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Fuzzy o Techie? Per le imprese servono più filosofi e poeti, oltre che ingegneri

Fuzzy, dicono gli americani della Stanford University, per indicare gli studenti delle humanities, le materie umanistiche. Techie sono invece quelli d’ingegneria e matematica, fisica e chimica, le cosiddette “scienze dure”. Nelle accese discussioni su ciò che serve all’economia e alle imprese, per crescere meglio, l’opinione pubblica prevalente insiste sui techie. E soprattutto in Italia sono in tanti a lamentare la grave carenze di figure professionali formate per fare fronte alle nuove sfide produttive del mondo digital, di quella particolare dimensione di Industry4.0 che lega manifattura hi tech, servizi innovativi, big data e internet of things: gli ingegneri, appunto, i tecnologi, gli informatici, i tecnici.

Le esigenze delle imprese per una buona mano d’opera aperta all’innovazione sono certamente fondate, legittime: tedeschi e americani, cinesi e giapponesi investono molto in formazione scientifica e tecnica e dunque hanno tutti quei techie che servono alla produttività, alla competitività, alla crescita economica. Ed è dunque essenziale potenziare gli ITS, gli Istituti tecnici superiori (800mila iscritti in Germania, 160mila in Francia, appena poco più di 8mila in Italia: troppo pochi, per la seconda manifattura d’Europa)

Ma stanno proprio così, le cose? La sfida della crescita, se davvero vogliamo che sia “sostenibile ed equilibrata”, ha bisogno soprattutto di ingegneri e chimici ma anche di altre dimensioni culturali? E, per andare un po’ più a fondo, di che tipo di ingegneri e chimici? E come integrare conoscenze, per farle diventare competenze originali utili allo sviluppo equilibrato del Paese?

Per cercare di trovare risposte, vale la pena riflettere fuori dai luoghi comuni. E fermarsi un attimo proprio a Stanford, eccellenza della formazione Usa. Prendendo in mano un libro recente di Scott Hartely: The Fuzzy and the Techie, appunto. Ovvero Why the Liberal Arts will rule the Digital World. Pubblicato da Houghton Mifflin Harcourt, è un saggio di grande interesse (ne ha parlato acutamente un bravo filosofo italiano, Sebastiano Maffettone, su “IlSole24Ore” del 18 marzo). Per le qualità dell’autore, innanzitutto: non un filosofo né un letterato, ma un uomo d’impresa esperto in venture capital e in start up innovative, un’intensa stagione di lavoro con Google e Facebook e una competenza tecnica sofisticata nel mondo delle nuove tecnologie. La tesi di Hartley è chiara: i big data sono vuoti se non li supporta il fattore umano, interpretandoli e dando loro una struttura di senso. Bisogna aggiungere conoscenza umana e umanistica alla tecnologia, per farla funzionare in maniera ottimale. E chi può farlo meglio d’un filosofo, per cui l’ermeneutica (cioè il lavoro d’interpretazione dei testi, ma anche della realtà) è pane quotidiano? Gli algoritmi che guidano la nuova civiltà delle macchine vanno scritti, modificati nel tempo, interpretati. Devono tradurre la complessità di elementi e comportamenti, gestire fenomeni molteplici, trovare una linea tra conflitti. Mestiere da filosofi, appunto. Da chi sa tutto di tecniche ma ne conosce e le governa anche il senso, gli indirizzi, le questioni aperte. E da chi, proprio nel mondo segnato da macchine tecnologicamente sofisticatissime, deve non dimenticare mai l’umanità e i valori. Filosofi e ingegneri. O anche ingegneri-filosofi. E poeti-ingegneri. “Studiate humanities”, dunque, consigliano i professori di Stanford ai loro studenti.

Quello di Hartely è un messaggio analogo all’appello a essere “rinascimentali” lanciato da Steve Jobs agli studenti americani. E proprio nelle due parole italiane, Umanesimo e Rinascimento, sta la chiave di riflessione migliore: erano uomini dal sapere completo, gli umanisti, non separavano scienza da conoscenza, bellezza da matematica, equilibrio di forme architettonica da urbanistica, macchine da uomini. Avevano una sapienza complessa e completa, una solida “cultura politecnica”. Attitudini da ritrovare. E su cui fondare un rilancio della “buona scuola”.

“Farsi guidare dall’intelligenza artificiale, dai suoi algoritmi, finisce per fare di noi delle macchine banali”, avverte Edgar Morin, uno dei maggiori filosofi contemporanei, nell’introduzione a “Il tempo della complessità” di Mauro Ceruti, Raffaello Cortina Editore. L’interrogazione sul senso delle cose e dunque sulla stessa nuova fase di sviluppo ad alta tecnologia “ha bisogno di una conoscenza transdisciplinare, capace di estrarre, assimilare e integrare le conoscenze ancora separate, compartimentate, frammentate. Ha bisogno di un pensiero complesso, cioè capace di legare, di articolare le conoscenze e non soltanto di giustapporle”.

Non basta insomma la tecnica, anche alla stessa crescita tecnologica, se di tanto avanzare non si colgono significati, limiti, valori di fondo. Se, accanto al “come”, scienza ed economia non si pongono anche il problema del “perché” e del “fine”.

Anche da questa strada si torna al valore delle conoscenze umanistiche, da tenere ben strette alle competenze.

Ne avremo anche delle imprese migliori, più produttive e competitive. “I filosofi in azienda fanno decollare il profitto”, ha titolato “Affari&Finanza”, il settimanale economico de “la Repubblica” (23 aprile)  citando il quotidiano inglese “The Guardian” e raccontando il lavoro di Lou Marinoff, filosofo da più di vent’anni consulente aziendale e di Paolo Cervari, autore, con Neri Pollastri, d’un libro di successo, nella letteratura manageriale, “Il filosofo in azienda – Pratiche filosofiche per le organizzazioni”, edito da Apogeo Education. Ci sono crisi da affrontare, valori da condividere (responsabilità, inclusione, fiducia, passione, partecipazione), relazioni da interrompere o da ristabilire. E non servono pratiche manageriali né strumenti economicistici, ma discussioni sul senso delle cose che si fanno, sullo spirito di comunità, sull’importanza delle persone. E senza persone consapevoli e responsabili non c’è impresa.

Lo spiega bene un altro filosofo d’azienda, Roger Steare, professore alla Cass Business School della City University di Londra: “Spesso si sostiene la tesi che profitto e filosofia siano incompatibili, ma è un grande equivoco. La difficoltà infatti non è tra filosofia e profitto, quanto tira la saggezza e il tentativo di raggiungere il profitto a breve termine. Quello che bisogna cercare di realizzare è un valore sostenibile e a lungo termine”. Un’efficace filosofia della buona economia e dell’impresa capace di pensieri lunghi e di solidi valori.

 

Fuzzy, dicono gli americani della Stanford University, per indicare gli studenti delle humanities, le materie umanistiche. Techie sono invece quelli d’ingegneria e matematica, fisica e chimica, le cosiddette “scienze dure”. Nelle accese discussioni su ciò che serve all’economia e alle imprese, per crescere meglio, l’opinione pubblica prevalente insiste sui techie. E soprattutto in Italia sono in tanti a lamentare la grave carenze di figure professionali formate per fare fronte alle nuove sfide produttive del mondo digital, di quella particolare dimensione di Industry4.0 che lega manifattura hi tech, servizi innovativi, big data e internet of things: gli ingegneri, appunto, i tecnologi, gli informatici, i tecnici.

Le esigenze delle imprese per una buona mano d’opera aperta all’innovazione sono certamente fondate, legittime: tedeschi e americani, cinesi e giapponesi investono molto in formazione scientifica e tecnica e dunque hanno tutti quei techie che servono alla produttività, alla competitività, alla crescita economica. Ed è dunque essenziale potenziare gli ITS, gli Istituti tecnici superiori (800mila iscritti in Germania, 160mila in Francia, appena poco più di 8mila in Italia: troppo pochi, per la seconda manifattura d’Europa)

Ma stanno proprio così, le cose? La sfida della crescita, se davvero vogliamo che sia “sostenibile ed equilibrata”, ha bisogno soprattutto di ingegneri e chimici ma anche di altre dimensioni culturali? E, per andare un po’ più a fondo, di che tipo di ingegneri e chimici? E come integrare conoscenze, per farle diventare competenze originali utili allo sviluppo equilibrato del Paese?

Per cercare di trovare risposte, vale la pena riflettere fuori dai luoghi comuni. E fermarsi un attimo proprio a Stanford, eccellenza della formazione Usa. Prendendo in mano un libro recente di Scott Hartely: The Fuzzy and the Techie, appunto. Ovvero Why the Liberal Arts will rule the Digital World. Pubblicato da Houghton Mifflin Harcourt, è un saggio di grande interesse (ne ha parlato acutamente un bravo filosofo italiano, Sebastiano Maffettone, su “IlSole24Ore” del 18 marzo). Per le qualità dell’autore, innanzitutto: non un filosofo né un letterato, ma un uomo d’impresa esperto in venture capital e in start up innovative, un’intensa stagione di lavoro con Google e Facebook e una competenza tecnica sofisticata nel mondo delle nuove tecnologie. La tesi di Hartley è chiara: i big data sono vuoti se non li supporta il fattore umano, interpretandoli e dando loro una struttura di senso. Bisogna aggiungere conoscenza umana e umanistica alla tecnologia, per farla funzionare in maniera ottimale. E chi può farlo meglio d’un filosofo, per cui l’ermeneutica (cioè il lavoro d’interpretazione dei testi, ma anche della realtà) è pane quotidiano? Gli algoritmi che guidano la nuova civiltà delle macchine vanno scritti, modificati nel tempo, interpretati. Devono tradurre la complessità di elementi e comportamenti, gestire fenomeni molteplici, trovare una linea tra conflitti. Mestiere da filosofi, appunto. Da chi sa tutto di tecniche ma ne conosce e le governa anche il senso, gli indirizzi, le questioni aperte. E da chi, proprio nel mondo segnato da macchine tecnologicamente sofisticatissime, deve non dimenticare mai l’umanità e i valori. Filosofi e ingegneri. O anche ingegneri-filosofi. E poeti-ingegneri. “Studiate humanities”, dunque, consigliano i professori di Stanford ai loro studenti.

Quello di Hartely è un messaggio analogo all’appello a essere “rinascimentali” lanciato da Steve Jobs agli studenti americani. E proprio nelle due parole italiane, Umanesimo e Rinascimento, sta la chiave di riflessione migliore: erano uomini dal sapere completo, gli umanisti, non separavano scienza da conoscenza, bellezza da matematica, equilibrio di forme architettonica da urbanistica, macchine da uomini. Avevano una sapienza complessa e completa, una solida “cultura politecnica”. Attitudini da ritrovare. E su cui fondare un rilancio della “buona scuola”.

“Farsi guidare dall’intelligenza artificiale, dai suoi algoritmi, finisce per fare di noi delle macchine banali”, avverte Edgar Morin, uno dei maggiori filosofi contemporanei, nell’introduzione a “Il tempo della complessità” di Mauro Ceruti, Raffaello Cortina Editore. L’interrogazione sul senso delle cose e dunque sulla stessa nuova fase di sviluppo ad alta tecnologia “ha bisogno di una conoscenza transdisciplinare, capace di estrarre, assimilare e integrare le conoscenze ancora separate, compartimentate, frammentate. Ha bisogno di un pensiero complesso, cioè capace di legare, di articolare le conoscenze e non soltanto di giustapporle”.

Non basta insomma la tecnica, anche alla stessa crescita tecnologica, se di tanto avanzare non si colgono significati, limiti, valori di fondo. Se, accanto al “come”, scienza ed economia non si pongono anche il problema del “perché” e del “fine”.

Anche da questa strada si torna al valore delle conoscenze umanistiche, da tenere ben strette alle competenze.

Ne avremo anche delle imprese migliori, più produttive e competitive. “I filosofi in azienda fanno decollare il profitto”, ha titolato “Affari&Finanza”, il settimanale economico de “la Repubblica” (23 aprile)  citando il quotidiano inglese “The Guardian” e raccontando il lavoro di Lou Marinoff, filosofo da più di vent’anni consulente aziendale e di Paolo Cervari, autore, con Neri Pollastri, d’un libro di successo, nella letteratura manageriale, “Il filosofo in azienda – Pratiche filosofiche per le organizzazioni”, edito da Apogeo Education. Ci sono crisi da affrontare, valori da condividere (responsabilità, inclusione, fiducia, passione, partecipazione), relazioni da interrompere o da ristabilire. E non servono pratiche manageriali né strumenti economicistici, ma discussioni sul senso delle cose che si fanno, sullo spirito di comunità, sull’importanza delle persone. E senza persone consapevoli e responsabili non c’è impresa.

Lo spiega bene un altro filosofo d’azienda, Roger Steare, professore alla Cass Business School della City University di Londra: “Spesso si sostiene la tesi che profitto e filosofia siano incompatibili, ma è un grande equivoco. La difficoltà infatti non è tra filosofia e profitto, quanto tira la saggezza e il tentativo di raggiungere il profitto a breve termine. Quello che bisogna cercare di realizzare è un valore sostenibile e a lungo termine”. Un’efficace filosofia della buona economia e dell’impresa capace di pensieri lunghi e di solidi valori.

 

L’impresa familiare oltre la retorica

Un volume appena diffuso in Rete fornisce un quadro aggiornato del family business

L’impresa è una famiglia. Oltre la retorica, spesso accade ancora così. Con tutte le conseguenze del caso. Ma è anche vero che altrettanto spesso è una famiglia che crea l’impresa. Organizzazioni della produzione caratterizzate da connotati particolari, le imprese familiari sono da studiare attentamente e in continuazione. Non solo perché rappresentano una costante dell’economia e del sistema industriale italiani, ma anche perché cambiano in continuazione.

A questo studio contribuisce il libro “Le imprese familiari. Governance, internazionalizzazione e innovazione”, scritto a più mani e curato da Giorgia M. D’Allura con Rosario Faraci.

Il libro parte dalla constatazione della costante diffusione delle imprese familiari non solo in Italia ma nel mondo e spiega: “Il lavoro propone lo studio e l’approfondimento della specificità di questa forma d’impresa e delle sue traiettorie di crescita sul versante dell’internazionalizzazione e dell’innovazione, per conoscere meglio un fenomeno economicamente rilevante anche per le politiche nazionali e le azioni a supporto dello sviluppo del family business”. E’ l’impresa familiare non chiusa in confini limitati ma aperta al mondo, quella che D’Allura e Faraci raccontano, cioè davvero quell’organizzazione della produzione che in molti casi sostiene – magari senza apparire -, molte strutture economiche e produttive nazionali. Lo svolgimento di questa narrazione è quindi articolato prima di tutto in un inquadramento della definizione di impresa familiare e quindi dei suoi contorni e dei suoi tratti essenziali, si passa poi all’approfondimento delle modalità di gestione e controllo di queste strutture produttive per arrivare quindi alla descrizione dei percorsi di crescita, di internazionalizzazione e di innovazione.

Oltre a questa parte, e in più rispetto ad un caso aziendale, il libro contiene anche una serie di contribuiti che approfondiscono aspetti particolari (ma importanti) delle imprese familiari: le relazioni con il contesto istituzionale, il ruolo delle donne nelle strutture familiari di decisione e gestione, l’eterogeneità del cosiddetto family business, il contesto culturale nel quale le imprese familiari nascono e agiscono, l’uso e la diffusione della lingua inglese nelle imprese di questo tipo, il nodo complesso e spinoso del passaggio generazionale.

Il libro curato da D’Allura e Faraci è certamente utile e da leggere fino in fondo. Ed ha una caratteristica che va a merito anche dell’editore essendo diffuso in modalità open access.

Le imprese familiari. Governance, internazionalizzazione e innovazione

Giorgia M. D’Allura, Rosario Faraci

Franco Angeli Open Acces, 2018

(http://bit.ly/francoangeli-oa)

Un volume appena diffuso in Rete fornisce un quadro aggiornato del family business

L’impresa è una famiglia. Oltre la retorica, spesso accade ancora così. Con tutte le conseguenze del caso. Ma è anche vero che altrettanto spesso è una famiglia che crea l’impresa. Organizzazioni della produzione caratterizzate da connotati particolari, le imprese familiari sono da studiare attentamente e in continuazione. Non solo perché rappresentano una costante dell’economia e del sistema industriale italiani, ma anche perché cambiano in continuazione.

A questo studio contribuisce il libro “Le imprese familiari. Governance, internazionalizzazione e innovazione”, scritto a più mani e curato da Giorgia M. D’Allura con Rosario Faraci.

Il libro parte dalla constatazione della costante diffusione delle imprese familiari non solo in Italia ma nel mondo e spiega: “Il lavoro propone lo studio e l’approfondimento della specificità di questa forma d’impresa e delle sue traiettorie di crescita sul versante dell’internazionalizzazione e dell’innovazione, per conoscere meglio un fenomeno economicamente rilevante anche per le politiche nazionali e le azioni a supporto dello sviluppo del family business”. E’ l’impresa familiare non chiusa in confini limitati ma aperta al mondo, quella che D’Allura e Faraci raccontano, cioè davvero quell’organizzazione della produzione che in molti casi sostiene – magari senza apparire -, molte strutture economiche e produttive nazionali. Lo svolgimento di questa narrazione è quindi articolato prima di tutto in un inquadramento della definizione di impresa familiare e quindi dei suoi contorni e dei suoi tratti essenziali, si passa poi all’approfondimento delle modalità di gestione e controllo di queste strutture produttive per arrivare quindi alla descrizione dei percorsi di crescita, di internazionalizzazione e di innovazione.

Oltre a questa parte, e in più rispetto ad un caso aziendale, il libro contiene anche una serie di contribuiti che approfondiscono aspetti particolari (ma importanti) delle imprese familiari: le relazioni con il contesto istituzionale, il ruolo delle donne nelle strutture familiari di decisione e gestione, l’eterogeneità del cosiddetto family business, il contesto culturale nel quale le imprese familiari nascono e agiscono, l’uso e la diffusione della lingua inglese nelle imprese di questo tipo, il nodo complesso e spinoso del passaggio generazionale.

Il libro curato da D’Allura e Faraci è certamente utile e da leggere fino in fondo. Ed ha una caratteristica che va a merito anche dell’editore essendo diffuso in modalità open access.

Le imprese familiari. Governance, internazionalizzazione e innovazione

Giorgia M. D’Allura, Rosario Faraci

Franco Angeli Open Acces, 2018

(http://bit.ly/francoangeli-oa)

La cultura dell’investimento responsabile

Un lavoro di tesi dell’Università di Padova scatta la fotografia delle relazioni tra finanza sostenibile e impresa consapevole

Responsabilità sociale della finanza oltre che dell’impresa. Consapevolezza degli effetti degli investimenti. Sguardo che va oltre la chiusura dei bilanci contabili. Cultura d’impresa che si fa anche cultura dell’investimento consapevole. Temi importanti, intrecciati, complessi. Che vanno attentamente affrontati. Leggere “Impact investing: prospettive in Italia”, lavoro di tesi di Luca Vincenzo D’Addetta presso l’Università degli Studi di Padova, può essere un valido aiuto per capire meglio.

La ricerca fornisce un buon quadro della situazione della finanza responsabile e sostenibile partendo da una constatazione: “Il mondo della finanza è un mondo in costante evoluzione e ne è un esempio il fenomeno recentissimo delle criptovalute (…). Se inseriamo in questo contesto la recente crisi finanziaria e tutte le conseguenze che ci sono state sull’economia reale risulta evidente che la frattura tra quest’ultima e la finanza tradizionale è sempre più netta”.  Quindi che fare? Per D’Addetta  occorre “cambiare il modo di concepire la finanza” e come questa sostiene l’economia reale.

Impresa ovviamente di non poco conto e nella quale sono pienamente immerse anche le imprese. Ma che, per D’Addetta , passa dallo sviluppo sostenibile visto come strumento che “che crea valore duraturo nel tempo e non collassa su se stesso”. E’ qui che entra in gioco la finanza responsabile e quella cultura d’impresa che guarda da “vicino alle comunità locali e all’ambiente” con tutto il corredo di “obiettivi extra-finanziari come la tutela dell’ambiente, il rispetto dei diritti dei lavoratori, l’inclusione sociale delle persone più vulnerabili”.

D’Addetta quindi svolge il ragionamento iniziando ad inquadrare cosa siano gli investimenti sostenibili per poi passare alla analisi dell’impact investing e quindi alla sua collocazione nell’ambito del sistema industriale e finanziario italiano. Accanto alla Responsabilità sociale d’impresa, si delinea quindi un ruolo altrettanto importante degli Investimenti sostenibili e responsabili che completano l’attività delle organizzazioni della produzione e ne rendono più efficace l’azione.

Il lavoro di D’Addetta ha il merito di scrivere chiaro su un tema certamente complesso. E termina con una nota positiva: “Giorno dopo giorno – si legge infatti nelle conclusioni -, gli strumenti della finanza tradizionale vengono adattati a quella sostenibile per facilitarne la diffusione tra un bacino di investitori sempre più ampio; le rilevazioni tra gli stessi investitori supportano l’ipotesi di crescita con numeri più che promettenti. Il cambio generazionale, i rendimenti finanziari che si allineano a quelli dei settori classici contribuiscono non poco a questa espansione”. Una condizione della quale partecipa anche l’Italia, che pur sconta qualche ritardo.

Impact investing: prospettive in Italia

Luca Vincenzo D’Addetta

Università degli Studi di Padova, Dipartimento di scienze economiche e aziendali “Marco Fanno”,  Corso di laurea magistrale in economia internazionale, 2018.

Un lavoro di tesi dell’Università di Padova scatta la fotografia delle relazioni tra finanza sostenibile e impresa consapevole

Responsabilità sociale della finanza oltre che dell’impresa. Consapevolezza degli effetti degli investimenti. Sguardo che va oltre la chiusura dei bilanci contabili. Cultura d’impresa che si fa anche cultura dell’investimento consapevole. Temi importanti, intrecciati, complessi. Che vanno attentamente affrontati. Leggere “Impact investing: prospettive in Italia”, lavoro di tesi di Luca Vincenzo D’Addetta presso l’Università degli Studi di Padova, può essere un valido aiuto per capire meglio.

La ricerca fornisce un buon quadro della situazione della finanza responsabile e sostenibile partendo da una constatazione: “Il mondo della finanza è un mondo in costante evoluzione e ne è un esempio il fenomeno recentissimo delle criptovalute (…). Se inseriamo in questo contesto la recente crisi finanziaria e tutte le conseguenze che ci sono state sull’economia reale risulta evidente che la frattura tra quest’ultima e la finanza tradizionale è sempre più netta”.  Quindi che fare? Per D’Addetta  occorre “cambiare il modo di concepire la finanza” e come questa sostiene l’economia reale.

Impresa ovviamente di non poco conto e nella quale sono pienamente immerse anche le imprese. Ma che, per D’Addetta , passa dallo sviluppo sostenibile visto come strumento che “che crea valore duraturo nel tempo e non collassa su se stesso”. E’ qui che entra in gioco la finanza responsabile e quella cultura d’impresa che guarda da “vicino alle comunità locali e all’ambiente” con tutto il corredo di “obiettivi extra-finanziari come la tutela dell’ambiente, il rispetto dei diritti dei lavoratori, l’inclusione sociale delle persone più vulnerabili”.

D’Addetta quindi svolge il ragionamento iniziando ad inquadrare cosa siano gli investimenti sostenibili per poi passare alla analisi dell’impact investing e quindi alla sua collocazione nell’ambito del sistema industriale e finanziario italiano. Accanto alla Responsabilità sociale d’impresa, si delinea quindi un ruolo altrettanto importante degli Investimenti sostenibili e responsabili che completano l’attività delle organizzazioni della produzione e ne rendono più efficace l’azione.

Il lavoro di D’Addetta ha il merito di scrivere chiaro su un tema certamente complesso. E termina con una nota positiva: “Giorno dopo giorno – si legge infatti nelle conclusioni -, gli strumenti della finanza tradizionale vengono adattati a quella sostenibile per facilitarne la diffusione tra un bacino di investitori sempre più ampio; le rilevazioni tra gli stessi investitori supportano l’ipotesi di crescita con numeri più che promettenti. Il cambio generazionale, i rendimenti finanziari che si allineano a quelli dei settori classici contribuiscono non poco a questa espansione”. Una condizione della quale partecipa anche l’Italia, che pur sconta qualche ritardo.

Impact investing: prospettive in Italia

Luca Vincenzo D’Addetta

Università degli Studi di Padova, Dipartimento di scienze economiche e aziendali “Marco Fanno”,  Corso di laurea magistrale in economia internazionale, 2018.

Pagot, Gavioli, Manzi: quando il cartone animato è targato Pirelli

Nel corso della sua visita al XXXIII Salone dell’Auto di Torino, aprile 1951, il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi si sarà certamente soffermato ad ammirare le ultime novità dell’industria automobilistica italiana: modelli come la Lancia Aurelia Gran Turismo, pensata per dare filo da torcere alla Mille Miglia ad un’altra new entry dell’epoca come l’Alfa Romeo 1900 Coupé Touring. Poi si sarà fermato allo stand Pirelli, dove avrà potuto vedere in anteprima “Novità al Salone Internazionale dell’Auto di Torino”, divertente pellicola d’animazione in cui la vettura vincitrice di uno speciale “Gran Premio”si aggiudica l’ambito riconoscimento battendo modelli del tutto inediti come la MacPerson antiscontro, l’Alpestren Machine per scalare montagne o la Frou Frou per scintillanti soubrette. Tutto questo grazie ai pneumatici Pirelli Stelvio, sicuri in frenata e sul bagnato. “Novità al Salone Internazionale dell’Auto di Torino” è un film pubblicitario animato realizzato appositamente per Pirelli dalla casa di produzione Pagot Film sotto la direzione del suo fondatore Nino Pagot. In coppia con il fratello minore Toni, Nino Pagot nel 1951 è già un affermato fumettista, cresciuto alla scuola dei cosiddetti “Disney italiani”, nati nell’Anteguerra. I vivissimi anni Cinquanta spingono ora verso la forma espressiva del cartone animato cinematografico e Pirelli è tra le prime aziende a credere nel lavoro dei fratelli Pagot: “Novità al Salone dell’Auto” viene premiato al Secondo Congresso della Pubblicità di Genova e vince la Coppa del Presidente del Consiglio per il miglior film pubblicitario alla Seconda Mostra Internazionale della Cinematografia.

I quattro minuti del cartoon firmato Pagot hanno avuto peraltro la consulenza di Leonardo Sinisgalli, che a quel tempo è direttore della rivistaPirelli” assieme ad Arturo Tofanelli. E proprio sul numero 3 -giugno 1952- della rivista, nell’articolo “Considerazioni sul film pubblicitario” il critico cinematografico Vittorio Bonicelli porta “Novità al Salone dell’Auto” come esempio di “pubblicità diretta intelligente, quando il tema del prodotto da propagandare tesse tutto il film con buon gusto e con estro, attraverso un’arguta lezioncina sulla circolazione stradale”. I fratelli Pagot sarebbero poi passati al piccolo schermo di “Carosello” -la rubrica preserale di spot pubblicitari iniziata alla RAI nel 1957– contribuendo non poco a fare la storia dei cartoni animati italiani. Per questa rubrica, i Pagot si trovano a confronto  con un’altra grande coppia di creativi del momento: i fratelli Gino e Roberto Gavioli con la loro Gamma Film. E questa volta per Pirelli è il momento dei suoi caroselli più famosi, i cartoni animati di “Mammut, Babbut, Figliut”, famiglia di cavernicoli che pubblicizzano tanto il prodigioso prodotto Gommapiuma quanto i pneumatici Sempione e Cinturato. Le avventure strampalate dei tre cavernicoli diventano appuntamento fisso televisivo degli italiani tra il 1962 e il 1965: due minuti di guai a ripetizione  -accompagnati da grugniti in puro stile paleolitico- fino all’arrivo finale dell’omino che immancabilmente avverte che “non siamo più all’età della pietra!”, mentre il codino pubblicitario ci invita ad entrare nel moderno mondo della gomma. In occasione delle Olimpiadi di Tokio 1964, in particolare, papà Babbut si esibirà in una disastrosa serie di esilaranti performance sportive.

Intanto però, sempre nel 1962, la genialità dei Pagot ha prodotto un altro mezzo di espressione pubblicitario: le “diavive”: una serie di diapositive montate in sequenza a formare brevi film animati, parlati, sonorizzati e a colori. Le diavive sono destinate agli schermi cinematografici, durano 26 secondi e si chiudono con il nome del gommista che di volta in volta le sponsorizza. E soprattutto, i disegni delle “diavive” Pirelli portano la firma di un maestro del design pubblicitario come Riccardo Manzi.

Nel corso della sua visita al XXXIII Salone dell’Auto di Torino, aprile 1951, il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi si sarà certamente soffermato ad ammirare le ultime novità dell’industria automobilistica italiana: modelli come la Lancia Aurelia Gran Turismo, pensata per dare filo da torcere alla Mille Miglia ad un’altra new entry dell’epoca come l’Alfa Romeo 1900 Coupé Touring. Poi si sarà fermato allo stand Pirelli, dove avrà potuto vedere in anteprima “Novità al Salone Internazionale dell’Auto di Torino”, divertente pellicola d’animazione in cui la vettura vincitrice di uno speciale “Gran Premio”si aggiudica l’ambito riconoscimento battendo modelli del tutto inediti come la MacPerson antiscontro, l’Alpestren Machine per scalare montagne o la Frou Frou per scintillanti soubrette. Tutto questo grazie ai pneumatici Pirelli Stelvio, sicuri in frenata e sul bagnato. “Novità al Salone Internazionale dell’Auto di Torino” è un film pubblicitario animato realizzato appositamente per Pirelli dalla casa di produzione Pagot Film sotto la direzione del suo fondatore Nino Pagot. In coppia con il fratello minore Toni, Nino Pagot nel 1951 è già un affermato fumettista, cresciuto alla scuola dei cosiddetti “Disney italiani”, nati nell’Anteguerra. I vivissimi anni Cinquanta spingono ora verso la forma espressiva del cartone animato cinematografico e Pirelli è tra le prime aziende a credere nel lavoro dei fratelli Pagot: “Novità al Salone dell’Auto” viene premiato al Secondo Congresso della Pubblicità di Genova e vince la Coppa del Presidente del Consiglio per il miglior film pubblicitario alla Seconda Mostra Internazionale della Cinematografia.

I quattro minuti del cartoon firmato Pagot hanno avuto peraltro la consulenza di Leonardo Sinisgalli, che a quel tempo è direttore della rivistaPirelli” assieme ad Arturo Tofanelli. E proprio sul numero 3 -giugno 1952- della rivista, nell’articolo “Considerazioni sul film pubblicitario” il critico cinematografico Vittorio Bonicelli porta “Novità al Salone dell’Auto” come esempio di “pubblicità diretta intelligente, quando il tema del prodotto da propagandare tesse tutto il film con buon gusto e con estro, attraverso un’arguta lezioncina sulla circolazione stradale”. I fratelli Pagot sarebbero poi passati al piccolo schermo di “Carosello” -la rubrica preserale di spot pubblicitari iniziata alla RAI nel 1957– contribuendo non poco a fare la storia dei cartoni animati italiani. Per questa rubrica, i Pagot si trovano a confronto  con un’altra grande coppia di creativi del momento: i fratelli Gino e Roberto Gavioli con la loro Gamma Film. E questa volta per Pirelli è il momento dei suoi caroselli più famosi, i cartoni animati di “Mammut, Babbut, Figliut”, famiglia di cavernicoli che pubblicizzano tanto il prodigioso prodotto Gommapiuma quanto i pneumatici Sempione e Cinturato. Le avventure strampalate dei tre cavernicoli diventano appuntamento fisso televisivo degli italiani tra il 1962 e il 1965: due minuti di guai a ripetizione  -accompagnati da grugniti in puro stile paleolitico- fino all’arrivo finale dell’omino che immancabilmente avverte che “non siamo più all’età della pietra!”, mentre il codino pubblicitario ci invita ad entrare nel moderno mondo della gomma. In occasione delle Olimpiadi di Tokio 1964, in particolare, papà Babbut si esibirà in una disastrosa serie di esilaranti performance sportive.

Intanto però, sempre nel 1962, la genialità dei Pagot ha prodotto un altro mezzo di espressione pubblicitario: le “diavive”: una serie di diapositive montate in sequenza a formare brevi film animati, parlati, sonorizzati e a colori. Le diavive sono destinate agli schermi cinematografici, durano 26 secondi e si chiudono con il nome del gommista che di volta in volta le sponsorizza. E soprattutto, i disegni delle “diavive” Pirelli portano la firma di un maestro del design pubblicitario come Riccardo Manzi.

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Mappe adeguate per nuovi viaggi

Un Atlante come strumento di esplorazione di percorsi innovativi fra impresa e lavoro

 

Avere mappe sicure e affidabili è uno dei principi di base di ogni buon viaggio. Lo è anche per le imprese. All’azienda che diventa impresa e che s’avventura in un sistema complesso e globale, veloce e multiforme come quello nel quale oggi si muovono le organizzazioni della produzione, l’avere a disposizione buone guide può cambiare destino e orizzonte di crescita. E servono anche mappe per il lavoro. Che funzionino da orientamento per tutti.

“Atlante lavoro. Un modello a supporto delle politiche  dell’occupazione e dell’apprendimento permanente”  è una buona lettura per capire di più sui principi e i metodi utilizzati per l’elaborazione del modello di Atlante del lavoro elaborato dall’Inapp, cioè  dall’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche che svolge l’analisi, il monitoraggio e la valutazione delle politiche del lavoro e dei servizi per il lavoro, delle politiche dell’istruzione e della formazione, delle politiche sociali e di tutte quelle politiche pubbliche che hanno effetti sul mercato del lavoro.  La ricerca scritta da Riccardo Mazzarella, Francesco Mallardi e da Rita Porcelli è una lettura importante perché l’Atlante Inapp è una delle mappe più diffuse e utilizzate anche in ambito istituzionale per sistematizzare e chiarire la situazione del mercato del lavoro in Italia, le sue condizioni e le sue prospettive. Spiegano gli autori che l’Atlante “è un modello di rappresentazione universale dei contenuti del lavoro basato sulla descrizione delle attività comunemente svolte nei contesti lavorativi”. Atlante come mappa di base, dunque, il cui modello originario è stato in seguito integrato con l’obiettivo di raccogliere informazioni provenienti dal mondo della formazione e di aiutare le politiche nel campo dell’apprendimento permanente oltre che le politiche attive del lavoro.

Gli autori quindi descrivono come è stato costruito l’Atlante e come deve essere adoperato (l’Atlante completo è fra l’altro disponibile sul sito http://atlantelavoro.inapp.org/), ma soprattutto nella parte finale della ricerca illustrano le possibili funzioni d’uso dell’Atlante come modello per la ricerca e strumento tecnico nelle prassi e nei servizi del sistema lavoro-formazione e soprattutto dell’apprendimento permanente.

Da mappa usata come semplice guida per non sbagliare strada, l’Atlante del lavoro diventa così strumento per costruire e percorrere strade diverse dalle consueto. Un altro tassello per una cultura d’impresa sempre più completa e importante.

Atlante lavoro Un modello a supporto delle politiche  dell’occupazione e dell’apprendimento permanente

Riccardo Mazzarella, Francesco Mallardi, Rita Porcelli

SINAPPSI – Connessioni tra ricerca e politiche pubbliche | Anno VII | N° 2-3/2017 | Rivista quadrimestrale dell’Inapp

Un Atlante come strumento di esplorazione di percorsi innovativi fra impresa e lavoro

 

Avere mappe sicure e affidabili è uno dei principi di base di ogni buon viaggio. Lo è anche per le imprese. All’azienda che diventa impresa e che s’avventura in un sistema complesso e globale, veloce e multiforme come quello nel quale oggi si muovono le organizzazioni della produzione, l’avere a disposizione buone guide può cambiare destino e orizzonte di crescita. E servono anche mappe per il lavoro. Che funzionino da orientamento per tutti.

“Atlante lavoro. Un modello a supporto delle politiche  dell’occupazione e dell’apprendimento permanente”  è una buona lettura per capire di più sui principi e i metodi utilizzati per l’elaborazione del modello di Atlante del lavoro elaborato dall’Inapp, cioè  dall’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche che svolge l’analisi, il monitoraggio e la valutazione delle politiche del lavoro e dei servizi per il lavoro, delle politiche dell’istruzione e della formazione, delle politiche sociali e di tutte quelle politiche pubbliche che hanno effetti sul mercato del lavoro.  La ricerca scritta da Riccardo Mazzarella, Francesco Mallardi e da Rita Porcelli è una lettura importante perché l’Atlante Inapp è una delle mappe più diffuse e utilizzate anche in ambito istituzionale per sistematizzare e chiarire la situazione del mercato del lavoro in Italia, le sue condizioni e le sue prospettive. Spiegano gli autori che l’Atlante “è un modello di rappresentazione universale dei contenuti del lavoro basato sulla descrizione delle attività comunemente svolte nei contesti lavorativi”. Atlante come mappa di base, dunque, il cui modello originario è stato in seguito integrato con l’obiettivo di raccogliere informazioni provenienti dal mondo della formazione e di aiutare le politiche nel campo dell’apprendimento permanente oltre che le politiche attive del lavoro.

Gli autori quindi descrivono come è stato costruito l’Atlante e come deve essere adoperato (l’Atlante completo è fra l’altro disponibile sul sito http://atlantelavoro.inapp.org/), ma soprattutto nella parte finale della ricerca illustrano le possibili funzioni d’uso dell’Atlante come modello per la ricerca e strumento tecnico nelle prassi e nei servizi del sistema lavoro-formazione e soprattutto dell’apprendimento permanente.

Da mappa usata come semplice guida per non sbagliare strada, l’Atlante del lavoro diventa così strumento per costruire e percorrere strade diverse dalle consueto. Un altro tassello per una cultura d’impresa sempre più completa e importante.

Atlante lavoro Un modello a supporto delle politiche  dell’occupazione e dell’apprendimento permanente

Riccardo Mazzarella, Francesco Mallardi, Rita Porcelli

SINAPPSI – Connessioni tra ricerca e politiche pubbliche | Anno VII | N° 2-3/2017 | Rivista quadrimestrale dell’Inapp

Buona cultura d’azienda

Un classico da leggere e rileggere per capire meglio il fondamento multiculturale delle organizzazioni della produzione

 

Comprendere la cultura d’impresa è in apparenza cosa facile e immediata. In realtà definire con precisione concetto e pratica della cultura delle organizzazioni della produzione, è cosa tutt’altro che scontata. Anche perché quello della cultura d’impresa è un concetto che si fa nella pratica, difficile da sistematizzare e che cambia a seconda di chi lo vive oltre che in base alle singole strutture produttive. La riedizione aggiornata di “Cultura d’azienda e leadership” di Edgar H. Schein è allora un buon “ripasso” degli elementi costitutivi della cultura d’impresa, oltre che essere sempre un lettura da fare per tutti quelli che vogliano iniziare per davvero a fare ordine in questo ambito dell’attività aziendale.

Al centro delle riflessioni di Schien sono, da un lato, l’interazione fra sottoculture e controculture organizzative e, dall’altro, l’interazione di queste con la cultura organizzativa che le contiene, Ma cos’è la cultura organizzativa? Per Schein questa è da intendersi come un insieme coerente di assunti fondamentali che un certo management ha creato, sviluppato e promosso per affrontare i problemi di adattamento esterno e di integrazione interna. Schein inoltre precisa che il cambiamento culturale e organizzativo è una delle sfide più complesse per il management.  Soprattutto oggi, nell’ambito di contesti produttivi e lavorativi in rapido mutamento e multietnici.

Il libro quindi inizia dalla definizione generale di cultura, per passare poi subito ad una serie di esempi per spiegarne l’applicazione nell’ambito delle imprese e delle organizzazioni della produzione oltre che per quanto riguarda la crescita dell’apprendimento. Scorrono così nelle pagine di Schein i casi di Ciba-Geigy Company, di Apple, di Saab Combitech ma anche di Ibm e di Hewlett e Packard. Particolare attenzione viene poi posta sulla gestione delle culture multietniche all’interno delle imprese. Così come sulle possibili soluzioni ai problemi posti dal lavoro con macroculture con cui hanno a che fare le imprese che si sviluppano a livello globale.

Il libro di Edgar Schein condensa in poco più di 300 pagine una mole importante di informazioni e idee che deve essere assorbita con attenzione da parte di imprenditori e manager  a più livelli, ma che può far bene a molte imprese in Italia.

Cultura d’azienda e leadership

Edgar H. Schein

Raffaello Cortina Editore, 2018

Un classico da leggere e rileggere per capire meglio il fondamento multiculturale delle organizzazioni della produzione

 

Comprendere la cultura d’impresa è in apparenza cosa facile e immediata. In realtà definire con precisione concetto e pratica della cultura delle organizzazioni della produzione, è cosa tutt’altro che scontata. Anche perché quello della cultura d’impresa è un concetto che si fa nella pratica, difficile da sistematizzare e che cambia a seconda di chi lo vive oltre che in base alle singole strutture produttive. La riedizione aggiornata di “Cultura d’azienda e leadership” di Edgar H. Schein è allora un buon “ripasso” degli elementi costitutivi della cultura d’impresa, oltre che essere sempre un lettura da fare per tutti quelli che vogliano iniziare per davvero a fare ordine in questo ambito dell’attività aziendale.

Al centro delle riflessioni di Schien sono, da un lato, l’interazione fra sottoculture e controculture organizzative e, dall’altro, l’interazione di queste con la cultura organizzativa che le contiene, Ma cos’è la cultura organizzativa? Per Schein questa è da intendersi come un insieme coerente di assunti fondamentali che un certo management ha creato, sviluppato e promosso per affrontare i problemi di adattamento esterno e di integrazione interna. Schein inoltre precisa che il cambiamento culturale e organizzativo è una delle sfide più complesse per il management.  Soprattutto oggi, nell’ambito di contesti produttivi e lavorativi in rapido mutamento e multietnici.

Il libro quindi inizia dalla definizione generale di cultura, per passare poi subito ad una serie di esempi per spiegarne l’applicazione nell’ambito delle imprese e delle organizzazioni della produzione oltre che per quanto riguarda la crescita dell’apprendimento. Scorrono così nelle pagine di Schein i casi di Ciba-Geigy Company, di Apple, di Saab Combitech ma anche di Ibm e di Hewlett e Packard. Particolare attenzione viene poi posta sulla gestione delle culture multietniche all’interno delle imprese. Così come sulle possibili soluzioni ai problemi posti dal lavoro con macroculture con cui hanno a che fare le imprese che si sviluppano a livello globale.

Il libro di Edgar Schein condensa in poco più di 300 pagine una mole importante di informazioni e idee che deve essere assorbita con attenzione da parte di imprenditori e manager  a più livelli, ma che può far bene a molte imprese in Italia.

Cultura d’azienda e leadership

Edgar H. Schein

Raffaello Cortina Editore, 2018

Le sfide della Regione A4 e la questione del Nord: senza politica né buon governo addio sviluppo

La geografia economica, oltre i confini della tradizione, ha un nuovo protagonista: la Regione A4. Quel territorio vasto, tutt’attorno all’autostrada (da qui il nome, una creazione di Dario Di Vico, acuta e intelligente “firma” del Corriere della Sera), che si snoda dal Piemonte al Friuli, ha come baricentro la Milano metropoli di conoscenza e servizi innovativi, incrocia la via Emilia della manifattura automotive e meccatronica e continua verso l’Est della Mitteleuropa e, poi, via via, verso i paesi dell’Oriente. E’ l’area economica più dinamica d’Italia, con caratteristiche e dimensioni pienamente europee, analoghi livelli di produttività e ricchezza, robusta capacità di innovazione. Un’innovazione, peraltro, basata sull’economia reale, sulla nuova manifattura medium tech e hi tech, fortemente innervata di servizi d’avanguardia e ben connessa lungo i grandi assi di comunicazione tra Ovest ed Est e Nord e Sud.

La “Regione A4” come regione d’Europa, dunque, scavalcando le indicazioni della geografia amministrativa, che distingue Piemonte e Lombardia, Emilia e Veneto, sino al Friuli. E trovando semmai consistenti elementi unificanti, pur attraverso territori ricchi di diversità e complessità (e con una dimensione politica che vede adesso una forte dominanza locale della Lega e del centro destra, eccezion fatta per Torino “grillina” e le Regioni Piemonte ed Emilia e il comune di Milano del centro-sinistra).

E’ il territorio dei distretti industriali più innovativi, che si stanno trasformando in meta-distretti e “filiere lunghe” seguendo i flussi della ricomposizione produttiva e delle supply chain secondo le strategie delle imprese grandi e medio-grandi presenti in Italia e aperte al mondo (Fca con Ferrari e Maserati, Techint, Pirelli, Siemens, Prysmian, Bayer, Audi con Ducati, General Electric, la Ima dei Vacchi e la Coesia dei Seragnoli, le chimiche di qualità come Mapei di Squinzi e le farmaceutiche d’eccellenza, Bracco e Dompè, Marchesini e Zambon, ma anche i gruppi con impronta pubblica, le Ferrovie e Fincantieri, Leonardo e le Poste e i colossi delle costruzioni come Salini-Impregilo e Maire Technimont, che portano nei grandi lavori pubblici internazionali competenze e saper fare italiano). E’ l’area europea in cui, proprio qui con particolare originalità, le tradizioni industriali ex fordiste si sono più trasformate, ibridandosi con le nuove dimensioni digital che costruiscono inedite relazioni tra produzioni della neo-fabbrica, logistica, ricerca, servizi e in cui i livelli elevati di competitività fanno i conti con le dimensioni necessarie della sostenibilità e dell’inclusione economica e sociale.

Nel rapporto tra luoghi in cambiamento e flussi continui tra territori e mondo, si sperimentano anche originali relazioni industriali, che trovano concretezza nei contratti di lavoro (metalmeccanici, chimici) a livello nazionale ma soprattutto aziendale e territoriale, legando salari a welfare, produttività a formazione, redditi a qualità della vita e del lavoro.

C’è insomma tutto in mondo in cambiamento, nella Regione A4. Lo documenta pure l’ultimo Rapporto Cerved-Confindustria (Il Sole24Ore, 5 maggio) sulle Pmi, le piccole e medie imprese, fotografando la ripresa di investimenti e fatturati soprattutto nelle aree del Centro-Nord: non si sono ancora recuperati i livelli precedenti alla Grande Crisi, ma il dinamismo è particolarmente accentuato sia nel Nord Ovest (con nascite record di nuove aziende) che nel Nord Est. Con una indicazione essenziale che viene dall’Emilia, in termini di rapporto tra competitività e coesione sociale: Pietro Ferrari, presidente di Confindustria Emilia-Romagna, ricorda il “Patto per il lavoro” firmato tra imprese e sindacati nell’estate 2015 per arrivare a una “piena e buona occupazione” entro il 2020 e nota che “non esistono imprese forti in territori che non sono forti e viceversa”. Così come da Assolombarda viene un’altra indicazione interessante, quella sulla “fabbrica bella” e cioè ben progettata, sicura, trasparente, sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale e in cui la ricerca di sicurezza e qualità del lavoro si lega strettamente con produttività e competitività.

Ha un’altra ambizione, questo Nord dinamico: fare da stimolo, da locomotiva per il resto del Paese, più lento e incerto nel crescere.

Lo ha spiegato bene Carlo Bonomi, in un’intervista, pochi giorni fa: “L’Italia ha bisogno di Milano quanto Milano ha bisogno dell’Italia. Egoisticamente, qui andiamo bene. Però ho paura dell’effetto elastico. Questa Milano che corre, che è nel mondo, non può continuare a farlo allargando la distanza dal resto dell’Italia. Non possiamo permetterci un Paese a due velocità o anche Milano finirà per essere tirata indietro. Siamo legati al Paese per la politica, la finanza pubblica, la burocrazia, la capacità di attrarre investimenti. Finora abbiamo retto sull’export e l’internazionalizzazione, ma la domanda interna è ferma da dieci anni. Va fatta ripartire” (Corriere della Sera, 5 maggio).

La sfida, dunque, è tutta politica, di prospettive. E’ proprio questa, la dimensione della cosiddetta “questione del Nord”. Come questione nazionale, non come rivendicazione territoriale.

Questo Nord chiede, adesso, proprio per continuare a reggere le sfide economiche internazionali che investono le sue imprese, atti concreti di buon governo, nel segno dello sviluppo sostenibile e delle prospettive europee. Guarda con preoccupazione al vuoto politico che sembra investire il Paese, all’inconcludenza delle trattative politiche, alla scarsa concretezza delle misure promesse a un’opinione pubblica disorientata.

In tempi in cui la Ue discute il suo bilancio e si definiscono le politiche pubbliche europee, l’assenza d’un governo italiano autorevole e lungimirante pesa.

Le Regioni del Nord, anche se su traiettorie diverse, dal Veneto alla Lombardia, dall’Emilia al Piemonte, avevano avviato un confronto, con il governo centrale, sui temi dell’autonomia, per cercare maggiori equilibri e migliore efficienza fiscale e amministrativa. Ci sono rischi, di parcellizzazione delle misure, ma anche opportunità, nel legame più stretto tra territori e governo locale. Ma anche quel percorso è bloccato. Farlo ripartire è urgente.

Il guaio è che a livello nazionale poco si discute di economia e molto, troppo, di alleanze oblique e nuove elezioni. Le imprese migliori, più internazionalizzate, più competitive sui mercati internazionali, possono continuare ad andare avanti, anche se un po’ zoppe, anche in assenza di governo. Ma tutto il resto del mondo dell’economia no. E il pericolo è che la fragile ripresa in corso rallenti o si blocchi. Con gravi conseguenze sul lavoro, sui redditi, sulle prospettive di futuro. Chi si muove nel mondo dell’economia lo sa bene. Manca altrettanta consapevolezza politica.

La geografia economica, oltre i confini della tradizione, ha un nuovo protagonista: la Regione A4. Quel territorio vasto, tutt’attorno all’autostrada (da qui il nome, una creazione di Dario Di Vico, acuta e intelligente “firma” del Corriere della Sera), che si snoda dal Piemonte al Friuli, ha come baricentro la Milano metropoli di conoscenza e servizi innovativi, incrocia la via Emilia della manifattura automotive e meccatronica e continua verso l’Est della Mitteleuropa e, poi, via via, verso i paesi dell’Oriente. E’ l’area economica più dinamica d’Italia, con caratteristiche e dimensioni pienamente europee, analoghi livelli di produttività e ricchezza, robusta capacità di innovazione. Un’innovazione, peraltro, basata sull’economia reale, sulla nuova manifattura medium tech e hi tech, fortemente innervata di servizi d’avanguardia e ben connessa lungo i grandi assi di comunicazione tra Ovest ed Est e Nord e Sud.

La “Regione A4” come regione d’Europa, dunque, scavalcando le indicazioni della geografia amministrativa, che distingue Piemonte e Lombardia, Emilia e Veneto, sino al Friuli. E trovando semmai consistenti elementi unificanti, pur attraverso territori ricchi di diversità e complessità (e con una dimensione politica che vede adesso una forte dominanza locale della Lega e del centro destra, eccezion fatta per Torino “grillina” e le Regioni Piemonte ed Emilia e il comune di Milano del centro-sinistra).

E’ il territorio dei distretti industriali più innovativi, che si stanno trasformando in meta-distretti e “filiere lunghe” seguendo i flussi della ricomposizione produttiva e delle supply chain secondo le strategie delle imprese grandi e medio-grandi presenti in Italia e aperte al mondo (Fca con Ferrari e Maserati, Techint, Pirelli, Siemens, Prysmian, Bayer, Audi con Ducati, General Electric, la Ima dei Vacchi e la Coesia dei Seragnoli, le chimiche di qualità come Mapei di Squinzi e le farmaceutiche d’eccellenza, Bracco e Dompè, Marchesini e Zambon, ma anche i gruppi con impronta pubblica, le Ferrovie e Fincantieri, Leonardo e le Poste e i colossi delle costruzioni come Salini-Impregilo e Maire Technimont, che portano nei grandi lavori pubblici internazionali competenze e saper fare italiano). E’ l’area europea in cui, proprio qui con particolare originalità, le tradizioni industriali ex fordiste si sono più trasformate, ibridandosi con le nuove dimensioni digital che costruiscono inedite relazioni tra produzioni della neo-fabbrica, logistica, ricerca, servizi e in cui i livelli elevati di competitività fanno i conti con le dimensioni necessarie della sostenibilità e dell’inclusione economica e sociale.

Nel rapporto tra luoghi in cambiamento e flussi continui tra territori e mondo, si sperimentano anche originali relazioni industriali, che trovano concretezza nei contratti di lavoro (metalmeccanici, chimici) a livello nazionale ma soprattutto aziendale e territoriale, legando salari a welfare, produttività a formazione, redditi a qualità della vita e del lavoro.

C’è insomma tutto in mondo in cambiamento, nella Regione A4. Lo documenta pure l’ultimo Rapporto Cerved-Confindustria (Il Sole24Ore, 5 maggio) sulle Pmi, le piccole e medie imprese, fotografando la ripresa di investimenti e fatturati soprattutto nelle aree del Centro-Nord: non si sono ancora recuperati i livelli precedenti alla Grande Crisi, ma il dinamismo è particolarmente accentuato sia nel Nord Ovest (con nascite record di nuove aziende) che nel Nord Est. Con una indicazione essenziale che viene dall’Emilia, in termini di rapporto tra competitività e coesione sociale: Pietro Ferrari, presidente di Confindustria Emilia-Romagna, ricorda il “Patto per il lavoro” firmato tra imprese e sindacati nell’estate 2015 per arrivare a una “piena e buona occupazione” entro il 2020 e nota che “non esistono imprese forti in territori che non sono forti e viceversa”. Così come da Assolombarda viene un’altra indicazione interessante, quella sulla “fabbrica bella” e cioè ben progettata, sicura, trasparente, sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale e in cui la ricerca di sicurezza e qualità del lavoro si lega strettamente con produttività e competitività.

Ha un’altra ambizione, questo Nord dinamico: fare da stimolo, da locomotiva per il resto del Paese, più lento e incerto nel crescere.

Lo ha spiegato bene Carlo Bonomi, in un’intervista, pochi giorni fa: “L’Italia ha bisogno di Milano quanto Milano ha bisogno dell’Italia. Egoisticamente, qui andiamo bene. Però ho paura dell’effetto elastico. Questa Milano che corre, che è nel mondo, non può continuare a farlo allargando la distanza dal resto dell’Italia. Non possiamo permetterci un Paese a due velocità o anche Milano finirà per essere tirata indietro. Siamo legati al Paese per la politica, la finanza pubblica, la burocrazia, la capacità di attrarre investimenti. Finora abbiamo retto sull’export e l’internazionalizzazione, ma la domanda interna è ferma da dieci anni. Va fatta ripartire” (Corriere della Sera, 5 maggio).

La sfida, dunque, è tutta politica, di prospettive. E’ proprio questa, la dimensione della cosiddetta “questione del Nord”. Come questione nazionale, non come rivendicazione territoriale.

Questo Nord chiede, adesso, proprio per continuare a reggere le sfide economiche internazionali che investono le sue imprese, atti concreti di buon governo, nel segno dello sviluppo sostenibile e delle prospettive europee. Guarda con preoccupazione al vuoto politico che sembra investire il Paese, all’inconcludenza delle trattative politiche, alla scarsa concretezza delle misure promesse a un’opinione pubblica disorientata.

In tempi in cui la Ue discute il suo bilancio e si definiscono le politiche pubbliche europee, l’assenza d’un governo italiano autorevole e lungimirante pesa.

Le Regioni del Nord, anche se su traiettorie diverse, dal Veneto alla Lombardia, dall’Emilia al Piemonte, avevano avviato un confronto, con il governo centrale, sui temi dell’autonomia, per cercare maggiori equilibri e migliore efficienza fiscale e amministrativa. Ci sono rischi, di parcellizzazione delle misure, ma anche opportunità, nel legame più stretto tra territori e governo locale. Ma anche quel percorso è bloccato. Farlo ripartire è urgente.

Il guaio è che a livello nazionale poco si discute di economia e molto, troppo, di alleanze oblique e nuove elezioni. Le imprese migliori, più internazionalizzate, più competitive sui mercati internazionali, possono continuare ad andare avanti, anche se un po’ zoppe, anche in assenza di governo. Ma tutto il resto del mondo dell’economia no. E il pericolo è che la fragile ripresa in corso rallenti o si blocchi. Con gravi conseguenze sul lavoro, sui redditi, sulle prospettive di futuro. Chi si muove nel mondo dell’economia lo sa bene. Manca altrettanta consapevolezza politica.

Pirelli – Rouleur Magazine

Stelle in copertina. Grandi attrici per la rivista “Vado e Torno”

Nel 1962, da un’intuizione di Arrigo Castellani -direttore Stampa e Pubblicità Pirelli- nasce “Vado e Torno”, periodico rivolto al mondo degli autotrasportatori: oltre a temi legati al settore specifico, il giornale propone articoli di varia attualità, costume, spettacolo. E le copertine sono dedicate alle dive del cinema del momento.

E’ una ventiquattrenne Claudia Cardinale ad apparire sul numero di dicembre 1962: reduce da “La ragazza con la valigia”, film che l’ha confermata una volta di più come stella del cinema italiano dopo “I soliti ignoti”, “Il bell’Antonio”, “Rocco e i suoi fratelli”, la Cardinale veste per “Vado e Torno” i panni di Angelica, splendida protagonista del “Gattopardo” di Luchino Visconti. Copertina di aprile 1963: Monica Vitti è ormai l’icona femminile del cinema di Michelangelo Antonioni. Dopo “L’avventura”, “La notte” e “L’eclisse” sta per arrivare nelle sale il capolavoro “Deserto rosso”. Ottobre dello stesso anno 1963: ha solo diciassette anni Stefania Sandrelli, ma il pubblico già ben conosce il fascino dirompente con cui l’attrice di Viareggio ha saputo interpretare il personaggio di Angela in “Divorzio all’italiana”. L’abito, i capelli raccolti, il trucco nero degli occhi per la copertina di “Vado e Torno” ci portano invece ad Agnese, donna “sedotta e abbandonata” dal giovane Peppino Califano che la Sandrelli interpreta nel celebre film di Pietro Germi. E poi arriva Sofia Loren, anzi Sophia come si legge sulla cover di “Vado e Torno” del mese di dicembre 1966. Esce in quei giorni nelle sale cinematografiche “Ieri, oggi, domani” di Vittorio De Sica. Tre episodi, tre Loren diverse, tre diversi Mastroianni.

Hollywood sbarca sulla “Rivista per gli autotrasportatori” nell’aprile del 1964, e si affida al fascino inimitabile di Jane Fonda. Newyorkese di ventisette anni, la figlia del grande Henry forse non è ancora una diva del cinema, ma già conosce il regista Roger Vadim, che sposerà l’anno successivo: quando nel 1968 lui la trasformerà in Barbarella, per Jane Fonda sarà la consacrazione internazionale. La copertina di maggio 1964 è dedicata a Brigitte Bardot, la “première dame” di Francia, ruolo però da dividere presto con la diva di “Vado e Torno” di luglio 1964: Catherine Deneuve. Ha appena vinto il Grand Prix di Cannes per “Les parapluies de Cherbourg” e pochi anni dopo, nel 1967, diventerà per Buñuel l’inconfessabile Séverine di “Bella di giorno”. Tra settembre 1965 e aprile 1966 i lettori italiani possono apprezzare Ursula Andress, già famosa per il suo outfit in “007 Licenza di uccidere”: la scena in cui la splendida attrice svizzera emerge dalle acque giamaicane di Crab Key è già nella storia del cinema. L’ultima diva a terminare la serie delle attrici in copertina di “Vado e Torno”, gennaio 1972- è Pamela Tiffin, da Oklahoma City, nota -non notissima- in Italia per “Straziami ma di baci saziami” di Dino Risi, accanto a Nino Manfredi.

Chiudiamo questa antologia con un’attrice dalla biografia misteriosa: si chiama Liz Allsop e appare sulla copertina di luglio 1966 con un vestito bianco su cui è disegnato il tracciato dell’Autostrada del Sole, da Milano a Napoli. Lei è la bionda al volante della Jaguar protagonista del film “La lepre e la tartaruga”, road movie del regista di “Momenti di gloria” Hugh Hudson, prodotto dalla Pirelli inglese per celebrare il pneumatico Cinturato. Un’altra storia, un altro piccolo capolavoro.

Nel 1962, da un’intuizione di Arrigo Castellani -direttore Stampa e Pubblicità Pirelli- nasce “Vado e Torno”, periodico rivolto al mondo degli autotrasportatori: oltre a temi legati al settore specifico, il giornale propone articoli di varia attualità, costume, spettacolo. E le copertine sono dedicate alle dive del cinema del momento.

E’ una ventiquattrenne Claudia Cardinale ad apparire sul numero di dicembre 1962: reduce da “La ragazza con la valigia”, film che l’ha confermata una volta di più come stella del cinema italiano dopo “I soliti ignoti”, “Il bell’Antonio”, “Rocco e i suoi fratelli”, la Cardinale veste per “Vado e Torno” i panni di Angelica, splendida protagonista del “Gattopardo” di Luchino Visconti. Copertina di aprile 1963: Monica Vitti è ormai l’icona femminile del cinema di Michelangelo Antonioni. Dopo “L’avventura”, “La notte” e “L’eclisse” sta per arrivare nelle sale il capolavoro “Deserto rosso”. Ottobre dello stesso anno 1963: ha solo diciassette anni Stefania Sandrelli, ma il pubblico già ben conosce il fascino dirompente con cui l’attrice di Viareggio ha saputo interpretare il personaggio di Angela in “Divorzio all’italiana”. L’abito, i capelli raccolti, il trucco nero degli occhi per la copertina di “Vado e Torno” ci portano invece ad Agnese, donna “sedotta e abbandonata” dal giovane Peppino Califano che la Sandrelli interpreta nel celebre film di Pietro Germi. E poi arriva Sofia Loren, anzi Sophia come si legge sulla cover di “Vado e Torno” del mese di dicembre 1966. Esce in quei giorni nelle sale cinematografiche “Ieri, oggi, domani” di Vittorio De Sica. Tre episodi, tre Loren diverse, tre diversi Mastroianni.

Hollywood sbarca sulla “Rivista per gli autotrasportatori” nell’aprile del 1964, e si affida al fascino inimitabile di Jane Fonda. Newyorkese di ventisette anni, la figlia del grande Henry forse non è ancora una diva del cinema, ma già conosce il regista Roger Vadim, che sposerà l’anno successivo: quando nel 1968 lui la trasformerà in Barbarella, per Jane Fonda sarà la consacrazione internazionale. La copertina di maggio 1964 è dedicata a Brigitte Bardot, la “première dame” di Francia, ruolo però da dividere presto con la diva di “Vado e Torno” di luglio 1964: Catherine Deneuve. Ha appena vinto il Grand Prix di Cannes per “Les parapluies de Cherbourg” e pochi anni dopo, nel 1967, diventerà per Buñuel l’inconfessabile Séverine di “Bella di giorno”. Tra settembre 1965 e aprile 1966 i lettori italiani possono apprezzare Ursula Andress, già famosa per il suo outfit in “007 Licenza di uccidere”: la scena in cui la splendida attrice svizzera emerge dalle acque giamaicane di Crab Key è già nella storia del cinema. L’ultima diva a terminare la serie delle attrici in copertina di “Vado e Torno”, gennaio 1972- è Pamela Tiffin, da Oklahoma City, nota -non notissima- in Italia per “Straziami ma di baci saziami” di Dino Risi, accanto a Nino Manfredi.

Chiudiamo questa antologia con un’attrice dalla biografia misteriosa: si chiama Liz Allsop e appare sulla copertina di luglio 1966 con un vestito bianco su cui è disegnato il tracciato dell’Autostrada del Sole, da Milano a Napoli. Lei è la bionda al volante della Jaguar protagonista del film “La lepre e la tartaruga”, road movie del regista di “Momenti di gloria” Hugh Hudson, prodotto dalla Pirelli inglese per celebrare il pneumatico Cinturato. Un’altra storia, un altro piccolo capolavoro.

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Formare la buona cultura d’impresa

Raccolte in un libro le riflessioni e le indicazioni che emergono dal confronto fra sistema della scuola e sistema dell’impresa

Giovani ma preparati. Imprenditori e manager, e poi quadri e collaboratori. Tutti. Al tempo dell’economia veloce e della digitalizzazione della produzione, ma anche del ritorno all’impegno sociale e sul territorio delle imprese e delle istituzioni, non basta l’entusiasmo (quando c’è), ma occorrono anche preparazione e consapevolezza di quello che si fa. A tutti i livelli. Anche nel sistema delle imprese. Questione anche di programmi formativi. Per questo leggere “Una testa pensante è meglio di una testa piena. Una ricerca sul ruolo della scuola nella formazione dei top manager” di Giuseppe Monteduro, può essere cosa utile per molti.

L’idea di base dalla quale inizia il libro è ampia: per rilanciare lo sviluppo del Paese l’Italia ha bisogno che i propri giovani migliori siano capaci di inventare nuove imprese o di inserirsi in imprese già esistenti e di portarle al successo o migliorarne le prestazioni.

Le parti in causa sono due: da un lato il sistema della scuola e della formazione, dall’altro quello delle imprese. In mezzo l’obiettivo: formare una buona cultura d’impresa. Monteduro ha quindi chiesto direttamente ai top manager italiani quale sia, sulla base della loro esperienza, la formazione migliore e quali capacità (skills) debba far “fiorire”.

Il libro ha una struttura chiara. Si parte dall’individuazione di cosa sia un’azienda (non dal punto di vista organizzativo ma sociologico e quindi umano), per poi passare subito alla definizione della figura del manager e quindi all’esame dell’approccio scolastico (con il dibattito fra formazione umanistica e necessità aziendali). Si arriva così al confronto fra opinioni dei manager  e quelle dei formatori.

Il libro di Monteduro è da leggere con attenzione partendo da una delle sue considerazioni iniziali: “La possibilità di essere manager, ossia di assumere posizioni apicali all’interno di un’azienda, quali quella di amministratore delegato di grande fama e con l’opportunità di accedere a consistenti retribuzioni, non è l’esito meccanico di una scelta formativa piuttosto che di un’altra”. Insomma, si cresce in azienda come nella vita, in quanto persone e non macchine. Esattamente come indica in maniera efficace il titolo stesso del libro: meglio un testa pensante che una testa piena.

Una testa pensante è meglio di una testa piena. Una ricerca sul ruolo della scuola nella formazione dei top manager

Giuseppe Monteduro

EGEA, 2018

Raccolte in un libro le riflessioni e le indicazioni che emergono dal confronto fra sistema della scuola e sistema dell’impresa

Giovani ma preparati. Imprenditori e manager, e poi quadri e collaboratori. Tutti. Al tempo dell’economia veloce e della digitalizzazione della produzione, ma anche del ritorno all’impegno sociale e sul territorio delle imprese e delle istituzioni, non basta l’entusiasmo (quando c’è), ma occorrono anche preparazione e consapevolezza di quello che si fa. A tutti i livelli. Anche nel sistema delle imprese. Questione anche di programmi formativi. Per questo leggere “Una testa pensante è meglio di una testa piena. Una ricerca sul ruolo della scuola nella formazione dei top manager” di Giuseppe Monteduro, può essere cosa utile per molti.

L’idea di base dalla quale inizia il libro è ampia: per rilanciare lo sviluppo del Paese l’Italia ha bisogno che i propri giovani migliori siano capaci di inventare nuove imprese o di inserirsi in imprese già esistenti e di portarle al successo o migliorarne le prestazioni.

Le parti in causa sono due: da un lato il sistema della scuola e della formazione, dall’altro quello delle imprese. In mezzo l’obiettivo: formare una buona cultura d’impresa. Monteduro ha quindi chiesto direttamente ai top manager italiani quale sia, sulla base della loro esperienza, la formazione migliore e quali capacità (skills) debba far “fiorire”.

Il libro ha una struttura chiara. Si parte dall’individuazione di cosa sia un’azienda (non dal punto di vista organizzativo ma sociologico e quindi umano), per poi passare subito alla definizione della figura del manager e quindi all’esame dell’approccio scolastico (con il dibattito fra formazione umanistica e necessità aziendali). Si arriva così al confronto fra opinioni dei manager  e quelle dei formatori.

Il libro di Monteduro è da leggere con attenzione partendo da una delle sue considerazioni iniziali: “La possibilità di essere manager, ossia di assumere posizioni apicali all’interno di un’azienda, quali quella di amministratore delegato di grande fama e con l’opportunità di accedere a consistenti retribuzioni, non è l’esito meccanico di una scelta formativa piuttosto che di un’altra”. Insomma, si cresce in azienda come nella vita, in quanto persone e non macchine. Esattamente come indica in maniera efficace il titolo stesso del libro: meglio un testa pensante che una testa piena.

Una testa pensante è meglio di una testa piena. Una ricerca sul ruolo della scuola nella formazione dei top manager

Giuseppe Monteduro

EGEA, 2018

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