Un team d’eccezione per “fare squadra con i libri”
“Lo spirito di collaborazione. E’ questo che ci ha permesso di arrivare dove siamo arrivati.”. Chi meglio di Javier Zanetti, mito nerazzuro, poteva interpretare l’idea di “fare squadra”? Ed è stato proprio lui, oggi nell’Auditorium dell’Headquarters Pirelli a Milano, insieme ad altri protagonisti del mondo dello sport e del mondo della cultura, a raccontare a oltre 300 studenti tra i 10 i 14 anni quanto sia importante fare squadra con i libri.
Il vicepresidente dell’Inter è stato infatti il testimonial di “Fare squadra con i libri”, incontro organizzato dalla Fondazione Pirelli per l’edizione 2019 di #ioleggoperché, iniziativa ideata dall’AIE-Associazione Italiana Editori per promuovere la passione per la lettura. Nel corso dell’incontro Pirelli e Fondazione Pirelli, in collaborazione con AIE, hanno donato alla scuola media G. Verga di Milano oltre 300 volumi che andranno ad arricchire la biblioteca dell’istituto.
“Un libro sarà sempre in grado di indicarvi la via”, ha commentato Luigi Garlando, autore di libri per ragazzi e giornalista de La Gazzetta dello Sport, anche lui sul palco dell’Auditorium Pirelli insieme all’Assessore all’Educazione e Istruzione del Comune di Milano Laura Galimberti che ha sottolineato la forte alleanza fra il pubblico e il privato nella costruzione della rete di biblioteche. “Quando avrete per le mani un libro, non vi annoierete mai” ha detto il Presidente dell’Associazione Italiana Editori Ricardo Franco Levi perché, ha aggiunto il Direttore della Fondazione Pirelli Antonio Calabrò, con i libri “si gioca”, i libri vanno maneggiati senza timore.
I tanti ragazzi in sala si sono confrontati con gli ospiti: Regina Baresi, leader dell’Inter femminile, ha raccontato “è quando metti piede in campo aspettando il fischio dell’arbitro che capisci che sei in una squadra”, mentre Zanetti, alla domanda posta da uno dei ragazzi: “Cosa si prova ad avere così tanto successo?”, ha ricordato che ogni successo comporta grande responsabilità e ha sottolineato l’importanza del sacrificio e dell’umiltà nel raggiungimento dei propri obiettivi. Testimonial del “fare squadra” per Pirelli Mario Isola, Head of F1 e Car Racing del Gruppo, che ha commentato: “fare squadra è quando tutti concorrono a esaltare le qualità di ogni singolo”. Per Pirelli anche nel mondo della Formula 1 “pensare in team” è la strategia vincente: collaborare per rendere possibile qualunque sfida su pista. E non solo. Perché fare squadra è saper unire talenti diversi che, con passione, possano raggiungere un obiettivo comune.






“Lo spirito di collaborazione. E’ questo che ci ha permesso di arrivare dove siamo arrivati.”. Chi meglio di Javier Zanetti, mito nerazzuro, poteva interpretare l’idea di “fare squadra”? Ed è stato proprio lui, oggi nell’Auditorium dell’Headquarters Pirelli a Milano, insieme ad altri protagonisti del mondo dello sport e del mondo della cultura, a raccontare a oltre 300 studenti tra i 10 i 14 anni quanto sia importante fare squadra con i libri.
Il vicepresidente dell’Inter è stato infatti il testimonial di “Fare squadra con i libri”, incontro organizzato dalla Fondazione Pirelli per l’edizione 2019 di #ioleggoperché, iniziativa ideata dall’AIE-Associazione Italiana Editori per promuovere la passione per la lettura. Nel corso dell’incontro Pirelli e Fondazione Pirelli, in collaborazione con AIE, hanno donato alla scuola media G. Verga di Milano oltre 300 volumi che andranno ad arricchire la biblioteca dell’istituto.
“Un libro sarà sempre in grado di indicarvi la via”, ha commentato Luigi Garlando, autore di libri per ragazzi e giornalista de La Gazzetta dello Sport, anche lui sul palco dell’Auditorium Pirelli insieme all’Assessore all’Educazione e Istruzione del Comune di Milano Laura Galimberti che ha sottolineato la forte alleanza fra il pubblico e il privato nella costruzione della rete di biblioteche. “Quando avrete per le mani un libro, non vi annoierete mai” ha detto il Presidente dell’Associazione Italiana Editori Ricardo Franco Levi perché, ha aggiunto il Direttore della Fondazione Pirelli Antonio Calabrò, con i libri “si gioca”, i libri vanno maneggiati senza timore.
I tanti ragazzi in sala si sono confrontati con gli ospiti: Regina Baresi, leader dell’Inter femminile, ha raccontato “è quando metti piede in campo aspettando il fischio dell’arbitro che capisci che sei in una squadra”, mentre Zanetti, alla domanda posta da uno dei ragazzi: “Cosa si prova ad avere così tanto successo?”, ha ricordato che ogni successo comporta grande responsabilità e ha sottolineato l’importanza del sacrificio e dell’umiltà nel raggiungimento dei propri obiettivi. Testimonial del “fare squadra” per Pirelli Mario Isola, Head of F1 e Car Racing del Gruppo, che ha commentato: “fare squadra è quando tutti concorrono a esaltare le qualità di ogni singolo”. Per Pirelli anche nel mondo della Formula 1 “pensare in team” è la strategia vincente: collaborare per rendere possibile qualunque sfida su pista. E non solo. Perché fare squadra è saper unire talenti diversi che, con passione, possano raggiungere un obiettivo comune.
Pirelli e la Vela, un lungo viaggio per mare
Il varo a Cagliari, il 2 ottobre 2019, del rivoluzionario monoscafo full-foiling AC75 ha dato ufficialmente il via alla partecipazione alla 36^ America’s Cup del team Luna Rossa Prada Pirelli. Già quando il progetto di partnership tra Pirelli e Prada fu annunciato, nell’agosto 2018, il Vice Presidente Esecutivo e Ceo di Pirelli Marco Tronchetti Provera aveva dichiarato che “Pirelli ha scelto di far parte di questo progetto perché rappresenta una sfida, sportiva e tecnologica, capace di portare l’Italia e il brand Pirelli in tutto il mondo. La Coppa America, come nei motori la Formula 1, è il trofeo velico più prestigioso, con una grande storia e tradizione”.
Quello tra Pirelli e la Vela è un lungo viaggio che parte da lontano: lo conferma anche la Rivista Pirelli, il periodico che tra gli anni Quaranta e Settanta portò all’attenzione del pubblico temi e argomenti di grande attualità. Lo sport in primo piano, naturalmente. E un posto privilegiato per lo sport visto con “occhi Pirelli” lo ha proprio la vela. Il velista Beppe Croce – che sarebbe poi stato nominato presidente dello Yacht Club Italiano – già nel 1954 scrive per la Rivista l’articolo “Non occorrono milioni per fare della vela”, vero e proprio via libera per una disciplina sportiva ancora troppo sconosciuta a quei tempi. Successivi interventi come “Yachts in altomare” di Bruno Vivarello nel 1960 sulle regate d’altura americane e “Ore 9 lezione di vela” di Rodolfo Facchini nel 1967 sul Centro Velico di Caprera sono ulteriori tributi allo sport del “mare silenzioso”.
Sfida sportiva, la vela. Ma anche sfida tecnologica. E l’impegno di Pirelli negli sport marittimi è una realtà consolidata fin dai primi anni Cinquanta, quando l’Azienda Seregno comincia a produrre battelli pneumatici, mentre l’Azienda Monza realizza scafi in vetroresina. Tra i gommoni Nautilus e Laros e i leggeri fuoribordo Alce e Giaguaro, Pirelli scrive negli anni una lunga storia di mare. E anche di vela, ancora una volta. E’ del 1970 l’impresa del Celeusta, un grande battello pneumatico Laros 80 che, condotto da Mario Valli, attraversa a vela l’Oceano Pacifico dal Perù alla Polinesia Francese. Intanto, le barche in kelesite prodotte per Pirelli dai Cantieri Celli di Venezia mettono in mare tutta la capacità della P Lunga di fare innovazione nel campo delle materie plastiche.
Il nuovo millennio ha visto Pirelli ancora impegnata con mare e vela: le Regate di Santa Margherita Ligure che hanno visto il lancio della tecnologica linea di battelli pneumatici P Zero ne sono un esempio.
E oggi l’avventura continua con Luna Rossa, e con la Coppa America.






Il varo a Cagliari, il 2 ottobre 2019, del rivoluzionario monoscafo full-foiling AC75 ha dato ufficialmente il via alla partecipazione alla 36^ America’s Cup del team Luna Rossa Prada Pirelli. Già quando il progetto di partnership tra Pirelli e Prada fu annunciato, nell’agosto 2018, il Vice Presidente Esecutivo e Ceo di Pirelli Marco Tronchetti Provera aveva dichiarato che “Pirelli ha scelto di far parte di questo progetto perché rappresenta una sfida, sportiva e tecnologica, capace di portare l’Italia e il brand Pirelli in tutto il mondo. La Coppa America, come nei motori la Formula 1, è il trofeo velico più prestigioso, con una grande storia e tradizione”.
Quello tra Pirelli e la Vela è un lungo viaggio che parte da lontano: lo conferma anche la Rivista Pirelli, il periodico che tra gli anni Quaranta e Settanta portò all’attenzione del pubblico temi e argomenti di grande attualità. Lo sport in primo piano, naturalmente. E un posto privilegiato per lo sport visto con “occhi Pirelli” lo ha proprio la vela. Il velista Beppe Croce – che sarebbe poi stato nominato presidente dello Yacht Club Italiano – già nel 1954 scrive per la Rivista l’articolo “Non occorrono milioni per fare della vela”, vero e proprio via libera per una disciplina sportiva ancora troppo sconosciuta a quei tempi. Successivi interventi come “Yachts in altomare” di Bruno Vivarello nel 1960 sulle regate d’altura americane e “Ore 9 lezione di vela” di Rodolfo Facchini nel 1967 sul Centro Velico di Caprera sono ulteriori tributi allo sport del “mare silenzioso”.
Sfida sportiva, la vela. Ma anche sfida tecnologica. E l’impegno di Pirelli negli sport marittimi è una realtà consolidata fin dai primi anni Cinquanta, quando l’Azienda Seregno comincia a produrre battelli pneumatici, mentre l’Azienda Monza realizza scafi in vetroresina. Tra i gommoni Nautilus e Laros e i leggeri fuoribordo Alce e Giaguaro, Pirelli scrive negli anni una lunga storia di mare. E anche di vela, ancora una volta. E’ del 1970 l’impresa del Celeusta, un grande battello pneumatico Laros 80 che, condotto da Mario Valli, attraversa a vela l’Oceano Pacifico dal Perù alla Polinesia Francese. Intanto, le barche in kelesite prodotte per Pirelli dai Cantieri Celli di Venezia mettono in mare tutta la capacità della P Lunga di fare innovazione nel campo delle materie plastiche.
Il nuovo millennio ha visto Pirelli ancora impegnata con mare e vela: le Regate di Santa Margherita Ligure che hanno visto il lancio della tecnologica linea di battelli pneumatici P Zero ne sono un esempio.
E oggi l’avventura continua con Luna Rossa, e con la Coppa America.
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“Fare le cose difficili”: la priorità per la scuola e una formazione continua, trasversale e politecnica
Ecco la lezione di un grande maestro, Gianni Rodari: “È difficile fare le cose difficili:/ parlare al sordo,/ mostrare la rosa al cieco./ Bambini, imparate a fare cose difficili:/ dare la mano al cieco,/ cantare per il sordo,/ liberare gli schiavi che si credono liberi”.
Rodari è stato uno scrittore molto amato da generazioni di genitori, che hanno letto le sue “Favole al telefono” e “Il libro delle filastrocche” a migliaia di bambini che, diventati a loro volta genitori, hanno continuato a leggerle ai figli, in un circuito virtuoso che ancora dura. Imparare “la grammatica della fantasia” e “fare le cose difficili”: la scelta sapiente di chi prova, fin dalla minore età, a fare bene le cose e s’impegna a cambiarle.
Quella frase sull’attenzione per “fare le cose difficili”, già dai primi anni di scuola, è risuonata più volte durante le discussioni degli Aspen Seminars for Leaders di Venezia, dedicati quest’anno a discutere, tra l’altro, di identità italiana nel contesto europeo, centralità dell’industria e del “nuovo triangolo industriale” (Lombardia, Emilia e Veneto) nella rivoluzione digitale, società data driven, salute e turismo, disparità sociali. Tutte le discussioni, per strade diverse, hanno portato verso un’attenzione particolare per i temi della formazione e della scuola, dalle prime classi delle elementari ai più sofisticati master universitari. Una scuola in cui “si impari a imparare” e ad avere gli strumenti necessari per fare fronte, lungo tutta la vita, alle evoluzioni di scienza, cultura, processi economici, fenomeni sociali e politici. Una scuola che sia consapevole della “obsolescenza della conoscenza” accelerata dall’evoluzione frenetica della società digitale e dunque sappia affrontare le sfide della conoscenza critica, del tempo della riflessione e della comprensione, della necessità di fornire persone utili al mondo delle imprese e del lavoro ma anche persone critiche, cittadini consapevoli della complessità della cultura e della necessità di un pensiero ben informato, critico e responsabile. Questioni generali, come si vede. Che riguardano la scuola come strumento essenziale di scelte che sono più ampie, generali: politiche, culturali, di equilibri sociali e civili.
Ecco perché il ricordo della lezione di Rodari sulle “cose difficili”. E’ indispensabile non cedere alla banalizzazione della conoscenza, al degrado del linguaggio, all’appiattimento delle competenze, alla caduta nella volgarità (fare cultura popolare, indispensabile, non vuol dire affatto cedere alla sciattezza e ai comportamenti volgari). Ma, semmai, dare spazio a una crescente consapevolezza diffusa del bisogno di ridurre la complessità a semplicità e di capire il più possibile senso e direzione dei cambiamenti, per cercare di governarli e indirizzarli. Abbiamo ancora una scuola costruita secondo i modelli della vecchia civiltà industriale: si studia per diciassette/ diciotto anni (dalle elementari alla laurea) acquisendo conoscenze utili per il resto della vita e poi si va a lavorare, quasi sempre nello stesso posto, facendo carriera per accumulo di competenze settoriali o (nel peggiore dei casi) per anzianità.
L’economia digitale, la globalizzazione, i rapidi progressi di scienza e tecnologia, negli ultimi anni, hanno cambiato radicalmente il quadro: i saperi si usurano nell’arco di pochi anni, i lavori si cambiano spesso. Dunque? Il ciclo della formazione deve durare tutta la vita: long life learning, dicono gli esperti. Il che cambia metodi di insegnamento e apprendimento, stili didattici, ma anche gli stessi luoghi fisici in cui si studia: non più le classi tradizionali buoni per la “lezione frontale”, ma luoghi aperti e dinamici di insegnamento, confronto, interazione, nell’incrocio virtuoso tra lavoro e formazione, almeno dalla fine dell’università in poi. Con una didattica – ecco un altro punto chiave – che sia soprattutto multidisciplinare e trasversale (abbiamo parlato più volte, in questo blog, degli ingegneri poeti e filosofi e dei medici ingegneri: tutte attività didattiche già in corso, laddove si va avanti con l’innovazione scolastica)
Queste considerazioni sommarie portano a dire che proprio sulla scuola, sulla formazione, dovrebbero concentrarsi gli investimenti maggiori di un Paese responsabilmente in cerca di come costruire un futuro migliore per le nuove generazioni. Ci si ferma invece, appena a poco più dell’1,2% del Pil. Una miseria. La legge finanziaria in preparazione da parte del governo Conte bis non fa eccezione alla trasandatezza del passato (ma ci si ostina su quel provvedimento anti-giovani e anti-sviluppo che è “quota 100”: troppa gente mandata anzitempo in pensione, ingiustamente, costosamente e improduttivamente).
Ci sono, insomma, pochi soldi per la sicurezza e l’efficienza degli edifici, pochi per la qualificazione degli insegnanti e il premio a chi lavora meglio, pochi per le tecnologie della nuova didattica, pochi per le relazioni tra scuola e lavoro. Ma senza investire sulla formazione non c’è sviluppo che tenga. E nessuno o quasi, negli ambienti di governo e tra la maggior parte delle forze politiche, se ne preoccupa e se ne occupa. Continuiamo a essere in coda ai paesi europei per numero di laureati. I dati resi noti alcuni giorni fa (“La Stampa”, 13 ottobre) dalla Fondazione Italia Education e dal rapporto Unioncamere-Anpal dicono che da oggi al 2023 mancheranno almeno 165mila laureati per fare fronte ai fabbisogni di lavoro nelle aziende (quasi 182mila, secondo le stime di maggior crescita dell’offerta). In Italia si laurea, insomma, troppo poca gente. E molti si laureano in settori che non hanno mercati di sbocco. Mancano matematici e ingegneri, medici, economisti, statistici e filosofi bravi a lavorare nel mondo dei big data ed esperti nei settori dell’energia e della sostenibilità, ambientale e sociale. Sono sovrabbondanti i laureati in lettere e scienza della comunicazione.
C’è tutto un riequilibrio da progettare con intelligenza e flessibilità, tutto un mondo da riavviare, lungo le strade delle “reti politecniche” che innovino l’incrocio dei saperi e dei lavori, tra scienza, tecnologia e materie umanistiche. Come? Un governo e una politica responsabilmente interessati a costruire un migliore futuro dovrebbero occuparsene, come una priorità. Purtroppo, coloro che stanno tra Palazzo Chigi e il Parlamento non sembra proprio che ne siano anche pallidamente consapevoli. Non saprebbero mai, appunto, “fare le cose difficili”.






Ecco la lezione di un grande maestro, Gianni Rodari: “È difficile fare le cose difficili:/ parlare al sordo,/ mostrare la rosa al cieco./ Bambini, imparate a fare cose difficili:/ dare la mano al cieco,/ cantare per il sordo,/ liberare gli schiavi che si credono liberi”.
Rodari è stato uno scrittore molto amato da generazioni di genitori, che hanno letto le sue “Favole al telefono” e “Il libro delle filastrocche” a migliaia di bambini che, diventati a loro volta genitori, hanno continuato a leggerle ai figli, in un circuito virtuoso che ancora dura. Imparare “la grammatica della fantasia” e “fare le cose difficili”: la scelta sapiente di chi prova, fin dalla minore età, a fare bene le cose e s’impegna a cambiarle.
Quella frase sull’attenzione per “fare le cose difficili”, già dai primi anni di scuola, è risuonata più volte durante le discussioni degli Aspen Seminars for Leaders di Venezia, dedicati quest’anno a discutere, tra l’altro, di identità italiana nel contesto europeo, centralità dell’industria e del “nuovo triangolo industriale” (Lombardia, Emilia e Veneto) nella rivoluzione digitale, società data driven, salute e turismo, disparità sociali. Tutte le discussioni, per strade diverse, hanno portato verso un’attenzione particolare per i temi della formazione e della scuola, dalle prime classi delle elementari ai più sofisticati master universitari. Una scuola in cui “si impari a imparare” e ad avere gli strumenti necessari per fare fronte, lungo tutta la vita, alle evoluzioni di scienza, cultura, processi economici, fenomeni sociali e politici. Una scuola che sia consapevole della “obsolescenza della conoscenza” accelerata dall’evoluzione frenetica della società digitale e dunque sappia affrontare le sfide della conoscenza critica, del tempo della riflessione e della comprensione, della necessità di fornire persone utili al mondo delle imprese e del lavoro ma anche persone critiche, cittadini consapevoli della complessità della cultura e della necessità di un pensiero ben informato, critico e responsabile. Questioni generali, come si vede. Che riguardano la scuola come strumento essenziale di scelte che sono più ampie, generali: politiche, culturali, di equilibri sociali e civili.
Ecco perché il ricordo della lezione di Rodari sulle “cose difficili”. E’ indispensabile non cedere alla banalizzazione della conoscenza, al degrado del linguaggio, all’appiattimento delle competenze, alla caduta nella volgarità (fare cultura popolare, indispensabile, non vuol dire affatto cedere alla sciattezza e ai comportamenti volgari). Ma, semmai, dare spazio a una crescente consapevolezza diffusa del bisogno di ridurre la complessità a semplicità e di capire il più possibile senso e direzione dei cambiamenti, per cercare di governarli e indirizzarli. Abbiamo ancora una scuola costruita secondo i modelli della vecchia civiltà industriale: si studia per diciassette/ diciotto anni (dalle elementari alla laurea) acquisendo conoscenze utili per il resto della vita e poi si va a lavorare, quasi sempre nello stesso posto, facendo carriera per accumulo di competenze settoriali o (nel peggiore dei casi) per anzianità.
L’economia digitale, la globalizzazione, i rapidi progressi di scienza e tecnologia, negli ultimi anni, hanno cambiato radicalmente il quadro: i saperi si usurano nell’arco di pochi anni, i lavori si cambiano spesso. Dunque? Il ciclo della formazione deve durare tutta la vita: long life learning, dicono gli esperti. Il che cambia metodi di insegnamento e apprendimento, stili didattici, ma anche gli stessi luoghi fisici in cui si studia: non più le classi tradizionali buoni per la “lezione frontale”, ma luoghi aperti e dinamici di insegnamento, confronto, interazione, nell’incrocio virtuoso tra lavoro e formazione, almeno dalla fine dell’università in poi. Con una didattica – ecco un altro punto chiave – che sia soprattutto multidisciplinare e trasversale (abbiamo parlato più volte, in questo blog, degli ingegneri poeti e filosofi e dei medici ingegneri: tutte attività didattiche già in corso, laddove si va avanti con l’innovazione scolastica)
Queste considerazioni sommarie portano a dire che proprio sulla scuola, sulla formazione, dovrebbero concentrarsi gli investimenti maggiori di un Paese responsabilmente in cerca di come costruire un futuro migliore per le nuove generazioni. Ci si ferma invece, appena a poco più dell’1,2% del Pil. Una miseria. La legge finanziaria in preparazione da parte del governo Conte bis non fa eccezione alla trasandatezza del passato (ma ci si ostina su quel provvedimento anti-giovani e anti-sviluppo che è “quota 100”: troppa gente mandata anzitempo in pensione, ingiustamente, costosamente e improduttivamente).
Ci sono, insomma, pochi soldi per la sicurezza e l’efficienza degli edifici, pochi per la qualificazione degli insegnanti e il premio a chi lavora meglio, pochi per le tecnologie della nuova didattica, pochi per le relazioni tra scuola e lavoro. Ma senza investire sulla formazione non c’è sviluppo che tenga. E nessuno o quasi, negli ambienti di governo e tra la maggior parte delle forze politiche, se ne preoccupa e se ne occupa. Continuiamo a essere in coda ai paesi europei per numero di laureati. I dati resi noti alcuni giorni fa (“La Stampa”, 13 ottobre) dalla Fondazione Italia Education e dal rapporto Unioncamere-Anpal dicono che da oggi al 2023 mancheranno almeno 165mila laureati per fare fronte ai fabbisogni di lavoro nelle aziende (quasi 182mila, secondo le stime di maggior crescita dell’offerta). In Italia si laurea, insomma, troppo poca gente. E molti si laureano in settori che non hanno mercati di sbocco. Mancano matematici e ingegneri, medici, economisti, statistici e filosofi bravi a lavorare nel mondo dei big data ed esperti nei settori dell’energia e della sostenibilità, ambientale e sociale. Sono sovrabbondanti i laureati in lettere e scienza della comunicazione.
C’è tutto un riequilibrio da progettare con intelligenza e flessibilità, tutto un mondo da riavviare, lungo le strade delle “reti politecniche” che innovino l’incrocio dei saperi e dei lavori, tra scienza, tecnologia e materie umanistiche. Come? Un governo e una politica responsabilmente interessati a costruire un migliore futuro dovrebbero occuparsene, come una priorità. Purtroppo, coloro che stanno tra Palazzo Chigi e il Parlamento non sembra proprio che ne siano anche pallidamente consapevoli. Non saprebbero mai, appunto, “fare le cose difficili”.
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Lavoro “vecchio” e tecnologie nuove
Alcune ricerche curate dall’Inapp, approfondiscono la situazione tra digitalizzazione della produzione e realtà aziendali
Digitalizzazione della produzione, nuove tecnologie e invecchiamento della forza lavoro sono, oggi, temi strettamente intrecciati fra di loro. Non si tratta solo di una questione anagrafica, ma anche di livelli formativi, di capacità di cogliere il cambiamento, di stare – in sintesi -, al passo con i tempi. Non ci sono modelli teorici validi per tutte le situazioni. Per questo, apprendere delle diverse esperienze sul territorio e in differenti comparti della produzione, è certamente cosa da fare.
E’ utile quindi leggere “Lavoratori maturi e nuova occupabilità l’innovazione tecnologica 4.0 in due studi territoriali” raccolta di due studi territoriali, curata da Pietro Checcucci e diffusa dall’Inapp nell’agosto scorso.
L’obiettivo del documento, viene spiegato, è “quello di definire il quadro teorico e l’articolazione tematica utili a scandagliare, attraverso successive indagini, i comportamenti e le strategie adottati dalle imprese italiane per fronteggiare l’invecchiamento delle risorse umane, alla luce delle prospettive di innovazione di prodotto e di processo che si aprono con l’avvento della rivoluzione digitale, tenendo conto delle specificità legate al settore produttivo, all’ambito geografico e al contesto socio-economico di riferimento”. Teoria legata alla pratica, quindi. Ed è per questo che, dopo un rapido inquadramento dello stato dell’arte degli studi che analizzano il cambiamento tecnologico in relazione alla risorse umane, sono subito presentati i due casi: quello del Distretto tecnologico delle bioscienze del Lazio e quello dell’Occhialeria di Belluno. Per ogni caso, la ricerca racconta metodo d’indagine, discute i risultati della stessa e li inquadra in un contesto generale in relazione all’invecchiamento della forza lavoro.
Tutto viene poi sintetizzato in una conclusione generale. “I risultati delle interviste condotte mostrano – viene spiegato -, che esistono approcci diversi all’innovazione tecnologica, a seconda della dimensione aziendale: parte delle Pmi lavora su industria 4.0 perché è un contesto ricco di opportunità, mentre le grandi imprese hanno spesso una visione multinazionale governata da logiche diverse. Per queste ultime l’evoluzione tecnologica è il principale elemento di competitività, ed esse sono di solito in grado da sole di rinnovare completamente il proprio sistema di tecnologie. Nelle Pmi, invece, l’innovazione segue strade abbastanza differenziate, in relazione al settore economico”.
Su tutto prevale in ogni caso la volontà di preservare le risorse umane aziendali. L’indagine non si nasconde che se “l’introduzione delle nuove tecnologie 4.0 è quasi certamente destinata a determinare in prospettiva un problema di tenuta occupazionale (…), nessuno ritiene pensabile e tantomeno auspicabile il rinnovamento del processo produttivo industriale a detrimento dei livelli occupazionali”.
La ricerca curata da Checcucci pone un altro tassello utile alla costruzione della comprensione delle relazioni fra nuove tecnologie e lavoro in Italia.
Lavoratori maturi e nuova occupabilità l’innovazione tecnologica 4.0 in due studi territoriali
a cura di Pietro Checcucci
Inapp Report, agosto 2019
Alcune ricerche curate dall’Inapp, approfondiscono la situazione tra digitalizzazione della produzione e realtà aziendali
Digitalizzazione della produzione, nuove tecnologie e invecchiamento della forza lavoro sono, oggi, temi strettamente intrecciati fra di loro. Non si tratta solo di una questione anagrafica, ma anche di livelli formativi, di capacità di cogliere il cambiamento, di stare – in sintesi -, al passo con i tempi. Non ci sono modelli teorici validi per tutte le situazioni. Per questo, apprendere delle diverse esperienze sul territorio e in differenti comparti della produzione, è certamente cosa da fare.
E’ utile quindi leggere “Lavoratori maturi e nuova occupabilità l’innovazione tecnologica 4.0 in due studi territoriali” raccolta di due studi territoriali, curata da Pietro Checcucci e diffusa dall’Inapp nell’agosto scorso.
L’obiettivo del documento, viene spiegato, è “quello di definire il quadro teorico e l’articolazione tematica utili a scandagliare, attraverso successive indagini, i comportamenti e le strategie adottati dalle imprese italiane per fronteggiare l’invecchiamento delle risorse umane, alla luce delle prospettive di innovazione di prodotto e di processo che si aprono con l’avvento della rivoluzione digitale, tenendo conto delle specificità legate al settore produttivo, all’ambito geografico e al contesto socio-economico di riferimento”. Teoria legata alla pratica, quindi. Ed è per questo che, dopo un rapido inquadramento dello stato dell’arte degli studi che analizzano il cambiamento tecnologico in relazione alla risorse umane, sono subito presentati i due casi: quello del Distretto tecnologico delle bioscienze del Lazio e quello dell’Occhialeria di Belluno. Per ogni caso, la ricerca racconta metodo d’indagine, discute i risultati della stessa e li inquadra in un contesto generale in relazione all’invecchiamento della forza lavoro.
Tutto viene poi sintetizzato in una conclusione generale. “I risultati delle interviste condotte mostrano – viene spiegato -, che esistono approcci diversi all’innovazione tecnologica, a seconda della dimensione aziendale: parte delle Pmi lavora su industria 4.0 perché è un contesto ricco di opportunità, mentre le grandi imprese hanno spesso una visione multinazionale governata da logiche diverse. Per queste ultime l’evoluzione tecnologica è il principale elemento di competitività, ed esse sono di solito in grado da sole di rinnovare completamente il proprio sistema di tecnologie. Nelle Pmi, invece, l’innovazione segue strade abbastanza differenziate, in relazione al settore economico”.
Su tutto prevale in ogni caso la volontà di preservare le risorse umane aziendali. L’indagine non si nasconde che se “l’introduzione delle nuove tecnologie 4.0 è quasi certamente destinata a determinare in prospettiva un problema di tenuta occupazionale (…), nessuno ritiene pensabile e tantomeno auspicabile il rinnovamento del processo produttivo industriale a detrimento dei livelli occupazionali”.
La ricerca curata da Checcucci pone un altro tassello utile alla costruzione della comprensione delle relazioni fra nuove tecnologie e lavoro in Italia.
Lavoratori maturi e nuova occupabilità l’innovazione tecnologica 4.0 in due studi territoriali
a cura di Pietro Checcucci
Inapp Report, agosto 2019
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Lavoro futuro
Raccontati in un libro i possibili scenari che legano l’occupazione e le nuove tecnologie
Il lavoro di fronte al forte cambiamento tecnologico in atto deve, a sua volta, cambiare in modo profondo e veloce. Ma non è detto che debba scomparire, anzi. Occorre, però, dotarsi di strumenti nuovi di analisi, conoscenza e azione. “Il lavoro ha un futuro anzi tre. I nuovi orizzonti dell’economia”, scritto da Mario Mantovani, offre una buona lettura per iniziare a capire di più su un tema complesso come quello dei collegamenti fra innovazione, cambiamento tecnologico e spazi lavorativi.
Mantovani – forte della sua esperienza in situazioni aziendali diverse ma tutte collegate da crisi e crescite accelerate -, è dell’idea che sia proprio il lavoro l’epicentro potenziale delle grandi trasformazioni che stanno avvenendo. Secondo Mantovani i cambiamenti sociali ed economici già in atto potrebbero chiudere un’era, quella in cui il concetto contemporaneo di lavoro si è strutturato e definito e ha assunto un ruolo centrale nel modello economico, che è corretto definire “capital-lavoristico”. Adesso si aprono orizzonti completamente nuovi e diversificati sulla base del loro tempo di evoluzione.
Gli scenari proposti da Mantovani sono quindi tre. Il primo nel futuro immediato (entro cioè i prossimi 5 anni), il secondo nel “futuro dei contemporanei” (che copre i prossimi 50 anni) e il terzo in quella che viene indicata come “Era dell’Accesso”. Ogni passaggio viene quindi caratterizzato da una situazione diversa. Nel primo orizzonte devono essere poste le basi di una trasformazione normativa e organizzativa, centrata sul concetto di “lavoro organizzato”, superando la distinzione tra lavoro dipendente e autonomo. Nel “futuro dei contemporanei”, in cui inizierà l’Era Robotica, il punto cruciale è invece quello dei rapporti tra rivoluzione tecnologica e rischi di crisi del lavoro (con tutte le conseguenze possibili sulla società). Qui l’autore palesa uno scenario indicato come di “Grande Segregazione” tra organizzazioni umane e cibernetiche che potrebbe aprire la strada ad una crisi potenziale, generata principalmente da squilibri territoriali più accentuati, destinata ad aprire il terzo scenario del futuro, rappresentato dalla cosiddetta “Era dell’Accesso”, in cui nuovi modelli economici potrebbero prendere il posto di quelli attuali. Modelli che dovrebbero sforzarsi di guardare all’uomo nella sua interezza e in modo compatibile proprio con le tecnologie 4.0 e oltre.
Le circa duecento pagine di testo non sono sempre facili da leggere, necessitano di attenzione e sensibilità, ma sono certamente una lettura interessante. Il libro di Mario Mantovani ha un grande merito, quello di non dare soluzioni preconfezionate ma di porre temi e problemi in maniera chiara e aperta. E’ d’altra parte proprio questo l’obiettivo: far ragionare e discutere per accrescere in chi legge una consapevolezza informata che è davvero lo strumento principe per capire dove si è e dove si va.
Il lavoro ha un futuro anzi tre. I nuovi orizzonti dell’economia
Mario Mantovani
Guerini Next, 2019






Raccontati in un libro i possibili scenari che legano l’occupazione e le nuove tecnologie
Il lavoro di fronte al forte cambiamento tecnologico in atto deve, a sua volta, cambiare in modo profondo e veloce. Ma non è detto che debba scomparire, anzi. Occorre, però, dotarsi di strumenti nuovi di analisi, conoscenza e azione. “Il lavoro ha un futuro anzi tre. I nuovi orizzonti dell’economia”, scritto da Mario Mantovani, offre una buona lettura per iniziare a capire di più su un tema complesso come quello dei collegamenti fra innovazione, cambiamento tecnologico e spazi lavorativi.
Mantovani – forte della sua esperienza in situazioni aziendali diverse ma tutte collegate da crisi e crescite accelerate -, è dell’idea che sia proprio il lavoro l’epicentro potenziale delle grandi trasformazioni che stanno avvenendo. Secondo Mantovani i cambiamenti sociali ed economici già in atto potrebbero chiudere un’era, quella in cui il concetto contemporaneo di lavoro si è strutturato e definito e ha assunto un ruolo centrale nel modello economico, che è corretto definire “capital-lavoristico”. Adesso si aprono orizzonti completamente nuovi e diversificati sulla base del loro tempo di evoluzione.
Gli scenari proposti da Mantovani sono quindi tre. Il primo nel futuro immediato (entro cioè i prossimi 5 anni), il secondo nel “futuro dei contemporanei” (che copre i prossimi 50 anni) e il terzo in quella che viene indicata come “Era dell’Accesso”. Ogni passaggio viene quindi caratterizzato da una situazione diversa. Nel primo orizzonte devono essere poste le basi di una trasformazione normativa e organizzativa, centrata sul concetto di “lavoro organizzato”, superando la distinzione tra lavoro dipendente e autonomo. Nel “futuro dei contemporanei”, in cui inizierà l’Era Robotica, il punto cruciale è invece quello dei rapporti tra rivoluzione tecnologica e rischi di crisi del lavoro (con tutte le conseguenze possibili sulla società). Qui l’autore palesa uno scenario indicato come di “Grande Segregazione” tra organizzazioni umane e cibernetiche che potrebbe aprire la strada ad una crisi potenziale, generata principalmente da squilibri territoriali più accentuati, destinata ad aprire il terzo scenario del futuro, rappresentato dalla cosiddetta “Era dell’Accesso”, in cui nuovi modelli economici potrebbero prendere il posto di quelli attuali. Modelli che dovrebbero sforzarsi di guardare all’uomo nella sua interezza e in modo compatibile proprio con le tecnologie 4.0 e oltre.
Le circa duecento pagine di testo non sono sempre facili da leggere, necessitano di attenzione e sensibilità, ma sono certamente una lettura interessante. Il libro di Mario Mantovani ha un grande merito, quello di non dare soluzioni preconfezionate ma di porre temi e problemi in maniera chiara e aperta. E’ d’altra parte proprio questo l’obiettivo: far ragionare e discutere per accrescere in chi legge una consapevolezza informata che è davvero lo strumento principe per capire dove si è e dove si va.
Il lavoro ha un futuro anzi tre. I nuovi orizzonti dell’economia
Mario Mantovani
Guerini Next, 2019
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