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Il primato di conoscenza e coscienza critica per usare le possibilità dell’intelligenza artificiale

È il tempo dell’intelligenza artificiale, oramai tanto diffusa nel discorso pubblico e nelle pratiche economiche da essere detta con un sintetico acronimo, AI (Artificial Intelligence, appunto). Dei robot, che hanno sempre più spazio nell’industria e nella logistica, nella chirurgia e perfino in cucina, nelle attività domestiche. Dei miliardi di dati che si incrociano in tempi rapidissimi, generando connessioni di possibile conoscenza. “Uno spazio cibernetico che cresce e muta in continuazione, con straordinarie opportunità ma anche con grandi rischi”, commenta Stefano Venturi, presidente e amministratore delegato di Hewlett Packard Italia, calcolando che nel 2020 saranno 6 miliardi, gli utenti di Internet, ma anche 200 miliardi i sensori collegati alla rete. Sensori infinitamente numerosi e crescenti, da cui passano dati e connessioni indispensabili all’Internet of things, all’Industria 4.0 e alle altre attività digital, ma anche “oggetti stupidi” da cui possono passare gli attacchi degli hacker, le violazioni della sicurezza di imprese e Stati, le intrusioni e le manipolazioni di sofisticati attori di cybercrime che investono, tra l’altro, la nostra privacy e la nostra libertà. L’innovazione ha molti volti, e contrastanti.

Cosa fare, in un panorama così mobile e segnato da straordinarie luci di progresso e allarmanti ombre di crisi? Provare a essere né apocalittici né integrati, per riprendere un aforisma di Umberto Eco. Né tecnoscettici né tecnoentusiasti. Ma semmai mostrarsi pronti, con amore di conoscenza e intelligenza critica, a considerare tutti gli aspetti della diffusione delle nuove tecnologie. Con una considerazione di fondo: i “nativi digitali” sanno bene come muoversi nel mondo digitale, hanno competenze per usarne gran parte delle possibilità, ma quelle competenze non sono automaticamente conoscenze né tantomeno capacità di discernimento profondo. Sono le conoscenze, la chiave di tutto. L’intelligenza critica, consapevole cioè di rischi e opportunità.

Cosa fare, dunque? Staremo pure tutto il giorno davanti a un computer, per lavorare, fare ricerca, leggere, scrivere. Saremo pur sommersi da mail e comunicazioni. Ma forse, proprio in stagioni così controverse, vale la pena staccare un momento l’attenzione dalle incombenze digitali per dedicare tempo e attenzione a un buon libro. Come “Homo premium” di Massimo Gaggi, Laterza, un esempio di lucida capacità di cronaca, di analisi e di giudizio, raffinata nel corso di una lunga esperienza dell’autore negli Usa come editorialista del “Corriere della Sera”.

Gaggi racconta “come la tecnologia ci divide”. Sostiene che “soggiogati dal fascino delle infinite possibilità offerte dall’universo digitale, non ci siamo resi conto di quanto iniqua, brutale e concentrata sia la nuova economia nata dalle innovazioni della Silicon Valley”. E sottolinea, per esempio, già all’inizio, una presa di posizione di Evan Williams, fondatore di Twitter: “Pensavamo di regalare a tutti la libertà di rivolgersi al mondo intero. Invece il meccanismo che è alla base di Internet s’è rotto. Io stesso ero convinto che una volta che ognuno fosse stato messo in condizione di scambiare liberamente informazioni e idee, il mondo sarebbe diventato automaticamente un luogo migliore. Avevo torto”.

E’ finita, insomma, l’età dell’innocenza digitale. E, proprio perché consapevoli del peso e della positività della “rivoluzione digitale”, ci tocca fare bene i conti con i problemi che comporta, per quel che riguarda innanzitutto il lavoro: robot e algoritmi eliminano attività tradizionali, non solo in fabbrica ma anche nei settori delle professioni tradizionali (l’avvocato e il medico, il giornalista e il manager con funzioni più ripetitive) ma non sappiamo ancora bene quali e quanti nuovi lavori verranno creati. La McKinsey, nel suo Rapporto 2017 sull’intelligenza artificiale, stimava che il 49% degli attuali posti di lavoro sono a rischio, perché sostituiti dalle macchine, ma nel Rapporto 2018 Notes from AI frontier, parla di 6mila miliardi di “nuovo valore”, con ricadute occupazionali di grande impatto positivo (“la Repubblica /Affari&Finanza”, 23 aprile).

Difficile, dire come andranno davvero le cose. Ci tocca capire, nel corso del tempo, cosa cambia e provare a governare i processi (c’è, in questo, uno straordinario ruolo di responsabilità della politica). E guardare, come suggerisce Gaggi, oltre che all’industria e al lavoro, anche a tutto ciò che riguarda gli equilibri sociali, la salute, la conoscenza, le stesse strutture della democrazia. Sono aumentate, spiega Gaggi, le diseguaglianze, tra la nuova figura dell’homo premium (chi sta all’interno del mondo hi tech, ne decide le dinamiche e ne gode i vantaggi), “non solo molto ricco, ma potenziato pure sul piano fisico e intellettuale, rispetto a chi rimane indietro” e i “gruppi sociali svantaggiati che già oggi non solo conducono una vita più modesta, ma vivono anche mediamente di meno, come conseguenza d’una serie di fattori sanitari, sociali, alimentari e legati all’istruzione”.

Cresce comunque una coscienza critica nei confronti dei giganti digitali, i Big Tech, Facebook (con tutto il carico di errori legati al rapporto con Cambridge Analytica e all’uso scorretto dei dati, di cui sono piene le cronache) ma anche Amazon, Google, Microsoft e Apple, con la loro passione per gli algoritmi che “creando un’architettura per le scelte degli essere umani, finiscono per erodere il nostro libero arbitrio”. Anche se i segnali sono contrastanti. Dal rifiuto radicale per le tecnologie all’illusione che la blockchain, il sistema di certificazione di cui resta sempre traccia, oltre che alimentare il pericoloso fenomeno delle criptovalute, possa anche cambiare la partecipazione e la democrazia, verso dimensioni di “democrazia digitale diretta”: un’altra condizione con pagine oscure. Proprio in Italia, nell’attuale dibattito politico, ne vogliamo parecchie dimensioni su cui ragionare con grande attenzione.

Bisogna insomma rafforzare le dimensioni del pensiero. E della capacità critica. Come suggerisce anche Tom Nichols, professore ad Harvard, in un libro essenziale: “La conoscenza e i suoi nemici”, Luiss, analizzando “l’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia”. Non bisogna cedere alla “società degli ignoranti”, cioè alla faciloneria di chi contrappone credenze a scienza, all’approssimazione diffusa contro tecnici ed esperti (le misere polemiche sui vaccini, che hanno affollato giorni di discussioni recenti, anche in politica, ne sono solo una delle manifestazioni). Semmai, occorre insistere sull’attenzione per la scienza, come responsabilità e come conoscenza. E non farsi fuorviare dalle tensioni e dalla faciloneria che si addebitano, sbagliando, alla cultura digitale. Pure la cultura digitale dev’essere cultura critica, proprio come Karl Popper pretendeva dalla cultura scientifica.

Serve dunque anche un nuovo “patto” tra élites e massa, suggerendo, con Nichols, proprio a scienziati e intellettuali forti di robuste competenze di uscire dai loro luoghi del privilegio e della conoscenza profonda e ascoltare con umiltà e attenzione, spiegare, provare a insegnare, dare nuove ragioni dei saperi e delle virtù civili. Perché la democrazia ha bisogno che gli orientamenti popolari vadano tenuti in gran conto, ma anche tradotti, interpretati, trasformati in scelte politiche e atti di governo. In tempi di faciloneria web, bisogna tornare alla lezione di Jurgen Habermas sull’opinione pubblica “discorsiva”, capace cioè d’un discorso pubblico critico. E’ la nostra attuale maggiore responsabilità.

È il tempo dell’intelligenza artificiale, oramai tanto diffusa nel discorso pubblico e nelle pratiche economiche da essere detta con un sintetico acronimo, AI (Artificial Intelligence, appunto). Dei robot, che hanno sempre più spazio nell’industria e nella logistica, nella chirurgia e perfino in cucina, nelle attività domestiche. Dei miliardi di dati che si incrociano in tempi rapidissimi, generando connessioni di possibile conoscenza. “Uno spazio cibernetico che cresce e muta in continuazione, con straordinarie opportunità ma anche con grandi rischi”, commenta Stefano Venturi, presidente e amministratore delegato di Hewlett Packard Italia, calcolando che nel 2020 saranno 6 miliardi, gli utenti di Internet, ma anche 200 miliardi i sensori collegati alla rete. Sensori infinitamente numerosi e crescenti, da cui passano dati e connessioni indispensabili all’Internet of things, all’Industria 4.0 e alle altre attività digital, ma anche “oggetti stupidi” da cui possono passare gli attacchi degli hacker, le violazioni della sicurezza di imprese e Stati, le intrusioni e le manipolazioni di sofisticati attori di cybercrime che investono, tra l’altro, la nostra privacy e la nostra libertà. L’innovazione ha molti volti, e contrastanti.

Cosa fare, in un panorama così mobile e segnato da straordinarie luci di progresso e allarmanti ombre di crisi? Provare a essere né apocalittici né integrati, per riprendere un aforisma di Umberto Eco. Né tecnoscettici né tecnoentusiasti. Ma semmai mostrarsi pronti, con amore di conoscenza e intelligenza critica, a considerare tutti gli aspetti della diffusione delle nuove tecnologie. Con una considerazione di fondo: i “nativi digitali” sanno bene come muoversi nel mondo digitale, hanno competenze per usarne gran parte delle possibilità, ma quelle competenze non sono automaticamente conoscenze né tantomeno capacità di discernimento profondo. Sono le conoscenze, la chiave di tutto. L’intelligenza critica, consapevole cioè di rischi e opportunità.

Cosa fare, dunque? Staremo pure tutto il giorno davanti a un computer, per lavorare, fare ricerca, leggere, scrivere. Saremo pur sommersi da mail e comunicazioni. Ma forse, proprio in stagioni così controverse, vale la pena staccare un momento l’attenzione dalle incombenze digitali per dedicare tempo e attenzione a un buon libro. Come “Homo premium” di Massimo Gaggi, Laterza, un esempio di lucida capacità di cronaca, di analisi e di giudizio, raffinata nel corso di una lunga esperienza dell’autore negli Usa come editorialista del “Corriere della Sera”.

Gaggi racconta “come la tecnologia ci divide”. Sostiene che “soggiogati dal fascino delle infinite possibilità offerte dall’universo digitale, non ci siamo resi conto di quanto iniqua, brutale e concentrata sia la nuova economia nata dalle innovazioni della Silicon Valley”. E sottolinea, per esempio, già all’inizio, una presa di posizione di Evan Williams, fondatore di Twitter: “Pensavamo di regalare a tutti la libertà di rivolgersi al mondo intero. Invece il meccanismo che è alla base di Internet s’è rotto. Io stesso ero convinto che una volta che ognuno fosse stato messo in condizione di scambiare liberamente informazioni e idee, il mondo sarebbe diventato automaticamente un luogo migliore. Avevo torto”.

E’ finita, insomma, l’età dell’innocenza digitale. E, proprio perché consapevoli del peso e della positività della “rivoluzione digitale”, ci tocca fare bene i conti con i problemi che comporta, per quel che riguarda innanzitutto il lavoro: robot e algoritmi eliminano attività tradizionali, non solo in fabbrica ma anche nei settori delle professioni tradizionali (l’avvocato e il medico, il giornalista e il manager con funzioni più ripetitive) ma non sappiamo ancora bene quali e quanti nuovi lavori verranno creati. La McKinsey, nel suo Rapporto 2017 sull’intelligenza artificiale, stimava che il 49% degli attuali posti di lavoro sono a rischio, perché sostituiti dalle macchine, ma nel Rapporto 2018 Notes from AI frontier, parla di 6mila miliardi di “nuovo valore”, con ricadute occupazionali di grande impatto positivo (“la Repubblica /Affari&Finanza”, 23 aprile).

Difficile, dire come andranno davvero le cose. Ci tocca capire, nel corso del tempo, cosa cambia e provare a governare i processi (c’è, in questo, uno straordinario ruolo di responsabilità della politica). E guardare, come suggerisce Gaggi, oltre che all’industria e al lavoro, anche a tutto ciò che riguarda gli equilibri sociali, la salute, la conoscenza, le stesse strutture della democrazia. Sono aumentate, spiega Gaggi, le diseguaglianze, tra la nuova figura dell’homo premium (chi sta all’interno del mondo hi tech, ne decide le dinamiche e ne gode i vantaggi), “non solo molto ricco, ma potenziato pure sul piano fisico e intellettuale, rispetto a chi rimane indietro” e i “gruppi sociali svantaggiati che già oggi non solo conducono una vita più modesta, ma vivono anche mediamente di meno, come conseguenza d’una serie di fattori sanitari, sociali, alimentari e legati all’istruzione”.

Cresce comunque una coscienza critica nei confronti dei giganti digitali, i Big Tech, Facebook (con tutto il carico di errori legati al rapporto con Cambridge Analytica e all’uso scorretto dei dati, di cui sono piene le cronache) ma anche Amazon, Google, Microsoft e Apple, con la loro passione per gli algoritmi che “creando un’architettura per le scelte degli essere umani, finiscono per erodere il nostro libero arbitrio”. Anche se i segnali sono contrastanti. Dal rifiuto radicale per le tecnologie all’illusione che la blockchain, il sistema di certificazione di cui resta sempre traccia, oltre che alimentare il pericoloso fenomeno delle criptovalute, possa anche cambiare la partecipazione e la democrazia, verso dimensioni di “democrazia digitale diretta”: un’altra condizione con pagine oscure. Proprio in Italia, nell’attuale dibattito politico, ne vogliamo parecchie dimensioni su cui ragionare con grande attenzione.

Bisogna insomma rafforzare le dimensioni del pensiero. E della capacità critica. Come suggerisce anche Tom Nichols, professore ad Harvard, in un libro essenziale: “La conoscenza e i suoi nemici”, Luiss, analizzando “l’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia”. Non bisogna cedere alla “società degli ignoranti”, cioè alla faciloneria di chi contrappone credenze a scienza, all’approssimazione diffusa contro tecnici ed esperti (le misere polemiche sui vaccini, che hanno affollato giorni di discussioni recenti, anche in politica, ne sono solo una delle manifestazioni). Semmai, occorre insistere sull’attenzione per la scienza, come responsabilità e come conoscenza. E non farsi fuorviare dalle tensioni e dalla faciloneria che si addebitano, sbagliando, alla cultura digitale. Pure la cultura digitale dev’essere cultura critica, proprio come Karl Popper pretendeva dalla cultura scientifica.

Serve dunque anche un nuovo “patto” tra élites e massa, suggerendo, con Nichols, proprio a scienziati e intellettuali forti di robuste competenze di uscire dai loro luoghi del privilegio e della conoscenza profonda e ascoltare con umiltà e attenzione, spiegare, provare a insegnare, dare nuove ragioni dei saperi e delle virtù civili. Perché la democrazia ha bisogno che gli orientamenti popolari vadano tenuti in gran conto, ma anche tradotti, interpretati, trasformati in scelte politiche e atti di governo. In tempi di faciloneria web, bisogna tornare alla lezione di Jurgen Habermas sull’opinione pubblica “discorsiva”, capace cioè d’un discorso pubblico critico. E’ la nostra attuale maggiore responsabilità.

Buon lavoro in un buon ambiente d’impresa

Un articolo apparso recentemente approfondisce il metodo del job crafting  come percorso per conciliare organizzazione della produzione e attitudini dell’individuo

Lavorare bene. Non solo dal punto di vista produttivistico, ma anche da quello umano e sociale. Essere inseriti per davvero in un’organizzazione della produzione e prendervi parte, viverla con consapevolezza. Le nuove relazioni umane e industriali rappresentano uno degli orizzonti di sviluppo per le imprese. Cultura d’impresa che si fa cultura del buon lavoro. Con tutti gli strumenti che possono essere messi in campo. La lettura di “Il significato del job crafting nell’organizzazione del lavoro. Inquadramento teorico, tendenze evolutive e prospettive manageriali” scritto a più mani da Davide de Gennaro, Filomena Buonocore e Maria Ferrara (tutti dell’Università degli Studi di Napoli “Parthenope”), può allora essere un buon percorso per approfondire le informazioni su uno dei metodi più importanti di acquisizione del lavoro e relativamente alla sua corretta collocazione.

La ricerca è di fatto un approfondimento del metodo del job crafting, cioè dell’assunzione da parte del lavoratore di comportamenti proattivi per migliorare il proprio lavoro così da renderlo più soddisfacente e coerente con le proprie inclinazioni. Il ragionamento degli autori parte infatti dai collegamenti fra caratteristiche della persone e organizzazione del lavoro: maggiore è la “compatibilità” fra questi due elementi e maggiore è il benessere lavorativo da un lato e la produttività dall’altro.

L’articolo quindi approfondisce gli aspetti relativi al job crafting partendo dall’impostazione teorica per passare poi alla sua evoluzione e soprattutto alle prospettive d’uso. A far scattare il job crafting – viene spiegato -, sono situazioni di insoddisfazione ma soprattutto caratteristiche personali e di contesto che conducono a reazioni positive che migliorano la collocazione lavorativa, la soddisfazione e quindi la produttività oltre che il miglioramento delle relazioni  degli ambienti di lavoro. Tutto, poi, è in relazione alla gestione organizzativa e manageriale dell’impresa.

Di fatto due sono le conclusioni degli autori circa l’applicazione del metodo del job crafting nelle imprese. La prima è che l’affidamento delle mansioni non può essere “calato dall’alto”, la seconda è che l’organizzazione del lavoro può generare risultati positivi ma anche negativi e che compito di un buon manager  è quello di creare il più possibile “ambienti positivi”.

Il lavoro di de Gennaro, Buonocore e Ferrara è una buona sintesi di un tema solo in apparenza semplice e di facile applicazione. Per questo va letto con attenzione.

Il significato del job crafting nell’organizzazione del lavoro. Inquadramento teorico, tendenze evolutive e prospettive manageriali       

Davide de Gennaro, Filomena Buonocore, Maria Ferrara

Impresa Progetto, Electronic Journal of Management, 1, 2017

Un articolo apparso recentemente approfondisce il metodo del job crafting  come percorso per conciliare organizzazione della produzione e attitudini dell’individuo

Lavorare bene. Non solo dal punto di vista produttivistico, ma anche da quello umano e sociale. Essere inseriti per davvero in un’organizzazione della produzione e prendervi parte, viverla con consapevolezza. Le nuove relazioni umane e industriali rappresentano uno degli orizzonti di sviluppo per le imprese. Cultura d’impresa che si fa cultura del buon lavoro. Con tutti gli strumenti che possono essere messi in campo. La lettura di “Il significato del job crafting nell’organizzazione del lavoro. Inquadramento teorico, tendenze evolutive e prospettive manageriali” scritto a più mani da Davide de Gennaro, Filomena Buonocore e Maria Ferrara (tutti dell’Università degli Studi di Napoli “Parthenope”), può allora essere un buon percorso per approfondire le informazioni su uno dei metodi più importanti di acquisizione del lavoro e relativamente alla sua corretta collocazione.

La ricerca è di fatto un approfondimento del metodo del job crafting, cioè dell’assunzione da parte del lavoratore di comportamenti proattivi per migliorare il proprio lavoro così da renderlo più soddisfacente e coerente con le proprie inclinazioni. Il ragionamento degli autori parte infatti dai collegamenti fra caratteristiche della persone e organizzazione del lavoro: maggiore è la “compatibilità” fra questi due elementi e maggiore è il benessere lavorativo da un lato e la produttività dall’altro.

L’articolo quindi approfondisce gli aspetti relativi al job crafting partendo dall’impostazione teorica per passare poi alla sua evoluzione e soprattutto alle prospettive d’uso. A far scattare il job crafting – viene spiegato -, sono situazioni di insoddisfazione ma soprattutto caratteristiche personali e di contesto che conducono a reazioni positive che migliorano la collocazione lavorativa, la soddisfazione e quindi la produttività oltre che il miglioramento delle relazioni  degli ambienti di lavoro. Tutto, poi, è in relazione alla gestione organizzativa e manageriale dell’impresa.

Di fatto due sono le conclusioni degli autori circa l’applicazione del metodo del job crafting nelle imprese. La prima è che l’affidamento delle mansioni non può essere “calato dall’alto”, la seconda è che l’organizzazione del lavoro può generare risultati positivi ma anche negativi e che compito di un buon manager  è quello di creare il più possibile “ambienti positivi”.

Il lavoro di de Gennaro, Buonocore e Ferrara è una buona sintesi di un tema solo in apparenza semplice e di facile applicazione. Per questo va letto con attenzione.

Il significato del job crafting nell’organizzazione del lavoro. Inquadramento teorico, tendenze evolutive e prospettive manageriali       

Davide de Gennaro, Filomena Buonocore, Maria Ferrara

Impresa Progetto, Electronic Journal of Management, 1, 2017

I giocattoli Pirelli negli anni ’50: da Pigomma a Rempel

Sulle pagine del sesto numero di “Pirelli. Rivista di informazione e di tecnica” del 1952, l’articolo di Franco Vegliani titola All’inventore dei giocattoli il nome di filosofo. L’appellativo, attribuito a Bruno Munari, è una citazione di Pablo Picasso, cui fu chiesto se conoscesse l’ideatore del celebre giocattolo Meo Romeo che aveva su una mensola nel suo studio. Probabilmente l’artista allude al sottile ingegno e alla grande serietà necessari per progettare giocattoli per bambini. D’altronde, riteneva che tutti i bambini fossero degli artisti nati e che la difficoltà fosse nel fatto di restarlo da grandi.

Che i bambini rappresentino un pubblico ideale perchè sanno quello che vogliono e non hanno preconcetti, era forte convinzione di Bruno Munari che progetta il gatto Meo Romeo per la Pigomma-Pirelli nel 1949 e lo presenta sulle pagine della rivista “Pirelli” nello stesso anno, nell’articolo Il gatto di gommapiuma ha i baffi di nailon. Il giocattolo, il cui prototipo è nero, è realizzato in gommapiuma armata in diverse colorazioni – bianco, giallo, grigio, marrone, verde. La gommapiuma è morbida, liscia, piacevole al tatto, e insieme al filo metallico che le fa da scheletro permette ai bambini di far assumere all’animaletto diverse posizioni, come fosse un gatto vivo a cui manca solo la voce. Tre anni dopo, nel già citato articolo di Vegliani del ’52, si conosce “la Felice Famiglia Pigomma”, di cui fanno parte, oltre a Meo Romeo, il “Pluto” di Disney, la giraffa “Pasqualina” di Pagot, la bambola “Patrizia” di Maggia e l’ultima creazione in gommapiuma armata di Bruno Munari, la scimmia Zizì, con cui nel 1954 il grande designer italiano vince la prima edizione del Compasso d’oro, il più antico premio di “disegno industriale”.

Dopo gli anni della direzione artistica di Bruno Munari, già caratterizzata da una grande attenzione verso i materiali sicuri dei giocattoli, in un articolo del 1957 vengono presentati ai lettori “I giocattoli silenziosi” prodotti dall’Azienda Roma-Pirelli e realizzati secondo criteri non solo tecnici ed estetici ma anche educativi e pedagogici. Nel catalogo dell’anno successivo, compaiono i giocattoli per i più piccoli “brevetto Rempel” (scoperti a inizio degli anni Cinquanta ad Akron, dove venivano fabbricati dallo scultore ucraino Rempel), i rigonfiabili in gomma, i giocattoli stampati e i palloni da gioco, prodotti da Pirelli già da oltre sessant’anni.

Ispirandosi a queste grandi lezioni dei maestri del design, Fondazione Pirelli Educational offre da anni percorsi educativi per ragazzi volti a incoraggiare l’uso della fantasia applicata, ad esempio, alla progettazione di un nuovo battistrada oppure di un manifesto pubblicitario.

Sulle pagine del sesto numero di “Pirelli. Rivista di informazione e di tecnica” del 1952, l’articolo di Franco Vegliani titola All’inventore dei giocattoli il nome di filosofo. L’appellativo, attribuito a Bruno Munari, è una citazione di Pablo Picasso, cui fu chiesto se conoscesse l’ideatore del celebre giocattolo Meo Romeo che aveva su una mensola nel suo studio. Probabilmente l’artista allude al sottile ingegno e alla grande serietà necessari per progettare giocattoli per bambini. D’altronde, riteneva che tutti i bambini fossero degli artisti nati e che la difficoltà fosse nel fatto di restarlo da grandi.

Che i bambini rappresentino un pubblico ideale perchè sanno quello che vogliono e non hanno preconcetti, era forte convinzione di Bruno Munari che progetta il gatto Meo Romeo per la Pigomma-Pirelli nel 1949 e lo presenta sulle pagine della rivista “Pirelli” nello stesso anno, nell’articolo Il gatto di gommapiuma ha i baffi di nailon. Il giocattolo, il cui prototipo è nero, è realizzato in gommapiuma armata in diverse colorazioni – bianco, giallo, grigio, marrone, verde. La gommapiuma è morbida, liscia, piacevole al tatto, e insieme al filo metallico che le fa da scheletro permette ai bambini di far assumere all’animaletto diverse posizioni, come fosse un gatto vivo a cui manca solo la voce. Tre anni dopo, nel già citato articolo di Vegliani del ’52, si conosce “la Felice Famiglia Pigomma”, di cui fanno parte, oltre a Meo Romeo, il “Pluto” di Disney, la giraffa “Pasqualina” di Pagot, la bambola “Patrizia” di Maggia e l’ultima creazione in gommapiuma armata di Bruno Munari, la scimmia Zizì, con cui nel 1954 il grande designer italiano vince la prima edizione del Compasso d’oro, il più antico premio di “disegno industriale”.

Dopo gli anni della direzione artistica di Bruno Munari, già caratterizzata da una grande attenzione verso i materiali sicuri dei giocattoli, in un articolo del 1957 vengono presentati ai lettori “I giocattoli silenziosi” prodotti dall’Azienda Roma-Pirelli e realizzati secondo criteri non solo tecnici ed estetici ma anche educativi e pedagogici. Nel catalogo dell’anno successivo, compaiono i giocattoli per i più piccoli “brevetto Rempel” (scoperti a inizio degli anni Cinquanta ad Akron, dove venivano fabbricati dallo scultore ucraino Rempel), i rigonfiabili in gomma, i giocattoli stampati e i palloni da gioco, prodotti da Pirelli già da oltre sessant’anni.

Ispirandosi a queste grandi lezioni dei maestri del design, Fondazione Pirelli Educational offre da anni percorsi educativi per ragazzi volti a incoraggiare l’uso della fantasia applicata, ad esempio, alla progettazione di un nuovo battistrada oppure di un manifesto pubblicitario.

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Saloni “grandi firme”: famosi designer per gli stand Pirelli

Aprile 2018, mese del Salone del Mobile e della Milano Design Week: le “Storie dal mondo Pirelli” non potevano non dare uno sguardo sui grandi designer che nella seconda metà del Novecento hanno attivamente contribuito a creare l’immagine dell’Azienda, anche intervenendo direttamente sugli allestimenti espositivi presso mostre e fiere.

Abbiamo già raccontato di Bruno Munari che, con il suo “labirinto” per la suola Pirelli Coria, ha dato l’impronta a numerosi saloni della Calzatura di Vigevano. Proprio uno di questi, quello del 1958, è caratterizzato dall’intervento di un’altra grandissima firma del design internazionale: Bob Noorda. L’esercito di figurine stilizzate che marcia sotto la scritta “Camminate Pirelli” diventa subito il simbolo delle suole in gomma: “la salute ha i piedi asciutti”. Ritroviamo l’artista olandese, noto per il suo rigore grafico, al Salone di Parigi 1960, a disegnare lo stand del pneumatico Pirelli BS3. E poi ancora al Salone dell’Auto di Torino dello stesso anno, in collaborazione con Franco Albini, alle prese con una “storia del pneumatico Pirelli” resa attraverso una fila di oblò circolari che scandiscono tempo e prodotti.

Un altro nome che ricorre spesso nell’allestimento di gran parte degli stand Pirelli degli anni Cinquanta e Sessanta è quella di Roberto Menghi, vero e proprio genio del disegno industriale. Assieme al grande Albe Steiner, Menghi firma nel 1956 il padiglione che, alla Fiera Campionaria di Milano, la Sapsa -azienda del Gruppo Pirelli-  dedica alla gommapiuma: esattezza geometrica e profili “puliti” sono naturalmente le parola d’ordine dei due maestri milanesi del design. Quasi contemporaneamente si va affermando, sempre nell’ambito delle attività espositive del Gruppo Pirelli, anche la coppia artistica formata da Ilio Negri e Giulio Confalonieri: a loro si deve il geniale allestimento per il Salone del Bambino al Teatro dell’Arte di Milano (1959), un’esposizione di giocattoli distribuita su una divertente serie di dadi ed elementi del domino. La triangolazione tra Menghi, Negri e Confalonieri sarà fervidissima negli anni: dalla “costellazione” di pneumatici BS3 immaginati come pianeti al Salone di Torino 1959, alla quasi fantascientifica sfilata di contenitori plastici disegnati dallo stesso Menghi ed esposti nel padiglione della Pirelli-Azienda Monza alla prima edizione della Fiera del packaging IPACK di Milano nel 1961, dai disegni battistrada disposti come naviganti in un acquario al Salone di Francoforte 1961 alle ragazze del Cinturato fotografate da Ugo Mulas per il Salone di Parigi 1962.

Altri nomi: Massimo Vignelli ed Ernesto Carboni. Al primo, maestro milanese del graphic design, si deve lo stand Pirelli al Salone del Ciclo e Motociclo di Milano del 1963: flash luminosi nel buio, fotografie d’epoca e massimo rigore geometrico. Battistrada come alberi e liane di una foresta per l’eclettico designer pubblicitario emiliano Ernesto Carboni, all’opera al Salone dell’Auto di Torino 1957.

A chiudere questa rassegna di “grandi firme” degli stand dedicati ai prodotti della P Lunga il geniale Pino Tovaglia che, in collaborazione con l’allora Direttore della Propaganda Pirelli Arrigo Castellani, fu in grado di immaginare e realizzare veri e propri capolavori. Dai saloni del Ciclo e Motociclo di Milano del 1956 e 1959, al raffinatissimo Salone dell’Auto di Ginevra 1962, fino al Salone di Torino del 1966 con le tavole a geometrie bianche e nere della campagna “Un viaggio ma” da lui stesso creata per il pneumatico Cinturato. Su questa campagna pubblicitaria la Fondazione Pirelli nel 2008 ha anche realizzato una delle sue prime mostre, negli spazi della Triennale di Milano.

E poi, Salone di Parigi 1967, ecco lo stand che da solo è capace di riassumere tutta un’epoca artistica, tutto un periodo della storia della pubblicità: un susseguirsi di righe bianche e nere, tagliate da una linea rossa a forma di sedile. Al centro, solo un telefono nero su bianco. Un trionfo di pop art, un tributo al Cinturato Pirelli.

Aprile 2018, mese del Salone del Mobile e della Milano Design Week: le “Storie dal mondo Pirelli” non potevano non dare uno sguardo sui grandi designer che nella seconda metà del Novecento hanno attivamente contribuito a creare l’immagine dell’Azienda, anche intervenendo direttamente sugli allestimenti espositivi presso mostre e fiere.

Abbiamo già raccontato di Bruno Munari che, con il suo “labirinto” per la suola Pirelli Coria, ha dato l’impronta a numerosi saloni della Calzatura di Vigevano. Proprio uno di questi, quello del 1958, è caratterizzato dall’intervento di un’altra grandissima firma del design internazionale: Bob Noorda. L’esercito di figurine stilizzate che marcia sotto la scritta “Camminate Pirelli” diventa subito il simbolo delle suole in gomma: “la salute ha i piedi asciutti”. Ritroviamo l’artista olandese, noto per il suo rigore grafico, al Salone di Parigi 1960, a disegnare lo stand del pneumatico Pirelli BS3. E poi ancora al Salone dell’Auto di Torino dello stesso anno, in collaborazione con Franco Albini, alle prese con una “storia del pneumatico Pirelli” resa attraverso una fila di oblò circolari che scandiscono tempo e prodotti.

Un altro nome che ricorre spesso nell’allestimento di gran parte degli stand Pirelli degli anni Cinquanta e Sessanta è quella di Roberto Menghi, vero e proprio genio del disegno industriale. Assieme al grande Albe Steiner, Menghi firma nel 1956 il padiglione che, alla Fiera Campionaria di Milano, la Sapsa -azienda del Gruppo Pirelli-  dedica alla gommapiuma: esattezza geometrica e profili “puliti” sono naturalmente le parola d’ordine dei due maestri milanesi del design. Quasi contemporaneamente si va affermando, sempre nell’ambito delle attività espositive del Gruppo Pirelli, anche la coppia artistica formata da Ilio Negri e Giulio Confalonieri: a loro si deve il geniale allestimento per il Salone del Bambino al Teatro dell’Arte di Milano (1959), un’esposizione di giocattoli distribuita su una divertente serie di dadi ed elementi del domino. La triangolazione tra Menghi, Negri e Confalonieri sarà fervidissima negli anni: dalla “costellazione” di pneumatici BS3 immaginati come pianeti al Salone di Torino 1959, alla quasi fantascientifica sfilata di contenitori plastici disegnati dallo stesso Menghi ed esposti nel padiglione della Pirelli-Azienda Monza alla prima edizione della Fiera del packaging IPACK di Milano nel 1961, dai disegni battistrada disposti come naviganti in un acquario al Salone di Francoforte 1961 alle ragazze del Cinturato fotografate da Ugo Mulas per il Salone di Parigi 1962.

Altri nomi: Massimo Vignelli ed Ernesto Carboni. Al primo, maestro milanese del graphic design, si deve lo stand Pirelli al Salone del Ciclo e Motociclo di Milano del 1963: flash luminosi nel buio, fotografie d’epoca e massimo rigore geometrico. Battistrada come alberi e liane di una foresta per l’eclettico designer pubblicitario emiliano Ernesto Carboni, all’opera al Salone dell’Auto di Torino 1957.

A chiudere questa rassegna di “grandi firme” degli stand dedicati ai prodotti della P Lunga il geniale Pino Tovaglia che, in collaborazione con l’allora Direttore della Propaganda Pirelli Arrigo Castellani, fu in grado di immaginare e realizzare veri e propri capolavori. Dai saloni del Ciclo e Motociclo di Milano del 1956 e 1959, al raffinatissimo Salone dell’Auto di Ginevra 1962, fino al Salone di Torino del 1966 con le tavole a geometrie bianche e nere della campagna “Un viaggio ma” da lui stesso creata per il pneumatico Cinturato. Su questa campagna pubblicitaria la Fondazione Pirelli nel 2008 ha anche realizzato una delle sue prime mostre, negli spazi della Triennale di Milano.

E poi, Salone di Parigi 1967, ecco lo stand che da solo è capace di riassumere tutta un’epoca artistica, tutto un periodo della storia della pubblicità: un susseguirsi di righe bianche e nere, tagliate da una linea rossa a forma di sedile. Al centro, solo un telefono nero su bianco. Un trionfo di pop art, un tributo al Cinturato Pirelli.

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Smart cities e cultura d’impresa

Una ricerca di Assolombarda mette ordine nel variegato panorama delle aree smart e fornisce elementi nuovi di ragionamento per la cultura d’impresa

 

Smart cities  ovvero l’orizzonte territoriale prossimo per una serie sempre più corposa di aggregati urbani. Una prospettiva fatta di nuove tecnologie, digitalizzazione della produzione, accelerazione e diffusione delle comunicazioni e delle informazioni, connettività, riprogettazione degli spazi urbani e produttivi, condivisione sempre più spinta di esperienze e progetti. E tanto altro ancora. Un ambiente nuovo per vivere e per lavorare. Nel quale naturalmente anche le imprese si ritrovano totalmente immerse.

“Smart cities  tra concetto e pratica”, l’ultimo rapporto di studio di Assolombarda affronta in maniera chiara e sintetica proprio questo ambito di azione che coinvolge più soggetti e più livelli dei grandi centri urbani. E che deve essere ben compreso.

La ricerca prende le mosse dalla constatazione della varietà di smart cities già presenti nel mondo, ma anche dalle differenze di sviluppo che le caratterizzano, così come dai variegati giudizi su di esse. Comprese le forti critiche che da alcuni arrivano e che sono riferite alla prevalenza della tecnologia piuttosto che ai rapporti umani.

Il rapporto è poi chiaramente organizzato in cinque sezioni e una parte conclusiva. Dopo aver raccontato le motivazioni e gli obiettivi che sostengono lo sviluppo teorico e pratico delle smart cities, la ricerca analizza alcune delle principali definizioni di smart city a livello accademico e istituzionale per poi arrivare ad individuare alcuni fattori chiave della smart city. La quarta parte, invece, esplora dimensioni e contenuti delle smart cities, partendo da quanto sviluppato da alcuni dei principali produttori di tecnologie e società di consulenza. Alcuni esempi di pratiche smart servono infine per arrivare ad una breve parte conclusiva che mette in luce quanto deve essere ancora fatto, soprattutto nel nostro Paese, in termini di trasversalità, di pervasività e di concretezza delle smart cities.

“Smart cities  tra concetto e pratica”, scritto a più mani nell’ambito del Centri Studi di Assolombarda, ha il gran pregio della brevità e della chiarezza del linguaggio. E riorganizza una materia complessa e in continua evoluzione come quella delle aree e dei territori smart  che corre il rischio di essere più di moda che di sostanza. Un buon contributo anche per la crescita di una cultura d’impresa sempre più consapevole.

Smart cities tra concetto e pratica

AA.VV.

Ricerca n. 01/2018, Centro Studi Assolombarda

2018

Una ricerca di Assolombarda mette ordine nel variegato panorama delle aree smart e fornisce elementi nuovi di ragionamento per la cultura d’impresa

 

Smart cities  ovvero l’orizzonte territoriale prossimo per una serie sempre più corposa di aggregati urbani. Una prospettiva fatta di nuove tecnologie, digitalizzazione della produzione, accelerazione e diffusione delle comunicazioni e delle informazioni, connettività, riprogettazione degli spazi urbani e produttivi, condivisione sempre più spinta di esperienze e progetti. E tanto altro ancora. Un ambiente nuovo per vivere e per lavorare. Nel quale naturalmente anche le imprese si ritrovano totalmente immerse.

“Smart cities  tra concetto e pratica”, l’ultimo rapporto di studio di Assolombarda affronta in maniera chiara e sintetica proprio questo ambito di azione che coinvolge più soggetti e più livelli dei grandi centri urbani. E che deve essere ben compreso.

La ricerca prende le mosse dalla constatazione della varietà di smart cities già presenti nel mondo, ma anche dalle differenze di sviluppo che le caratterizzano, così come dai variegati giudizi su di esse. Comprese le forti critiche che da alcuni arrivano e che sono riferite alla prevalenza della tecnologia piuttosto che ai rapporti umani.

Il rapporto è poi chiaramente organizzato in cinque sezioni e una parte conclusiva. Dopo aver raccontato le motivazioni e gli obiettivi che sostengono lo sviluppo teorico e pratico delle smart cities, la ricerca analizza alcune delle principali definizioni di smart city a livello accademico e istituzionale per poi arrivare ad individuare alcuni fattori chiave della smart city. La quarta parte, invece, esplora dimensioni e contenuti delle smart cities, partendo da quanto sviluppato da alcuni dei principali produttori di tecnologie e società di consulenza. Alcuni esempi di pratiche smart servono infine per arrivare ad una breve parte conclusiva che mette in luce quanto deve essere ancora fatto, soprattutto nel nostro Paese, in termini di trasversalità, di pervasività e di concretezza delle smart cities.

“Smart cities  tra concetto e pratica”, scritto a più mani nell’ambito del Centri Studi di Assolombarda, ha il gran pregio della brevità e della chiarezza del linguaggio. E riorganizza una materia complessa e in continua evoluzione come quella delle aree e dei territori smart  che corre il rischio di essere più di moda che di sostanza. Un buon contributo anche per la crescita di una cultura d’impresa sempre più consapevole.

Smart cities tra concetto e pratica

AA.VV.

Ricerca n. 01/2018, Centro Studi Assolombarda

2018

Milano non è un’isola, anche se ben arredata. Le sfide dopo i successi della “Design Week”

Milano capitale, Milano locomotiva, Milano da far volare per “far volare l’Italia”, Milano smart city ma anche start up town, Milano internazionale e Milano come Chicago, Milano sempre più Europa e sempre meno, però, Milano-Italia. Negli anni d’oro di Milano le definizioni si sprecano e risuonano comunque, frequenti e soddisfatti, proprio all’indomani del grande successo della Design Week legata al Salone del Mobile, 434mila visitatori, il 26% in più dell’anno precedente, record d’affari per gli espositori, con picchi d’aumento degli ordini del 30%. Grande, Milano?

La concretezza abituale della cultura e della “educazione milanese” impedisce l’aria tronfia del vanto. E nei giorni successivi a un grande evento internazionale che migliora ancora una volta la competitività del made in Italy, si sta con i piedi per terra e ci si ripete che Milano tutto può essere tranne che un fenomeno, un’eccezione, un posto da solitari primati. Milano non è un’isola.

“Nessun uomo è un’isola”, aveva scritto John Donne, poeta inglese del Seicento (un verso esemplare, per bellezza evocativa e forza morale, ripreso proprio in questi mesi con intelligenza comunicativa da una catena di supermercati, Conad). Figuriamoci se può ridursi a isola una città che fa proprio del suo nome, Mediolanum, terra di mezzo, un tratto distintivo di luogo aperto di scambi e relazioni, mercato, incrocio di conversazioni, circuito virtuoso di commerci e lavoro. Milano, dunque, inclusiva e solidale, accogliente e cordiale. Dai tempi di Ambrogio ai giorni d’oggi, continuando a prefigurare un futuro di “centralità” europea, di metropoli rotonda, attenta cioè ad evitare spigoli taglienti che feriscono ed escludono.

La Design Week che si è snodata tra Salone del Mobile e “Fuorisalone” diffuso su tutta la città con oltre 1360 eventi diversi, ne è stata evidente testimonianza. Il design rappresentato, raccontato, immaginato, progettato in milioni di conversazioni va oltre gli spazi tradizionali dell’arredamento e coinvolge altri mondi industriali, dalla bicicletta all’automobile, dai servizi ai sistemi luminosi e sonori che coinvolgono nuove condizioni del vivere, mobilità sostenibile compresa. Il segno forte è l’innovazione. Le sfide si muovono tra Milano e il mondo.

Questo design, innovativo e, per usare una parola oramai obbligata, “sostenibile” (sensibile cioè alla condizione umana d’una vita migliore) si carica anche di valori ambientali ed etici, ponendosi per esempio il problema di cosa fare della plastica, uno straordinario prodotto industriale (di solide radici italiane, se pensiamo al Moplen nato dalle ricerca di Giulio Natta, premio Nobel per la chimica nel 1963 e dalle esperienze nei laboratori Pirelli e Montecatini) con cui proprio il design innovativo e la pop art sono andate a nozze, dagli anni Sessanta a oggi.

La plastica ha rappresentato la modernità e la comodità di consumi e costumi (in molti casi anche con una certa attenzione per la bellezza) ma oggi, con i 300 milioni di tonnellate prodotte in tutto il mondo e di difficilissimo smaltimento, rappresenta un problema ambientale che sfiora la drammaticità (“Robinson”, il settimanale culturale de “la Repubblica”, ha dedicato al problema quasi tutto il suo numero di domenica scorsa e Antonio Gnoli ne ha sviluppato questioni essenziali in una bella intervista con Renato De Fusco, teorico della progettazione e del design).

Quel design che ha amato la plastica, può oggi suggerire tecnologie, forme, materiali che ci consentano di superare la frontiera dell’”usa e getta”? C’è un design responsabile, da economia civile e circolare? Tema aperto. Proprio a Milano, città di cultura industriale e alta qualità chimica, se ne può discutere. Il Politecnico, con le sue specializzazioni proprio sui temi del design, potrebbe essere un luogo ideale.

Perché anche questo, è Milano. Luogo ibrido di conoscenze e competenze tecniche, di “cultura politecnica”, di dialogo costante tra umanesimo e scienza, tra tecnologia e filosofia. Storia e attualità ne offrono testimonianze continue.

Milano, nella dimensione metropolitana, è città industriale, per esperienza lunga un secolo e mezzo e per vocazione contemporanea. Ma non è mai stata company town come Torino, monocultura industrialista e fordista. Sempre, nel corso del Novecento, i suoi imprenditori hanno invece lavorato su parecchi tavoli comunicanti, dell’industria e della finanza, della manifattura e dei servizi, dei commerci e dell’università, senza mai dimenticare cultura, editoria, comunicazione (la storia stessa del “Corriere della Sera” e degli editori, grandi e popolari ma anche piccoli e raffinatissimi, ne è conferma). Oggi, l’attrattività internazionale di Milano si fonda su questi caratteri. E ne può fare leva per uno sviluppo che coinvolga il resto del paese.

Tutta la vicenda del Salone del Mobile ne mostra la validità. I progetti dei designer, che guardano a Milano da tutto il mondo. E la forza e la qualità delle fabbriche, dalla Brianza al Veneto, in un mix assolutamente originale, un paradigma culturale e produttivo che continua ad avere una forte competitività e che traina anche un altro settore d’eccellenza italiana, la meccanica e la meccatronica degli impianti per produrre sistemi d’arredamento. Un circuito virtuoso. Cultura del progetto e cultura del prodotto. Milano esemplare.

Il design, anche da questo punto di vista, si declina come sapere, conoscenza. Non effimera improvvisazione o chiacchiera. Ma competenze profonde, sia nel dettaglio (perché è proprio lì che si annida l’origine della perfezione) sia nello sguardo generale, sistemico. Nell’attuale condizione di rischio di decadenza delle gerarchie culturali e di privilegio mediatico di chi contrappone credenza a scienza, proprio la forza delle riflessioni sulla “cultura sostenibile” che leghi industria ad ambiente, lavoro e tecnologie al miglioramento degli equilibri sociali, design a urbanistica e architettura (è tra i progetti più impegnativi della nuove Triennale guidata da Stefano Boeri) può essere cardine di una sorta di nuovo “umanesimo industriale” (definizione abituale, da anni, nelle elaborazioni della Fondazione Pirelli) in cui l’Italia e proprio Milano hanno molto da dire e da fare. E’ la cultura delle fabbriche, anche digital e hi tech arricchite dalla tradizionale sapienza manifatturiera di radici artigiane, con forti valenze funzionali ma anche sociali. E’ “la morale del tornio”. Il bello e ben fatto

Milano capitale, Milano locomotiva, Milano da far volare per “far volare l’Italia”, Milano smart city ma anche start up town, Milano internazionale e Milano come Chicago, Milano sempre più Europa e sempre meno, però, Milano-Italia. Negli anni d’oro di Milano le definizioni si sprecano e risuonano comunque, frequenti e soddisfatti, proprio all’indomani del grande successo della Design Week legata al Salone del Mobile, 434mila visitatori, il 26% in più dell’anno precedente, record d’affari per gli espositori, con picchi d’aumento degli ordini del 30%. Grande, Milano?

La concretezza abituale della cultura e della “educazione milanese” impedisce l’aria tronfia del vanto. E nei giorni successivi a un grande evento internazionale che migliora ancora una volta la competitività del made in Italy, si sta con i piedi per terra e ci si ripete che Milano tutto può essere tranne che un fenomeno, un’eccezione, un posto da solitari primati. Milano non è un’isola.

“Nessun uomo è un’isola”, aveva scritto John Donne, poeta inglese del Seicento (un verso esemplare, per bellezza evocativa e forza morale, ripreso proprio in questi mesi con intelligenza comunicativa da una catena di supermercati, Conad). Figuriamoci se può ridursi a isola una città che fa proprio del suo nome, Mediolanum, terra di mezzo, un tratto distintivo di luogo aperto di scambi e relazioni, mercato, incrocio di conversazioni, circuito virtuoso di commerci e lavoro. Milano, dunque, inclusiva e solidale, accogliente e cordiale. Dai tempi di Ambrogio ai giorni d’oggi, continuando a prefigurare un futuro di “centralità” europea, di metropoli rotonda, attenta cioè ad evitare spigoli taglienti che feriscono ed escludono.

La Design Week che si è snodata tra Salone del Mobile e “Fuorisalone” diffuso su tutta la città con oltre 1360 eventi diversi, ne è stata evidente testimonianza. Il design rappresentato, raccontato, immaginato, progettato in milioni di conversazioni va oltre gli spazi tradizionali dell’arredamento e coinvolge altri mondi industriali, dalla bicicletta all’automobile, dai servizi ai sistemi luminosi e sonori che coinvolgono nuove condizioni del vivere, mobilità sostenibile compresa. Il segno forte è l’innovazione. Le sfide si muovono tra Milano e il mondo.

Questo design, innovativo e, per usare una parola oramai obbligata, “sostenibile” (sensibile cioè alla condizione umana d’una vita migliore) si carica anche di valori ambientali ed etici, ponendosi per esempio il problema di cosa fare della plastica, uno straordinario prodotto industriale (di solide radici italiane, se pensiamo al Moplen nato dalle ricerca di Giulio Natta, premio Nobel per la chimica nel 1963 e dalle esperienze nei laboratori Pirelli e Montecatini) con cui proprio il design innovativo e la pop art sono andate a nozze, dagli anni Sessanta a oggi.

La plastica ha rappresentato la modernità e la comodità di consumi e costumi (in molti casi anche con una certa attenzione per la bellezza) ma oggi, con i 300 milioni di tonnellate prodotte in tutto il mondo e di difficilissimo smaltimento, rappresenta un problema ambientale che sfiora la drammaticità (“Robinson”, il settimanale culturale de “la Repubblica”, ha dedicato al problema quasi tutto il suo numero di domenica scorsa e Antonio Gnoli ne ha sviluppato questioni essenziali in una bella intervista con Renato De Fusco, teorico della progettazione e del design).

Quel design che ha amato la plastica, può oggi suggerire tecnologie, forme, materiali che ci consentano di superare la frontiera dell’”usa e getta”? C’è un design responsabile, da economia civile e circolare? Tema aperto. Proprio a Milano, città di cultura industriale e alta qualità chimica, se ne può discutere. Il Politecnico, con le sue specializzazioni proprio sui temi del design, potrebbe essere un luogo ideale.

Perché anche questo, è Milano. Luogo ibrido di conoscenze e competenze tecniche, di “cultura politecnica”, di dialogo costante tra umanesimo e scienza, tra tecnologia e filosofia. Storia e attualità ne offrono testimonianze continue.

Milano, nella dimensione metropolitana, è città industriale, per esperienza lunga un secolo e mezzo e per vocazione contemporanea. Ma non è mai stata company town come Torino, monocultura industrialista e fordista. Sempre, nel corso del Novecento, i suoi imprenditori hanno invece lavorato su parecchi tavoli comunicanti, dell’industria e della finanza, della manifattura e dei servizi, dei commerci e dell’università, senza mai dimenticare cultura, editoria, comunicazione (la storia stessa del “Corriere della Sera” e degli editori, grandi e popolari ma anche piccoli e raffinatissimi, ne è conferma). Oggi, l’attrattività internazionale di Milano si fonda su questi caratteri. E ne può fare leva per uno sviluppo che coinvolga il resto del paese.

Tutta la vicenda del Salone del Mobile ne mostra la validità. I progetti dei designer, che guardano a Milano da tutto il mondo. E la forza e la qualità delle fabbriche, dalla Brianza al Veneto, in un mix assolutamente originale, un paradigma culturale e produttivo che continua ad avere una forte competitività e che traina anche un altro settore d’eccellenza italiana, la meccanica e la meccatronica degli impianti per produrre sistemi d’arredamento. Un circuito virtuoso. Cultura del progetto e cultura del prodotto. Milano esemplare.

Il design, anche da questo punto di vista, si declina come sapere, conoscenza. Non effimera improvvisazione o chiacchiera. Ma competenze profonde, sia nel dettaglio (perché è proprio lì che si annida l’origine della perfezione) sia nello sguardo generale, sistemico. Nell’attuale condizione di rischio di decadenza delle gerarchie culturali e di privilegio mediatico di chi contrappone credenza a scienza, proprio la forza delle riflessioni sulla “cultura sostenibile” che leghi industria ad ambiente, lavoro e tecnologie al miglioramento degli equilibri sociali, design a urbanistica e architettura (è tra i progetti più impegnativi della nuove Triennale guidata da Stefano Boeri) può essere cardine di una sorta di nuovo “umanesimo industriale” (definizione abituale, da anni, nelle elaborazioni della Fondazione Pirelli) in cui l’Italia e proprio Milano hanno molto da dire e da fare. E’ la cultura delle fabbriche, anche digital e hi tech arricchite dalla tradizionale sapienza manifatturiera di radici artigiane, con forti valenze funzionali ma anche sociali. E’ “la morale del tornio”. Il bello e ben fatto

Arte d’impresa

Un libro appena pubblicato racconta come il processo artistico e il processo produttivo siano simili e come dalla loro unione possa nascere l’innovazione

Processo artistico e processo produttivo sono percorsi simili. Anche se in apparenza molto distanti l’uno dall’altro. Entrambi espressione di una particolare cultura. Entrambi dotati di un metodo attraverso il quale prendono forma e si sviluppano. Quando poi il primo processo – quello artistico -, diventa di fatto un tutt’uno con il secondo – quello produttivo -, allora possono prendere vita forme d’impresa tanto innovative da superare i canoni dell’innovazione affidata alle sole nuove tecnologie. E’ il caso dell’esperienza di Elica – un’azienda di Fabriano specializzata nella produzione di cappe -, e della Fondazione Ermanno Casoli, che prende il nome dal suo fondatore e che ha assunto l’uso dell’arte contemporanea come strumento in grado di generare innovazione nelle organizzazioni della produzione. La loro storia è contenuta in  “Innovare l’impresa con l’arte. Il metodo della Fondazione Ermanno Casoli” scritto da Chiara Paolino, Marcello Smarrelli e Deborah Carè.

Il libero cerca di dare risposta ad una sola domanda: come l’arte contemporanea può generare innovazione in azienda? La riposta è fornita attraverso il racconto dell’attività della Fondazione Ermanno Casoli (FEC) con artisti, formatori e aziende. Un’attività che negli anni ha sviluppato un metodo di lavoro che unisce artisti e operai, operatori d’arte e operatori d’impresa.

Sono quindi presi in considerazione e approfonditi argomenti come il processo di apprendimento attraverso l’arte, i percorsi di innovazione di processo e di prodotto, ma anche le situazioni di interazione fra arte e management, la creazione di possibilità di scambio di esperienze e di informazioni attraverso gli interventi d’arte e le relazioni fra presenza dell’arte in azienda e vantaggio competitivo della stessa.

I temi che emergono dal libro sono dunque quelli del rapporto tra arte e opportunità di rinnovamento dell’identità individuale e professionale all’interno delle organizzazioni, di cambiamento dei processi di apprendimento volti all’innovazione, per arrivare al contributo dell’arte nella definizione di una nuova prospettiva della performance di impresa.

Insomma, Paolino, Smarrelli e Carè guardano all’arte contemporanea come una chiave attraverso cui è possibile focalizzare l’attività aziendale più sulla persona, sul modo di lavorare e di ripensare le proprie azioni e i relativi risultati. Per ogni argomento, il volume presenta una dettagliata descrizione degli interventi artistici organizzati dalla Fondazione nelle aziende, le implicazioni manageriali per un’efficace progettazione degli stessi e i risultati che si sono ottenuti, con un linguaggio rivolto sia al mondo dell’arte che a quello aziendale.

Bella l’introduzione che dà il senso e il tono di tutto il libro e nella quale si legge: “Il lavoro con l’arte (…) è un processo articolato, che sottintende un dialogo tra l’artista e l’impresa, capace di portare in azienda un modo di vedere, sentire e operare diverso, forse destabilizzante, di cui però tutti i dipendenti riescono a ricostruirne il senso”.

Innovare l’impresa con l’arte. Il metodo della Fondazione Ermanno Casoli

Chiara Paolino , Marcello Smarrelli , Deborah Carè

EGEA, 2018

Un libro appena pubblicato racconta come il processo artistico e il processo produttivo siano simili e come dalla loro unione possa nascere l’innovazione

Processo artistico e processo produttivo sono percorsi simili. Anche se in apparenza molto distanti l’uno dall’altro. Entrambi espressione di una particolare cultura. Entrambi dotati di un metodo attraverso il quale prendono forma e si sviluppano. Quando poi il primo processo – quello artistico -, diventa di fatto un tutt’uno con il secondo – quello produttivo -, allora possono prendere vita forme d’impresa tanto innovative da superare i canoni dell’innovazione affidata alle sole nuove tecnologie. E’ il caso dell’esperienza di Elica – un’azienda di Fabriano specializzata nella produzione di cappe -, e della Fondazione Ermanno Casoli, che prende il nome dal suo fondatore e che ha assunto l’uso dell’arte contemporanea come strumento in grado di generare innovazione nelle organizzazioni della produzione. La loro storia è contenuta in  “Innovare l’impresa con l’arte. Il metodo della Fondazione Ermanno Casoli” scritto da Chiara Paolino, Marcello Smarrelli e Deborah Carè.

Il libero cerca di dare risposta ad una sola domanda: come l’arte contemporanea può generare innovazione in azienda? La riposta è fornita attraverso il racconto dell’attività della Fondazione Ermanno Casoli (FEC) con artisti, formatori e aziende. Un’attività che negli anni ha sviluppato un metodo di lavoro che unisce artisti e operai, operatori d’arte e operatori d’impresa.

Sono quindi presi in considerazione e approfonditi argomenti come il processo di apprendimento attraverso l’arte, i percorsi di innovazione di processo e di prodotto, ma anche le situazioni di interazione fra arte e management, la creazione di possibilità di scambio di esperienze e di informazioni attraverso gli interventi d’arte e le relazioni fra presenza dell’arte in azienda e vantaggio competitivo della stessa.

I temi che emergono dal libro sono dunque quelli del rapporto tra arte e opportunità di rinnovamento dell’identità individuale e professionale all’interno delle organizzazioni, di cambiamento dei processi di apprendimento volti all’innovazione, per arrivare al contributo dell’arte nella definizione di una nuova prospettiva della performance di impresa.

Insomma, Paolino, Smarrelli e Carè guardano all’arte contemporanea come una chiave attraverso cui è possibile focalizzare l’attività aziendale più sulla persona, sul modo di lavorare e di ripensare le proprie azioni e i relativi risultati. Per ogni argomento, il volume presenta una dettagliata descrizione degli interventi artistici organizzati dalla Fondazione nelle aziende, le implicazioni manageriali per un’efficace progettazione degli stessi e i risultati che si sono ottenuti, con un linguaggio rivolto sia al mondo dell’arte che a quello aziendale.

Bella l’introduzione che dà il senso e il tono di tutto il libro e nella quale si legge: “Il lavoro con l’arte (…) è un processo articolato, che sottintende un dialogo tra l’artista e l’impresa, capace di portare in azienda un modo di vedere, sentire e operare diverso, forse destabilizzante, di cui però tutti i dipendenti riescono a ricostruirne il senso”.

Innovare l’impresa con l’arte. Il metodo della Fondazione Ermanno Casoli

Chiara Paolino , Marcello Smarrelli , Deborah Carè

EGEA, 2018

Lora Lamm: una designer svizzera per Pirelli

Tra i grandi designer che hanno lavorato per la P lunga, c’è la firma che ancora oggi è più che mai protagonista del design internazionale: Lora Lamm. Il cartello-vetrina “Pirelli per lo scooter”, realizzato dall’artista svizzera nel 1959, è infatti tra le 180 opere esposte tra il 2018 e il 2019 presso La Triennale di Milano nell’ambito dell’undicesima edizione del “Triennale Design Museum”. La ragazza in maglietta a righe orizzontali e pantaloni blu che guarda di sfuggita dal sellino posteriore dello scooter è da sempre l’immagine iconica del Pirelli Motor Scooter, pneumatico creato dall’azienda nell’immediato dopoguerra per far correre quell’innovativo mezzo a due ruote che stava conquistando l’Italia. Lo scooter, appunto: che si chiamasse Vespa o Lambretta, era un tributo alla vita libera delle ragazze moderne. Difficile non pensare al film “Vacanze romane” del 1953  guardando questa “Audrey Hepburn” rivisitata dalla matita insuperabile di Lora Lamm: un tratto lieve, allegro, tra il naïf e il fumetto.

Nata nel 1928 nella cittadina di Arosa, nei Grigioni svizzeri, Lora Lamm si traferisce a Milano nel 1953 dopo essersi diplomata alla Kunstgewerbeschule di Zurigo. Nella vivacissima Milano dei primi anni Cinquanta, collabora con “mostri sacri” del design come lo Studio Boggeri, in cui lavoravano, oltre ad Antonio Boggeri, anche Bruno Munari ed Ernesto Carboni,  per poi passare con Max Huber all’ufficio pubblicità della Rinascente. L’arrivo in Pirelli è del 1958, quando la Lamm viene chiamata a collaborare come freelance da Arrigo Castellani, allora a capo della “Direzione Propaganda”. Nello stile comunicativo dell’azienda della P Lunga, Lora Lamm porta la sua cifra specifica: la capacità di parlare “al femminile”, con grazia, semplicità, modernità. Dopo la ragazza in scooter, altrettanto famosa è la bambina abbracciata alla boule dell’acqua calda del 1960.

La tecnica di Lora Lamm si aprirà presto anche al collage e al fotomontaggio, dai pneumatici Scooter Trasporto per “andare al mercato a pieno carico” alla suola da montagna per salire su “tra le stelle alpine”, fino a veri e propri esercizi di grafica per rappresentare oggetti altamente tecnici come i giunti di dilatazione delle dighe, prodotti dall’Azienda Articoli Tecnici. Così, basta una pennellata gialla per fare una banana, basta una fila di stelle per rievocare i prati di montagna: il disegno è una cornice virtuale per il prodotto. Tra i soggetti della sua arte non poteva mancare la bicicletta: è sempre del 1960 la pubblicità dove una ragazza  in maglietta blu pedala leggera e felice in primo piano. La bici, naturalmente, è gommata Pirelli. Nel meraviglioso mondo di Lora Lamm regnano semplicità e gioia di vivere, libertà e colori.

Tra i grandi designer che hanno lavorato per la P lunga, c’è la firma che ancora oggi è più che mai protagonista del design internazionale: Lora Lamm. Il cartello-vetrina “Pirelli per lo scooter”, realizzato dall’artista svizzera nel 1959, è infatti tra le 180 opere esposte tra il 2018 e il 2019 presso La Triennale di Milano nell’ambito dell’undicesima edizione del “Triennale Design Museum”. La ragazza in maglietta a righe orizzontali e pantaloni blu che guarda di sfuggita dal sellino posteriore dello scooter è da sempre l’immagine iconica del Pirelli Motor Scooter, pneumatico creato dall’azienda nell’immediato dopoguerra per far correre quell’innovativo mezzo a due ruote che stava conquistando l’Italia. Lo scooter, appunto: che si chiamasse Vespa o Lambretta, era un tributo alla vita libera delle ragazze moderne. Difficile non pensare al film “Vacanze romane” del 1953  guardando questa “Audrey Hepburn” rivisitata dalla matita insuperabile di Lora Lamm: un tratto lieve, allegro, tra il naïf e il fumetto.

Nata nel 1928 nella cittadina di Arosa, nei Grigioni svizzeri, Lora Lamm si traferisce a Milano nel 1953 dopo essersi diplomata alla Kunstgewerbeschule di Zurigo. Nella vivacissima Milano dei primi anni Cinquanta, collabora con “mostri sacri” del design come lo Studio Boggeri, in cui lavoravano, oltre ad Antonio Boggeri, anche Bruno Munari ed Ernesto Carboni,  per poi passare con Max Huber all’ufficio pubblicità della Rinascente. L’arrivo in Pirelli è del 1958, quando la Lamm viene chiamata a collaborare come freelance da Arrigo Castellani, allora a capo della “Direzione Propaganda”. Nello stile comunicativo dell’azienda della P Lunga, Lora Lamm porta la sua cifra specifica: la capacità di parlare “al femminile”, con grazia, semplicità, modernità. Dopo la ragazza in scooter, altrettanto famosa è la bambina abbracciata alla boule dell’acqua calda del 1960.

La tecnica di Lora Lamm si aprirà presto anche al collage e al fotomontaggio, dai pneumatici Scooter Trasporto per “andare al mercato a pieno carico” alla suola da montagna per salire su “tra le stelle alpine”, fino a veri e propri esercizi di grafica per rappresentare oggetti altamente tecnici come i giunti di dilatazione delle dighe, prodotti dall’Azienda Articoli Tecnici. Così, basta una pennellata gialla per fare una banana, basta una fila di stelle per rievocare i prati di montagna: il disegno è una cornice virtuale per il prodotto. Tra i soggetti della sua arte non poteva mancare la bicicletta: è sempre del 1960 la pubblicità dove una ragazza  in maglietta blu pedala leggera e felice in primo piano. La bici, naturalmente, è gommata Pirelli. Nel meraviglioso mondo di Lora Lamm regnano semplicità e gioia di vivere, libertà e colori.

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Relazioni obbligate

Il libro di Lippmann sulla costruzione dell’opinione pubblica serve anche per la crescita di una cultura d’impresa più consapevole e completa

La consapevolezza di dove si è, fa più accorta l’impresa. Così come la più precisa possibile coscienza del sistema di relazioni in cui l’agire imprenditoriale viene collocato. Conoscere, quindi, ed informarsi correttamente come basi essenziali per la crescita di ogni organizzazione della produzione. Avendo anche cognizione dei meccanismi con i quali la stessa macchina dell’informazione si costruisce e si muove. Di più: è quasi una relazione obbligata quella fra crescita dell’impresa e crescita della conoscenza dei meccanismi della comunicazione e dell’informazione.

A questo serve – e molto – leggere “L’opinione pubblica” di Walter Lippmann appena ripubblicato in una bella edizione. Lippmann ragiona sui meccanismi della comunicazione e dell’informazione partendo da una considerazione: “La creazione del consenso non è un’arte nuova. È un’arte vecchissima, che era stata data per morta quando apparve la democrazia, ma non è morta. La persuasione è diventata un’arte deliberata e un organo regolare del governo popolare. Nessuno di noi è in grado di vederne tutte le conseguenze, ma non è azzardato pensare che la conoscenza dei modi per creare il consenso altererà tutti i calcoli politici e modificherà tutte le premesse politiche”. Politica dunque, ma anche informazione e impresa, e mercati e (come il titolo del libro) opinione pubblica.

Il libro è stato scritto negli anni ’20 dello scorso secolo, ma ha una straordinaria attualità. In un mondo dominato dal web, dalla bulimia comunicativa e dalle cosiddette fake news, può accadere di pensare che le ambiguità e le manipolazioni che presiedono alla formazione di un’opinione collettiva nelle nostre società democratiche si siano determinate solo di recente, e solo in funzione delle ultime innovazioni tecnologiche. Invece no. Non è affatto così. E anzi, quanto accade oggi può con buona ragione essere fatto risalire a decenni indietro.

È un classico quindi il libro scritto da Lippmann (giornalista e diplomatico), che prende in considerazione tutto l’apparato di concetti e strumenti propri della comunicazione. Scorrono nel testo l’analisi degli stereotipi, il meccanismo degli interessi, quello di formazione di una volontà comune, l’analisi dei giornali e quella dell’informazione organizzata. Lippmann descrive in che modo l’opinione pubblica costruisce i propri miti, i propri eroi, i propri nemici, strappandoli alla storia e catapultandoli in una sorta di leggenda potentissima, e al tempo stesso effimera. E ancora l’autore indaga e descrive i meccanismi attraverso cui le immagini “interne” elaborate nelle nostre teste ci condizionano nei rapporti con il mondo esterno, gli ostacoli che limitano le nostre capacità di accesso ai fatti, le distorsioni provocate dalla necessità di comprimerle; infine, la paura stessa dei fatti che potrebbero minacciare la vita consueta. A partire da questi limiti, l’analisi ricostruisce come i messaggi provenienti dall’esterno siano influenzati dagli scenari mentali di ciascuno, da preconcetti e pregiudizi.

La lettura del libro di Lippmann non è sempre facilissima, ma è certamente da fare per ampliare gli orizzonti di una cultura d’impresa avveduta, consapevole, cosciente, critica e sensata. Ciò che serve anche oggi, come quasi cento anni fa.

L’opinione pubblica

Walter Lippmann

Donzelli, 2018

Il libro di Lippmann sulla costruzione dell’opinione pubblica serve anche per la crescita di una cultura d’impresa più consapevole e completa

La consapevolezza di dove si è, fa più accorta l’impresa. Così come la più precisa possibile coscienza del sistema di relazioni in cui l’agire imprenditoriale viene collocato. Conoscere, quindi, ed informarsi correttamente come basi essenziali per la crescita di ogni organizzazione della produzione. Avendo anche cognizione dei meccanismi con i quali la stessa macchina dell’informazione si costruisce e si muove. Di più: è quasi una relazione obbligata quella fra crescita dell’impresa e crescita della conoscenza dei meccanismi della comunicazione e dell’informazione.

A questo serve – e molto – leggere “L’opinione pubblica” di Walter Lippmann appena ripubblicato in una bella edizione. Lippmann ragiona sui meccanismi della comunicazione e dell’informazione partendo da una considerazione: “La creazione del consenso non è un’arte nuova. È un’arte vecchissima, che era stata data per morta quando apparve la democrazia, ma non è morta. La persuasione è diventata un’arte deliberata e un organo regolare del governo popolare. Nessuno di noi è in grado di vederne tutte le conseguenze, ma non è azzardato pensare che la conoscenza dei modi per creare il consenso altererà tutti i calcoli politici e modificherà tutte le premesse politiche”. Politica dunque, ma anche informazione e impresa, e mercati e (come il titolo del libro) opinione pubblica.

Il libro è stato scritto negli anni ’20 dello scorso secolo, ma ha una straordinaria attualità. In un mondo dominato dal web, dalla bulimia comunicativa e dalle cosiddette fake news, può accadere di pensare che le ambiguità e le manipolazioni che presiedono alla formazione di un’opinione collettiva nelle nostre società democratiche si siano determinate solo di recente, e solo in funzione delle ultime innovazioni tecnologiche. Invece no. Non è affatto così. E anzi, quanto accade oggi può con buona ragione essere fatto risalire a decenni indietro.

È un classico quindi il libro scritto da Lippmann (giornalista e diplomatico), che prende in considerazione tutto l’apparato di concetti e strumenti propri della comunicazione. Scorrono nel testo l’analisi degli stereotipi, il meccanismo degli interessi, quello di formazione di una volontà comune, l’analisi dei giornali e quella dell’informazione organizzata. Lippmann descrive in che modo l’opinione pubblica costruisce i propri miti, i propri eroi, i propri nemici, strappandoli alla storia e catapultandoli in una sorta di leggenda potentissima, e al tempo stesso effimera. E ancora l’autore indaga e descrive i meccanismi attraverso cui le immagini “interne” elaborate nelle nostre teste ci condizionano nei rapporti con il mondo esterno, gli ostacoli che limitano le nostre capacità di accesso ai fatti, le distorsioni provocate dalla necessità di comprimerle; infine, la paura stessa dei fatti che potrebbero minacciare la vita consueta. A partire da questi limiti, l’analisi ricostruisce come i messaggi provenienti dall’esterno siano influenzati dagli scenari mentali di ciascuno, da preconcetti e pregiudizi.

La lettura del libro di Lippmann non è sempre facilissima, ma è certamente da fare per ampliare gli orizzonti di una cultura d’impresa avveduta, consapevole, cosciente, critica e sensata. Ciò che serve anche oggi, come quasi cento anni fa.

L’opinione pubblica

Walter Lippmann

Donzelli, 2018

La “fabbrica bella”, l’industria dei grandi marchi e il “Manifesto dell’umanesimo metalmeccanico”

La “fabbrica bella” e cioè ben progettata, luminosa, accogliente e inclusiva, sicura, sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale. E “intelligente”, secondo i paradigmi digital di “Industria 4.0”. E’ la fabbrica in cui produrre il miglior made in Italy della meccanica e della gomma, della chimica e della farmaceutica, dell’arredamento, dell’alimentare e dell’abbigliamento, quelle “cose belle che piacciono al mondo” individuate, come caratteristica originale dell’industria italiana, da un grande storico dell’economia, Carlo Maria Cipolla. La definizione di “fabbrica bella” incontra il consenso di Aldo Sutter, una solida storia di impresa di famiglia alle spalle, un gruppo leader in Europa nei prodotti sostenibili e biodegradabili per la casa e la pulizia: “Sui mercati globali è la nostra identità e il nostro futuro”.

Sutter è il presidente di IBC, l’Associazione delle industrie dei beni di consumo, 30mila imprese iscritte, tra cui tutti i grandi marchi che abitano la nostra quotidianità di consumatori. Ha riunito nei giorni scorsi a Milano l’assemblea annuale dell’organizzazione. E ha molto insistito sui criteri di sostenibilità e sulla responsabilità delle imprese per migliorare la qualità della crescita economica, per contribuire a definire nuovi paradigmi di sviluppo.

Sostenibilità è dunque la parola chiave. Un’idea forte da “economia civile” (ne abbiamo parlato molte volte, in questi blog) che recupera l’elaborazione politica e tecnica degli economisti dell’Illuminismo napoletano e milanese (Antonio Genovesi, le cui “Lezioni d’economia civile” sono state ripubblicate nel 2013 da Vita e Pensiero, con prefazione di Luigino Bruni e Stefano Zamagni, ma anche Ferdinando Galiani e i fratelli Verri), del “Politecnico” ottocentesco di Carlo Cattaneo e delle migliori esperienze del Novecento industriale (Pirelli, Olivetti). E ne fa oggi il cardine del contributo originale dell’industria italiana per uno sviluppo fondato su qualità, inclusione sociale, abbattimento delle disuguaglianze.

Industria come motore di migliori equilibri, tra innovazione, competitività e solidarietà.

Industria, ancora, come luogo in cui si sperimenta e si cerca di costruire una nuova “civiltà delle macchine” in una stagione in cui la rivoluzione digitale, i robot, i processi produttivi e commerciali guidati dagli algoritmi sconvolgono vecchi equilibri di produzione e consumo, ampliano le opportunità competitive ma creano anche nuovi squilibri su molti piani: il lavoro (scompaiono mestieri e professioni tradizionali che non si sa ancora bene quanto e come saranno compensati da nuovi lavori), i redditi, le conoscenze diffuse, la salute, la partecipazione e forse gli stesse criteri di fondo della democrazia rappresentativa (per cercare di saperne di più è utile leggere “Homo premium – Come la tecnologia ci divide” di Massimo Gaggi, editorialista del Corriere della Sera, Laterza).

Sostenibilità e responsabilità. Termini ricorrenti, sempre nei giorni scorsi, pure in un altro appuntamento di grande rilievo: il primo “Sustainable Economic Forum” promosso giovedì e venerdì scorsi dalla Fondazione San Patrignano (per celebrare i quarant’anni della Comunità) e da Confindustria. I temi ricorrenti: Green bond (obbligazioni legate a progetti con impatto positivo sull’ambiente), partenariato e cioè collaborazione pubblico-privato e profit-non profit per progetti di utilità sociale e welfare sia aziendale che di territorio. Con alcune idee di fondo molto chiare: sviluppo sostenibile e responsabilità delle imprese nel recuperare “il senso della comunità”.

“Dobbiamo pensare a un futuro diverso, da costruire bene sui concetti di sostenibilità e responsabilità. Serve perciò un nuovo modello di sviluppo economico e sociale: a partire dalla crisi del 2007 sono apparsi evidenti i limiti della nostra architettura di crescita e occorre un sistema basato sulla sussidiarietà, che premia chi investe in responsabilità sociale”, ha detto Letizia Moratti, co-fondatrice di San Patrignano, facendo del “Forum” un laboratorio di idee e proposte e un richiamo all’azione” (“Corriere della Sera” e “IlSole24Ore”, 13 aprile). E Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria: “L’inclusività fa parte del nostro pensiero. Ed è nostro compito recuperare il senso della comunità che si è perso. Serve più crescita inclusiva, per ridurre i divari”. Proprio quei divari sociali, di reddito, geografici e tra generazioni che anche l’Ocse ha messo di recente in rilievo per l’Italia, considerando le crescenti diseguaglianze un freno per lo sviluppo.

Cambiamento, dunque. In campo anche un altro soggetto di grande peso, nel mondo dell’impresa, Federmeccanica, l’associazione delle industrie metalmeccaniche di Confindustria. Già protagonista, insieme ai sindacati di categoria di Cgil, CISL e Uil di un innovativo contratto di lavoro fondato su formazione, welfare aziendale, aumenti salariali legati alla produttività, Federmeccanica adesso parla di un “nuovo umanesimo metalmeccanico”, cioè di una nuova cultura d’impresa che, proprio nel cuore della “rivoluzione digitale” che cambia fabbriche e lavori, insiste su un vero e proprio “decalogo” di impegni e responsabilità. Priorità: le persone.

Di “umanesimo industriale” e “nuovo rinascimento industriale” si parla da tempo, anche nella migliore letteratura economica, cercando leve culturali per uscire dalla Grande Crisi e ridare centralità all’economia industriale, alla fabbrica, contro gli eccessi della speculazione finanziaria. Adesso, con l’elaborazione di Federmeccanica, si fa un importante passo in avanti.

Ecco i temi del “Manifesto dell’umanesimo metalmeccanico”: “Migliorare la competitività; investire sulle persone con istruzione e formazione; tutelare la salute e il benessere; promuovere la sicurezza e la protezione dell’ambiente; collegare i salari alla produttività aziendale; coinvolgere i lavoratori nella vita dell’impresa; motivare i giovani; riconoscere e affermare il ruolo delle donne; difendere attivamente l’occupazione; essere europei”. Titoli impegnativi, per un decalogo con una forte ambizione strategica. Ma anche indicazioni concrete, di metodo e merito.

Eccone un esempio: “La fabbrica intelligente si fonda sul contributo di uomini e donne che grazie al lavoro possono sviluppare la propria professionalità e la propria personalità, contribuendo con le proprie competenze, attitudini e valori al successo dell’impresa”. Persone e valori. “Umanesimo” è un nome appropriato.

La “fabbrica bella” e cioè ben progettata, luminosa, accogliente e inclusiva, sicura, sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale. E “intelligente”, secondo i paradigmi digital di “Industria 4.0”. E’ la fabbrica in cui produrre il miglior made in Italy della meccanica e della gomma, della chimica e della farmaceutica, dell’arredamento, dell’alimentare e dell’abbigliamento, quelle “cose belle che piacciono al mondo” individuate, come caratteristica originale dell’industria italiana, da un grande storico dell’economia, Carlo Maria Cipolla. La definizione di “fabbrica bella” incontra il consenso di Aldo Sutter, una solida storia di impresa di famiglia alle spalle, un gruppo leader in Europa nei prodotti sostenibili e biodegradabili per la casa e la pulizia: “Sui mercati globali è la nostra identità e il nostro futuro”.

Sutter è il presidente di IBC, l’Associazione delle industrie dei beni di consumo, 30mila imprese iscritte, tra cui tutti i grandi marchi che abitano la nostra quotidianità di consumatori. Ha riunito nei giorni scorsi a Milano l’assemblea annuale dell’organizzazione. E ha molto insistito sui criteri di sostenibilità e sulla responsabilità delle imprese per migliorare la qualità della crescita economica, per contribuire a definire nuovi paradigmi di sviluppo.

Sostenibilità è dunque la parola chiave. Un’idea forte da “economia civile” (ne abbiamo parlato molte volte, in questi blog) che recupera l’elaborazione politica e tecnica degli economisti dell’Illuminismo napoletano e milanese (Antonio Genovesi, le cui “Lezioni d’economia civile” sono state ripubblicate nel 2013 da Vita e Pensiero, con prefazione di Luigino Bruni e Stefano Zamagni, ma anche Ferdinando Galiani e i fratelli Verri), del “Politecnico” ottocentesco di Carlo Cattaneo e delle migliori esperienze del Novecento industriale (Pirelli, Olivetti). E ne fa oggi il cardine del contributo originale dell’industria italiana per uno sviluppo fondato su qualità, inclusione sociale, abbattimento delle disuguaglianze.

Industria come motore di migliori equilibri, tra innovazione, competitività e solidarietà.

Industria, ancora, come luogo in cui si sperimenta e si cerca di costruire una nuova “civiltà delle macchine” in una stagione in cui la rivoluzione digitale, i robot, i processi produttivi e commerciali guidati dagli algoritmi sconvolgono vecchi equilibri di produzione e consumo, ampliano le opportunità competitive ma creano anche nuovi squilibri su molti piani: il lavoro (scompaiono mestieri e professioni tradizionali che non si sa ancora bene quanto e come saranno compensati da nuovi lavori), i redditi, le conoscenze diffuse, la salute, la partecipazione e forse gli stesse criteri di fondo della democrazia rappresentativa (per cercare di saperne di più è utile leggere “Homo premium – Come la tecnologia ci divide” di Massimo Gaggi, editorialista del Corriere della Sera, Laterza).

Sostenibilità e responsabilità. Termini ricorrenti, sempre nei giorni scorsi, pure in un altro appuntamento di grande rilievo: il primo “Sustainable Economic Forum” promosso giovedì e venerdì scorsi dalla Fondazione San Patrignano (per celebrare i quarant’anni della Comunità) e da Confindustria. I temi ricorrenti: Green bond (obbligazioni legate a progetti con impatto positivo sull’ambiente), partenariato e cioè collaborazione pubblico-privato e profit-non profit per progetti di utilità sociale e welfare sia aziendale che di territorio. Con alcune idee di fondo molto chiare: sviluppo sostenibile e responsabilità delle imprese nel recuperare “il senso della comunità”.

“Dobbiamo pensare a un futuro diverso, da costruire bene sui concetti di sostenibilità e responsabilità. Serve perciò un nuovo modello di sviluppo economico e sociale: a partire dalla crisi del 2007 sono apparsi evidenti i limiti della nostra architettura di crescita e occorre un sistema basato sulla sussidiarietà, che premia chi investe in responsabilità sociale”, ha detto Letizia Moratti, co-fondatrice di San Patrignano, facendo del “Forum” un laboratorio di idee e proposte e un richiamo all’azione” (“Corriere della Sera” e “IlSole24Ore”, 13 aprile). E Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria: “L’inclusività fa parte del nostro pensiero. Ed è nostro compito recuperare il senso della comunità che si è perso. Serve più crescita inclusiva, per ridurre i divari”. Proprio quei divari sociali, di reddito, geografici e tra generazioni che anche l’Ocse ha messo di recente in rilievo per l’Italia, considerando le crescenti diseguaglianze un freno per lo sviluppo.

Cambiamento, dunque. In campo anche un altro soggetto di grande peso, nel mondo dell’impresa, Federmeccanica, l’associazione delle industrie metalmeccaniche di Confindustria. Già protagonista, insieme ai sindacati di categoria di Cgil, CISL e Uil di un innovativo contratto di lavoro fondato su formazione, welfare aziendale, aumenti salariali legati alla produttività, Federmeccanica adesso parla di un “nuovo umanesimo metalmeccanico”, cioè di una nuova cultura d’impresa che, proprio nel cuore della “rivoluzione digitale” che cambia fabbriche e lavori, insiste su un vero e proprio “decalogo” di impegni e responsabilità. Priorità: le persone.

Di “umanesimo industriale” e “nuovo rinascimento industriale” si parla da tempo, anche nella migliore letteratura economica, cercando leve culturali per uscire dalla Grande Crisi e ridare centralità all’economia industriale, alla fabbrica, contro gli eccessi della speculazione finanziaria. Adesso, con l’elaborazione di Federmeccanica, si fa un importante passo in avanti.

Ecco i temi del “Manifesto dell’umanesimo metalmeccanico”: “Migliorare la competitività; investire sulle persone con istruzione e formazione; tutelare la salute e il benessere; promuovere la sicurezza e la protezione dell’ambiente; collegare i salari alla produttività aziendale; coinvolgere i lavoratori nella vita dell’impresa; motivare i giovani; riconoscere e affermare il ruolo delle donne; difendere attivamente l’occupazione; essere europei”. Titoli impegnativi, per un decalogo con una forte ambizione strategica. Ma anche indicazioni concrete, di metodo e merito.

Eccone un esempio: “La fabbrica intelligente si fonda sul contributo di uomini e donne che grazie al lavoro possono sviluppare la propria professionalità e la propria personalità, contribuendo con le proprie competenze, attitudini e valori al successo dell’impresa”. Persone e valori. “Umanesimo” è un nome appropriato.

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