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Ambiente innovatore

Una ricerca della Aarhus University di Herning in Danimarca ragiona sulle relazioni fra idee nuove e ambiente nel quale nascono

 

Innovare è anche una questione di ambiente umano e fisico. Le imprese in prima fila proprio in termini di innovazione lo sanno bene. L’innovazione nasce da un insieme di condizioni e umori, di circostanze e attimi, che non sempre sono prevedibili e inquadrabili in schemi ingegneristici. E’ da qui che nasce la necessità di osservare bene le situazioni e le condizioni nelle quali l’innovazione si manifesta.

E’ quanto hanno fatto Ioana-Cosmina Radu e Peter Lindgren (ricercatori entrambi del Technology Based Business Development, alla Aarhus University, Herning in Danimarca).

“Fostering optimal business model innovation environments ‘the foodtech challenge case study’”, pubblicato in febbraio, indaga esattamente sulle relazioni fra innovazione, ambiente aziendale e influenza di questo sulle persone che in azienda lavorano. Perché il nocciolo del tema è poi sempre lo stesso: l’innovazione nasce dalle persone poste in condizioni favorevoli al suo sviluppo e alla sua manifestazione.

La ricerca parte dalla constatazione della necessità per le imprese di stare al passo con i tempi rapidi di mutamento della concorrenza e dei mercati. Un passo che ha proprio nell’innovazione una delle sue levi principali. Ma, viene spiegato “nonostante i massicci investimenti in termini di tempo e denaro della gestione, l’innovazione rimane un’attività frustrante in molte aziende. Le iniziative di innovazione spesso falliscono e gli innovatori di successo hanno difficoltà a sostenere le loro prestazioni”. La domanda alla quale gli autori cercano di rispondere è: quindi cosa occorre fare?

Mettendo in correlazione le modalità di organizzazione del lavoro delle imprese davvero innovative con le condizioni stesse di lavoro presenti in queste, i due ricercatori arrivano alla conclusione che “Molte aziende che hanno abbracciato l’innovazione hanno uno spazio speciale per il processo di innovazione che è stato progettato per adattarsi alla loro cultura aziendale e allo stesso tempo dare spazio alla creatività”.

Ma non basta, perché il binomio innovazione-spazi deve fare i conti anche con le persone che lavorano in quegli ambienti. “Le aziende – scrivo Radu e Lindgren – devono prendere in considerazione il fatto che questi ambienti di innovazione influenzano le persone che lavorano all’interno. Comprendere la connessione tra l’ambiente e le persone facilita l’ottimizzazione di quell’ambiente in modo tale che l’atteggiamento, il comportamento, la soddisfazione e le prestazioni lavorative di coloro che lavorano all’interno dell’ambiente di innovazione siano migliorati”. Tenendo poi conto che l’ambiente è fatto anche da condizioni fisiche oltre che sociali, la ricerca punta l’attenzione anche su alcuni “elementi ambientali” come  temperatura, umidità, livelli di anidride carbonica.

La ricerca di Ioana-Cosmina Radu e Peter Lindgren indica in modo sintetico come la cultura della buona impresa può e deve continuamente cambiare e quanto sia sempre fondamentale l’importanza della considerazione delle donne e degli uomini che nelle organizzazioni aziendali vivono e lavorano.

Fostering optimal business model innovation environments “the foodtech challenge case study”

Ioana-Cosmina Radu, Peter Lindgren

IEEE Xplore, 22 February 2018 , Wireless Summit (GWS), 2017 Global

Una ricerca della Aarhus University di Herning in Danimarca ragiona sulle relazioni fra idee nuove e ambiente nel quale nascono

 

Innovare è anche una questione di ambiente umano e fisico. Le imprese in prima fila proprio in termini di innovazione lo sanno bene. L’innovazione nasce da un insieme di condizioni e umori, di circostanze e attimi, che non sempre sono prevedibili e inquadrabili in schemi ingegneristici. E’ da qui che nasce la necessità di osservare bene le situazioni e le condizioni nelle quali l’innovazione si manifesta.

E’ quanto hanno fatto Ioana-Cosmina Radu e Peter Lindgren (ricercatori entrambi del Technology Based Business Development, alla Aarhus University, Herning in Danimarca).

“Fostering optimal business model innovation environments ‘the foodtech challenge case study’”, pubblicato in febbraio, indaga esattamente sulle relazioni fra innovazione, ambiente aziendale e influenza di questo sulle persone che in azienda lavorano. Perché il nocciolo del tema è poi sempre lo stesso: l’innovazione nasce dalle persone poste in condizioni favorevoli al suo sviluppo e alla sua manifestazione.

La ricerca parte dalla constatazione della necessità per le imprese di stare al passo con i tempi rapidi di mutamento della concorrenza e dei mercati. Un passo che ha proprio nell’innovazione una delle sue levi principali. Ma, viene spiegato “nonostante i massicci investimenti in termini di tempo e denaro della gestione, l’innovazione rimane un’attività frustrante in molte aziende. Le iniziative di innovazione spesso falliscono e gli innovatori di successo hanno difficoltà a sostenere le loro prestazioni”. La domanda alla quale gli autori cercano di rispondere è: quindi cosa occorre fare?

Mettendo in correlazione le modalità di organizzazione del lavoro delle imprese davvero innovative con le condizioni stesse di lavoro presenti in queste, i due ricercatori arrivano alla conclusione che “Molte aziende che hanno abbracciato l’innovazione hanno uno spazio speciale per il processo di innovazione che è stato progettato per adattarsi alla loro cultura aziendale e allo stesso tempo dare spazio alla creatività”.

Ma non basta, perché il binomio innovazione-spazi deve fare i conti anche con le persone che lavorano in quegli ambienti. “Le aziende – scrivo Radu e Lindgren – devono prendere in considerazione il fatto che questi ambienti di innovazione influenzano le persone che lavorano all’interno. Comprendere la connessione tra l’ambiente e le persone facilita l’ottimizzazione di quell’ambiente in modo tale che l’atteggiamento, il comportamento, la soddisfazione e le prestazioni lavorative di coloro che lavorano all’interno dell’ambiente di innovazione siano migliorati”. Tenendo poi conto che l’ambiente è fatto anche da condizioni fisiche oltre che sociali, la ricerca punta l’attenzione anche su alcuni “elementi ambientali” come  temperatura, umidità, livelli di anidride carbonica.

La ricerca di Ioana-Cosmina Radu e Peter Lindgren indica in modo sintetico come la cultura della buona impresa può e deve continuamente cambiare e quanto sia sempre fondamentale l’importanza della considerazione delle donne e degli uomini che nelle organizzazioni aziendali vivono e lavorano.

Fostering optimal business model innovation environments “the foodtech challenge case study”

Ioana-Cosmina Radu, Peter Lindgren

IEEE Xplore, 22 February 2018 , Wireless Summit (GWS), 2017 Global

Campioni “comuni”

Pubblicata in un libro la storia di alcune imprese esempio di resilienza di fronte alla crisi

 

Le imprese e gli imprenditori che vincono esistono anche in Italia. E non sono solamente grandi nomi, ma anche entità pressoché sconosciute che alla fine fanno il nerbo portante di tutta l’economia nazionale. Campioni non unici ma diffusi, “comuni”,  di una italianità del fare impresa, con una propria cultura e un proprio modo di intendere profitto e responsabilità sociale, che rappresentano altrettanti esempi magari non da imitare pedissequamente ma certamente da cui trarre ispirazione.

Filiberto Zovico è andato a cercare alcune di queste aziende che riescono a dare del filo da torcere –in quanto a competitività -, alle grandi imprese. Partendo dalla constatazione che per queste la grande crisi del 2007-2008 ha rappresentato un’opportunità di riconversione strategica, di processi e di mercati e non invece il colpo finale.

Il libro dopo una breve parte di inquadramento teorico e di metodo, racconta quindi la storia di 12 realtà aziendali tratte dalle 500 che in questi anni sono cresciute con tassi di sviluppo a doppia cifra. Scorrono sotto gli occhi di legge le vicende di Co.Mac., Traconf, Brevetti CEA, Cattelan Italia, Manifattura Colombo, Comelit e GPS, Innova Group, Lurisia, Kask, Amer, Astoria, Bella Italia. Ogni azienda è caratterizzata da un tratto distintivo, che fa comprendere il “segreto” del suo successo. Tutte sono accomunate da una straordinaria resilienza e dalla capacità di imparare anche dalle inevitabili scelte errate che accompagnano l’evoluzione di qualsiasi azienda, sono realtà i cui modelli di business si dimostrano efficienti anche in presenza di fattori avversi. Il loro racconto è la parte più importante del libro.

Ma la fatica di scrittura di Zovico non si ferma qui. Un’attenzione particolare infatti è dedicata alle sfide che queste imprese e le istituzioni di riferimento – politiche, educative e di categoria – dovranno affrontare nei prossimi anni per poter fare di questo straordinario patrimonio imprenditoriale un motore reale di ripresa per l’intero Paese.

Interessante la Prefazione di Dario Di Vico che punta l’attenzione su due particolari elementi essenziali che emergono come condizioni di successo: la presenza di “capitali pazienti esterni alle famiglie proprietarie” e quella di un “capitale umano” che sia in grado di accompagnare queste realtà.

Nuove imprese. Chi sono i champions che competono con le global companies

Filiberto Zovico

EGEA, 2018

        

Pubblicata in un libro la storia di alcune imprese esempio di resilienza di fronte alla crisi

 

Le imprese e gli imprenditori che vincono esistono anche in Italia. E non sono solamente grandi nomi, ma anche entità pressoché sconosciute che alla fine fanno il nerbo portante di tutta l’economia nazionale. Campioni non unici ma diffusi, “comuni”,  di una italianità del fare impresa, con una propria cultura e un proprio modo di intendere profitto e responsabilità sociale, che rappresentano altrettanti esempi magari non da imitare pedissequamente ma certamente da cui trarre ispirazione.

Filiberto Zovico è andato a cercare alcune di queste aziende che riescono a dare del filo da torcere –in quanto a competitività -, alle grandi imprese. Partendo dalla constatazione che per queste la grande crisi del 2007-2008 ha rappresentato un’opportunità di riconversione strategica, di processi e di mercati e non invece il colpo finale.

Il libro dopo una breve parte di inquadramento teorico e di metodo, racconta quindi la storia di 12 realtà aziendali tratte dalle 500 che in questi anni sono cresciute con tassi di sviluppo a doppia cifra. Scorrono sotto gli occhi di legge le vicende di Co.Mac., Traconf, Brevetti CEA, Cattelan Italia, Manifattura Colombo, Comelit e GPS, Innova Group, Lurisia, Kask, Amer, Astoria, Bella Italia. Ogni azienda è caratterizzata da un tratto distintivo, che fa comprendere il “segreto” del suo successo. Tutte sono accomunate da una straordinaria resilienza e dalla capacità di imparare anche dalle inevitabili scelte errate che accompagnano l’evoluzione di qualsiasi azienda, sono realtà i cui modelli di business si dimostrano efficienti anche in presenza di fattori avversi. Il loro racconto è la parte più importante del libro.

Ma la fatica di scrittura di Zovico non si ferma qui. Un’attenzione particolare infatti è dedicata alle sfide che queste imprese e le istituzioni di riferimento – politiche, educative e di categoria – dovranno affrontare nei prossimi anni per poter fare di questo straordinario patrimonio imprenditoriale un motore reale di ripresa per l’intero Paese.

Interessante la Prefazione di Dario Di Vico che punta l’attenzione su due particolari elementi essenziali che emergono come condizioni di successo: la presenza di “capitali pazienti esterni alle famiglie proprietarie” e quella di un “capitale umano” che sia in grado di accompagnare queste realtà.

Nuove imprese. Chi sono i champions che competono con le global companies

Filiberto Zovico

EGEA, 2018

          

Riforme dell’economia e sviluppo sostenibile riguardando “L’Allegoria del buon Governo”

Per riflettere criticamente sull’economia contemporanea, superare i vincoli del Pil (il prodotto interno lordo) e ragionare su benessere e felicità e cioè sulla qualità della vita, si può utilmente partire da un’opera d’arte del Trecento italiano, “L’allegoria e gli effetti del Buono e del Cattivo Governo”, dipinta da Ambrogio Lorenzetti fra il 1338 e il 1339, sulle pareti della “Sala dei Nove” o “della Pace” del Palazzo Pubblico di Siena. Il Cattivo Governo, nella raffigurazione, determina disordine, miseria, rovine. Il Buon Governo anima commerci prosperi, campagne ben coltivate, botteghe artigiane operose ed è accompagnato da cortei in allegria, feste, manifestazioni evidenti di felicità. Siena, città Stato ricca e potente, ne era forte e fiera.

Ecco il punto: considerare l’economia non come “scienza triste” (secondo la definizione critica di Thomas Carlyle) ma come un insieme di conoscenze e competenze che mirano non solo alla ricchezza, ma soprattutto al benessere. Una svolta culturale radicale rispetto ai meccanismi che puntano al massimo dell’accumulazione e alla crescita del valore economico dei beni di chi già ne ha. E un passaggio dall’individualismo sovrano dominato dalla competizione antagonista dell’homo homini lupus all’idea forte dell’homo homini natura amicus. Un’idea che aveva animato le lezioni d’economia di Antonio Genovesi, padre delle scienze economiche, intelligenza di punta dell’Illuminismo napoletano, apprezzato dal philosophes di Parigi come l’amico e allievo abate Ferdinando Galiani e considerato maestro da Adam Smith. Conosceva bene il dipinto di Lorenzetti, Genovesi. E proprio a lui si devono le riflessioni sull’obiettivo della “pubblica felicità” e su quella “economia civile” che oggi torna d’attualità, nel tentativo di riparare ai guasti della stagione della rapacità finanziaria e della crescita egoistica, che genera crescenti e inaccettabili diseguaglianze.

Economia civile, felicità, benessere, competizione legata con cooperazione sono state parole ricorrenti nel corso di un recente incontro dal titolo suggestivo, “Processo all’economia. Demografia, democrazia e felicità”, organizzato dalla Luiss in collaborazione con il Cortile del Gentili, la struttura promossa dal Pontificio Consiglio della Cultura, guidato dal cardinale Gianfranco Ravasi, per favorire il dialogo tra credenti e non sulle grandi sfide della società contemporanea (ne parla Il Sole24Ore, 15 marzo).

Non solo crescita economica e profitto, s’è detto. Ma benessere e sviluppo. Non si va avanti con processi economici fondati sul dumping ambientale e sociale, con attività economiche segnate da bassi salari, scarsa sicurezza sul lavoro, rapina e devastazione dell’ambiente, concorrenza illegale. E se la ricerca del profitto resta centrale nell’attività delle imprese, quel profitto va ricercato in condizioni di sostenibilità ambientale e sociale, con un’attenzione forte delle imprese stesse non solo ai loro shareholders, gli azionisti, ma soprattutto agli stakeholders, tutti i soggetti sociali che hanno relazioni con l’impresa: i dipendenti, le comunità e i territori, i fornitori, i consumatori. Dal valore (il profitto) ai valori.

E’ un percorso possibile, su cui da tempo si riflette, in cerca di una teoria economica che tenga fermi i valori liberali, mettendoli però in connessione con quelli di una responsabile socialità.

Al “Processo all’economia” di Roma un contributo importante è arrivato da Jeffrey D. Sachs, economista di grande spessore, direttore dell’Earth Institute alla Columbia University e ascoltato da Papa Bergoglio proprio sui temi dell’ambiente e della lotta alla povertà e agli squilibri sociali.

“L’economia sociale di mercato” cara alla tradizione culturale europea, è stata indicata da Sachs come un punto di riferimento su cui ragionare (pure per le riforme del welfare). Ma anche la Costituzione Italiana, permeata di valori di socialità e intraprendenza, libertà e riscatto sociale, può offrire importanti spunti di riflessione (in occasione del settant’anni dalla sua entrata in vigore, potrebbe essere quanto mai utile rileggere gli atti dell’Assemblea Costituente e discutere sull’attualità delle analisi dei Padri Costituenti, da Piero Calamandrei a Costantino Mortati, da De Gasperi a Togliatti, da Nenni all’allora giovanissimo Aldo Moro, già molto sensibile al pensiero sociale d’ispirazione cristiana).  

Stanno in quest’ambito di dibattito le critiche all’ossessione della crescita del Pil, una dimensione solo quantitativa della ricchezza e le ricerche aperte sul passaggio non dalla crescita alla decrescita (mai comunque “felice”) ma dalla crescita allo sviluppo sostenibile. E l’indice di riferimento può essere il Bes, che misura appunto il “Benessere equo e sostenibile” e che da alcuni anni i governi italiani tengono in attenta considerazione per la preparazione del Def, il principale documento di guida dell’economia del paese.

C’è un altro indicatore di cui tenere conto: il “World Happiness Report”, la cui edizione 2018, la sesta, è stata presentata nei giorni scorsi in Vaticano (Corriere della Sera, 14 marzo), in occasione della “Giornata mondiale della felicità” istituita dall’Onu (la ricorrenza è il 20 marzo) per chiedere ai governi “un approccio più inclusivo, equo ed equilibrato alla crescita economica che promuova lo sviluppo sostenibile, l’eradicazione della povertà, la felicità e il benessere di tutte le persone”. Non si tratta di buone intenzioni. Ma di indicazioni politiche. Di strategie di scelta tra un’economia dell’accumulazione, delle chiusure e delle diseguaglianze e un’economia in cui competitività, ricchezza e inclusione sociale sono processi convergenti.

In quell’”Indice della felicità”, costruito tenendo conto di parecchi indicatori (reddito pro-capite, sostegno sociale, aspettativa di una vita sana, libertà delle scelte di vita, generosità, percezione della corruzione e lunghezza della vita rispetto ai parametri socio-sanitari del paese), al primo posto c’è la Finlandia, seguita da Norvegia, Danimarca e Islanda. La Germania è al 15° posto, seguita dagli Usa e dalla Gran Bretagna. La Francia al 23°. L’Italia al 47°: era al 28° nel 2012, poi è precipitata al 50° a causa degli effetti, per noi particolarmente pesanti, della Grande Crisi e adesso sta lentamente recuperando posizioni.

E’ una sfida politica, passare dalla crescita allo sviluppo. Riguarda i cittadini, le imprese che proprio sulla sostenibilità e sulla responsabilità sociale fondano la loro competitività, gli amministratori pubblici, la politica. Una sfida del “Buon Governo”. Come sapevano bene, già nel Trecento, il sapiente Ambrogio Lorenzetti e i lungimiranti Nove governanti di Siena.

Per riflettere criticamente sull’economia contemporanea, superare i vincoli del Pil (il prodotto interno lordo) e ragionare su benessere e felicità e cioè sulla qualità della vita, si può utilmente partire da un’opera d’arte del Trecento italiano, “L’allegoria e gli effetti del Buono e del Cattivo Governo”, dipinta da Ambrogio Lorenzetti fra il 1338 e il 1339, sulle pareti della “Sala dei Nove” o “della Pace” del Palazzo Pubblico di Siena. Il Cattivo Governo, nella raffigurazione, determina disordine, miseria, rovine. Il Buon Governo anima commerci prosperi, campagne ben coltivate, botteghe artigiane operose ed è accompagnato da cortei in allegria, feste, manifestazioni evidenti di felicità. Siena, città Stato ricca e potente, ne era forte e fiera.

Ecco il punto: considerare l’economia non come “scienza triste” (secondo la definizione critica di Thomas Carlyle) ma come un insieme di conoscenze e competenze che mirano non solo alla ricchezza, ma soprattutto al benessere. Una svolta culturale radicale rispetto ai meccanismi che puntano al massimo dell’accumulazione e alla crescita del valore economico dei beni di chi già ne ha. E un passaggio dall’individualismo sovrano dominato dalla competizione antagonista dell’homo homini lupus all’idea forte dell’homo homini natura amicus. Un’idea che aveva animato le lezioni d’economia di Antonio Genovesi, padre delle scienze economiche, intelligenza di punta dell’Illuminismo napoletano, apprezzato dal philosophes di Parigi come l’amico e allievo abate Ferdinando Galiani e considerato maestro da Adam Smith. Conosceva bene il dipinto di Lorenzetti, Genovesi. E proprio a lui si devono le riflessioni sull’obiettivo della “pubblica felicità” e su quella “economia civile” che oggi torna d’attualità, nel tentativo di riparare ai guasti della stagione della rapacità finanziaria e della crescita egoistica, che genera crescenti e inaccettabili diseguaglianze.

Economia civile, felicità, benessere, competizione legata con cooperazione sono state parole ricorrenti nel corso di un recente incontro dal titolo suggestivo, “Processo all’economia. Demografia, democrazia e felicità”, organizzato dalla Luiss in collaborazione con il Cortile del Gentili, la struttura promossa dal Pontificio Consiglio della Cultura, guidato dal cardinale Gianfranco Ravasi, per favorire il dialogo tra credenti e non sulle grandi sfide della società contemporanea (ne parla Il Sole24Ore, 15 marzo).

Non solo crescita economica e profitto, s’è detto. Ma benessere e sviluppo. Non si va avanti con processi economici fondati sul dumping ambientale e sociale, con attività economiche segnate da bassi salari, scarsa sicurezza sul lavoro, rapina e devastazione dell’ambiente, concorrenza illegale. E se la ricerca del profitto resta centrale nell’attività delle imprese, quel profitto va ricercato in condizioni di sostenibilità ambientale e sociale, con un’attenzione forte delle imprese stesse non solo ai loro shareholders, gli azionisti, ma soprattutto agli stakeholders, tutti i soggetti sociali che hanno relazioni con l’impresa: i dipendenti, le comunità e i territori, i fornitori, i consumatori. Dal valore (il profitto) ai valori.

E’ un percorso possibile, su cui da tempo si riflette, in cerca di una teoria economica che tenga fermi i valori liberali, mettendoli però in connessione con quelli di una responsabile socialità.

Al “Processo all’economia” di Roma un contributo importante è arrivato da Jeffrey D. Sachs, economista di grande spessore, direttore dell’Earth Institute alla Columbia University e ascoltato da Papa Bergoglio proprio sui temi dell’ambiente e della lotta alla povertà e agli squilibri sociali.

“L’economia sociale di mercato” cara alla tradizione culturale europea, è stata indicata da Sachs come un punto di riferimento su cui ragionare (pure per le riforme del welfare). Ma anche la Costituzione Italiana, permeata di valori di socialità e intraprendenza, libertà e riscatto sociale, può offrire importanti spunti di riflessione (in occasione del settant’anni dalla sua entrata in vigore, potrebbe essere quanto mai utile rileggere gli atti dell’Assemblea Costituente e discutere sull’attualità delle analisi dei Padri Costituenti, da Piero Calamandrei a Costantino Mortati, da De Gasperi a Togliatti, da Nenni all’allora giovanissimo Aldo Moro, già molto sensibile al pensiero sociale d’ispirazione cristiana).  

Stanno in quest’ambito di dibattito le critiche all’ossessione della crescita del Pil, una dimensione solo quantitativa della ricchezza e le ricerche aperte sul passaggio non dalla crescita alla decrescita (mai comunque “felice”) ma dalla crescita allo sviluppo sostenibile. E l’indice di riferimento può essere il Bes, che misura appunto il “Benessere equo e sostenibile” e che da alcuni anni i governi italiani tengono in attenta considerazione per la preparazione del Def, il principale documento di guida dell’economia del paese.

C’è un altro indicatore di cui tenere conto: il “World Happiness Report”, la cui edizione 2018, la sesta, è stata presentata nei giorni scorsi in Vaticano (Corriere della Sera, 14 marzo), in occasione della “Giornata mondiale della felicità” istituita dall’Onu (la ricorrenza è il 20 marzo) per chiedere ai governi “un approccio più inclusivo, equo ed equilibrato alla crescita economica che promuova lo sviluppo sostenibile, l’eradicazione della povertà, la felicità e il benessere di tutte le persone”. Non si tratta di buone intenzioni. Ma di indicazioni politiche. Di strategie di scelta tra un’economia dell’accumulazione, delle chiusure e delle diseguaglianze e un’economia in cui competitività, ricchezza e inclusione sociale sono processi convergenti.

In quell’”Indice della felicità”, costruito tenendo conto di parecchi indicatori (reddito pro-capite, sostegno sociale, aspettativa di una vita sana, libertà delle scelte di vita, generosità, percezione della corruzione e lunghezza della vita rispetto ai parametri socio-sanitari del paese), al primo posto c’è la Finlandia, seguita da Norvegia, Danimarca e Islanda. La Germania è al 15° posto, seguita dagli Usa e dalla Gran Bretagna. La Francia al 23°. L’Italia al 47°: era al 28° nel 2012, poi è precipitata al 50° a causa degli effetti, per noi particolarmente pesanti, della Grande Crisi e adesso sta lentamente recuperando posizioni.

E’ una sfida politica, passare dalla crescita allo sviluppo. Riguarda i cittadini, le imprese che proprio sulla sostenibilità e sulla responsabilità sociale fondano la loro competitività, gli amministratori pubblici, la politica. Una sfida del “Buon Governo”. Come sapevano bene, già nel Trecento, il sapiente Ambrogio Lorenzetti e i lungimiranti Nove governanti di Siena.

Grafica al femminile. Le designer per Pirelli adv

Una Pirelli tutta al femminile a marzo 2018. Abbiamo parlato altrove di attrici testimonial pubblicitarie, e poi di scrittrici. Non potevano mancare le designer che, tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, hanno contribuito a creare uno stile grafico pressoché unico nella storia della comunicazione visiva. Il nostro racconto si snoda seguendo due libri, entrambi realizzati dalla Fondazione Pirelli per Corraini Edizioni: “Una musa tra le ruote” (2015) e “La Pubblicità con la P maiuscola” (2017). Sono due volumi che studiano e documentano la storia della pubblicità Pirelli: dalla fine del XIX secolo fino agli anni Sessanta del Novecento il primo, dagli anni Settanta ai primi anni Duemila il secondo. Come a dire, dall’era del disegnatore-pittore che creava il capolavoro unico all’età della grafica computerizzata riproducibile all’infinito, dalla figura dell’artista “libero pensatore” al dominio delle agenzie di creativi. Le designer che abbiamo scelto ben rappresentano questi due periodi: Jeanne Michot Grignani da una parte, Christiane Beylier e Christa Tschopp dall’altra.

Illustratrice e figurinista, Jeanne Michot -sposerà poi il designer Franco Grignani– nasce in Ucraina da genitori francesi emigrati. Dopo la Rivoluzione d’ottobre del 1917 la famiglia fugge dalla Russia verso l’Europa Occidentale, prima a Londra poi a Parigi e infine in Italia. Fin dalla più giovane età Jeanne manifesta la sua predilezione per il disegno, in particolar modo per quello della moda. Assieme al marito Franco collabora alla realizzazione di grandi campagne pubblicitarie per molti importanti marchi italiani: per Pirelli, in particolare, Jeanne Grignani disegna l’elegantissima linea di impermeabili prodotti dall’Azienda Arona tra il 1950 e il 1955. Le modelle e i modelli sono resi con morbide e veloci pennellate: le donne, di grande femminilità, portano capi a vita stretta con il collo rialzato e trench con ampie maniche. E’ la moda del boom economico.

Poi il boom finisce: cambia profondamente il concetto di creatività, cambia il modo di fare comunicazione visiva. E’ il momento delle agenzie pubblicitarie che operano su precisi briefing dati dalle aziende: Pirelli ha la propria agenzia interna e la chiama Centro, da cui passano i tanti grafici della nuova era. La raccolta di immagini contenute nel volume “La pubblicità con la P maiuscola” –  dedicato anche all’attività dell’Agenzia Centro a partire dai tardi anni Sessanta – si apre con realizzazioni grafiche ancora una volta  declinate “al femminile”. E’ il 1966 quando la designer Christiane Beylier prova a rendere immediatamente percepibile la dimensione globale del Gruppo Pirelli, del suo essere multinazionale e multiprodotto, in grado di operare in svariati settori, “giocando” con la duttilità del logo aziendale. Il marchio con la P lunga le consente infatti di sperimentare un gioco di duplicazioni e proiezioni attraverso le quali dare forma quasi viva alle diverse attività aziendali: dalle rifrangenze dei “prodotti per la casa” alle geometrie del “turismo e sport”, dai cerchi concentrici del settore armatoriale all’effetto-filato dei prodotti per l’industria tessile. Siamo in piena pop-art: una sperimentazione sul linguaggio universale dei segni che trova conferma nelle campagne pubblicitarie fatte di innumerevoli loghi Pirelli, immaginate da Christa Tschopp per l’Agenzia Centro nel 1970. E’ ormai alle porte l’Era Informatica.

Una Pirelli tutta al femminile a marzo 2018. Abbiamo parlato altrove di attrici testimonial pubblicitarie, e poi di scrittrici. Non potevano mancare le designer che, tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, hanno contribuito a creare uno stile grafico pressoché unico nella storia della comunicazione visiva. Il nostro racconto si snoda seguendo due libri, entrambi realizzati dalla Fondazione Pirelli per Corraini Edizioni: “Una musa tra le ruote” (2015) e “La Pubblicità con la P maiuscola” (2017). Sono due volumi che studiano e documentano la storia della pubblicità Pirelli: dalla fine del XIX secolo fino agli anni Sessanta del Novecento il primo, dagli anni Settanta ai primi anni Duemila il secondo. Come a dire, dall’era del disegnatore-pittore che creava il capolavoro unico all’età della grafica computerizzata riproducibile all’infinito, dalla figura dell’artista “libero pensatore” al dominio delle agenzie di creativi. Le designer che abbiamo scelto ben rappresentano questi due periodi: Jeanne Michot Grignani da una parte, Christiane Beylier e Christa Tschopp dall’altra.

Illustratrice e figurinista, Jeanne Michot -sposerà poi il designer Franco Grignani– nasce in Ucraina da genitori francesi emigrati. Dopo la Rivoluzione d’ottobre del 1917 la famiglia fugge dalla Russia verso l’Europa Occidentale, prima a Londra poi a Parigi e infine in Italia. Fin dalla più giovane età Jeanne manifesta la sua predilezione per il disegno, in particolar modo per quello della moda. Assieme al marito Franco collabora alla realizzazione di grandi campagne pubblicitarie per molti importanti marchi italiani: per Pirelli, in particolare, Jeanne Grignani disegna l’elegantissima linea di impermeabili prodotti dall’Azienda Arona tra il 1950 e il 1955. Le modelle e i modelli sono resi con morbide e veloci pennellate: le donne, di grande femminilità, portano capi a vita stretta con il collo rialzato e trench con ampie maniche. E’ la moda del boom economico.

Poi il boom finisce: cambia profondamente il concetto di creatività, cambia il modo di fare comunicazione visiva. E’ il momento delle agenzie pubblicitarie che operano su precisi briefing dati dalle aziende: Pirelli ha la propria agenzia interna e la chiama Centro, da cui passano i tanti grafici della nuova era. La raccolta di immagini contenute nel volume “La pubblicità con la P maiuscola” –  dedicato anche all’attività dell’Agenzia Centro a partire dai tardi anni Sessanta – si apre con realizzazioni grafiche ancora una volta  declinate “al femminile”. E’ il 1966 quando la designer Christiane Beylier prova a rendere immediatamente percepibile la dimensione globale del Gruppo Pirelli, del suo essere multinazionale e multiprodotto, in grado di operare in svariati settori, “giocando” con la duttilità del logo aziendale. Il marchio con la P lunga le consente infatti di sperimentare un gioco di duplicazioni e proiezioni attraverso le quali dare forma quasi viva alle diverse attività aziendali: dalle rifrangenze dei “prodotti per la casa” alle geometrie del “turismo e sport”, dai cerchi concentrici del settore armatoriale all’effetto-filato dei prodotti per l’industria tessile. Siamo in piena pop-art: una sperimentazione sul linguaggio universale dei segni che trova conferma nelle campagne pubblicitarie fatte di innumerevoli loghi Pirelli, immaginate da Christa Tschopp per l’Agenzia Centro nel 1970. E’ ormai alle porte l’Era Informatica.

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Fondazione Pirelli a Tempo di libri: cultura verso il futuro

Competenze a tutto campo

Un libro curato dalla Fondazione Agnelli fornisce la fotografia aggiornata e dettagliata del significato di una delle componenti fondamentali della cultura del produrre e del buon vivere

 

L’impresa avveduta cura le competenze di chi vi lavora. Questione di bilanci ma anche di ambiente, di efficienza produttiva ma pure di pulizia mentale. Passaggio obbligato verso una gestione efficace dell’organizzazione della produzione, quello delle competenze è però un passaggio tutt’altro che scontato e chiaro. Ad iniziare dalla definizione stessa di competenza, per  andare poi alla sua applicazione e realizzazione negli ambienti di lavoro. ”Le competenze. Una mappa per orientarsi”, il libro da poco pubblicato dalla Fondazione Agnelli aiuta proprio a capire questa parte della gestione e della cultura d’impresa.

La squadra di ricercatori che ha ragionato attorno all’idea di competenza ha iniziato a lavorare partendo dalla constatazione che quello della “competenza” è un concetto ricorrente nel linguaggio comune così come nei dibattiti scientifici, politici, professionali ma finora privo di una codificazione semantica precisa. Il libro – circa duecento pagine – esplora quindi non solo il concetto in se’ ma anche gli usi e i significati del termine in diversi settori disciplinari, nei sistemi scolastici, in campo manageriale e di gestione delle risorse umane.

Il volume – curato da Luciano Benadusi (già professore ordinario di Sociologia presso La Sapienza ) e da Stefano Molina (dirigente di ricerca presso la Fondazione Agnelli di Torino) –, inizia quindi con il dare risposta ad una domanda semplice: “Di cosa parliamo quando parliamo di competenze?”. E prosegue poi con un secondo capitolo che affronta più da vicino le definizioni di competenze per poi passare ad approfondire il concetto prima nelle sue applicazioni legate al mondo del lavoro e, poi, nell’ambito dei sistemi educativi e della formazione. Dalla metà del libro in avanti, invece, lo sguardo passa da livello nazionale a quello internazionale e torna quindi ad un punto preciso: il rapporto fra competenze e scuola in Italia. Proprio l’attenzione – condivisibile –, sui legami fra crescita delle competenze e sistema formativo-scolastico, costituisce poi il nocciolo vero delle conclusioni del libro.

La fatica di ricerca del gruppo di lavoro della Fondazione Agnelli, a tratti non è una lettura agevole ma è certamente una lettura da fare da parte di chi vuole capire di più del destino della persone nelle imprese e nella società. Bello e denso il messaggio che viene dato proprio alla fine del libro: “Il tema delle competenze è destinato ad accompagnarci ancora a lungo. Che si tratti di fornire risposte adeguate alle preoccupazioni di occupabilità a medio-lungo termine espresse da famiglie e da imprese, o di costruire basi solide per una cittadinanza davvero attiva e responsabile, o per uno sviluppo improntato a criteri di sostenibilità, esse continueranno a essere oggetto di una doverosa attenzione da parte dei sistemi educativi. Perché ragionare di competenze significa, in ultima analisi, interrogarsi sulla direzione che vogliamo imprimere al futuro del lavoro e al futuro della democrazia”.

Le competenze. Una mappa per orientarsi

Luciano Benadusi, Stefano Molina (a cura di)

il Mulino, 2018

Un libro curato dalla Fondazione Agnelli fornisce la fotografia aggiornata e dettagliata del significato di una delle componenti fondamentali della cultura del produrre e del buon vivere

 

L’impresa avveduta cura le competenze di chi vi lavora. Questione di bilanci ma anche di ambiente, di efficienza produttiva ma pure di pulizia mentale. Passaggio obbligato verso una gestione efficace dell’organizzazione della produzione, quello delle competenze è però un passaggio tutt’altro che scontato e chiaro. Ad iniziare dalla definizione stessa di competenza, per  andare poi alla sua applicazione e realizzazione negli ambienti di lavoro. ”Le competenze. Una mappa per orientarsi”, il libro da poco pubblicato dalla Fondazione Agnelli aiuta proprio a capire questa parte della gestione e della cultura d’impresa.

La squadra di ricercatori che ha ragionato attorno all’idea di competenza ha iniziato a lavorare partendo dalla constatazione che quello della “competenza” è un concetto ricorrente nel linguaggio comune così come nei dibattiti scientifici, politici, professionali ma finora privo di una codificazione semantica precisa. Il libro – circa duecento pagine – esplora quindi non solo il concetto in se’ ma anche gli usi e i significati del termine in diversi settori disciplinari, nei sistemi scolastici, in campo manageriale e di gestione delle risorse umane.

Il volume – curato da Luciano Benadusi (già professore ordinario di Sociologia presso La Sapienza ) e da Stefano Molina (dirigente di ricerca presso la Fondazione Agnelli di Torino) –, inizia quindi con il dare risposta ad una domanda semplice: “Di cosa parliamo quando parliamo di competenze?”. E prosegue poi con un secondo capitolo che affronta più da vicino le definizioni di competenze per poi passare ad approfondire il concetto prima nelle sue applicazioni legate al mondo del lavoro e, poi, nell’ambito dei sistemi educativi e della formazione. Dalla metà del libro in avanti, invece, lo sguardo passa da livello nazionale a quello internazionale e torna quindi ad un punto preciso: il rapporto fra competenze e scuola in Italia. Proprio l’attenzione – condivisibile –, sui legami fra crescita delle competenze e sistema formativo-scolastico, costituisce poi il nocciolo vero delle conclusioni del libro.

La fatica di ricerca del gruppo di lavoro della Fondazione Agnelli, a tratti non è una lettura agevole ma è certamente una lettura da fare da parte di chi vuole capire di più del destino della persone nelle imprese e nella società. Bello e denso il messaggio che viene dato proprio alla fine del libro: “Il tema delle competenze è destinato ad accompagnarci ancora a lungo. Che si tratti di fornire risposte adeguate alle preoccupazioni di occupabilità a medio-lungo termine espresse da famiglie e da imprese, o di costruire basi solide per una cittadinanza davvero attiva e responsabile, o per uno sviluppo improntato a criteri di sostenibilità, esse continueranno a essere oggetto di una doverosa attenzione da parte dei sistemi educativi. Perché ragionare di competenze significa, in ultima analisi, interrogarsi sulla direzione che vogliamo imprimere al futuro del lavoro e al futuro della democrazia”.

Le competenze. Una mappa per orientarsi

Luciano Benadusi, Stefano Molina (a cura di)

il Mulino, 2018

L’industria italiana avanguardia nei brevetti e le politiche industriali ricordando Ulisse

Alla rincorsa del tempo perduto. Dopo una lunga stagione di crisi, in cui le imprese non investivano in ricerca e innovazione, l’Italia s’è rimessa velocemente in cammino. E anche nel 2017, per il terzo anno consecutivo, le richieste di brevetti delle nostre aziende sono cresciute abbastanza di più della media europea: del 4,3% sul 2016, rispetto a una media Ue del 2,6% (nel 2015 erano cresciute del 9%, il doppio della media europea: il momento della svolta innovativa). Più brevetti, più competitività di industria e servizi hi tech, più crescita economica e sociale.

I dati dell’Epo (European Patent Office) di Monaco dicono che le imprese italiane hanno presentato 4.352 richieste di brevetto. In prima fila c’è l’Ansaldo Energia, con 60 domande. Subito dopo, Gd (Gruppo Seragnoli di Bologna, meccanica per il settore medico e il confezionamento, 54 domande), la Fca (automobili, 42 domande) e la Pirelli (40 domande). Poi, ancora, Chiesi Farmaceutica, Telecom Italia, Leonardo (meccanica d’avanguardia), Campagnolo (meccanica), Prysmian (cavi) e Saipem (energia e infrastrutture). Parecchie anche le piccole e medie imprese (dovranno fare di più).

I dati sui brevetti indicano una tendenza oramai crescente per la migliore industria italiana: investire massicciamente sull’innovazione, utilizzare intelligenze e competenze di un capitale umano di qualità, acquisire posizioni nelle nicchie a maggior valore aggiunto sui mercati internazionali. Sono stagioni difficili, per la competizione economica globale: regge e cresce chi investe sull’”economia della conoscenza”, su quella Industry4.0 che mescola processi industriali, digital, Internet of things, big data, su una profonda metamorfosi delle nostre strutture produttive con originali sintesi tra industria e servizi, laboratori di ricerca e linee di produzione, fabbriche e università. Con una caratteristica molto italiana: saper fare bene prodotti e servizi “su misura”, da straordinari “sarti meccanici” quali siano (meglio sarebbe dire, oggi, “sarti meccatronici”). Un esempio del digital industriale: i pneumatici per sistema cyber tyre di Pirelli, con sensori digitali nelle mescole dei pneumatici, per un “dialogo” tra strada e autovettura con conseguenze positive su tenuta di strada, sicurezza, consumi, ambiente (un successo, al recente Salone dell’Auto a Ginevra).

Che altro dicono i dati dell’Epo (“Il Sole24Ore”, 8 marzo)? Che l’Italia resta saldamente tra i primi dieci paesi al mondo per domande di brevetti (con Usa, Germania, Giappone, Francia, Svizzera, Paesi Bassi, Regno Unito, Corea del Sud e, in grande crescita, la Cina).

Seconda considerazione: la propensione all’innovazione è concentrata in tre regioni: Lombardia (il 33%, tra le prime “regioni innovative” della Ue), Emilia Romagna (16%) e Veneto (13,4%). Due terzi del brevetti italiani, insomma, nel grande cuore industriale del Nord (ai margini il Piemonte, che anche da questo punto di vista conferma un’allarmante condizione di crisi industriale). E poco nel Mezzogiorno. La graduatoria delle città vede in testa Milano, con il 20,4%: la Milano delle grandi università, Politecnico e Bocconi in testa, di “Human Technopole” e delle multinazionali, dei primati delle life sciences e della inclinazione Steam cara ad Assolombarda: l’acronimo che mette insieme le iniziali di science, technology, environment ma anche energy dei processi di produzione e consumo green, arts e cioè le conoscenze e la creatività umanistica e manifacturing, la buona industria manifatturiera d’avanguardia, tra meccatronica, gomma, plastica, chimica, farmaceutica e le icone del Made in Italy di arredamento, abbigliamento e agro-alimentare: cultura politecnica per lo sviluppo.

Un’altra considerazione, abbastanza ovvia peraltro, riguarda la relazione tra innovazione e ripresa economica. “La ripresa accelera: il triangolo della crescita è tra Emilia Romagna, Lombardia e Veneto”, ha documentato Dario Di Vico sul “Corriere della Sera” (10 marzo), leggendo gli ultimi dati sulla crescita della produzione industriale. Proprio le tre regioni a maggior intensità di brevetti (nel blog della scorsa settimana avevamo ricordato che Milano è l’economia più dinamica: tra il 2014 e il 2017 è cresciuta del 6,2%, molto di più 3,6% della media italiana e dello stesso 5,1% della Lombardia. E rispetto alla stagione precedente alla crisi del 2008, ha recuperato tutto lo spazio perduto ed è sopra del 3,2%, mentre l’Italia è ancora indietro del 4,4% e la Lombardia dell’1,1%).

La terza considerazione è più politica. Questo dinamismo innovativo è stato innanzitutto endemico: troppo a lungo le imprese non avevano investito e hanno dunque “riacceso i motori” (per usare un’efficace immagine tratta dal titolo di un recente libro di Gianfelice Rocca, ex presidente di Assolombarda e leader di Techint e Humanitas). Ma ha ricevuto robusti stimoli di politica economica e fiscale da parte degli ultimi governi, con le agevolazioni per il “patent box” e i super-ammortamenti e gli iper-ammortamenti per chi investiva in innovazione e nuovi impianti. Le imprese, insomma, si sono mosse, per reggere finalmente la competizione e il governo ha fatto buona politica industriale. Un circuito virtuoso, in cui vanno considerati anche gli accordi contrattuali Confindustria-sindacati che sostengono formazione e produttività, legandole salari e welfare aziendale.

C’è un’Italia industriale in movimento. Cui continuare a guardare con attenzione. Un’Italia innovativa, che fa il suo dovere di intraprendente attore industriale e che chiede non tanto flat tax o dazi protettivi, ma sostegno alla creatività, all’innovazione, agli investimenti produttivi, riconoscimenti per la cultura del lavoro e dell’impresa (e non assistenzialismo), stimoli per la qualità e l’intelligenza flessibile e adattabile. Per usare il gioco delle citazioni classiche, l’industria italiana non è Polifemo dotato d’un solo occhio nel chiuso di un’isola o la maga Circe dei sotterfugi furbi e delle illusioni, ma Odisseo che sfida mari difficili e vecchi miti e segue “virtute e canoscenza”. La nostra migliore contemporaneità.

Alla rincorsa del tempo perduto. Dopo una lunga stagione di crisi, in cui le imprese non investivano in ricerca e innovazione, l’Italia s’è rimessa velocemente in cammino. E anche nel 2017, per il terzo anno consecutivo, le richieste di brevetti delle nostre aziende sono cresciute abbastanza di più della media europea: del 4,3% sul 2016, rispetto a una media Ue del 2,6% (nel 2015 erano cresciute del 9%, il doppio della media europea: il momento della svolta innovativa). Più brevetti, più competitività di industria e servizi hi tech, più crescita economica e sociale.

I dati dell’Epo (European Patent Office) di Monaco dicono che le imprese italiane hanno presentato 4.352 richieste di brevetto. In prima fila c’è l’Ansaldo Energia, con 60 domande. Subito dopo, Gd (Gruppo Seragnoli di Bologna, meccanica per il settore medico e il confezionamento, 54 domande), la Fca (automobili, 42 domande) e la Pirelli (40 domande). Poi, ancora, Chiesi Farmaceutica, Telecom Italia, Leonardo (meccanica d’avanguardia), Campagnolo (meccanica), Prysmian (cavi) e Saipem (energia e infrastrutture). Parecchie anche le piccole e medie imprese (dovranno fare di più).

I dati sui brevetti indicano una tendenza oramai crescente per la migliore industria italiana: investire massicciamente sull’innovazione, utilizzare intelligenze e competenze di un capitale umano di qualità, acquisire posizioni nelle nicchie a maggior valore aggiunto sui mercati internazionali. Sono stagioni difficili, per la competizione economica globale: regge e cresce chi investe sull’”economia della conoscenza”, su quella Industry4.0 che mescola processi industriali, digital, Internet of things, big data, su una profonda metamorfosi delle nostre strutture produttive con originali sintesi tra industria e servizi, laboratori di ricerca e linee di produzione, fabbriche e università. Con una caratteristica molto italiana: saper fare bene prodotti e servizi “su misura”, da straordinari “sarti meccanici” quali siano (meglio sarebbe dire, oggi, “sarti meccatronici”). Un esempio del digital industriale: i pneumatici per sistema cyber tyre di Pirelli, con sensori digitali nelle mescole dei pneumatici, per un “dialogo” tra strada e autovettura con conseguenze positive su tenuta di strada, sicurezza, consumi, ambiente (un successo, al recente Salone dell’Auto a Ginevra).

Che altro dicono i dati dell’Epo (“Il Sole24Ore”, 8 marzo)? Che l’Italia resta saldamente tra i primi dieci paesi al mondo per domande di brevetti (con Usa, Germania, Giappone, Francia, Svizzera, Paesi Bassi, Regno Unito, Corea del Sud e, in grande crescita, la Cina).

Seconda considerazione: la propensione all’innovazione è concentrata in tre regioni: Lombardia (il 33%, tra le prime “regioni innovative” della Ue), Emilia Romagna (16%) e Veneto (13,4%). Due terzi del brevetti italiani, insomma, nel grande cuore industriale del Nord (ai margini il Piemonte, che anche da questo punto di vista conferma un’allarmante condizione di crisi industriale). E poco nel Mezzogiorno. La graduatoria delle città vede in testa Milano, con il 20,4%: la Milano delle grandi università, Politecnico e Bocconi in testa, di “Human Technopole” e delle multinazionali, dei primati delle life sciences e della inclinazione Steam cara ad Assolombarda: l’acronimo che mette insieme le iniziali di science, technology, environment ma anche energy dei processi di produzione e consumo green, arts e cioè le conoscenze e la creatività umanistica e manifacturing, la buona industria manifatturiera d’avanguardia, tra meccatronica, gomma, plastica, chimica, farmaceutica e le icone del Made in Italy di arredamento, abbigliamento e agro-alimentare: cultura politecnica per lo sviluppo.

Un’altra considerazione, abbastanza ovvia peraltro, riguarda la relazione tra innovazione e ripresa economica. “La ripresa accelera: il triangolo della crescita è tra Emilia Romagna, Lombardia e Veneto”, ha documentato Dario Di Vico sul “Corriere della Sera” (10 marzo), leggendo gli ultimi dati sulla crescita della produzione industriale. Proprio le tre regioni a maggior intensità di brevetti (nel blog della scorsa settimana avevamo ricordato che Milano è l’economia più dinamica: tra il 2014 e il 2017 è cresciuta del 6,2%, molto di più 3,6% della media italiana e dello stesso 5,1% della Lombardia. E rispetto alla stagione precedente alla crisi del 2008, ha recuperato tutto lo spazio perduto ed è sopra del 3,2%, mentre l’Italia è ancora indietro del 4,4% e la Lombardia dell’1,1%).

La terza considerazione è più politica. Questo dinamismo innovativo è stato innanzitutto endemico: troppo a lungo le imprese non avevano investito e hanno dunque “riacceso i motori” (per usare un’efficace immagine tratta dal titolo di un recente libro di Gianfelice Rocca, ex presidente di Assolombarda e leader di Techint e Humanitas). Ma ha ricevuto robusti stimoli di politica economica e fiscale da parte degli ultimi governi, con le agevolazioni per il “patent box” e i super-ammortamenti e gli iper-ammortamenti per chi investiva in innovazione e nuovi impianti. Le imprese, insomma, si sono mosse, per reggere finalmente la competizione e il governo ha fatto buona politica industriale. Un circuito virtuoso, in cui vanno considerati anche gli accordi contrattuali Confindustria-sindacati che sostengono formazione e produttività, legandole salari e welfare aziendale.

C’è un’Italia industriale in movimento. Cui continuare a guardare con attenzione. Un’Italia innovativa, che fa il suo dovere di intraprendente attore industriale e che chiede non tanto flat tax o dazi protettivi, ma sostegno alla creatività, all’innovazione, agli investimenti produttivi, riconoscimenti per la cultura del lavoro e dell’impresa (e non assistenzialismo), stimoli per la qualità e l’intelligenza flessibile e adattabile. Per usare il gioco delle citazioni classiche, l’industria italiana non è Polifemo dotato d’un solo occhio nel chiuso di un’isola o la maga Circe dei sotterfugi furbi e delle illusioni, ma Odisseo che sfida mari difficili e vecchi miti e segue “virtute e canoscenza”. La nostra migliore contemporaneità.

Organizzazioni culturali d’impresa

Un breve intervento al Revello Lab, delinea e chiarisce le relazioni fra aziende, cultura e territorio

 

La produzione come atto culturale. L’impresa come entità sociale. L’organizzazione della produzione come struttura oggettiva ma anche soggettiva e quindi viva, composta da donne e uomini che vivono e lavorano in una comunità. Il moderno declinare della cultura d’impresa è tutto questo e altro ancora. Un campo vasto, ancora non del tutto esplorato, che si fa di giorno in giorno. E che deve essere razionalizzato e sistemato passo dopo passo, con attenzione non solo al conto economico ma anche a quello sociale.

Da questo punto di vista, fa bene leggere la sintesi dell’intervento che  Alessandro Beda (componente del Gruppo Tecnico Cultura e Sviluppo di Confindustria oltre che osservatore dei fenomeni e delle tendenze di responsabilità sociale d’impresa), ha effettuato nell’ambito dell’edizione 2017 del Ravello Lab.

“Il valore sociale ed economico dell’impresa per il territorio” è un’efficace sintesi delle relazioni che passano fra cultura e impresa culturale oltre che fra impresa a tutto tondo e territorio.

Il ragionamento effettuato è tutto sommato semplice: l’impresa costituisce un fatto culturale che ha impatti forti sul territorio e sulle persone che vi vivono e lavorano. Ma non solo, perché secondo Beda oggi è possibile pensare agli investimenti culturali delle imprese come ad una delle manifestazioni più importanti della responsabilità sociale d’impresa. “Si tratta – spiega Beda -, di promuovere l’investimento in cultura come parte integrante dello sviluppo sociale del territorio. (…). Questo fenomeno è già in corso: ad esempio, un terzo delle risorse della Scala è garantito dalle imprese; molti musei, come le Gallerie d’Italia di Milano, sono frutto del sostegno e del contributo di una impresa (…). Spesso quindi non si tratta solo di risorse finanziarie ma anche di un vero supporto tecnico organizzativo, come per esempio le tecnologie di illuminazione”.

Organizzazioni della produzione, quindi, ma anche organizzazioni che producono occasioni di coesione sociale. Cultura d’impresa a vasto raggio. Adesso, secondo Beda, resa ancora più agevole nel suo divenire dopo le ultime provvidenze di legge.  Viene scritto quasi alla conclusione dell’intervento: “Penso che esistano tre condizioni che permetteranno di sfruttare a pieno questo congiuntura: aprire un forte dialogo e confronto tra il mondo dell’impresa e le imprese culturali; promuovere la cultura come investimento sociale per la comunità e il territorio; dimostrare l’utilità e il valore economico dell’investire in cultura”.

L’intervento di Alessandro Beda riesce in uno spazio limitatissimo a delineare con chiarezza la situazione delle relazioni fra imprese e cultura e ad indicare la strada giusta per accrescere i collegamenti positivi che sono stati accesi negli ultimi tempi.

Il valore sociale ed economico dell’impresa per il territorio

Alessandro Beda

Atti XII edizione Ravello Lab “Sviluppo a base culturale. Governance partecipata per l’impresa culturale”, Territori della Cultura, n. 30, 2017, pagg. 152-153

Un breve intervento al Revello Lab, delinea e chiarisce le relazioni fra aziende, cultura e territorio

 

La produzione come atto culturale. L’impresa come entità sociale. L’organizzazione della produzione come struttura oggettiva ma anche soggettiva e quindi viva, composta da donne e uomini che vivono e lavorano in una comunità. Il moderno declinare della cultura d’impresa è tutto questo e altro ancora. Un campo vasto, ancora non del tutto esplorato, che si fa di giorno in giorno. E che deve essere razionalizzato e sistemato passo dopo passo, con attenzione non solo al conto economico ma anche a quello sociale.

Da questo punto di vista, fa bene leggere la sintesi dell’intervento che  Alessandro Beda (componente del Gruppo Tecnico Cultura e Sviluppo di Confindustria oltre che osservatore dei fenomeni e delle tendenze di responsabilità sociale d’impresa), ha effettuato nell’ambito dell’edizione 2017 del Ravello Lab.

“Il valore sociale ed economico dell’impresa per il territorio” è un’efficace sintesi delle relazioni che passano fra cultura e impresa culturale oltre che fra impresa a tutto tondo e territorio.

Il ragionamento effettuato è tutto sommato semplice: l’impresa costituisce un fatto culturale che ha impatti forti sul territorio e sulle persone che vi vivono e lavorano. Ma non solo, perché secondo Beda oggi è possibile pensare agli investimenti culturali delle imprese come ad una delle manifestazioni più importanti della responsabilità sociale d’impresa. “Si tratta – spiega Beda -, di promuovere l’investimento in cultura come parte integrante dello sviluppo sociale del territorio. (…). Questo fenomeno è già in corso: ad esempio, un terzo delle risorse della Scala è garantito dalle imprese; molti musei, come le Gallerie d’Italia di Milano, sono frutto del sostegno e del contributo di una impresa (…). Spesso quindi non si tratta solo di risorse finanziarie ma anche di un vero supporto tecnico organizzativo, come per esempio le tecnologie di illuminazione”.

Organizzazioni della produzione, quindi, ma anche organizzazioni che producono occasioni di coesione sociale. Cultura d’impresa a vasto raggio. Adesso, secondo Beda, resa ancora più agevole nel suo divenire dopo le ultime provvidenze di legge.  Viene scritto quasi alla conclusione dell’intervento: “Penso che esistano tre condizioni che permetteranno di sfruttare a pieno questo congiuntura: aprire un forte dialogo e confronto tra il mondo dell’impresa e le imprese culturali; promuovere la cultura come investimento sociale per la comunità e il territorio; dimostrare l’utilità e il valore economico dell’investire in cultura”.

L’intervento di Alessandro Beda riesce in uno spazio limitatissimo a delineare con chiarezza la situazione delle relazioni fra imprese e cultura e ad indicare la strada giusta per accrescere i collegamenti positivi che sono stati accesi negli ultimi tempi.

Il valore sociale ed economico dell’impresa per il territorio

Alessandro Beda

Atti XII edizione Ravello Lab “Sviluppo a base culturale. Governance partecipata per l’impresa culturale”, Territori della Cultura, n. 30, 2017, pagg. 152-153

Penne rosa. Le scrittrici della rivista “Pirelli”

Donne e scrittura, allora: firme al femminile che negli anni sono apparse sulle pagine della rivista “Pirelli”, fenomeno editoriale che ha lasciato profondamente il segno nella cultura degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. La prima firma è quella di Milena Milani, scrittrice savonese che, ben prima di diventare famosa per “La ragazza di nome Giulio”, romanzo del 1964 messo all’indice per offesa al “comune senso del pudore”, già parla dei turbamenti adolescenziali provocati da un costume da bagno in Lastex: l’articolo n. 2 della rivista “Pirelli” del 1950 è “Ernesto, un uomo. Hevea, una pianta”. Lo stesso costume sarebbe stato indossato poco dopo da Marilyn Monroe, dea americana della femminilità. E in America ci porta Fernanda Pivano nel n. 6 del 1953: nessuno come lei sa raccontare all’Italia del Dopoguerra “il colossale sogno riformatore americano”, da Sherwood Anderson a Francis Scott Fitzgerald a John Steinbeck. Età del Jazz e Grande Depressione, ferrovie e scioperi, coloni e -naturalmente- sempre Marilyn. Ma riecco i costumi da bagno in Lastex, in “Donne al mare” di Gianna Manzini, rivista “Pirelli” n. 4 del 1956. Donne “che sentono la loro potenza in modo assoluto, libere, dimentiche dei quotidiani duelli e delle stesse quotidiane vittorie”.
Uno sguardo critico sulla modernità è quello che propone Armanda Guiducci nel n. 6 del 1960: in “I negozi ‘d’architetto’”, la scrittrice napoletana affronta il crescente fenomeno della grande distribuzione, entrando “nel vivo del moderno problema del consumare, in cui, superata la soglia della necessità, l’idea dell’utile va sempre più profondamente associandosi con quella del dilettevole”. Mancano ancora una quindicina d’anni alla notorietà di “La mela e il  serpente”, ma la Guiducci della rivista “Pirelli” già mostra tutta la sua profondità di filosofa-sociologa.
Nel 1966 irrompe sulla scena il Cinturato, rivoluzionario pneumatico Pirelli. Immortalato nel film “La lepre e la tartaruga”; dichiarato “extraordinario” dal pilota Juan Manuel Fangio; da guidare “a occhi chiusi” per l’illustratore Riccardo Manzi. Oggetto, per la coppia creativa Arrigo Castellani-PinoTovaglia, il primo direttore della rivista “Pirelli” e il secondo celebre designer italiano, del tormentone pubblicitario “Un viaggio ma”. Calembours e giochi di parole inscritti dentro poligoni bianchi e neri, allusioni a fatti e personaggi dello spettacolo negli anni Sessanta, esercizio di gossip che diventa advertising. Non può non coglierne il senso Camilla Cederna, che gli dedica l’articolo pubblicato sul n. 4 del 1966: “Tu credi che sia Orsetta?”, “E la designer di letti chi é?”, e così via, in un susseguirsi di associazioni e riferimenti da interpretare , come“la bruna Fiamma”, “la Silvia più bella d’Italia”, “il paraintellettuale pallido”. Quel genio di Arrigo Castellani aveva ancora una volta “visto giusto”.
Verso la fine dei dorati anni Sessanta, Lietta Tornabuoni scrive “PPP” (rivista n. 11-12 del 1968) dedicato a Pier Paolo Pasolini. Sono gli anni in cui il film “Teorema” viene sequestrato e Pasolini afferma “ho passato la vita a odiare i vecchi borghesi moralisti, e adesso, precocemente devo odiare anche i loro figli”. E la Tornabuoni sulla rivista: “Quanto più Pasolini diventa provocatorio e incomodo, tanto più il suo pubblico si allarga. Quanto più lo circonda la scandalizzata deplorazione del mondo borghese, tanto più diventa commerciabile e commerciato”.

Tanti stili, tante voci femminili per raccontare altrettante storie: buona lettura!

Donne e scrittura, allora: firme al femminile che negli anni sono apparse sulle pagine della rivista “Pirelli”, fenomeno editoriale che ha lasciato profondamente il segno nella cultura degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. La prima firma è quella di Milena Milani, scrittrice savonese che, ben prima di diventare famosa per “La ragazza di nome Giulio”, romanzo del 1964 messo all’indice per offesa al “comune senso del pudore”, già parla dei turbamenti adolescenziali provocati da un costume da bagno in Lastex: l’articolo n. 2 della rivista “Pirelli” del 1950 è “Ernesto, un uomo. Hevea, una pianta”. Lo stesso costume sarebbe stato indossato poco dopo da Marilyn Monroe, dea americana della femminilità. E in America ci porta Fernanda Pivano nel n. 6 del 1953: nessuno come lei sa raccontare all’Italia del Dopoguerra “il colossale sogno riformatore americano”, da Sherwood Anderson a Francis Scott Fitzgerald a John Steinbeck. Età del Jazz e Grande Depressione, ferrovie e scioperi, coloni e -naturalmente- sempre Marilyn. Ma riecco i costumi da bagno in Lastex, in “Donne al mare” di Gianna Manzini, rivista “Pirelli” n. 4 del 1956. Donne “che sentono la loro potenza in modo assoluto, libere, dimentiche dei quotidiani duelli e delle stesse quotidiane vittorie”.
Uno sguardo critico sulla modernità è quello che propone Armanda Guiducci nel n. 6 del 1960: in “I negozi ‘d’architetto’”, la scrittrice napoletana affronta il crescente fenomeno della grande distribuzione, entrando “nel vivo del moderno problema del consumare, in cui, superata la soglia della necessità, l’idea dell’utile va sempre più profondamente associandosi con quella del dilettevole”. Mancano ancora una quindicina d’anni alla notorietà di “La mela e il  serpente”, ma la Guiducci della rivista “Pirelli” già mostra tutta la sua profondità di filosofa-sociologa.
Nel 1966 irrompe sulla scena il Cinturato, rivoluzionario pneumatico Pirelli. Immortalato nel film “La lepre e la tartaruga”; dichiarato “extraordinario” dal pilota Juan Manuel Fangio; da guidare “a occhi chiusi” per l’illustratore Riccardo Manzi. Oggetto, per la coppia creativa Arrigo Castellani-PinoTovaglia, il primo direttore della rivista “Pirelli” e il secondo celebre designer italiano, del tormentone pubblicitario “Un viaggio ma”. Calembours e giochi di parole inscritti dentro poligoni bianchi e neri, allusioni a fatti e personaggi dello spettacolo negli anni Sessanta, esercizio di gossip che diventa advertising. Non può non coglierne il senso Camilla Cederna, che gli dedica l’articolo pubblicato sul n. 4 del 1966: “Tu credi che sia Orsetta?”, “E la designer di letti chi é?”, e così via, in un susseguirsi di associazioni e riferimenti da interpretare , come“la bruna Fiamma”, “la Silvia più bella d’Italia”, “il paraintellettuale pallido”. Quel genio di Arrigo Castellani aveva ancora una volta “visto giusto”.
Verso la fine dei dorati anni Sessanta, Lietta Tornabuoni scrive “PPP” (rivista n. 11-12 del 1968) dedicato a Pier Paolo Pasolini. Sono gli anni in cui il film “Teorema” viene sequestrato e Pasolini afferma “ho passato la vita a odiare i vecchi borghesi moralisti, e adesso, precocemente devo odiare anche i loro figli”. E la Tornabuoni sulla rivista: “Quanto più Pasolini diventa provocatorio e incomodo, tanto più il suo pubblico si allarga. Quanto più lo circonda la scandalizzata deplorazione del mondo borghese, tanto più diventa commerciabile e commerciato”.

Tanti stili, tante voci femminili per raccontare altrettante storie: buona lettura!

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Anche Dino Buzzati a “Tempo di Libri”

Fondazione Pirelli Educational approda per la prima volta a “Tempo di Libri”, la Fiera internazionale dell’editoria che si terrà a Fieramilanocity dall’8 al 12 marzo, con un programma di laboratori didattici rivolti agli studenti dai 6 ai 18 anni e attività creative dedicate alle famiglie.

La Fiera sarà anche occasione per far conoscere a bambini e ragazzi  e ai loro genitori la rivista “Pirelli”, periodico di informazione e di tecnica pubblicata tra il 1948 e il 1972 con l’intento di unire le culture tecnico-scientifica e umanistica. Sulle pagine della rivista approdano i grandi nomi del mondo della scienza e della letteratura – da Italo Calvino a Salvatore Quasimodo, da Umberto Eco a Eugenio Montale, pittori e illustratori del calibro di Renato Guttuso e Mino Maccari. Sono pubblicati i contributi di Bruno Munari e le divertenti vignette di Riccardo Manzi sul tema dell’automazione e ancora le colorate pubblicità di Giacinto Mondaini, padre dell’attrice Sandra, e di un giovanissimo Alessandro Mendini.

Tra gli scrittori e giornalisti della storica rivista c’è anche Dino Buzzati, che dal 1949 al 1970 firma otto articoli che testimoniano il suo amore per la montagna, per la fantasia propria dell’infanzia e la curiosità dell’adolescenza, per le scoperte scientifiche.

Dino Buzzati e i suoi scritti costituiscono il punto di partenza per molte delle attività proposte. Protagoniste del percorso creativo del primo giorno, declinato per alunni di scuola primaria e secondaria di secondo grado, sono infatti le sue “Piccole storie del grattacielo”, apparse sulle pagine della rivista nel 1970, dieci anni dopo la realizzazione del Grattacielo Pirelli. Ascoltando le sue parole, i bambini possono immaginare l’architetto Gio Ponti, gli interni del “Pirellone”, i panorami goduti dagli ultimi piani, perfino il fantasma del fondatore Giovanni Battista Pirelli, osservando così i profondi cambiamenti della città di Milano e del suo skyline.

La seconda proposta didattica, per scuole primarie, dal titolo “Dino Buzzati e i marziani alla scoperta della gomma”, cita un articolo dell’autore del 1957 sulla rivista “Pirelli”, in cui lo scrittore, proiettandoci in un mondo fantascientifico, illustra con grande ironia i moderni usi della gomma.

Sull’esempio della rubrica I perché di Dino Buzzati, che l’autore ha curato per alcuni anni sul “Corriere dei Piccoli”, gli studenti sono coinvolti in un gioco di carte per scoprire l’origine della gomma, gli ingredienti e le caratteristiche di un pneumatico, la particolarità del Polo industriale di Settimo Torinese, e per formulare altri e nuovi perché.

Fondazione Pirelli Educational approda per la prima volta a “Tempo di Libri”, la Fiera internazionale dell’editoria che si terrà a Fieramilanocity dall’8 al 12 marzo, con un programma di laboratori didattici rivolti agli studenti dai 6 ai 18 anni e attività creative dedicate alle famiglie.

La Fiera sarà anche occasione per far conoscere a bambini e ragazzi  e ai loro genitori la rivista “Pirelli”, periodico di informazione e di tecnica pubblicata tra il 1948 e il 1972 con l’intento di unire le culture tecnico-scientifica e umanistica. Sulle pagine della rivista approdano i grandi nomi del mondo della scienza e della letteratura – da Italo Calvino a Salvatore Quasimodo, da Umberto Eco a Eugenio Montale, pittori e illustratori del calibro di Renato Guttuso e Mino Maccari. Sono pubblicati i contributi di Bruno Munari e le divertenti vignette di Riccardo Manzi sul tema dell’automazione e ancora le colorate pubblicità di Giacinto Mondaini, padre dell’attrice Sandra, e di un giovanissimo Alessandro Mendini.

Tra gli scrittori e giornalisti della storica rivista c’è anche Dino Buzzati, che dal 1949 al 1970 firma otto articoli che testimoniano il suo amore per la montagna, per la fantasia propria dell’infanzia e la curiosità dell’adolescenza, per le scoperte scientifiche.

Dino Buzzati e i suoi scritti costituiscono il punto di partenza per molte delle attività proposte. Protagoniste del percorso creativo del primo giorno, declinato per alunni di scuola primaria e secondaria di secondo grado, sono infatti le sue “Piccole storie del grattacielo”, apparse sulle pagine della rivista nel 1970, dieci anni dopo la realizzazione del Grattacielo Pirelli. Ascoltando le sue parole, i bambini possono immaginare l’architetto Gio Ponti, gli interni del “Pirellone”, i panorami goduti dagli ultimi piani, perfino il fantasma del fondatore Giovanni Battista Pirelli, osservando così i profondi cambiamenti della città di Milano e del suo skyline.

La seconda proposta didattica, per scuole primarie, dal titolo “Dino Buzzati e i marziani alla scoperta della gomma”, cita un articolo dell’autore del 1957 sulla rivista “Pirelli”, in cui lo scrittore, proiettandoci in un mondo fantascientifico, illustra con grande ironia i moderni usi della gomma.

Sull’esempio della rubrica I perché di Dino Buzzati, che l’autore ha curato per alcuni anni sul “Corriere dei Piccoli”, gli studenti sono coinvolti in un gioco di carte per scoprire l’origine della gomma, gli ingredienti e le caratteristiche di un pneumatico, la particolarità del Polo industriale di Settimo Torinese, e per formulare altri e nuovi perché.

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