità di anidride carbonica; attivare un fondo sociale da 72 miliardi per co-finanziare incentivi nazionali di altrettanto peso per la green economy.
E’ un piano quanto mai impegnativo. Che viene incontro alla sensibilità delle opinioni pubbliche europee sui temi climatici. E che, nell’attuazione rapida prevista sai responsabili Ue, ha bisogno di una serie di articolazioni.
C’è un tema di politica internazionale, per cercare di convincere le grandi economie manifatturiere e i produttori di energia (Cina, India e altri paesi industriali nel Far East ma anche i paesi arabi e il Brasile) ad accelerare le trasformazioni industriali, mettendo da canto gli impianti a carbone e l’uso massiccio degli altri combustibili fossili (il petrolio, il gas), usando anche le armi della tassazione (la “Cbam”, Carbon border adjustment mechanism, la cosiddetta “tassa sul carbonio”, apprezzata anche da grandi economisti come Paul Krugman, Nobel per l’economia nel 2008: “Lo sforzo di Usa e Ue rischia di essere vanificato, la Terra sta morendo, punire gli irresponsabili”, “La Stampa”, 23 luglio 2021).

E c’è una transizione da definire, per non mettere in ginocchio l’industria europea, a cominciare da quella dell’auto, fortemente colpita dal blocco delle vendite di automobili non elettriche nel 2035 (300mila addetti diretti nel settore automotive in Italia) ma anche quella dei trasporti, del cemento, dell’acciaio e dell’alluminio.
“Ci sono margini di manovra”, assicura Bruxelles. Ci sono misure da prendere, all’interno del Recovery Plan, per la transizione energetica strettamente legata a quella digitale. C’è insomma da definire una nuova politica industriale europea che premi le imprese che hanno già investito sulla sostenibilità e stimolare quelle che ancora non lo hanno fatto o si sono mosse solo parzialmente. E’ una sfida importante, urgente, necessaria, che impegna il governo e le parti sociali, imprese e sindacati. E che ha bisogno di grande attenzione culturale e politica, di informazione attenta e ben documentata, di sensibilità generale da parte di un’opinione pubblica che deve ragionare, capire, condividere obiettivi (come la parte più ampia e responsabile degli italiani sta facendo contro la pandemia, nonostante le fake news e la propaganda dei no vax).
“E’ bene muoversi presto. La transizione ecologica non è un giro di giostra. Sarà necessario convertire e cambiare modelli e lavori. E tutto ciò richiede scelte anche dolorose, ma necessarie. E governare la transizione in maniera ordinata, riducendo i profili di rischio, aumentando l’occupazione e stimolando l’imprenditoria”, sostiene Francesco Starace, amministratore delegato dell’Enel (“Il Sole24Ore”, 17 luglio).

Ci sono, proprio in Italia, imprese all’avanguardia. 432mila aziende dell’industria e dei servizi hanno investito, tra il 2015 e il 2019, in prodotti e tecnologie green, documenta uno studio recente di Symbola e Unioncamere. E oggi, dunque, “il Next Generation Ue e quindi il Pnrr – commenta Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola – sono cruciali per affrontare la crisi e costruire un futuro migliore per l’Italia e l’Europa. La transizione verde è il suo cuore, insieme alla coesione sociale e all’innovazione digitale”. In altri termini, un “Safe place”, per quanto difficile, è ancora possibile.

Bertone e Pirelli, stile e design “Made in Italy”

È stata inaugurata il 30 giugno scorso al Museo di Architettura e Design di Ekaterinburg, in Russia, la mostra “Concept Cars: Nuccio Bertone cento anni di stile automobilistico italiano. La coupè“, curata dall’architetto Enzo Fornaro con la sponsorship di Pirelli. Il percorso espositivo, che sarà aperto al pubblico fino 30 agosto 2021, è un omaggio al design automobilistico italiano e ai capolavori della carrozzeria Bertone, fondata nel 1912 a Torino. La mostra celebra infatti l’iter creativo del designer italiano Nuccio Bertone e ripercorre la storia dell’omonima carrozzeria, attiva fino ad alcuni anni dopo la morte del suo fondatore, avvenuta nel 1997. Una storia caratterizzata dal rapporto con le grandi case automobilistiche internazionali, con cui Bertone ha collaborato  progettando super car gommate con pneumatici Pirelli ad altissime prestazioni.

Nel cuore dell’allestimento, in cui sono presenti anche disegni originali e prototipi di auto insieme a iconici modelli d’epoca, non poteva dunque mancare una selezione di materiali provenienti dal nostro Archivio Storico. A partire dalle immagini della Lamborghini Miura al Salone dell’Auto di Ginevra nel 1966: un eccezionale prototipo carrozzato Bertone, per cui Pirelli realizza una misura dedicata del suo pneumatico più famoso al mondo, il Cinturato. Anche il prototipo della Lamborghini Marzal della carrozzeria Bertone disegnato da Marcello Gandini è gommato Cinturato Pirelli: la vettura è presentata al Salone di Ginevra del 1967. La Iso Grifo e la Lamborgini Miura carrozzate Bertone sono protagoniste invece nel servizio fotografico realizzato nel 1970 da Gaston Jung; gli scatti sono poi inseriti nella campagna pubblicitaria per il Cinturato firmata del designer François Robert con la Centro, house-agency del Gruppo Pirelli. Provengono dal nostro archivio anche i disegni tecnici del pneumatico Pirelli CN72, del CN12, del ribassato Pirelli P7 Corsa e del P7 Montecarlo intermedio, progettati nel corso degli anni Settanta. È proprio per la velocissima Lancia Stratos HF disegnata da Bertone che Pirelli realizza i P7, primi pneumatici superibassati della storia, garanzia di successo su strada e su pista: sono noti i trionfi ai Rally di Montecarlo del 1976 e del 1977 con “il Drago” Sandro Munari e nel 1978 al Rally di Sanremo con il pilota finlandese Markku Alén. Negli anni Ottanta la linea di pneumatici ribassati Pirelli Serie Larga gomma le supercar nelle pubblicità dell’Agenzia Centro, e la Lamborghini Countach Anniversary carrozzata Bertone è al centro della campagna dedicata al primo equipaggiamento Pirelli.

I materiali in mostra raccontano il Made in Italy attraverso l’evoluzione delle concept car e del loro equipaggiamento, caratterizzati da un design sempre improntato all’eleganza e all’innovazione. Caratteristiche che fanno di Pirelli e Bertone due brand d’eccellenza, noti in tutto il mondo.

È stata inaugurata il 30 giugno scorso al Museo di Architettura e Design di Ekaterinburg, in Russia, la mostra “Concept Cars: Nuccio Bertone cento anni di stile automobilistico italiano. La coupè“, curata dall’architetto Enzo Fornaro con la sponsorship di Pirelli. Il percorso espositivo, che sarà aperto al pubblico fino 30 agosto 2021, è un omaggio al design automobilistico italiano e ai capolavori della carrozzeria Bertone, fondata nel 1912 a Torino. La mostra celebra infatti l’iter creativo del designer italiano Nuccio Bertone e ripercorre la storia dell’omonima carrozzeria, attiva fino ad alcuni anni dopo la morte del suo fondatore, avvenuta nel 1997. Una storia caratterizzata dal rapporto con le grandi case automobilistiche internazionali, con cui Bertone ha collaborato  progettando super car gommate con pneumatici Pirelli ad altissime prestazioni.

Nel cuore dell’allestimento, in cui sono presenti anche disegni originali e prototipi di auto insieme a iconici modelli d’epoca, non poteva dunque mancare una selezione di materiali provenienti dal nostro Archivio Storico. A partire dalle immagini della Lamborghini Miura al Salone dell’Auto di Ginevra nel 1966: un eccezionale prototipo carrozzato Bertone, per cui Pirelli realizza una misura dedicata del suo pneumatico più famoso al mondo, il Cinturato. Anche il prototipo della Lamborghini Marzal della carrozzeria Bertone disegnato da Marcello Gandini è gommato Cinturato Pirelli: la vettura è presentata al Salone di Ginevra del 1967. La Iso Grifo e la Lamborgini Miura carrozzate Bertone sono protagoniste invece nel servizio fotografico realizzato nel 1970 da Gaston Jung; gli scatti sono poi inseriti nella campagna pubblicitaria per il Cinturato firmata del designer François Robert con la Centro, house-agency del Gruppo Pirelli. Provengono dal nostro archivio anche i disegni tecnici del pneumatico Pirelli CN72, del CN12, del ribassato Pirelli P7 Corsa e del P7 Montecarlo intermedio, progettati nel corso degli anni Settanta. È proprio per la velocissima Lancia Stratos HF disegnata da Bertone che Pirelli realizza i P7, primi pneumatici superibassati della storia, garanzia di successo su strada e su pista: sono noti i trionfi ai Rally di Montecarlo del 1976 e del 1977 con “il Drago” Sandro Munari e nel 1978 al Rally di Sanremo con il pilota finlandese Markku Alén. Negli anni Ottanta la linea di pneumatici ribassati Pirelli Serie Larga gomma le supercar nelle pubblicità dell’Agenzia Centro, e la Lamborghini Countach Anniversary carrozzata Bertone è al centro della campagna dedicata al primo equipaggiamento Pirelli.

I materiali in mostra raccontano il Made in Italy attraverso l’evoluzione delle concept car e del loro equipaggiamento, caratterizzati da un design sempre improntato all’eleganza e all’innovazione. Caratteristiche che fanno di Pirelli e Bertone due brand d’eccellenza, noti in tutto il mondo.

Meritocrazia, conoscenza e pari opportunità strumenti contro degrado e disagio sociale

Cosa fa crescere bene, nel lungo periodo, un paese? Nella stagione del primato dell’economia della conoscenza, soprattutto una formazione di qualità, aperta, in grado di fare emergere, in ogni persona, le proprie attitudini, nella vita sociale, nel lavoro, nella dimensione complessiva della cittadinanza. È la conoscenza, in altri termini, la molla per lo sviluppo economico e sociale e per il pieno dispiegamento della democrazia. L’istruzione, lo strumento per una migliore qualità della vita e del lavoro.

Proprio sulla diffusione della conoscenza si incardina un’altra leva essenziale per lo sviluppo equilibrato e sostenibile dell’Italia, soprattutto in questo particolare momento storico, tra crisi da pandemia e recessione e avvio di ripresa economica. La leva della meritocrazia, del premio economico e sociale a chi sa, si impegna, costruisce, mostra evidenti capacità di “fare, fare bene e fare del bene”. Ecco il punto politico fondamentale di un progetto di sviluppo: coniugare conoscenza e meritocrazia. Come peraltro indica anche il Recovery Plan Next Generation della Ue e dunque il \(Piano nazionale di resilienza e ripresa) preparato con sapienza dal governo Draghi e approvato da Bruxelles: ambiente ed economia digitale e dunque investimenti sulla scuola, la formazione ai nuovi lavori, la ricerca, l’innovazione.

Le parole, però, vanno non solo dette in impegnativi progetti politici e di governo, ma anche analizzate a fondo, per capire meglio significati e valori che le ispirano e dunque definirne conseguenze.

Conoscenza, dunque. “La conoscenza e i suoi nemici” ovvero “l’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia” era il brillante titolo di un libro di Tom Nichols, professore ad Harvard, pubblicato dalla Luiss nel 2017, che più e meglio di altre opere faceva efficacemente luce su quanto la demagogia populista contro scienziati, esperti, studiosi, esponenti delle élites intellettuali (in Italia, la retorica dell’ “uno vale uno” tanto amata dai “grillini”) mettesse in crisi economia di mercato, qualità della vita e istituzioni.

La pandemia da Covid19 e poi la conseguente crisi economica hanno ridotto nell’angolo gli elogi dell’incompetenza, rilanciando i valori della scienza e della competenza. Anche in politica ne vediamo le conseguenze: al governo c’è Mario Draghi, uomo di grande valore politico ed economico riconosciuto non solo in Italia ma anche in Europa.
Eppure il pericolo non è scomparso, come scrive Paolo Iacci, consulente aziendale sui temi delle risorse umane e docente all’Università Statale di Milano in “Sotto il segno dell’ignoranza”, Egea. Arricchito da un’interessante intervista al filosofo Umberto Galimberti, il libro spiega che “la competenza è l’unica vera arma che abbiamo per affrontare l’ambivalenza e la contraddittorietà del nostro tempo”. L’astio “verso i tecnici e gli esperti, oramai culturalmente dominante, impedisce spesso l’espressione libera e pacata del pensiero meritocratico”.

Si sono fatti strada, anche in politica e nel sistema della comunicazione – insiste Iacci – personaggi che si vantano della propria ignoranza, spacciata come “sincerità e vicinanza ai problemi della gente”. Ma così perde competitività la nostra economia, soprattutto nella “stagione del primato della conoscenza” di cui abbiamo appena scritto. E va in crisi l’intero sistema sociale.

La risposta? Studiare. Coltivare lo spirito critico. Sottoporre a severo giudizio negativo le carriere degli incompetenti. E insistere sul valore della scuola, della cultura scientifica, della conoscenza, appunto. Un premio al merito di chi sa, un incoraggiamento al valore culturale e morale delle nuove generazioni.

E i valori della scienza, ricerca e competenza rilanciasti dalla crisi sanitaria da Covid19? Iacci è pessimista: “Non illudiamoci, si è trattato solo di un rinascimento momentaneo”.
Di certo, non si può stare con le mani in mano a subire gli eventi.

Sappiamo bene quanto questa fase dell’economia che stiamo vivendo chieda un sempre più alto livello di scolarità. Ma l’Italia è in coda all’Europa per numerato di laureati (appena il 19,6% nella fascia d’età tra i 25 e i 64 anni, rispetto a una media Ue del 33,2%) e ha una quota elevatissima di persone con un bassissimo livello scolastico: 13 milioni di persone con appena la licenza media inferiore. Un limite gravissimo, non solo per le prospettive di crescita economica, ma anche e soprattutto per una maggiore diffusione di uno sviluppo socialmente equilibrato.

I dati Invalsi resi noti la scomparsa settimana aggravano il quadro, evidenziando l’ignoranza crescente dei nostri ragazzi: il 44% degli studenti delle superiori non raggiunge il livello minimo in Italiano, il 51% in Matematica. E i dati sono ancora più gravi nel Mezzogiorno e nelle famiglie economicamente disagiate. La Dad (la didattica a distanza in tempi di clausura anti pandemia) ha appesantito il quadro, emarginando ulteriormente dai processi di apprendimento scolastico le ragazze e i ragazzi più fragili e meno legati all’uso della comunicazione digitale (riecco il peso della marginalità economica).

Ma il fenomeno ha radici antiche, che affondano nelle disfunzioni di una scuola troppo a lungo lasciata in ombra rispetto all’attenzione politica e considerata, da parecchi governi, sia di centro destra che di centro sinistra, solo dal punto di vista degli interessi economici e sindacali del personale (professori e impiegati amministrativi) e mai da quello degli studenti e, più in generale, della qualità della formazione.
Adesso, è indispensabile una radicale inversione di scelte. Per fare ritornare la scuola al centro dell’attenzione, come canale fondamentale di conoscenza, partecipazione, opportunità di lavoro e di crescita personale e sociale, cittadinanza.
Eccoci dunque di fronte alla seconda parola chiave di queste considerazioni: meritocrazia.

La parola ha un’aria positiva, sa di vantaggio per i più bravi, di premio per la conoscenza, la responsabilità, l’impegno. Tutto vero. La parola ricorre anche nella nostra Costituzione che all’articolo 34 parla di “capaci e meritevoli” cui va garantito il “diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi anche se privi di mezzi”. Una buona indicazione democratica.

Ma se guardiamo un po’ meglio, ci troviamo di fronte a ombre con cui fare i conti. Come suggerisce Michael J. Sandel, filosofo ad Harvard, in “La tirannia del metodo – Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti”, Feltrinelli: “Dietro all’idea del merito si nasconde un inganno. Senza pari opportunità di partenza, vincerà sempre chi ha più mezzi. Chi perde, invece, potrà incolpare solo se stesso”.

Sandel osserva soprattutto la società americana, fortemente selettiva, con ascensori speciali sempre più lenti e inceppati (tutto il contrario del mitico “sogno americano” sulle possibilità di affermazione per chiunque) e con l’ossessione diffusa per la retorica del successo. Analizza la crisi della classe media che apre la strada al populismo di Trump (ma anche alla Brexit e alle destre in Europa) e critica severamente le élites che “in realtà hanno voltato le spalle a chi non ne fa parte”. E poi insiste sulla necessità di legare meritocrazia a pari opportunità e a diffusione reale della conoscenza, superando le asimmetrie sociali, culturali, di reddito e di relazione: molto spesso “i migliori”, i “premiati per merito” vengono da famiglie agiate, ricche di libri, relazioni, buone abitudini culturali e sociali.

La conclusione importante, in tempi di riforme, riequilibri, “economia giusta” e crescita sostenibile: senza riforme e pratiche sociali che mettano tutti, soprattutto i giovani dei ceti più disagiati, in grado di scegliere e fare apprezzare le proprie capacità (il vero premio al merito) ne risentiranno lo sviluppo equilibrato e la stessa democrazia.

Cosa fa crescere bene, nel lungo periodo, un paese? Nella stagione del primato dell’economia della conoscenza, soprattutto una formazione di qualità, aperta, in grado di fare emergere, in ogni persona, le proprie attitudini, nella vita sociale, nel lavoro, nella dimensione complessiva della cittadinanza. È la conoscenza, in altri termini, la molla per lo sviluppo economico e sociale e per il pieno dispiegamento della democrazia. L’istruzione, lo strumento per una migliore qualità della vita e del lavoro.

Proprio sulla diffusione della conoscenza si incardina un’altra leva essenziale per lo sviluppo equilibrato e sostenibile dell’Italia, soprattutto in questo particolare momento storico, tra crisi da pandemia e recessione e avvio di ripresa economica. La leva della meritocrazia, del premio economico e sociale a chi sa, si impegna, costruisce, mostra evidenti capacità di “fare, fare bene e fare del bene”. Ecco il punto politico fondamentale di un progetto di sviluppo: coniugare conoscenza e meritocrazia. Come peraltro indica anche il Recovery Plan Next Generation della Ue e dunque il \(Piano nazionale di resilienza e ripresa) preparato con sapienza dal governo Draghi e approvato da Bruxelles: ambiente ed economia digitale e dunque investimenti sulla scuola, la formazione ai nuovi lavori, la ricerca, l’innovazione.

Le parole, però, vanno non solo dette in impegnativi progetti politici e di governo, ma anche analizzate a fondo, per capire meglio significati e valori che le ispirano e dunque definirne conseguenze.

Conoscenza, dunque. “La conoscenza e i suoi nemici” ovvero “l’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia” era il brillante titolo di un libro di Tom Nichols, professore ad Harvard, pubblicato dalla Luiss nel 2017, che più e meglio di altre opere faceva efficacemente luce su quanto la demagogia populista contro scienziati, esperti, studiosi, esponenti delle élites intellettuali (in Italia, la retorica dell’ “uno vale uno” tanto amata dai “grillini”) mettesse in crisi economia di mercato, qualità della vita e istituzioni.

La pandemia da Covid19 e poi la conseguente crisi economica hanno ridotto nell’angolo gli elogi dell’incompetenza, rilanciando i valori della scienza e della competenza. Anche in politica ne vediamo le conseguenze: al governo c’è Mario Draghi, uomo di grande valore politico ed economico riconosciuto non solo in Italia ma anche in Europa.
Eppure il pericolo non è scomparso, come scrive Paolo Iacci, consulente aziendale sui temi delle risorse umane e docente all’Università Statale di Milano in “Sotto il segno dell’ignoranza”, Egea. Arricchito da un’interessante intervista al filosofo Umberto Galimberti, il libro spiega che “la competenza è l’unica vera arma che abbiamo per affrontare l’ambivalenza e la contraddittorietà del nostro tempo”. L’astio “verso i tecnici e gli esperti, oramai culturalmente dominante, impedisce spesso l’espressione libera e pacata del pensiero meritocratico”.

Si sono fatti strada, anche in politica e nel sistema della comunicazione – insiste Iacci – personaggi che si vantano della propria ignoranza, spacciata come “sincerità e vicinanza ai problemi della gente”. Ma così perde competitività la nostra economia, soprattutto nella “stagione del primato della conoscenza” di cui abbiamo appena scritto. E va in crisi l’intero sistema sociale.

La risposta? Studiare. Coltivare lo spirito critico. Sottoporre a severo giudizio negativo le carriere degli incompetenti. E insistere sul valore della scuola, della cultura scientifica, della conoscenza, appunto. Un premio al merito di chi sa, un incoraggiamento al valore culturale e morale delle nuove generazioni.

E i valori della scienza, ricerca e competenza rilanciasti dalla crisi sanitaria da Covid19? Iacci è pessimista: “Non illudiamoci, si è trattato solo di un rinascimento momentaneo”.
Di certo, non si può stare con le mani in mano a subire gli eventi.

Sappiamo bene quanto questa fase dell’economia che stiamo vivendo chieda un sempre più alto livello di scolarità. Ma l’Italia è in coda all’Europa per numerato di laureati (appena il 19,6% nella fascia d’età tra i 25 e i 64 anni, rispetto a una media Ue del 33,2%) e ha una quota elevatissima di persone con un bassissimo livello scolastico: 13 milioni di persone con appena la licenza media inferiore. Un limite gravissimo, non solo per le prospettive di crescita economica, ma anche e soprattutto per una maggiore diffusione di uno sviluppo socialmente equilibrato.

I dati Invalsi resi noti la scomparsa settimana aggravano il quadro, evidenziando l’ignoranza crescente dei nostri ragazzi: il 44% degli studenti delle superiori non raggiunge il livello minimo in Italiano, il 51% in Matematica. E i dati sono ancora più gravi nel Mezzogiorno e nelle famiglie economicamente disagiate. La Dad (la didattica a distanza in tempi di clausura anti pandemia) ha appesantito il quadro, emarginando ulteriormente dai processi di apprendimento scolastico le ragazze e i ragazzi più fragili e meno legati all’uso della comunicazione digitale (riecco il peso della marginalità economica).

Ma il fenomeno ha radici antiche, che affondano nelle disfunzioni di una scuola troppo a lungo lasciata in ombra rispetto all’attenzione politica e considerata, da parecchi governi, sia di centro destra che di centro sinistra, solo dal punto di vista degli interessi economici e sindacali del personale (professori e impiegati amministrativi) e mai da quello degli studenti e, più in generale, della qualità della formazione.
Adesso, è indispensabile una radicale inversione di scelte. Per fare ritornare la scuola al centro dell’attenzione, come canale fondamentale di conoscenza, partecipazione, opportunità di lavoro e di crescita personale e sociale, cittadinanza.
Eccoci dunque di fronte alla seconda parola chiave di queste considerazioni: meritocrazia.

La parola ha un’aria positiva, sa di vantaggio per i più bravi, di premio per la conoscenza, la responsabilità, l’impegno. Tutto vero. La parola ricorre anche nella nostra Costituzione che all’articolo 34 parla di “capaci e meritevoli” cui va garantito il “diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi anche se privi di mezzi”. Una buona indicazione democratica.

Ma se guardiamo un po’ meglio, ci troviamo di fronte a ombre con cui fare i conti. Come suggerisce Michael J. Sandel, filosofo ad Harvard, in “La tirannia del metodo – Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti”, Feltrinelli: “Dietro all’idea del merito si nasconde un inganno. Senza pari opportunità di partenza, vincerà sempre chi ha più mezzi. Chi perde, invece, potrà incolpare solo se stesso”.

Sandel osserva soprattutto la società americana, fortemente selettiva, con ascensori speciali sempre più lenti e inceppati (tutto il contrario del mitico “sogno americano” sulle possibilità di affermazione per chiunque) e con l’ossessione diffusa per la retorica del successo. Analizza la crisi della classe media che apre la strada al populismo di Trump (ma anche alla Brexit e alle destre in Europa) e critica severamente le élites che “in realtà hanno voltato le spalle a chi non ne fa parte”. E poi insiste sulla necessità di legare meritocrazia a pari opportunità e a diffusione reale della conoscenza, superando le asimmetrie sociali, culturali, di reddito e di relazione: molto spesso “i migliori”, i “premiati per merito” vengono da famiglie agiate, ricche di libri, relazioni, buone abitudini culturali e sociali.

La conclusione importante, in tempi di riforme, riequilibri, “economia giusta” e crescita sostenibile: senza riforme e pratiche sociali che mettano tutti, soprattutto i giovani dei ceti più disagiati, in grado di scegliere e fare apprezzare le proprie capacità (il vero premio al merito) ne risentiranno lo sviluppo equilibrato e la stessa democrazia.

Solo robot?

Un libro appena tradotto in italiano, analizza la realtà dell’automazione e dei robot e delinea un possibile futuro nel quale l’uomo possa avere ancora un ruolo

 

Dove finirà il lavoro dell’uomo? Ci sarà spazio per la nostra specie in un mondo del lavoro dominato da macchine sempre più intelligenti? Domande ricorrenti e, tutto sommato, domane cruciali. Anche per chi voglia costruire attorno alle organizzazione della produzione una consapevolezza diversa. Per questo serve leggere “Le nuove leggi della robotica. Difendere la competenza umana nell’era dell’intelligenza artificiale” di Frank Pasquale da poco tradotto in italiano.

L’autore scrive prendendo le mosse da una constatazione: lo sviluppo prorompente delle nuove tecnologie mette l’umanità di fronte a interrogativi e timori di enorme portata. Oltre alle domande già poste poco sopra, altre possono essere formulate. Come, per esempio, potremo difenderci dalle subdole e pervasive dinamiche del “capitalismo della sorveglianza” e allo stesso tempo non rinunciare a un monitoraggio intelligente e mirato alla nostra sicurezza? E cosa succederebbe a settori come la scuola, la sanità o l’industria bellica se fossero gestiti esclusivamente dagli algoritmi?

Pasquale prova a rispondere arrivando a formulare “nuove leggi” che dovranno essere applicate affinché la rivoluzione digitale, con le straordinarie possibilità di crescita e sviluppo che comporta, non si trasformi in una trappola per la nostra specie.

Ma come? L’idea di fondo dell’autore è che i sistemi robotici e le intelligenze artificiali debbano essere complementari ai professionisti, e non sostitutive degli stessi. Robot e macchine, in altre termini, non devono contraffare l’umanità, favorendo la falsa idea che chi interagisce con loro si stia rapportando a un essere umano; non devono, inoltre, intensificare la corsa agli armamenti; infine, devono sempre indicare con massima trasparenza l’identità dei loro creatori, controllori e proprietari.

E’ da queste basi che Pasquale delinea un futuro, possibile, nel quale governi, imprese e semplici cittadini potranno creare qualcosa di migliore dove le tecnologie saranno inclusive, democratiche e capaci di riflettere impegno e speranze di tutti, come lavoratori e cittadini, e non solo come consumatori.

Quanto tutto questo sia davvero fattibile, dipende ovviamente dagli uomini stessi. In altri termini, Pasquale indica un orizzonte possibile, non la certezza di arrivarci.

Le nuove leggi della robotica. Difendere la competenza umana nell’era dell’intelligenza artificiale

Frank Pasquale

Luiss University Press, 2021

Un libro appena tradotto in italiano, analizza la realtà dell’automazione e dei robot e delinea un possibile futuro nel quale l’uomo possa avere ancora un ruolo

 

Dove finirà il lavoro dell’uomo? Ci sarà spazio per la nostra specie in un mondo del lavoro dominato da macchine sempre più intelligenti? Domande ricorrenti e, tutto sommato, domane cruciali. Anche per chi voglia costruire attorno alle organizzazione della produzione una consapevolezza diversa. Per questo serve leggere “Le nuove leggi della robotica. Difendere la competenza umana nell’era dell’intelligenza artificiale” di Frank Pasquale da poco tradotto in italiano.

L’autore scrive prendendo le mosse da una constatazione: lo sviluppo prorompente delle nuove tecnologie mette l’umanità di fronte a interrogativi e timori di enorme portata. Oltre alle domande già poste poco sopra, altre possono essere formulate. Come, per esempio, potremo difenderci dalle subdole e pervasive dinamiche del “capitalismo della sorveglianza” e allo stesso tempo non rinunciare a un monitoraggio intelligente e mirato alla nostra sicurezza? E cosa succederebbe a settori come la scuola, la sanità o l’industria bellica se fossero gestiti esclusivamente dagli algoritmi?

Pasquale prova a rispondere arrivando a formulare “nuove leggi” che dovranno essere applicate affinché la rivoluzione digitale, con le straordinarie possibilità di crescita e sviluppo che comporta, non si trasformi in una trappola per la nostra specie.

Ma come? L’idea di fondo dell’autore è che i sistemi robotici e le intelligenze artificiali debbano essere complementari ai professionisti, e non sostitutive degli stessi. Robot e macchine, in altre termini, non devono contraffare l’umanità, favorendo la falsa idea che chi interagisce con loro si stia rapportando a un essere umano; non devono, inoltre, intensificare la corsa agli armamenti; infine, devono sempre indicare con massima trasparenza l’identità dei loro creatori, controllori e proprietari.

E’ da queste basi che Pasquale delinea un futuro, possibile, nel quale governi, imprese e semplici cittadini potranno creare qualcosa di migliore dove le tecnologie saranno inclusive, democratiche e capaci di riflettere impegno e speranze di tutti, come lavoratori e cittadini, e non solo come consumatori.

Quanto tutto questo sia davvero fattibile, dipende ovviamente dagli uomini stessi. In altri termini, Pasquale indica un orizzonte possibile, non la certezza di arrivarci.

Le nuove leggi della robotica. Difendere la competenza umana nell’era dell’intelligenza artificiale

Frank Pasquale

Luiss University Press, 2021

Welfare occupazione espressione di cultura d’impresa

Una lettura originale dei nuovi strumenti di contrattazione collettiva

Welfare come espressione di una cultura d’impresa collettiva. Traguardo importante, non sempre raggiunto, conseguenza di una dialogo serrato tra imprese, organizzazioni sindacali e istituzioni, un dialogo che ha nella contrattazione collettiva il suo terreno di confronto e condivisione.

E’ attorno a questi temi che ragiona “Welfare occupazionale e tendenze evolutive” intervento di Olga Rubagotti (Università di Verona), apparso su in Labour and Law Issues. In particolare, il saggio analizza il welfare occupazionale sostenuto dallo Stato negli ultimi tempi attraverso la ridistribuzione politiche fiscali. La ricerca, tuttavia, dopo aver effettuato un inquadramento generale del tema, affronta prima le opportunità offerte da questo nuovo strumento (sia dal punto di vista della concertazione sociale che per quanto riguarda i nuovi ambiti d’azione del sindacato) e poi prende in considerazione il ruolo delle reti d’imprese nell’ambito del welfare, per arrivare quindi ad affrontare la situazione dello stato delle relazioni sindacali oggi in Italia.

Le politiche di welfare occupazionale, è una delle tesi dell’intervento, tendono ad

attribuire indirettamente una delega di funzione di protezione sociale ai contratti collettivi: sarebbe proprio il welfare aziendale ad essere espressione di diritti fondamentali come l’istruzione, la salute, i piani pensione. Oltre a questo, Rubagotti si spinge ad ipotizzare la necessità di ampliare i compiti del welfare aziendale per continuare lungo la strada già avviata.

“Welfare occupazionale e tendenze evolutive” è certamente un intervento per addetti ai lavori, ma delinea una cultura d’impresa sotto altre forme, dimostrando ancora una volta quanto sia importante intendere globalmente l’agire delle organizzazioni della produzione.

 

Welfare occupazionale e tendenze evolutive

Olga Rubagotti

Labour and Law Issues, vol. 7, no. 1, 2021

Una lettura originale dei nuovi strumenti di contrattazione collettiva

Welfare come espressione di una cultura d’impresa collettiva. Traguardo importante, non sempre raggiunto, conseguenza di una dialogo serrato tra imprese, organizzazioni sindacali e istituzioni, un dialogo che ha nella contrattazione collettiva il suo terreno di confronto e condivisione.

E’ attorno a questi temi che ragiona “Welfare occupazionale e tendenze evolutive” intervento di Olga Rubagotti (Università di Verona), apparso su in Labour and Law Issues. In particolare, il saggio analizza il welfare occupazionale sostenuto dallo Stato negli ultimi tempi attraverso la ridistribuzione politiche fiscali. La ricerca, tuttavia, dopo aver effettuato un inquadramento generale del tema, affronta prima le opportunità offerte da questo nuovo strumento (sia dal punto di vista della concertazione sociale che per quanto riguarda i nuovi ambiti d’azione del sindacato) e poi prende in considerazione il ruolo delle reti d’imprese nell’ambito del welfare, per arrivare quindi ad affrontare la situazione dello stato delle relazioni sindacali oggi in Italia.

Le politiche di welfare occupazionale, è una delle tesi dell’intervento, tendono ad

attribuire indirettamente una delega di funzione di protezione sociale ai contratti collettivi: sarebbe proprio il welfare aziendale ad essere espressione di diritti fondamentali come l’istruzione, la salute, i piani pensione. Oltre a questo, Rubagotti si spinge ad ipotizzare la necessità di ampliare i compiti del welfare aziendale per continuare lungo la strada già avviata.

“Welfare occupazionale e tendenze evolutive” è certamente un intervento per addetti ai lavori, ma delinea una cultura d’impresa sotto altre forme, dimostrando ancora una volta quanto sia importante intendere globalmente l’agire delle organizzazioni della produzione.

 

Welfare occupazionale e tendenze evolutive

Olga Rubagotti

Labour and Law Issues, vol. 7, no. 1, 2021

Dall’instabilità al futuro

L’ultimo Rapporto del Centro Einaudi di Torino fornisce gli elementi per capire meglio il presente e agire con attenzione pensando al domani

Comprendere dove si è e dove si sta andando. Pratica essenziale per chiunque agisca nell’ambito di un’impresa. Pratica che non è sempre facile attuare, ma che è resa fattibile quando si hanno a disposizione buone guide. E’ il caso di “Un mondo sempre più fragile. XXV Rapporto sull’economia globale e l’Italia”, venticinquesimo Rapporto del Centro Einaudi, insieme di studi curato da Mario Deaglio e scritto a più mani da un qualificato gruppo di ricercatori e analisti.

Come ogni anno, la raccolta di ricerche fa il punto sullo “stato del mondo” questa volta ancora a confronto con la pandemia e con le sue conseguenze. Si tratta, cioè, di una aggiornata fotografia della situazione nella quale tutti – cittadini e imprese – si trovano a muoversi.

I saggi raccolti prendono quindi le mosse dalla constatazione della presenza di “un mondo sempre più fragile” e quindi di una “globalizzazione scardinata”  oltre che della situazione nella quale si trovano Usa, Cina e Europa. Gli autori quindi indagano la natura e i tratti di un’era “dalla instabilità permanente” per arrivare a porre l’attenzione sulla condizione del nostro Paese.

L’insieme delle indagini condotte dal gruppo di studio coordinato dal Centro Einaudi fornisce certamente un’immagine ancora problematica del mondo e dell’Italia, ma indica anche possibili percorsi di sviluppo.  Scrive Gian Maria Gros-Pietro, presidente di Intesa Sanpaolo che ha sostenuto le ricerche, che “l’attenzione alla sostenibilità economica e ambientale ha pervaso le nostre vite perché si è capito che il tempo per decidere un cambio di paradigma sta per scadere. Il global warming e l’uso appropriato delle materie prime scarse, o inquinanti, unito alla necessità di ripensare i tempi e i luoghi del lavoro, modificheranno il nostro modo di vivere in modo permanente. Una partnership tra pubblico e privato appare allora l’unica via percorribile per definire obiettivi condivisi, sempre più sentiti dal settore privato e, in particolare, dalle imprese come parte essenziale della loro azione quotidiana, che potrebbe, o meglio dovrebbe, portare a sostituire il concetto di ricchezza con il concetto di benessere a livello individuale e collettivo”. Sono, a ben vedere, i contorni di una cultura economica e d’impresa che si sta già diffondendo, ma che deve consolidarsi e fortificarsi. La raccolta di saggi del Centro Einaudi è una buona cassetta degli attrezzi proprio per costruire una cultura d’impresa che sia attenta al presente e impegnata per un futuro migliore dell’oggi.

Un mondo sempre più fragile. XXV Rapporto sull’economia globale e l’Italia

Deaglio Mario (a cura di)

Guerini, 2021

L’ultimo Rapporto del Centro Einaudi di Torino fornisce gli elementi per capire meglio il presente e agire con attenzione pensando al domani

Comprendere dove si è e dove si sta andando. Pratica essenziale per chiunque agisca nell’ambito di un’impresa. Pratica che non è sempre facile attuare, ma che è resa fattibile quando si hanno a disposizione buone guide. E’ il caso di “Un mondo sempre più fragile. XXV Rapporto sull’economia globale e l’Italia”, venticinquesimo Rapporto del Centro Einaudi, insieme di studi curato da Mario Deaglio e scritto a più mani da un qualificato gruppo di ricercatori e analisti.

Come ogni anno, la raccolta di ricerche fa il punto sullo “stato del mondo” questa volta ancora a confronto con la pandemia e con le sue conseguenze. Si tratta, cioè, di una aggiornata fotografia della situazione nella quale tutti – cittadini e imprese – si trovano a muoversi.

I saggi raccolti prendono quindi le mosse dalla constatazione della presenza di “un mondo sempre più fragile” e quindi di una “globalizzazione scardinata”  oltre che della situazione nella quale si trovano Usa, Cina e Europa. Gli autori quindi indagano la natura e i tratti di un’era “dalla instabilità permanente” per arrivare a porre l’attenzione sulla condizione del nostro Paese.

L’insieme delle indagini condotte dal gruppo di studio coordinato dal Centro Einaudi fornisce certamente un’immagine ancora problematica del mondo e dell’Italia, ma indica anche possibili percorsi di sviluppo.  Scrive Gian Maria Gros-Pietro, presidente di Intesa Sanpaolo che ha sostenuto le ricerche, che “l’attenzione alla sostenibilità economica e ambientale ha pervaso le nostre vite perché si è capito che il tempo per decidere un cambio di paradigma sta per scadere. Il global warming e l’uso appropriato delle materie prime scarse, o inquinanti, unito alla necessità di ripensare i tempi e i luoghi del lavoro, modificheranno il nostro modo di vivere in modo permanente. Una partnership tra pubblico e privato appare allora l’unica via percorribile per definire obiettivi condivisi, sempre più sentiti dal settore privato e, in particolare, dalle imprese come parte essenziale della loro azione quotidiana, che potrebbe, o meglio dovrebbe, portare a sostituire il concetto di ricchezza con il concetto di benessere a livello individuale e collettivo”. Sono, a ben vedere, i contorni di una cultura economica e d’impresa che si sta già diffondendo, ma che deve consolidarsi e fortificarsi. La raccolta di saggi del Centro Einaudi è una buona cassetta degli attrezzi proprio per costruire una cultura d’impresa che sia attenta al presente e impegnata per un futuro migliore dell’oggi.

Un mondo sempre più fragile. XXV Rapporto sull’economia globale e l’Italia

Deaglio Mario (a cura di)

Guerini, 2021

Cultura della sostenibilità per manager avveduti

Un libro spiega quanto debbano cambiare i Ceo di fronte alle nuove esigenze dei mercati e dei consumatori

 

Persone e non macchine. Vecchia sfida, quella del macchinismo avverso ad un umanesimo industriale che, a ben vedere, riafferma sempre il suo valore. Sfida, che, comunque, viene continuamente rinnovata e declinata magari in forme diverse dalle precedenti. E che oggi assume anche i connotati della ricerca di una più forte sensibilità nei confronti della compatibilità ambientale e sociale del fare impresa. Condizione della quale imprenditori e manager  avveduti devono tenere conto.

E’ attorno a questi argomenti che ragionano Gabriele Ghini , Stefania Micaela Vitulli e Alessandro Detto con il loro “Ceo branding nella reputation economy” appena pubblicato.

L’idea di base dalla quale partono gli autori, è il ruolo importante della presenza di cittadini e consumatori dai propositi etici oltre che della “chiamata alla leadership” che le generazioni Z e Light Millennials invocano nei confronti delle aziende (e dei loro marchi). In altri termini, è sempre più vera la constatazione che il successo di un’azienda sul mercato si costruisce partendo dalla capacità di questa di condensare  influenza, credibilità e carisma in un tratto umano che sia contemporaneamente globale e locale. Un obiettivo certamente complesso da raggiungere, ma ormai divenuto determinante per la sopravvivenza (e la crescita) di molte imprese.

E’ in questo ambito che assumono più importanza di prima i Ceo, figure che per contribuire alla conquista di uno spazio reputazionale solido per la propria marca di riferimento, devono – è la tesi del libro -, sapersi trasformare da seduttori a pionieri. Perché sono le aziende, e non più solo le ONG o i partiti, ad essere viste come motore del cambiamento sostenibile.

Il libro può essere letto come un sintetico manuale per Ceo, ma anche come una raccolta di esperienza concrete. Lo sviluppo di queste tesi viene infatti prima affrontato dal punto di vista teorico e poi attraverso le testimonianze di quindici Ceo che raccontano come hanno colto la sfida con una visione strategica e adattiva. Oltre a tutto questo, due ricerche sul campo mostrano alcuni dei punti-chiave utili per definire le strategie di risposta ai mercati.

Il libro di Ghini, Vitulli e Detto si fa leggere e, soprattutto in questo caso, è davvero una buona guida per chi deve gestire le aziende alle prese con il cambiamento continuo.

Ceo branding nella reputation economy

Gabriele Ghini , Stefania Micaela Vitulli, Alessandro Detto

Egea, 2021

Un libro spiega quanto debbano cambiare i Ceo di fronte alle nuove esigenze dei mercati e dei consumatori

 

Persone e non macchine. Vecchia sfida, quella del macchinismo avverso ad un umanesimo industriale che, a ben vedere, riafferma sempre il suo valore. Sfida, che, comunque, viene continuamente rinnovata e declinata magari in forme diverse dalle precedenti. E che oggi assume anche i connotati della ricerca di una più forte sensibilità nei confronti della compatibilità ambientale e sociale del fare impresa. Condizione della quale imprenditori e manager  avveduti devono tenere conto.

E’ attorno a questi argomenti che ragionano Gabriele Ghini , Stefania Micaela Vitulli e Alessandro Detto con il loro “Ceo branding nella reputation economy” appena pubblicato.

L’idea di base dalla quale partono gli autori, è il ruolo importante della presenza di cittadini e consumatori dai propositi etici oltre che della “chiamata alla leadership” che le generazioni Z e Light Millennials invocano nei confronti delle aziende (e dei loro marchi). In altri termini, è sempre più vera la constatazione che il successo di un’azienda sul mercato si costruisce partendo dalla capacità di questa di condensare  influenza, credibilità e carisma in un tratto umano che sia contemporaneamente globale e locale. Un obiettivo certamente complesso da raggiungere, ma ormai divenuto determinante per la sopravvivenza (e la crescita) di molte imprese.

E’ in questo ambito che assumono più importanza di prima i Ceo, figure che per contribuire alla conquista di uno spazio reputazionale solido per la propria marca di riferimento, devono – è la tesi del libro -, sapersi trasformare da seduttori a pionieri. Perché sono le aziende, e non più solo le ONG o i partiti, ad essere viste come motore del cambiamento sostenibile.

Il libro può essere letto come un sintetico manuale per Ceo, ma anche come una raccolta di esperienza concrete. Lo sviluppo di queste tesi viene infatti prima affrontato dal punto di vista teorico e poi attraverso le testimonianze di quindici Ceo che raccontano come hanno colto la sfida con una visione strategica e adattiva. Oltre a tutto questo, due ricerche sul campo mostrano alcuni dei punti-chiave utili per definire le strategie di risposta ai mercati.

Il libro di Ghini, Vitulli e Detto si fa leggere e, soprattutto in questo caso, è davvero una buona guida per chi deve gestire le aziende alle prese con il cambiamento continuo.

Ceo branding nella reputation economy

Gabriele Ghini , Stefania Micaela Vitulli, Alessandro Detto

Egea, 2021

Lo sgarbato whatsapp dei licenziamenti in tronco e la civiltà del dialogo dell’impresa riformista

C’è in Italia una solida tradizione di civiltà del lavoro che fa, ancora adesso, da punto di riferimento per le imprese attente, pure in tempo di crisi, alle buone regole delle relazioni industriali. Ed è a questa cultura d’impresa che si richiama Marco Tronchetti Provera, amministratore delegato e vicepresidente esecutivo di Pirelli, quando affronta il tema dei recenti licenziamenti in due imprese, Gkn e Giannetti, controllate da fondi d’investimento internazionali. Licenziamenti comunicati ai dipendenti via sms e whatsapp. Al di là della fondatezza o meno delle ragioni economiche che portano alla chiusura delle imprese, è il modo della scelta e della comunicazione che fa discutere. Sostiene Tronchetti: “Credo che la cultura della responsabilità debba fare parte anche delle scelte dei fondi, perché pure nel loro caso a prendere le decisioni sono le persone. Dovrebbe sempre esserci questo senso di responsabilità, che non vuol dire non fare gli interessi dei propri investitori, vuol dire l’opposto”. In sintesi: “Anche chi non è direttamente coinvolto nel Paese credo debba comunque rispettarne la struttura sociale” (intervista a “la Repubblica”, 13 luglio).

Ci sono, insomma, regole, ma anche forme da rispettare, pur nel corso di acute crisi aziendali: “La responsabilità dell’impresa, dell’imprenditore – sostiene Tronchetti – è quella di fare le scelte meno dannose per chi lavora all’interno delle aziende. Ci sono gli ammortizzatori sociali, gli strumenti per poter passare un periodo di crisi dando alle persone, alle famiglie, una prospettiva per il loro futuro”. E in questo quadro di attenzione, “il dialogo resta comunque imprescindibile, anche quando licenziare diventa l’unica strada percorribile”. Quindi, “il percorso esiste, è un percorso sempre più faticoso ovviamente, ma è l’unico che si può seguire”.

La storia italiana racconta una lunga e complessa evoluzione delle relazioni industriali che, proprio nel dialogo tra impresa e sindacato, ha trovato molto spesso soluzioni innovative per uscire dalle crisi, rivedendo criticamente i fattori di competitività. La tradizione e l’attualità della Pirelli e di parecchie altre imprese responsabili ne sono importanti testimonianze.

Sempre da questo dialogo, pur spesso ruvido, aspro, sincero tra le parti sociali e le loro rappresentanze (con la mediazione dei pubblici poteri) sono emerse, nel corso dello sviluppo del’economia italiana, anche nelle stagioni più difficili, scelte che hanno permesso ripresa e rilancio.

Scelte di politica industriale, per migliorare l’ambiente competitivo a vantaggio dell’impresa. Scelte economiche per l’efficienza e la trasparenza del mercato. Scelte sugli ammortizzatori sociali, per ridurre l’impatto delle crisi e delle trasformazioni sulle persone, i lavoratori, le loro famiglie e per salvaguardare non il singolo posto di lavoro com’era, ma le professionalità e le competenze dei lavoratori, utili verso nuovi posti di lavoro.

Le vicende specifiche di Gkn e Giannetti, insieme alle tante altre storie di crisi aziendali, stanno sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico. E ogni crisi ha radici, caratteristiche specifiche, ragioni ed errori, possibilità o meno di soluzioni.

Resta comunque, come evidenzia Tronchetti, un punto comune: il senso di responsabilità dell’impresa nei confronti dei territori e delle comunità da cui ha ricavato forza, conoscenze, creatività, spinta produttiva. E resta dunque l’impegno per la ricerca, comunque, di una soluzione alla crisi o di una modalità civile di gestione della parte finale della crisi se, fallito ogni tentativo di ripresa, si vada alla chiusura. Gli ammortizzatori sociali faranno il loro ruolo.

Ammortizzatori – ecco il punto – da riformare, migliorare, rendere molto più efficaci proprio in una stagione in cui le spinte della globalizzazione e della diffusione delle nuove tecnologie digitali stanno radicalmente trasformando i contesti economici, le caratteristiche competitive delle imprese, le forme del lavoro e l’organizzazione di produzioni e servizi.

Il governo Draghi è consapevole della necessità e dell’urgenza di questa riforma: non sussidi dal sapore assistenziale, ma investimenti e sostegni per la formazione professionale, la ricollocazione, il superamento dell’attuale mismatch tra domanda e offerta di lavoro, tra le imprese che non riescono a trovare i lavoratori professionalizzati che cercano e i lavoratori che chiedono, senza risposte adeguatae, un’occupazione.

Torniamo dunque al punto delle relazioni industriali, del dialogo, delle riforme, della responsabilità dell’impresa.

La teoria e la pratica dell’economia dicono che ogni impresa ha il suo ciclo di vita. E non esistono “variabili indipendenti”. Non lo è il salario, slegato dalla produttività e dalla competitività dell’impresa (come aveva teorizzato e cercato di praticare il sindacato, nei conflittuali anni Settanta). Non lo è il profitto, se ricercato  ossessivamente nel tempo breve tipico della speculazione finanziaria. Non lo è neppure la salvaguardia ostinata del posto di lavoro, quando l’impresa non è più in grado di stare sul mercato. Né l’intervento pubblico per acquisire l’impresa in crisi, a dispetto di ogni ragione economica (le esperienze fallimentari dell’Egam e dell’Efim degli anni Settanta e Ottanta e di alcune aziende municipalizzate fanno da monito severo).

Ma sempre teoria e pratica documentano come profitto, salario, lavoro e competitività possano stare bene insieme, nell’impresa che investe, innova, segue o meglio ancora anticipa del mercato e adotta tutti i cambiamenti necessari (prodotti, produzione, governance, marketing, comunicazione) all’evoluzione di consumi e costumi. E nel contesto di una politica industriale che favorisca l’innovazione.

Sta proprio qui, lo snodo della crisi. Negli investimenti. Nel rinnovamento. In una cultura d’impresa attenta ai cambiamenti, alle sfide competitive in tempi di transizione ecologica e digitale.

Tutto questo, con uno sbrigativo whatsapp di licenziamento, non c’entra proprio nulla.

C’è in Italia una solida tradizione di civiltà del lavoro che fa, ancora adesso, da punto di riferimento per le imprese attente, pure in tempo di crisi, alle buone regole delle relazioni industriali. Ed è a questa cultura d’impresa che si richiama Marco Tronchetti Provera, amministratore delegato e vicepresidente esecutivo di Pirelli, quando affronta il tema dei recenti licenziamenti in due imprese, Gkn e Giannetti, controllate da fondi d’investimento internazionali. Licenziamenti comunicati ai dipendenti via sms e whatsapp. Al di là della fondatezza o meno delle ragioni economiche che portano alla chiusura delle imprese, è il modo della scelta e della comunicazione che fa discutere. Sostiene Tronchetti: “Credo che la cultura della responsabilità debba fare parte anche delle scelte dei fondi, perché pure nel loro caso a prendere le decisioni sono le persone. Dovrebbe sempre esserci questo senso di responsabilità, che non vuol dire non fare gli interessi dei propri investitori, vuol dire l’opposto”. In sintesi: “Anche chi non è direttamente coinvolto nel Paese credo debba comunque rispettarne la struttura sociale” (intervista a “la Repubblica”, 13 luglio).

Ci sono, insomma, regole, ma anche forme da rispettare, pur nel corso di acute crisi aziendali: “La responsabilità dell’impresa, dell’imprenditore – sostiene Tronchetti – è quella di fare le scelte meno dannose per chi lavora all’interno delle aziende. Ci sono gli ammortizzatori sociali, gli strumenti per poter passare un periodo di crisi dando alle persone, alle famiglie, una prospettiva per il loro futuro”. E in questo quadro di attenzione, “il dialogo resta comunque imprescindibile, anche quando licenziare diventa l’unica strada percorribile”. Quindi, “il percorso esiste, è un percorso sempre più faticoso ovviamente, ma è l’unico che si può seguire”.

La storia italiana racconta una lunga e complessa evoluzione delle relazioni industriali che, proprio nel dialogo tra impresa e sindacato, ha trovato molto spesso soluzioni innovative per uscire dalle crisi, rivedendo criticamente i fattori di competitività. La tradizione e l’attualità della Pirelli e di parecchie altre imprese responsabili ne sono importanti testimonianze.

Sempre da questo dialogo, pur spesso ruvido, aspro, sincero tra le parti sociali e le loro rappresentanze (con la mediazione dei pubblici poteri) sono emerse, nel corso dello sviluppo del’economia italiana, anche nelle stagioni più difficili, scelte che hanno permesso ripresa e rilancio.

Scelte di politica industriale, per migliorare l’ambiente competitivo a vantaggio dell’impresa. Scelte economiche per l’efficienza e la trasparenza del mercato. Scelte sugli ammortizzatori sociali, per ridurre l’impatto delle crisi e delle trasformazioni sulle persone, i lavoratori, le loro famiglie e per salvaguardare non il singolo posto di lavoro com’era, ma le professionalità e le competenze dei lavoratori, utili verso nuovi posti di lavoro.

Le vicende specifiche di Gkn e Giannetti, insieme alle tante altre storie di crisi aziendali, stanno sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico. E ogni crisi ha radici, caratteristiche specifiche, ragioni ed errori, possibilità o meno di soluzioni.

Resta comunque, come evidenzia Tronchetti, un punto comune: il senso di responsabilità dell’impresa nei confronti dei territori e delle comunità da cui ha ricavato forza, conoscenze, creatività, spinta produttiva. E resta dunque l’impegno per la ricerca, comunque, di una soluzione alla crisi o di una modalità civile di gestione della parte finale della crisi se, fallito ogni tentativo di ripresa, si vada alla chiusura. Gli ammortizzatori sociali faranno il loro ruolo.

Ammortizzatori – ecco il punto – da riformare, migliorare, rendere molto più efficaci proprio in una stagione in cui le spinte della globalizzazione e della diffusione delle nuove tecnologie digitali stanno radicalmente trasformando i contesti economici, le caratteristiche competitive delle imprese, le forme del lavoro e l’organizzazione di produzioni e servizi.

Il governo Draghi è consapevole della necessità e dell’urgenza di questa riforma: non sussidi dal sapore assistenziale, ma investimenti e sostegni per la formazione professionale, la ricollocazione, il superamento dell’attuale mismatch tra domanda e offerta di lavoro, tra le imprese che non riescono a trovare i lavoratori professionalizzati che cercano e i lavoratori che chiedono, senza risposte adeguatae, un’occupazione.

Torniamo dunque al punto delle relazioni industriali, del dialogo, delle riforme, della responsabilità dell’impresa.

La teoria e la pratica dell’economia dicono che ogni impresa ha il suo ciclo di vita. E non esistono “variabili indipendenti”. Non lo è il salario, slegato dalla produttività e dalla competitività dell’impresa (come aveva teorizzato e cercato di praticare il sindacato, nei conflittuali anni Settanta). Non lo è il profitto, se ricercato  ossessivamente nel tempo breve tipico della speculazione finanziaria. Non lo è neppure la salvaguardia ostinata del posto di lavoro, quando l’impresa non è più in grado di stare sul mercato. Né l’intervento pubblico per acquisire l’impresa in crisi, a dispetto di ogni ragione economica (le esperienze fallimentari dell’Egam e dell’Efim degli anni Settanta e Ottanta e di alcune aziende municipalizzate fanno da monito severo).

Ma sempre teoria e pratica documentano come profitto, salario, lavoro e competitività possano stare bene insieme, nell’impresa che investe, innova, segue o meglio ancora anticipa del mercato e adotta tutti i cambiamenti necessari (prodotti, produzione, governance, marketing, comunicazione) all’evoluzione di consumi e costumi. E nel contesto di una politica industriale che favorisca l’innovazione.

Sta proprio qui, lo snodo della crisi. Negli investimenti. Nel rinnovamento. In una cultura d’impresa attenta ai cambiamenti, alle sfide competitive in tempi di transizione ecologica e digitale.

Tutto questo, con uno sbrigativo whatsapp di licenziamento, non c’entra proprio nulla.

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