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Attenzioni d’impresa

Riunite in un libro le esperienze italiane di welfare aziendale nel dopoguerra

Attenzione a chi lavora in azienda. Il concetto del welfare aziendale alla fine dei conti è questo. Acconciato in varie forme, espresso con modalità che dipendono dall’epoca storica e dall’impresa, il welfare nei luoghi di produzione si costruisce con l’inventiva e con l’attenzione alle esperienze già vissute.

Per questo leggere “Il welfare aziendale in Italia nel secondo dopoguerra. Riflessioni e testimonianze” – curato da Augusto Ciuffetti , Valerio Varini  e Fabrizio Trisoglio -, e pubblicato da qualche settimana, può essere utile per comprendere meglio ciò che è già stato fatto e quanto può essere utile per il presente delle imprese pubbliche e private.

Il volume accoglie, in forma ampliata e approfondita, gli atti del convegno di studi “Il welfare aziendale nell’Italia del secondo dopoguerra. Esperienze pubbliche a confronto”, promosso da Fondazione Aem–Gruppo A2A e da Fondazione Asm–Gruppo A2A, che si è svolto a Milano nel 2016.

L’obiettivo del libro è quello di riprendere in esame un tema, come quello del welfare aziendale, riferito ad alcune importanti esperienze di imprese pubbliche, che negli ultimi anni ha trovato una nuova centralità, sia nel dibattito politico, sia in quello storiografico.

Il libro è diviso in quattro parti. La prima è dedicata ad una serie di riflessioni e testimonianze sul welfare aziendale nell’Italia del secondo dopoguerra, attraverso un approccio interdisciplinare che spazia tra storia, economia, politica, sociologia e storia dell’architettura. Bella poi la seconda parte del libro, a carattere iconografico, che raccoglie le immagini che provengono dagli archivi dell’Eni e dell’Azienda Elettrica Municipale di Milano e che vanno considerate come parte integrante della trama narrativa del volume. Nella terza parte, invece, vengono raccontati tre casi significativi di imprese pubbliche italiane: l’Azienda Elettrica Municipale di Milano (Aem), l’Azienda Servizi Municipalizzati di Brescia (Asm) e l’Ente Nazionale Idrocarburi (Eni). Nella quarta parte, infine, accanto ad alcuni degli interventi proposti durante il convegno nella tavola rotonda conclusiva, vengono proposte delle riflessioni pratiche sul welfare aziendale di oggi e sulle sue prospettive future.

Ciò che più conta, tuttavia, è il racconto complessivo che emerge dalle pagine di analisi a più mani condotta sulla storia del welfare aziendale italiano nei decenni passati. Un racconto che riporta certamente ad organizzazioni della produzione che adesso andrebbe rivisitate, oltre che ad intenti legati alla produttività, ma che è indicatore di una cultura d’impresa di alto livello che può insegnare ancora molto oggi.

Il welfare aziendale in Italia nel secondo dopoguerra. Riflessioni e testimonianze

Augusto Ciuffetti, Valerio Varini , Fabrizio Trisoglio

EGEA, 2018

Riunite in un libro le esperienze italiane di welfare aziendale nel dopoguerra

Attenzione a chi lavora in azienda. Il concetto del welfare aziendale alla fine dei conti è questo. Acconciato in varie forme, espresso con modalità che dipendono dall’epoca storica e dall’impresa, il welfare nei luoghi di produzione si costruisce con l’inventiva e con l’attenzione alle esperienze già vissute.

Per questo leggere “Il welfare aziendale in Italia nel secondo dopoguerra. Riflessioni e testimonianze” – curato da Augusto Ciuffetti , Valerio Varini  e Fabrizio Trisoglio -, e pubblicato da qualche settimana, può essere utile per comprendere meglio ciò che è già stato fatto e quanto può essere utile per il presente delle imprese pubbliche e private.

Il volume accoglie, in forma ampliata e approfondita, gli atti del convegno di studi “Il welfare aziendale nell’Italia del secondo dopoguerra. Esperienze pubbliche a confronto”, promosso da Fondazione Aem–Gruppo A2A e da Fondazione Asm–Gruppo A2A, che si è svolto a Milano nel 2016.

L’obiettivo del libro è quello di riprendere in esame un tema, come quello del welfare aziendale, riferito ad alcune importanti esperienze di imprese pubbliche, che negli ultimi anni ha trovato una nuova centralità, sia nel dibattito politico, sia in quello storiografico.

Il libro è diviso in quattro parti. La prima è dedicata ad una serie di riflessioni e testimonianze sul welfare aziendale nell’Italia del secondo dopoguerra, attraverso un approccio interdisciplinare che spazia tra storia, economia, politica, sociologia e storia dell’architettura. Bella poi la seconda parte del libro, a carattere iconografico, che raccoglie le immagini che provengono dagli archivi dell’Eni e dell’Azienda Elettrica Municipale di Milano e che vanno considerate come parte integrante della trama narrativa del volume. Nella terza parte, invece, vengono raccontati tre casi significativi di imprese pubbliche italiane: l’Azienda Elettrica Municipale di Milano (Aem), l’Azienda Servizi Municipalizzati di Brescia (Asm) e l’Ente Nazionale Idrocarburi (Eni). Nella quarta parte, infine, accanto ad alcuni degli interventi proposti durante il convegno nella tavola rotonda conclusiva, vengono proposte delle riflessioni pratiche sul welfare aziendale di oggi e sulle sue prospettive future.

Ciò che più conta, tuttavia, è il racconto complessivo che emerge dalle pagine di analisi a più mani condotta sulla storia del welfare aziendale italiano nei decenni passati. Un racconto che riporta certamente ad organizzazioni della produzione che adesso andrebbe rivisitate, oltre che ad intenti legati alla produttività, ma che è indicatore di una cultura d’impresa di alto livello che può insegnare ancora molto oggi.

Il welfare aziendale in Italia nel secondo dopoguerra. Riflessioni e testimonianze

Augusto Ciuffetti, Valerio Varini , Fabrizio Trisoglio

EGEA, 2018

Cultura del lavoro d’impresa

Messi a fuoco la situazione e le possibili evoluzioni dei legami tra formazione, mercato del lavoro e imprese

Lo si è già detto varie volte: imprenditori si nasce, ma si può anche diventarlo. Così come si può diventare bravi lavoratori. Questione di crescita e di formazione, oltre che di passione. Ma cosa non sempre facile da realizzare nella gran parte dei casi. Formazione, mercato del lavoro e imprese, sono da sempre le parti di una triade che spesso stenta a formarsi armoniosamente.

“Lo sviluppo di employability in alta formazione. Il ruolo dei career service”, pubblicato recentemente e scritto da Vanna Boffo insieme a Carlo Terzaroli, aiuta a comprendere meglio le relazioni attive, o da attivare, proprio nell’ambito dei collegamento fra formazione (universitaria), lavoro e imprese. In particolare l’indagine illustra lo stato di avanzamento di un progetto di ricerca esplorativa che ha l’obiettivo di indagare le esperienze di connessione tra università e mondo del lavoro. Spiegano i due autori: “Attraverso lo studio delle buone pratiche di Career Service sarà possibile individuare la connessione tra didattica, ricerca e terza missione nella prospettiva di comprendere i trend dell’alta formazione del futuro”.

Il lavoro inizia ragionando in termini teorici sul concetto di employability (di fatto quasi intraducibile in italiano), del quale viene ripercorsa rapidamente la storia e l’evoluzione e del quale si individuano gli aspetti più importanti per l’oggetto della ricerca. Boffo e Terzaroli passano poi ad indicare i modelli di employability più diffusi a livello mondiale per arrivare quindi ad analizzare più da vicino il modello di connessione fra formazione universitaria e mercato del lavoro prima in termini generali e poi in Italia. Aiuta a chiarire questo passaggio cruciale dell’articolo, una tabella che mette a confronto di diversi metodi utilizzati dai principali atenei e politecnici italiani.

“Sostenere la crescita dei giovani adulti, come uomini, come cittadini e come futuri lavoratori, è compito primario della pedagogia – spiegano quindi i due autori -. Oggi più che mai, di fronte alle criticità della disoccupazione e al preoccupante impatto sulla costruzione dei percorsi di vita, emerge la necessità di prendersi cura dei soggetti anche su questo aspetto. L’inserimento e la permanenza nel lavoro costituiscono, in questo quadro, strumenti indispensabili per la formazione della persona e per la sua inclusione sociale”.

Ma ciò che più conta secondo Boffo e Terzaroli è che le ultime evoluzioni dei metodi di employability ottengono il risultato di proiettare “il Job Placement nel futuro” attraverso “l’attenzione alle strategie di costruzione di percorsi di imprenditività e imprenditorialità attraverso l’innovazione didattica extracurriculare per la costruzione di una cultura d’impresa personale e sociale”.

Chiarissimo è uno dei passaggi finali dell’articolo: “Oggi, il lavoro non soltanto può essere trovato, ma sempre più può essere costruito e creato, grazie all’applicazione innovativa di conoscenze e competenze. Ciò significa non soltanto un’attenzione alla costruzione ex-novo di imprese, spinoff o startup, ma la capacità di individuare, anche all’interno di contesti lavorativi già strutturati, nuovi filoni e opportunità di sviluppo”.

Lo sviluppo di employability in alta formazione. Il ruolo dei career service

Vanna Boffo, Carlo Terzaroli

MeTis.  Mondi educativi. Temi, indagini, suggestioni, 7(2) 2017, pp. 437-467

Messi a fuoco la situazione e le possibili evoluzioni dei legami tra formazione, mercato del lavoro e imprese

Lo si è già detto varie volte: imprenditori si nasce, ma si può anche diventarlo. Così come si può diventare bravi lavoratori. Questione di crescita e di formazione, oltre che di passione. Ma cosa non sempre facile da realizzare nella gran parte dei casi. Formazione, mercato del lavoro e imprese, sono da sempre le parti di una triade che spesso stenta a formarsi armoniosamente.

“Lo sviluppo di employability in alta formazione. Il ruolo dei career service”, pubblicato recentemente e scritto da Vanna Boffo insieme a Carlo Terzaroli, aiuta a comprendere meglio le relazioni attive, o da attivare, proprio nell’ambito dei collegamento fra formazione (universitaria), lavoro e imprese. In particolare l’indagine illustra lo stato di avanzamento di un progetto di ricerca esplorativa che ha l’obiettivo di indagare le esperienze di connessione tra università e mondo del lavoro. Spiegano i due autori: “Attraverso lo studio delle buone pratiche di Career Service sarà possibile individuare la connessione tra didattica, ricerca e terza missione nella prospettiva di comprendere i trend dell’alta formazione del futuro”.

Il lavoro inizia ragionando in termini teorici sul concetto di employability (di fatto quasi intraducibile in italiano), del quale viene ripercorsa rapidamente la storia e l’evoluzione e del quale si individuano gli aspetti più importanti per l’oggetto della ricerca. Boffo e Terzaroli passano poi ad indicare i modelli di employability più diffusi a livello mondiale per arrivare quindi ad analizzare più da vicino il modello di connessione fra formazione universitaria e mercato del lavoro prima in termini generali e poi in Italia. Aiuta a chiarire questo passaggio cruciale dell’articolo, una tabella che mette a confronto di diversi metodi utilizzati dai principali atenei e politecnici italiani.

“Sostenere la crescita dei giovani adulti, come uomini, come cittadini e come futuri lavoratori, è compito primario della pedagogia – spiegano quindi i due autori -. Oggi più che mai, di fronte alle criticità della disoccupazione e al preoccupante impatto sulla costruzione dei percorsi di vita, emerge la necessità di prendersi cura dei soggetti anche su questo aspetto. L’inserimento e la permanenza nel lavoro costituiscono, in questo quadro, strumenti indispensabili per la formazione della persona e per la sua inclusione sociale”.

Ma ciò che più conta secondo Boffo e Terzaroli è che le ultime evoluzioni dei metodi di employability ottengono il risultato di proiettare “il Job Placement nel futuro” attraverso “l’attenzione alle strategie di costruzione di percorsi di imprenditività e imprenditorialità attraverso l’innovazione didattica extracurriculare per la costruzione di una cultura d’impresa personale e sociale”.

Chiarissimo è uno dei passaggi finali dell’articolo: “Oggi, il lavoro non soltanto può essere trovato, ma sempre più può essere costruito e creato, grazie all’applicazione innovativa di conoscenze e competenze. Ciò significa non soltanto un’attenzione alla costruzione ex-novo di imprese, spinoff o startup, ma la capacità di individuare, anche all’interno di contesti lavorativi già strutturati, nuovi filoni e opportunità di sviluppo”.

Lo sviluppo di employability in alta formazione. Il ruolo dei career service

Vanna Boffo, Carlo Terzaroli

MeTis.  Mondi educativi. Temi, indagini, suggestioni, 7(2) 2017, pp. 437-467

Milano è una linea curva dei grattacieli e un’economia che cresce del 3,9%

Il segno che rappresenta meglio Milano è una linea curva. Priva di spigoli. Tonda e dunque morbida, inclusiva, solidale. Come dicono le sue mura e le sue circonvallazioni. La forma dei bastioni che racchiudono una sorta di cuore (l’hanno scoperto dei cartografi, riesaminando antiche mappe della città). E i navigli, che nella storia sono stati vie d’accesso per persone e per merci. Milano città aperta, dunque. Le sue porte, essenzialmente, erano caselli del dazio, varchi per persone e merci, strutture per funzioni economiche. Oggi, stazioni e aeroporti, tra i più efficienti d’Europa, collegano Milano con Torino e Bologna, Verona e Chiasso, Londra e Parigi, Monaco e Francoforte tutto in un’ora. Milano centrale, in Europa. “Milano, che gente, che cambi…”, come cantava Lucio Dalla.

“Il Curvo”, si chiama l’ultimo grattacielo che sta sorgendo, nel nuovo quartiere di CityLife, su progetto di Daniel Libeskind, accanto allo “Sorto”, progettato da Zaha Hadid e al “Dritto” firmato da Arata Isozaky (ospiteranno uffici di compagnie d’assicurazione, Allianz e Generali, di società finanziarie e di consulenza). Tutta la nuova skyline milanese, d’altronde, è ricca di segni tondi: il grattacielo Unicredit di César Pelli con le sue volute circolari e il grattacielo della Regione con le sue sinuosità, che confina con la tonda piazza Gae Aulenti. Il tondo, come sanno bene tutti gli studiosi dei segni, è accogliente, comunitario, conviviale.

Milano che ricorda e che cambia, in fin dei conti, cos’è? Tante dimensioni diverse e stimolanti.

Milano è un libro: “Tempo di libri” aprirà i battenti in Fiera dall’8 al 12 marzo: scrittori, incontri, dibattiti, in raccordo con “Book City” e con la Fiera del Libro di Francoforte, tutto un fiorire d’iniziative che, della metropoli, valorizzano scrittura ed editoria, creatività e industria culturale, tradizione (le passeggiate di Stendhal, le riviste e le collane di Vittorini, le poesie di Montale, l’innovazione di Gadda e poi di Eco e Arbasino) e cura per le nuove generazioni (molti i programmi per bambini e ragazzi, anche nello stand della Fondazione Pirelli). “Tempo di libri”, insomma, come punto di riferimento di una serie di attività che qui convergono dal resto d’Italia e dalle principali capitali culturali del mondo.

Milano è una memoria viva: antiche e solide istituzioni culturali (La Scala, l’Orchestra Verdi, il Conservatorio, il Piccolo Teatro, il Parenti) si mettono in relazione con nuove iniziative d’arte contemporanea. Tutto è in movimento. E alla Triennale arriva Paola Antonelli, responsabile per l’architettura e il design del MoMA, il prestigioso Museum of Modern Art di New York: curerà la XXII Esposizione Internazionale del 2019. Una conferma di Milano come grande capitale del design (mentre ci si prepara alla nuova edizione del Salone del Mobile, dal 17 al 22 aprile, 1300 aziende espositrici da tutto il mondo, circa 350mila visitatori lo scorso anno).

Milano è un’economia dinamica: tra il 2014 e il 2017 è cresciuta del 6,2%, rispetto al 3,6% della media italiana e allo stesso 5,1% della Lombardia. E rispetto alla stagione precedente alla crisi del 2008, Milano ha recuperato tutto lo spazio perduto ed è sopra del 3,2%, mentre l’Italia è ancora indietro del 4,4% e la Lombardia dell’1,1%. Crescono i servizi e l’industria (qui nel dinamismo di “Industry4.0 e di una robusta presenza internazionale), soffrono ancora le costruzioni. Tutto sommato, Milano è la migliore economia di tutto il Paese.

Milano è una buona scuola: la Tsinghua University di Pechino (suo il maggior incubatore d’imprese al mondo) ha preso casa in Bovisa, facendo lì il proprio polo di rappresentanza e di espansione, con un programma di stretta collaborazione con il Politecnico. Un’importante novità, per tutto il sistema formativo lombardo. E intanto proprio il Politecnico e poi la Bocconi migliorano le loro posizioni nelle classifiche internazionali QS (Quacquarelli Sysmonds, una delle più note società di valutazione internazionali che confronta 4.522 università di 75 nazioni sulle capacità di fare ricerca, reputazione dei docenti e giudizi dei laureati): il Politecnico sale al 17° posto per Ingegneria, la Bocconi è al 10° per Business Management. Se il futuro sta nell’economia della conoscenza, Milano ha ottime carte in mano.

Milano è una passione per le competenze: ci si fa strada soprattutto per meriti, molto meno che in altre città per clientele e protezioni familiari. E la cultura d’impresa pretende chiarezza ed efficienza. Come nella gara per la sede dell’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco. La metropoli, con tutte le carte in regola per vincere, è stata beffata dal sorteggio. Ha vinto Amsterdam, che non ha affatto le carte in regola, anzi le trucca (il cantiere del palazzo per l’Ema è nel caos, un’impresa s’è ritirata dall’appalto, ma il governo olandese lo ha nascosto alla commissione dell’Europarlamento, un grande pasticcio di sedicenti moralisti efficientisti; “IlSole24Ore”, 4 marzo).

Milano è un’idea di giustizia e di legalità: cresce la consapevolezza dei pericoli d’un grave inquinamento mafioso nei circuiti dell’economia e delle strutture pubbliche, non si trascurano i segnali d’allarme per la crescente presenza di ‘ndrangheta, Cosa Nostra siciliana e camorra. E l’Assolombarda, la principale organizzazione territoriale di Confindustria, dialoga molto con Palazzo di Giustizia su efficienza ed efficacia delle attività giudiziarie e considera la legalità come pilastro essenziale della competitività di Milano (lo documentano le parole d’attenzione alle buone imprese contenute nella relazione con cui la presidente della Corte d’Appello Marina Tavassi ha inaugurato l’anno giudiziario, il 27 gennaio).

Milano è una periferia che si prova a rammendare: gli investimenti e le iniziative del Comune, su sollecitazione del sindaco Beppe Sala, per il Lorenteggio, via Padova e il quartiere Adriano sono una indicazione importante. Anche se restano aperte le crisi delle case di edilizia popolare dell’Aler nel quartiere Mazzini (responsabilità della Regione Lombardia, comunque e non del Comune – “La Stampa”, 20 febbraio) e “le ferite urbane della città di Ligresti”, messe in luce de “Il Sole24Ore” (7 febbraio): gli edifici periferici abbandonati e oramai vuoti, frutto di una delle più rapaci speculazioni edilizie degli anni Ottanta. Ci sono alcuni progetti di riqualificazione, per iniziativa di UnipolSai. Ma molte altre aree non attraggono capitali. “Serve il coraggio di demolire e incentivare il sostenibile”, sostiene Stefano Boeri, architetto di fama internazionale (suo il premiatissimo “Bosco Verticale” a Porta Nuova) e da poco presidente della Triennale.

Milano è un cantiere che avverte il fascino di gru, ponteggi, investimenti immobiliari internazionali. La nuova skyline è una partita da 15 miliardi, calcola l’Osservatorio Immobiliare di Mario Breglia (“Affari&Finanza” de “la Repubblica”, 26 febbraio): 4,3 arrivati nel 2017, almeno altrettanti previsti nel 2018, più quelli già arrivati dal 2013 al 2016, con un impatto cumulato sul Pil di Milano di circa 50 miliardi. E ci sono circa 600mila metri quadri di terreni da riqualificare, tra i sette grandi scali ferroviari, Human Technopole e altre aree: una straordinaria opportunità per ridisegnare forte e funzioni di una Milano metropoli smart city che consolida e rilancia le sue funzioni all’incrocio tra economia circolare e civile (la qualità della vita) ed economia hi tech: sfida complessa, ma stimolante.

Milano è una classe dirigente capace di impegni comuni trasversali alle appartenenze politiche e di sguardo lungo sul futuro della metropoli. Lo abbiamo visto nelle battaglie per l’Expo, l’Ema, gli investimenti su Human Technopole, come cardine internazionale di investimenti e insediamenti internazionali per la ricerca, l’innovazione, le life sciences d’avanguardia. C’è una caratteristica molto milanese, in questo processo: un’economia che, tra industria, servizi, finanza, per crescere non dipende dalla politica e dalla spesa pubblica, ma dalla competizione di mercato. Il che rende tutti più dinamici e più liberi: gli imprenditori dal servaggio di clientele e favori, i politici dal dover sussidiare l’economia, pena la crisi, con tutte le distorsioni che ne derivano (come avviene in gran parte delle città italiane del centro-sud). sviluppo, sguardo lungo. L’autonomia tra politica ed economia è un buon processo, fragile e delicatissimo, comunque. E un interessante paradigma per il resto del Paese.

Il segno che rappresenta meglio Milano è una linea curva. Priva di spigoli. Tonda e dunque morbida, inclusiva, solidale. Come dicono le sue mura e le sue circonvallazioni. La forma dei bastioni che racchiudono una sorta di cuore (l’hanno scoperto dei cartografi, riesaminando antiche mappe della città). E i navigli, che nella storia sono stati vie d’accesso per persone e per merci. Milano città aperta, dunque. Le sue porte, essenzialmente, erano caselli del dazio, varchi per persone e merci, strutture per funzioni economiche. Oggi, stazioni e aeroporti, tra i più efficienti d’Europa, collegano Milano con Torino e Bologna, Verona e Chiasso, Londra e Parigi, Monaco e Francoforte tutto in un’ora. Milano centrale, in Europa. “Milano, che gente, che cambi…”, come cantava Lucio Dalla.

“Il Curvo”, si chiama l’ultimo grattacielo che sta sorgendo, nel nuovo quartiere di CityLife, su progetto di Daniel Libeskind, accanto allo “Sorto”, progettato da Zaha Hadid e al “Dritto” firmato da Arata Isozaky (ospiteranno uffici di compagnie d’assicurazione, Allianz e Generali, di società finanziarie e di consulenza). Tutta la nuova skyline milanese, d’altronde, è ricca di segni tondi: il grattacielo Unicredit di César Pelli con le sue volute circolari e il grattacielo della Regione con le sue sinuosità, che confina con la tonda piazza Gae Aulenti. Il tondo, come sanno bene tutti gli studiosi dei segni, è accogliente, comunitario, conviviale.

Milano che ricorda e che cambia, in fin dei conti, cos’è? Tante dimensioni diverse e stimolanti.

Milano è un libro: “Tempo di libri” aprirà i battenti in Fiera dall’8 al 12 marzo: scrittori, incontri, dibattiti, in raccordo con “Book City” e con la Fiera del Libro di Francoforte, tutto un fiorire d’iniziative che, della metropoli, valorizzano scrittura ed editoria, creatività e industria culturale, tradizione (le passeggiate di Stendhal, le riviste e le collane di Vittorini, le poesie di Montale, l’innovazione di Gadda e poi di Eco e Arbasino) e cura per le nuove generazioni (molti i programmi per bambini e ragazzi, anche nello stand della Fondazione Pirelli). “Tempo di libri”, insomma, come punto di riferimento di una serie di attività che qui convergono dal resto d’Italia e dalle principali capitali culturali del mondo.

Milano è una memoria viva: antiche e solide istituzioni culturali (La Scala, l’Orchestra Verdi, il Conservatorio, il Piccolo Teatro, il Parenti) si mettono in relazione con nuove iniziative d’arte contemporanea. Tutto è in movimento. E alla Triennale arriva Paola Antonelli, responsabile per l’architettura e il design del MoMA, il prestigioso Museum of Modern Art di New York: curerà la XXII Esposizione Internazionale del 2019. Una conferma di Milano come grande capitale del design (mentre ci si prepara alla nuova edizione del Salone del Mobile, dal 17 al 22 aprile, 1300 aziende espositrici da tutto il mondo, circa 350mila visitatori lo scorso anno).

Milano è un’economia dinamica: tra il 2014 e il 2017 è cresciuta del 6,2%, rispetto al 3,6% della media italiana e allo stesso 5,1% della Lombardia. E rispetto alla stagione precedente alla crisi del 2008, Milano ha recuperato tutto lo spazio perduto ed è sopra del 3,2%, mentre l’Italia è ancora indietro del 4,4% e la Lombardia dell’1,1%. Crescono i servizi e l’industria (qui nel dinamismo di “Industry4.0 e di una robusta presenza internazionale), soffrono ancora le costruzioni. Tutto sommato, Milano è la migliore economia di tutto il Paese.

Milano è una buona scuola: la Tsinghua University di Pechino (suo il maggior incubatore d’imprese al mondo) ha preso casa in Bovisa, facendo lì il proprio polo di rappresentanza e di espansione, con un programma di stretta collaborazione con il Politecnico. Un’importante novità, per tutto il sistema formativo lombardo. E intanto proprio il Politecnico e poi la Bocconi migliorano le loro posizioni nelle classifiche internazionali QS (Quacquarelli Sysmonds, una delle più note società di valutazione internazionali che confronta 4.522 università di 75 nazioni sulle capacità di fare ricerca, reputazione dei docenti e giudizi dei laureati): il Politecnico sale al 17° posto per Ingegneria, la Bocconi è al 10° per Business Management. Se il futuro sta nell’economia della conoscenza, Milano ha ottime carte in mano.

Milano è una passione per le competenze: ci si fa strada soprattutto per meriti, molto meno che in altre città per clientele e protezioni familiari. E la cultura d’impresa pretende chiarezza ed efficienza. Come nella gara per la sede dell’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco. La metropoli, con tutte le carte in regola per vincere, è stata beffata dal sorteggio. Ha vinto Amsterdam, che non ha affatto le carte in regola, anzi le trucca (il cantiere del palazzo per l’Ema è nel caos, un’impresa s’è ritirata dall’appalto, ma il governo olandese lo ha nascosto alla commissione dell’Europarlamento, un grande pasticcio di sedicenti moralisti efficientisti; “IlSole24Ore”, 4 marzo).

Milano è un’idea di giustizia e di legalità: cresce la consapevolezza dei pericoli d’un grave inquinamento mafioso nei circuiti dell’economia e delle strutture pubbliche, non si trascurano i segnali d’allarme per la crescente presenza di ‘ndrangheta, Cosa Nostra siciliana e camorra. E l’Assolombarda, la principale organizzazione territoriale di Confindustria, dialoga molto con Palazzo di Giustizia su efficienza ed efficacia delle attività giudiziarie e considera la legalità come pilastro essenziale della competitività di Milano (lo documentano le parole d’attenzione alle buone imprese contenute nella relazione con cui la presidente della Corte d’Appello Marina Tavassi ha inaugurato l’anno giudiziario, il 27 gennaio).

Milano è una periferia che si prova a rammendare: gli investimenti e le iniziative del Comune, su sollecitazione del sindaco Beppe Sala, per il Lorenteggio, via Padova e il quartiere Adriano sono una indicazione importante. Anche se restano aperte le crisi delle case di edilizia popolare dell’Aler nel quartiere Mazzini (responsabilità della Regione Lombardia, comunque e non del Comune – “La Stampa”, 20 febbraio) e “le ferite urbane della città di Ligresti”, messe in luce de “Il Sole24Ore” (7 febbraio): gli edifici periferici abbandonati e oramai vuoti, frutto di una delle più rapaci speculazioni edilizie degli anni Ottanta. Ci sono alcuni progetti di riqualificazione, per iniziativa di UnipolSai. Ma molte altre aree non attraggono capitali. “Serve il coraggio di demolire e incentivare il sostenibile”, sostiene Stefano Boeri, architetto di fama internazionale (suo il premiatissimo “Bosco Verticale” a Porta Nuova) e da poco presidente della Triennale.

Milano è un cantiere che avverte il fascino di gru, ponteggi, investimenti immobiliari internazionali. La nuova skyline è una partita da 15 miliardi, calcola l’Osservatorio Immobiliare di Mario Breglia (“Affari&Finanza” de “la Repubblica”, 26 febbraio): 4,3 arrivati nel 2017, almeno altrettanti previsti nel 2018, più quelli già arrivati dal 2013 al 2016, con un impatto cumulato sul Pil di Milano di circa 50 miliardi. E ci sono circa 600mila metri quadri di terreni da riqualificare, tra i sette grandi scali ferroviari, Human Technopole e altre aree: una straordinaria opportunità per ridisegnare forte e funzioni di una Milano metropoli smart city che consolida e rilancia le sue funzioni all’incrocio tra economia circolare e civile (la qualità della vita) ed economia hi tech: sfida complessa, ma stimolante.

Milano è una classe dirigente capace di impegni comuni trasversali alle appartenenze politiche e di sguardo lungo sul futuro della metropoli. Lo abbiamo visto nelle battaglie per l’Expo, l’Ema, gli investimenti su Human Technopole, come cardine internazionale di investimenti e insediamenti internazionali per la ricerca, l’innovazione, le life sciences d’avanguardia. C’è una caratteristica molto milanese, in questo processo: un’economia che, tra industria, servizi, finanza, per crescere non dipende dalla politica e dalla spesa pubblica, ma dalla competizione di mercato. Il che rende tutti più dinamici e più liberi: gli imprenditori dal servaggio di clientele e favori, i politici dal dover sussidiare l’economia, pena la crisi, con tutte le distorsioni che ne derivano (come avviene in gran parte delle città italiane del centro-sud). sviluppo, sguardo lungo. L’autonomia tra politica ed economia è un buon processo, fragile e delicatissimo, comunque. E un interessante paradigma per il resto del Paese.

Un Oscar “di gomma”. Attrici testimonial Pirelli

Nella notte degli Oscar del Cinema, a Los Angeles, viene assegnato il premio più ambito che solo alcune celebri interpreti  – legate anche alla storia di Pirelli – hanno avuto l’opportunità di vincere. Già dai primi anni del Novecento Pirelli ha infatti lavorato con grandi attrici, come Paola Borboni, a cui il premio non fu mai assegnato, un po’ perchè preferiva il teatro al cinema, un po’ perché era già famosa ben prima che inventassero gli Oscar. Si autodefiniva infatti “la prima attrice del secolo”, essendo nata l’1 gennaio del 1900. Aveva ventisette anni quando il pittore Mario Bazzi la ritrasse per il manifesto pubblicitario delle sovrascarpe Pirelli “Hevea”. Già allora anticonformista e vivace, la diva che mostrava al pubblico le magiche “galoshes” di caucciù che avrebbero riparato dalla pioggia le sue preziose scarpe era solo la prima delle tante attrici che negli anni hanno legato il loro nome alle pubblicità Pirelli.

Non aveva ancora compiuto vent’anni ma era già famosa Lucia Bosè, nel dicembre 1950. Tre anni prima aveva vinto il concorso di Miss Italia, ed era già stata diretta da Michelangelo Antonioni: una star lanciata verso il successo. E dunque tutto quanto la circondava diventava automaticamente “di classe” e desiderabile. Come la valigia invinilpelle” Pirelli che l’attrice promuoveva  -nella fotografia di Federico Patellani–  dalla quarta di copertina della rivista “Pirelli” n°6 del 1950.

Nel 1952, a ventisei anni, Norma Jean Baker aveva già un burrascoso passato ma soprattutto una grande difficoltà a “sfondare” nel cinema. Per poter diventare finalmente Marilyn Monroe. Era dunque una “stupefacente bionda” a metà strada tra la sfortunata Norma Jean e la diva Marilyn quella che sorrideva sulla spiaggia, fotografata per la pubblicità 1952 dei costumi da bagno in Lastex Pirelli. Il magico filo elastico italo-americano indossato dall’attrice che più di tutte avrebbe rappresentato, nella storia del cinema, il mito ideale della Bellezza.

Si dovettero aspettare oltre quarant’anni per ritrovare nelle pubblicità Pirelli un’altra splendida star bionda. Era il 1993 e lei era Sharon Stone, la Catherin Tramell che in “Basic Instinct”, l’anno precedente, aveva stregato gli spettatori di mezzo mondo. Nello spot Pirelli “Se vuoi guidare, guida davvero.”, l’attrice americana scendeva dall’aereo e poi sfiorava un pneumatico Pirelli salendo in macchina: il video diventò per tutti “Driving Instinct”.

E l’Oscar va a lei, Sophia Loren, la prima attrice a vincere la famosa statuetta in un film non in lingua inglese. Pur non avendo mai posato come testimonial per le pubblicità Pirelli, è lei a comparire sulle copertine del magazine “Vado e torno” negli anni Sessanta, per poi tornare protagonista – magnifica settantasettenne- nell’edizione 2007 del celebre “The Cal”.

Nella notte degli Oscar del Cinema, a Los Angeles, viene assegnato il premio più ambito che solo alcune celebri interpreti  – legate anche alla storia di Pirelli – hanno avuto l’opportunità di vincere. Già dai primi anni del Novecento Pirelli ha infatti lavorato con grandi attrici, come Paola Borboni, a cui il premio non fu mai assegnato, un po’ perchè preferiva il teatro al cinema, un po’ perché era già famosa ben prima che inventassero gli Oscar. Si autodefiniva infatti “la prima attrice del secolo”, essendo nata l’1 gennaio del 1900. Aveva ventisette anni quando il pittore Mario Bazzi la ritrasse per il manifesto pubblicitario delle sovrascarpe Pirelli “Hevea”. Già allora anticonformista e vivace, la diva che mostrava al pubblico le magiche “galoshes” di caucciù che avrebbero riparato dalla pioggia le sue preziose scarpe era solo la prima delle tante attrici che negli anni hanno legato il loro nome alle pubblicità Pirelli.

Non aveva ancora compiuto vent’anni ma era già famosa Lucia Bosè, nel dicembre 1950. Tre anni prima aveva vinto il concorso di Miss Italia, ed era già stata diretta da Michelangelo Antonioni: una star lanciata verso il successo. E dunque tutto quanto la circondava diventava automaticamente “di classe” e desiderabile. Come la valigia invinilpelle” Pirelli che l’attrice promuoveva  -nella fotografia di Federico Patellani–  dalla quarta di copertina della rivista “Pirelli” n°6 del 1950.

Nel 1952, a ventisei anni, Norma Jean Baker aveva già un burrascoso passato ma soprattutto una grande difficoltà a “sfondare” nel cinema. Per poter diventare finalmente Marilyn Monroe. Era dunque una “stupefacente bionda” a metà strada tra la sfortunata Norma Jean e la diva Marilyn quella che sorrideva sulla spiaggia, fotografata per la pubblicità 1952 dei costumi da bagno in Lastex Pirelli. Il magico filo elastico italo-americano indossato dall’attrice che più di tutte avrebbe rappresentato, nella storia del cinema, il mito ideale della Bellezza.

Si dovettero aspettare oltre quarant’anni per ritrovare nelle pubblicità Pirelli un’altra splendida star bionda. Era il 1993 e lei era Sharon Stone, la Catherin Tramell che in “Basic Instinct”, l’anno precedente, aveva stregato gli spettatori di mezzo mondo. Nello spot Pirelli “Se vuoi guidare, guida davvero.”, l’attrice americana scendeva dall’aereo e poi sfiorava un pneumatico Pirelli salendo in macchina: il video diventò per tutti “Driving Instinct”.

E l’Oscar va a lei, Sophia Loren, la prima attrice a vincere la famosa statuetta in un film non in lingua inglese. Pur non avendo mai posato come testimonial per le pubblicità Pirelli, è lei a comparire sulle copertine del magazine “Vado e torno” negli anni Sessanta, per poi tornare protagonista – magnifica settantasettenne- nell’edizione 2007 del celebre “The Cal”.

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Innovazione tecnologica territoriale d’impresa

Una ricerca pubblicata sui Quaderni IRCrES mette a confronto approcci diversi di intervento per favorire la crescita delle aziende e la loro innovazione

 

 Le idee d’impresa e la loro realizzazione possono nascere meglio in particolari condizioni territoriali e sociali. Non è una constatazione banale, ma un impegno. E’ proprio anche dal lavoro sul territorio che la cultura d’impresa può svilupparsi meglio e dare frutti migliori.

La comprensione delle condizioni reali di innovazione e d’impresa in due territori – diversi per molti aspetti -, è stata l’obiettivo della ricerca di Angelo Bonomi (Senior Research Associate al CNR-IRCRES, CNR Research Institute on Sustainable Economic Growt), pubblicata qualche settimana fa nei Quaderni IRCrES.

Il senso di “Sistemi Innovativi Tecnologici Territoriali.  Due casi: il Verbano-Cusio-Ossola e il Canton Ticino” è spiegato dallo stesso autore che scrive: “Il sistema innovativo di un territorio può essere oggetto di un ampio campo di studio che riguarda la sua struttura economica e industriale e la sua situazione socio-economica”. Nello studio, tuttavia, l’autore limita la propria analisi alla “promozione dell’innovazione e dell’imprenditorialità” e cioè alle “strutture e organizzazioni che svolgono attività d’innovazione e promozione verso l’intero territorio”. A queste, poi, occorre affiancare il dettaglio del sistema industriale e quindi quello che fanno le varie aziende, le loro strutture di R&S e le conseguenti strategie innovative.

L’interesse di Bonomi, in altre parole, si focalizza su quanto i sistemi territoriali mettono in campo per aiutare le imprese a nascere e svilupparsi. E’ ciò che viene indicato come “sistema innovativo tecnologico territoriale”. Il contesto, insomma.

Dopo un inquadramento della teoria dei sistemi territoriali innovativi, l’autore approfondisce la situazione di due territori: il Verbano-Cusio-Ossola e il Canton Ticino. Per entrambi viene seguito lo stesso schema di indagine: la fotografia del sistema di formazione, ricerca e innovazione; l’individuazione delle strutture di formazione e di promozione dell’imprenditorialità; la messa a fuoco delle strutture di promozione dell’innovazione collegata all’imprenditorialità. Entrambi i territori, infine, vengono paragonati con l’esperienza della Silicon Valley americana.  Chiude l’indagine un confronto fra i tre sistemi di intervento. “In linea generale – è una delle conclusioni di Bonomi -,  lo studio indica che il sistema svizzero, con il suo approccio bottom up per la promozione dell’innovazione e dell’imprenditorialità, libero da regolamentazioni e programmi prestabiliti, è più simile a quello della Silicon Valley, rispetto alla prevalenza dell’approccio top down, usato in Italia e dall’UE, basato su una stretta regolamentazione attraverso interventi e programmi di ricerca prestabiliti”.

Sistemi Innovativi Tecnologici Territoriali.  Due casi: il Verbano-Cusio-Ossola e il Canton Ticino

Angelo Bonomi

Quaderni IRCrES, 1/2018

Una ricerca pubblicata sui Quaderni IRCrES mette a confronto approcci diversi di intervento per favorire la crescita delle aziende e la loro innovazione

 

 Le idee d’impresa e la loro realizzazione possono nascere meglio in particolari condizioni territoriali e sociali. Non è una constatazione banale, ma un impegno. E’ proprio anche dal lavoro sul territorio che la cultura d’impresa può svilupparsi meglio e dare frutti migliori.

La comprensione delle condizioni reali di innovazione e d’impresa in due territori – diversi per molti aspetti -, è stata l’obiettivo della ricerca di Angelo Bonomi (Senior Research Associate al CNR-IRCRES, CNR Research Institute on Sustainable Economic Growt), pubblicata qualche settimana fa nei Quaderni IRCrES.

Il senso di “Sistemi Innovativi Tecnologici Territoriali.  Due casi: il Verbano-Cusio-Ossola e il Canton Ticino” è spiegato dallo stesso autore che scrive: “Il sistema innovativo di un territorio può essere oggetto di un ampio campo di studio che riguarda la sua struttura economica e industriale e la sua situazione socio-economica”. Nello studio, tuttavia, l’autore limita la propria analisi alla “promozione dell’innovazione e dell’imprenditorialità” e cioè alle “strutture e organizzazioni che svolgono attività d’innovazione e promozione verso l’intero territorio”. A queste, poi, occorre affiancare il dettaglio del sistema industriale e quindi quello che fanno le varie aziende, le loro strutture di R&S e le conseguenti strategie innovative.

L’interesse di Bonomi, in altre parole, si focalizza su quanto i sistemi territoriali mettono in campo per aiutare le imprese a nascere e svilupparsi. E’ ciò che viene indicato come “sistema innovativo tecnologico territoriale”. Il contesto, insomma.

Dopo un inquadramento della teoria dei sistemi territoriali innovativi, l’autore approfondisce la situazione di due territori: il Verbano-Cusio-Ossola e il Canton Ticino. Per entrambi viene seguito lo stesso schema di indagine: la fotografia del sistema di formazione, ricerca e innovazione; l’individuazione delle strutture di formazione e di promozione dell’imprenditorialità; la messa a fuoco delle strutture di promozione dell’innovazione collegata all’imprenditorialità. Entrambi i territori, infine, vengono paragonati con l’esperienza della Silicon Valley americana.  Chiude l’indagine un confronto fra i tre sistemi di intervento. “In linea generale – è una delle conclusioni di Bonomi -,  lo studio indica che il sistema svizzero, con il suo approccio bottom up per la promozione dell’innovazione e dell’imprenditorialità, libero da regolamentazioni e programmi prestabiliti, è più simile a quello della Silicon Valley, rispetto alla prevalenza dell’approccio top down, usato in Italia e dall’UE, basato su una stretta regolamentazione attraverso interventi e programmi di ricerca prestabiliti”.

Sistemi Innovativi Tecnologici Territoriali.  Due casi: il Verbano-Cusio-Ossola e il Canton Ticino

Angelo Bonomi

Quaderni IRCrES, 1/2018

Storia futura

Un libro appena tradotto in Italia confronta il Rinascimento con l’oggi e trova molti elementi comuni; condizioni favorevoli ad un nuovo scatto in avanti

 

Guardare oltre, sparigliare il presente, osare l’inosabile. Lo si è già detto più e più volte, la natura dell’imprenditore è quella di chi sa vedere il mondo in modo diverso dagli altri. Non solo calcolo, ma anche istinto. E voglia di fare. Chi compie un’impresa è consapevole di vivere in un contesto che va capito a fondo.

Leggere “Nuova età dell’oro” di Ian Golding e Chris Kutarna – appena pubblicato in traduzione italiana -, è una di quelle cose che tutti dovrebbero fare. Non per erudizione, ma per comprendere cosa lega l’oggi al passato e in particolare al Rinascimento. Allora come oggi vi sono, secondo gli autori, elementi forti di crisi e di difficoltà che però si possono trasformare in spinte al rinnovamento e al progresso. In altre parole, così come accadde 500 anni fa con il Rinascimento, può e deve accadere anche oggi. L’idea sviluppata dagli autori (Golding insegna Globalizzazione e sviluppo alla University of Oxford ed è stato Vicepresidente della Banca Mondiale, Kutarna è ricercatore di Scienze politiche alla Oxford Martin School), è quindi che, proprio come nel Rinascimento, nella nostra epoca ci sia un terreno estremamente fertile per la fioritura del genio, perché in nessun altro momento storico il rapporto tra scienza e tecnologia è stato così stretto.

Certo, le difficoltà sembrano enormi. E gli esempi per capire non mancano. Dei quindici anni più caldi mai avvertiti sul nostro pianeta quattordici si sono registrati nel XXI secolo. L’inquinamento da carbonio ha portato i gas serra ai picchi più alti dalla fine del Cretaceo. Una crisi finanziaria globale ha lasciato senza parole i cervelli meglio pagati al mondo. E ancora l’11 settembre, gli attacchi terroristici da Montreal a Manchester, la Brexit, i collassi nucleari, gli tsunami e gli uragani: di ragioni per pensare che tutto stia crollando ce ne sono parecchie. Gli autori ricordano però subito che condizioni critiche simili in quanto a portata materiale ed emotiva, si crearono proprio nel periodo storico nel quale esplose il Rinascimento. Il libro ripercorre quindi la storia delle scoperte geografiche, delle rivoluzioni scientifiche e artistiche che hanno caratterizzato l’età moderna e le confrontano con l’attualità: come Gutenberg e la stampa, Zuckerberg e i social media contribuiscono a diffondere la conoscenza; il crollo del muro di Berlino e la globalizzazione hanno abbattuto barriere e consentito di varcare confini prima invalicabili in misura pari alla scoperta di Cristoforo Colombo; i flussi migratori di oggi, spesso determinati da movimenti geopolitici radicati nella religione, ricordano quelli provocati in Europa dalla scissione tra Chiesa cattolica e Chiesa riformata.

Con una scrittura coinvolgente, il libro si legge quasi d’un fiato (anche se conta poco meno di 400 pagine), ed è un susseguirsi di confronti e di va e vieni dal passato al presente. Il racconto si divide in quattro parti: ieri e oggi a confronto su alcuni elementi di base, le condizioni di nascita “del genio”, il confronto con “il rischio” (come elemento imprescindibile della natura del genio), le condizioni per affrontare il futuro: l’unica parte del libro questa, che forse lascia spazio più ai precetti operativi che all’analisi e che per questo si diversifica non sempre con eccellenza dal resto.

In queste pagine, gli uomini d’impresa troveranno ampio materiale per orientare più consapevolmente la loro azione. E magari per non sentirsi soli.

Libro di storia e di ragionamento, “Nuova età dell’oro” solo apparentemente è un accostamento di fatti diversi per dimostrare una tesi; in realtà è un esempio di come si può guardare alla storia e al presente visti come un tutt’uno.

Nuova età dell’oro. Guida ad un secondo Rinascimento economico e culturale

Ian Golding, Chris Kutarna

il Saggiatore, 2018

Un libro appena tradotto in Italia confronta il Rinascimento con l’oggi e trova molti elementi comuni; condizioni favorevoli ad un nuovo scatto in avanti

 

Guardare oltre, sparigliare il presente, osare l’inosabile. Lo si è già detto più e più volte, la natura dell’imprenditore è quella di chi sa vedere il mondo in modo diverso dagli altri. Non solo calcolo, ma anche istinto. E voglia di fare. Chi compie un’impresa è consapevole di vivere in un contesto che va capito a fondo.

Leggere “Nuova età dell’oro” di Ian Golding e Chris Kutarna – appena pubblicato in traduzione italiana -, è una di quelle cose che tutti dovrebbero fare. Non per erudizione, ma per comprendere cosa lega l’oggi al passato e in particolare al Rinascimento. Allora come oggi vi sono, secondo gli autori, elementi forti di crisi e di difficoltà che però si possono trasformare in spinte al rinnovamento e al progresso. In altre parole, così come accadde 500 anni fa con il Rinascimento, può e deve accadere anche oggi. L’idea sviluppata dagli autori (Golding insegna Globalizzazione e sviluppo alla University of Oxford ed è stato Vicepresidente della Banca Mondiale, Kutarna è ricercatore di Scienze politiche alla Oxford Martin School), è quindi che, proprio come nel Rinascimento, nella nostra epoca ci sia un terreno estremamente fertile per la fioritura del genio, perché in nessun altro momento storico il rapporto tra scienza e tecnologia è stato così stretto.

Certo, le difficoltà sembrano enormi. E gli esempi per capire non mancano. Dei quindici anni più caldi mai avvertiti sul nostro pianeta quattordici si sono registrati nel XXI secolo. L’inquinamento da carbonio ha portato i gas serra ai picchi più alti dalla fine del Cretaceo. Una crisi finanziaria globale ha lasciato senza parole i cervelli meglio pagati al mondo. E ancora l’11 settembre, gli attacchi terroristici da Montreal a Manchester, la Brexit, i collassi nucleari, gli tsunami e gli uragani: di ragioni per pensare che tutto stia crollando ce ne sono parecchie. Gli autori ricordano però subito che condizioni critiche simili in quanto a portata materiale ed emotiva, si crearono proprio nel periodo storico nel quale esplose il Rinascimento. Il libro ripercorre quindi la storia delle scoperte geografiche, delle rivoluzioni scientifiche e artistiche che hanno caratterizzato l’età moderna e le confrontano con l’attualità: come Gutenberg e la stampa, Zuckerberg e i social media contribuiscono a diffondere la conoscenza; il crollo del muro di Berlino e la globalizzazione hanno abbattuto barriere e consentito di varcare confini prima invalicabili in misura pari alla scoperta di Cristoforo Colombo; i flussi migratori di oggi, spesso determinati da movimenti geopolitici radicati nella religione, ricordano quelli provocati in Europa dalla scissione tra Chiesa cattolica e Chiesa riformata.

Con una scrittura coinvolgente, il libro si legge quasi d’un fiato (anche se conta poco meno di 400 pagine), ed è un susseguirsi di confronti e di va e vieni dal passato al presente. Il racconto si divide in quattro parti: ieri e oggi a confronto su alcuni elementi di base, le condizioni di nascita “del genio”, il confronto con “il rischio” (come elemento imprescindibile della natura del genio), le condizioni per affrontare il futuro: l’unica parte del libro questa, che forse lascia spazio più ai precetti operativi che all’analisi e che per questo si diversifica non sempre con eccellenza dal resto.

In queste pagine, gli uomini d’impresa troveranno ampio materiale per orientare più consapevolmente la loro azione. E magari per non sentirsi soli.

Libro di storia e di ragionamento, “Nuova età dell’oro” solo apparentemente è un accostamento di fatti diversi per dimostrare una tesi; in realtà è un esempio di come si può guardare alla storia e al presente visti come un tutt’uno.

Nuova età dell’oro. Guida ad un secondo Rinascimento economico e culturale

Ian Golding, Chris Kutarna

il Saggiatore, 2018

Imprese e lavoro: più fiducia nell’Europa e un no deciso contro il “dumping sociale”

“Le imprese italiane hanno fiducia nell’Europa, insistono su una strada comune che rafforzi, contemporaneamente, sia la competitività sia l’inclusione sociale (la fabbrica, paradigma del lavoro, è appunto un luogo straordinario che, dalla seconda metà del Novecento, proprio in Italia,  lega diritti e doveri, cittadinanza e senso di responsabilità). Ma dicono anche un “no” molto netto al dumping sociale e sollecitano “la promozione di standard comuni di protezione del lavoro nei paesi membri, inclusa una maggiore armonizzazione dei sistemi esistenti di salario minimo”: non si fa concorrenza abbattendo salari e costruendo vantaggi fiscali nei singoli paesi con i contributi della Ue. Il mercato comune, insomma, è un luogo aperto e ben regolato, guidato da principi di concorrenza, ma certo non uno spazio di furbizie e scorciatoie.

L’appello alla Ue è contenuto in un documento firmato da Abi (le banche), Ania (le assicurazioni), Assonime (le imprese quotate in Borsa), Confindustria e Febaf (la federazione delle associazioni delle imprese finanziarie) diffuso nei giorni scorsi (Il Sole24Ore, 22 febbraio). E ha un forte sapore d’attualità, proprio negli ultimi giorni di una campagna elettorale gonfia di umori negativi contro l’Europa, di rancori sociali e di cupe tentazioni verso il nazionalismo e il protezionismo economico (con tanto di bizzarra riscoperta dei dazi, dichiarando una improbabile protezione delle imprese). L’Europa, dicono le associazioni d’impresa, non è in discussione. Semmai l’integrazione europea va rafforzata e migliorata, anche con impegni più robusti dei principali paesi: un nucleo forte e più dinamico, di cui è essenziale faccia parte, accanto a Germania e Francia (un asse oramai solido), anche l’Italia, terza economia europea, paese fondatore, convinto sostenitore, fin dai tempi di De Gasperi negli anni Cinquanta, dell’idea che sia proprio l’Europa a essere tanto il vincolo positivo quanto lo stimolo per un migliore sviluppo economico.

L’attualità del documento di Confindustria e delle altre organizzazioni è anche un’interessante presa di posizione che parte dalla cronaca (il caso Embraco-Whirlpool, la chiusura dello stabilimento industriale di Chieri, in Piemonte, per andare a produrre accumulatori in Slovacchia) per ragionare più in generale su investimenti, competitività dei territori, concorrenza.

La Embraco (società brasiliana della multinazionale Usa Whirlpool, leader mondiale dell’industria del “bianco”: lavatrici, lavastoviglie, frigoriferi, etc.) ha appena annunciato la chiusura della fabbrica piemontese (500 dipendenti) per andare a Spisska Nova Ves, nell’est slovacco: salari operai della metà (900 euro contro i 1700 italiani), sindacato più debole, vantaggi fiscali (che abbattono ancora il costo del lavoro). L’impresa non ha voluto sentire ragioni su mediazioni, soluzioni intermedie da approfondire, cassa integrazione, insistendo sui licenziamenti, tanto da suscitare l’ira del ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda (“Non mi era mai capitato di sentire un’impresa che dice che deve licenziare adesso perché altrimenti ha problemi con la Borsa, dimostrando così una totale mancanza di attenzione verso le persone e la responsabilità sociale”).

Ecco il problema del dumping sociale: ne parla il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e il ministro Calenda scrive a Bruxelles, al Commissario per la Concorrenza Margrethe Vestager per chiedere chiarimenti sul regime di agevolazioni fiscali applicato dalla Slovacchia alle imprese straniere. C’è un dumping fiscale che mette in crisi le regole della concorrenza all’interno della Ue e supporta il dumping sociale, la competizione ingiusta su retribuzioni e condizioni di lavoro. E l’Europa, perché continui a essere cornice comune e riferimento di valori e di regole, ha bisogno di trasparenza e correttezza.

Si torna, così, ai temi posti dal documento di Confindustria, Abi, Ania, Assonime e Febaf. L’Italia è un paese dinamico, con forte e radicata tendenza all’export. Per crescere, deve attrarre investimenti internazionali e spingere le proprie imprese a investire all’estero, essere ben inserita nelle evoluzioni dei mercati globali. E anche per questi motivi la relazione corretta con l’Europa è essenziale.

Nel documento, in 11 punti, si parla dell’Europa come “modello economico e sociale”, tenendo insieme competitività delle imprese e solidarietà tra i cittadini (un tema caro in particolare all’Assolombarda, che da anni a Milano porta avanti politiche che legano crescita economica e inclusione sociale, secondo la storica lezione dell’accoglienza ambrosiana) e di “tutela degli interessi” degli Stati membri europei in una cornice di “mondo globalizzato”, senza rifugiarsi in improduttive e antistoriche chiusure nei “nazionalismi”. Bisogna camminare lungo “la strada verso l’integrazione”, con “un nucleo di Stati organizzati attorno alla moneta comune” e costruire “politiche credibili su debito, produttività e sostenibilità”: non la rigida austerity e l’equilibrio solo formale dei conti, ma l’abbattimento di debito e deficit con politiche di investimenti e sviluppo”: una indicazione che mette in evidenza ruolo e responsabilità dell’Italia.

Un altro capitolo riguarda le iniziative per fare ripartire il mercato interno, puntando sulle nuove tecnologie su scala europea “per mobilitare importanti investimenti privati volti alla crescita di occupazione ed economia”. E ancora: “accrescere gli investimenti per rafforzare la competitività delle imprese”, definire “un mix di rigore e crescita”, decidere come “riassorbire le sacche di disoccupazione” e avviare “politiche per combattere il dumping sociale” (ne abbiamo parlato all’inizio”. Gli ultimi punti riguardano “la politica comune di governo delle frontiere”, ripartendo i costi delle scelte sull’immigrazione e l’accoglienza “fra tutti i paesi della Ue”; e “le responsabilità maggiori nelle politiche per la sicurezza”, definendo una “operatività militare comune”. Più Europa, dunque. Ed Europa migliore.

“Le imprese italiane hanno fiducia nell’Europa, insistono su una strada comune che rafforzi, contemporaneamente, sia la competitività sia l’inclusione sociale (la fabbrica, paradigma del lavoro, è appunto un luogo straordinario che, dalla seconda metà del Novecento, proprio in Italia,  lega diritti e doveri, cittadinanza e senso di responsabilità). Ma dicono anche un “no” molto netto al dumping sociale e sollecitano “la promozione di standard comuni di protezione del lavoro nei paesi membri, inclusa una maggiore armonizzazione dei sistemi esistenti di salario minimo”: non si fa concorrenza abbattendo salari e costruendo vantaggi fiscali nei singoli paesi con i contributi della Ue. Il mercato comune, insomma, è un luogo aperto e ben regolato, guidato da principi di concorrenza, ma certo non uno spazio di furbizie e scorciatoie.

L’appello alla Ue è contenuto in un documento firmato da Abi (le banche), Ania (le assicurazioni), Assonime (le imprese quotate in Borsa), Confindustria e Febaf (la federazione delle associazioni delle imprese finanziarie) diffuso nei giorni scorsi (Il Sole24Ore, 22 febbraio). E ha un forte sapore d’attualità, proprio negli ultimi giorni di una campagna elettorale gonfia di umori negativi contro l’Europa, di rancori sociali e di cupe tentazioni verso il nazionalismo e il protezionismo economico (con tanto di bizzarra riscoperta dei dazi, dichiarando una improbabile protezione delle imprese). L’Europa, dicono le associazioni d’impresa, non è in discussione. Semmai l’integrazione europea va rafforzata e migliorata, anche con impegni più robusti dei principali paesi: un nucleo forte e più dinamico, di cui è essenziale faccia parte, accanto a Germania e Francia (un asse oramai solido), anche l’Italia, terza economia europea, paese fondatore, convinto sostenitore, fin dai tempi di De Gasperi negli anni Cinquanta, dell’idea che sia proprio l’Europa a essere tanto il vincolo positivo quanto lo stimolo per un migliore sviluppo economico.

L’attualità del documento di Confindustria e delle altre organizzazioni è anche un’interessante presa di posizione che parte dalla cronaca (il caso Embraco-Whirlpool, la chiusura dello stabilimento industriale di Chieri, in Piemonte, per andare a produrre accumulatori in Slovacchia) per ragionare più in generale su investimenti, competitività dei territori, concorrenza.

La Embraco (società brasiliana della multinazionale Usa Whirlpool, leader mondiale dell’industria del “bianco”: lavatrici, lavastoviglie, frigoriferi, etc.) ha appena annunciato la chiusura della fabbrica piemontese (500 dipendenti) per andare a Spisska Nova Ves, nell’est slovacco: salari operai della metà (900 euro contro i 1700 italiani), sindacato più debole, vantaggi fiscali (che abbattono ancora il costo del lavoro). L’impresa non ha voluto sentire ragioni su mediazioni, soluzioni intermedie da approfondire, cassa integrazione, insistendo sui licenziamenti, tanto da suscitare l’ira del ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda (“Non mi era mai capitato di sentire un’impresa che dice che deve licenziare adesso perché altrimenti ha problemi con la Borsa, dimostrando così una totale mancanza di attenzione verso le persone e la responsabilità sociale”).

Ecco il problema del dumping sociale: ne parla il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e il ministro Calenda scrive a Bruxelles, al Commissario per la Concorrenza Margrethe Vestager per chiedere chiarimenti sul regime di agevolazioni fiscali applicato dalla Slovacchia alle imprese straniere. C’è un dumping fiscale che mette in crisi le regole della concorrenza all’interno della Ue e supporta il dumping sociale, la competizione ingiusta su retribuzioni e condizioni di lavoro. E l’Europa, perché continui a essere cornice comune e riferimento di valori e di regole, ha bisogno di trasparenza e correttezza.

Si torna, così, ai temi posti dal documento di Confindustria, Abi, Ania, Assonime e Febaf. L’Italia è un paese dinamico, con forte e radicata tendenza all’export. Per crescere, deve attrarre investimenti internazionali e spingere le proprie imprese a investire all’estero, essere ben inserita nelle evoluzioni dei mercati globali. E anche per questi motivi la relazione corretta con l’Europa è essenziale.

Nel documento, in 11 punti, si parla dell’Europa come “modello economico e sociale”, tenendo insieme competitività delle imprese e solidarietà tra i cittadini (un tema caro in particolare all’Assolombarda, che da anni a Milano porta avanti politiche che legano crescita economica e inclusione sociale, secondo la storica lezione dell’accoglienza ambrosiana) e di “tutela degli interessi” degli Stati membri europei in una cornice di “mondo globalizzato”, senza rifugiarsi in improduttive e antistoriche chiusure nei “nazionalismi”. Bisogna camminare lungo “la strada verso l’integrazione”, con “un nucleo di Stati organizzati attorno alla moneta comune” e costruire “politiche credibili su debito, produttività e sostenibilità”: non la rigida austerity e l’equilibrio solo formale dei conti, ma l’abbattimento di debito e deficit con politiche di investimenti e sviluppo”: una indicazione che mette in evidenza ruolo e responsabilità dell’Italia.

Un altro capitolo riguarda le iniziative per fare ripartire il mercato interno, puntando sulle nuove tecnologie su scala europea “per mobilitare importanti investimenti privati volti alla crescita di occupazione ed economia”. E ancora: “accrescere gli investimenti per rafforzare la competitività delle imprese”, definire “un mix di rigore e crescita”, decidere come “riassorbire le sacche di disoccupazione” e avviare “politiche per combattere il dumping sociale” (ne abbiamo parlato all’inizio”. Gli ultimi punti riguardano “la politica comune di governo delle frontiere”, ripartendo i costi delle scelte sull’immigrazione e l’accoglienza “fra tutti i paesi della Ue”; e “le responsabilità maggiori nelle politiche per la sicurezza”, definendo una “operatività militare comune”. Più Europa, dunque. Ed Europa migliore.

Scrittori, fotografi, pittori e architetti a “Italia ’61”

Come riunire tra loro grandi protagonisti del dibattito culturale come lo scrittore-regista Mario Soldati, il pittore Renato Guttuso, il fotografo Ugo Mulas, l’ingegner Pierluigi Nervi e l’architetto Gio Ponti? Bastano un paio di numeri della rivista “Pirelli” del 1961, l’anno in cui si celebra il centenario dell’Unità d’Italia.

Arrivederci al 2011” è l’articolo pubblicato sul n°4 di agosto 1961: un reportage per immagini da Italia ’61, l’Esposizione Internazionale del Lavoro che da Torino vuole raccontare un secolo di vita del Paese, unito sotto il segno della cooperazione e dell’impegno. Foto per lo più in bianco e nero, che ci mostrano un’expo torinese “senza furia, senza spinte, senza quell’atmosfera particolare in cui confusione, stanchezza, chiasso e una gran voglia di vedere cose, si trasformano in una gioconda eccitazione”. L’autore del servizio è Ugo Mulas, e siamo al primo dei grandi nomi destinati ad incontrarsi sulle pagine della Rivista Pirelli dedicate all’Esposizione torinese. La collaborazione tra il fotografo lombardo e la storica pubblicazione aziendale sta proprio cominciando in questi anni: gli scatti dedicati a Torino ’61 seguono di pochi mesi il servizio che ritrae la Roma delle Olimpiadi 1960. Da allora, quelli di Mulas per la rivista saranno reportage fotografici di grande respiro, dal Brasile delle piantagioni di caucciù al viaggio nel marmo dello scultore Thomas Moore, dalle illustrazioni per gli articoli di Vittorio Sereni al ritratto dell’artista Lucio Fontana.

Tra le foto di Mulas per “Arrivederci nel 2011” ne spicca una a colori vivaci: la foto di un mosaico esposto nel padiglione Pirelli alla manifestazione torinese. Ed ecco la seconda grande firma: quella del pittore Renato Guttuso. E’ lui l’autore del disegno “La Ricerca Scientifica” su cui i maestri mosaicisti dell’Accademia delle Belle Arti di Ravenna hanno realizzato il mosaico per Italia ’61: “una drammatica sintesi del lungo cammino percorso dall’uomo nella conoscenza della natura e delle sue leggi”. Oggi il grande mosaico e il suo cartone preparatorio sono custoditi negli spazi della Fondazione Pirelli a Milano, assieme ad altri schizzi e disegni che Guttuso realizzò nel 1959 per illustrare  -sempre sulla Rivista-  il diario di un viaggio in Egitto in compagnia di Franco Fellini, pseudonimo dello scrittore Giovanni Pirelli.

La copertina di quella Rivista Pirelli n°4 del 1961 è ricavata da un’altra foto di Mulas: una delle inconfondibili colonne del Palazzo del Lavoro di Torino, sede proprio di Italia ’61. E qui intervengono altri due nomi celebri: l’ingegner Pier Luigi Nervi e l’architetto Gio Ponti. E’ Nervi a “firmare” l’edificio simbolo torinese dell’Unità d’Italia, mentre Gio Ponti ha realizzato l’anno precedente, in collaborazione con lui, un altro simbolo della modernità italiana: il milanesissimo Grattacielo Pirelli. Tutti e due, Nervi e Ponti, affideranno più volte negli anni alle pagine della Rivista Pirelli la loro idea di architettura: da “Saper costruire” e “La resistenza per forme” dell’ingegnere-architetto Nervi a “Esperienze d’architetto” e “Perpetuità di un edificio” di Gio Ponti. Quest’ultimo articolo, scritto per celebrare i dieci anni del suo gioiello verticale ormai noto anche come il “Pirellone”.

Ultimo numero dell’annata 1961 della Rivista Pirelli: ecco “Promemoria italiano”. Sottotitolo: “Che cosa ho imparato lavorando alla Mostra delle Regioni di Italia’61”. Un’altra grande firma: Mario Soldati. All’eclettico scrittore-regista-giornalista torinese è stato infatti dato l’incarico di organizzare  -come parte integrante di Italia ’61- la “Mostra delle Regioni”, con lo scopo di  facilitare il percorso verso l’adozione del nuovo ordinamento amministrativo. Questa raccolta di riflessioni d’autore per un’Italia di quasi sessant’anni fa è forse un promemoria ancora valido oggi.

Come riunire tra loro grandi protagonisti del dibattito culturale come lo scrittore-regista Mario Soldati, il pittore Renato Guttuso, il fotografo Ugo Mulas, l’ingegner Pierluigi Nervi e l’architetto Gio Ponti? Bastano un paio di numeri della rivista “Pirelli” del 1961, l’anno in cui si celebra il centenario dell’Unità d’Italia.

Arrivederci al 2011” è l’articolo pubblicato sul n°4 di agosto 1961: un reportage per immagini da Italia ’61, l’Esposizione Internazionale del Lavoro che da Torino vuole raccontare un secolo di vita del Paese, unito sotto il segno della cooperazione e dell’impegno. Foto per lo più in bianco e nero, che ci mostrano un’expo torinese “senza furia, senza spinte, senza quell’atmosfera particolare in cui confusione, stanchezza, chiasso e una gran voglia di vedere cose, si trasformano in una gioconda eccitazione”. L’autore del servizio è Ugo Mulas, e siamo al primo dei grandi nomi destinati ad incontrarsi sulle pagine della Rivista Pirelli dedicate all’Esposizione torinese. La collaborazione tra il fotografo lombardo e la storica pubblicazione aziendale sta proprio cominciando in questi anni: gli scatti dedicati a Torino ’61 seguono di pochi mesi il servizio che ritrae la Roma delle Olimpiadi 1960. Da allora, quelli di Mulas per la rivista saranno reportage fotografici di grande respiro, dal Brasile delle piantagioni di caucciù al viaggio nel marmo dello scultore Thomas Moore, dalle illustrazioni per gli articoli di Vittorio Sereni al ritratto dell’artista Lucio Fontana.

Tra le foto di Mulas per “Arrivederci nel 2011” ne spicca una a colori vivaci: la foto di un mosaico esposto nel padiglione Pirelli alla manifestazione torinese. Ed ecco la seconda grande firma: quella del pittore Renato Guttuso. E’ lui l’autore del disegno “La Ricerca Scientifica” su cui i maestri mosaicisti dell’Accademia delle Belle Arti di Ravenna hanno realizzato il mosaico per Italia ’61: “una drammatica sintesi del lungo cammino percorso dall’uomo nella conoscenza della natura e delle sue leggi”. Oggi il grande mosaico e il suo cartone preparatorio sono custoditi negli spazi della Fondazione Pirelli a Milano, assieme ad altri schizzi e disegni che Guttuso realizzò nel 1959 per illustrare  -sempre sulla Rivista-  il diario di un viaggio in Egitto in compagnia di Franco Fellini, pseudonimo dello scrittore Giovanni Pirelli.

La copertina di quella Rivista Pirelli n°4 del 1961 è ricavata da un’altra foto di Mulas: una delle inconfondibili colonne del Palazzo del Lavoro di Torino, sede proprio di Italia ’61. E qui intervengono altri due nomi celebri: l’ingegner Pier Luigi Nervi e l’architetto Gio Ponti. E’ Nervi a “firmare” l’edificio simbolo torinese dell’Unità d’Italia, mentre Gio Ponti ha realizzato l’anno precedente, in collaborazione con lui, un altro simbolo della modernità italiana: il milanesissimo Grattacielo Pirelli. Tutti e due, Nervi e Ponti, affideranno più volte negli anni alle pagine della Rivista Pirelli la loro idea di architettura: da “Saper costruire” e “La resistenza per forme” dell’ingegnere-architetto Nervi a “Esperienze d’architetto” e “Perpetuità di un edificio” di Gio Ponti. Quest’ultimo articolo, scritto per celebrare i dieci anni del suo gioiello verticale ormai noto anche come il “Pirellone”.

Ultimo numero dell’annata 1961 della Rivista Pirelli: ecco “Promemoria italiano”. Sottotitolo: “Che cosa ho imparato lavorando alla Mostra delle Regioni di Italia’61”. Un’altra grande firma: Mario Soldati. All’eclettico scrittore-regista-giornalista torinese è stato infatti dato l’incarico di organizzare  -come parte integrante di Italia ’61- la “Mostra delle Regioni”, con lo scopo di  facilitare il percorso verso l’adozione del nuovo ordinamento amministrativo. Questa raccolta di riflessioni d’autore per un’Italia di quasi sessant’anni fa è forse un promemoria ancora valido oggi.

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Pirelli, uomini e robot per costruire pneumatici

Cinema & Storia – Corso di formazione e aggiornamento per docenti 2017/2018

Giunto alla sua sesta edizione, grazie alla collaborazione tra Fondazione Pirelli, Fondazione Isec e Fondazione Cineteca Italiana, il corso d’aggiornamento per docenti “Cinema & Storia” coniuga l’analisi storica e l’approfondimento del presente con i percorsi laboratoriali e la visione di opere cinematografiche.

Dopo le prime due lezioni legate ai temi della geopolitica contemporanea e delle nuove frontiere del lavoro tenute presso la Fondazione ISEC, il corso è entrato nel vivo dei laboratori tematici con l’incontro tenutosi all’interno dell’Headquarters Pirelli. I docenti, accolti nell’auditorium  dell’ex torre di raffreddamento, hanno ripercorso attraverso la visione di documenti e immagini provenienti dall’Archivio Storico Pirelli la storia dell’azienda milanese che dal 1872 è stata protagonista di molteplici trasformazioni.

Per favorire uno sguardo diretto verso il mondo della produzione odierna, i professori sono stati invitati a visitare lo stabilimento produttivo Next MIRS – Modular Integrated Robotized System, in Bicocca. Il processo robotizzato MIRS, e la sua seconda generazione Next MIRS, permette la specializzazione e la diversificazione del prodotto in base alle esigenze del mercato, come per esempio pneumatici ultra high-performance specifici richiesti da marche prestige, o pneumatici personalizzabili con i fianchi colorati, che non sarebbe possibile ottenere – né sarebbe economicamente sostenibile – attraverso i processi produttivi tradizionali.

Il corso prosegue nelle prossime settimane con le proiezioni dei film “Un re allo sbando” di Peter Brosens e “Mum’s Wrong – Maman a tort” di Marc Fitoussi presso il Museo Interattivo del Cinema, con la lezione dedicata al confronto tra finanza globale ed economia reale e i laboratori di Fondazione Isec e Fondazione Cineteca Italiana.

Cinema & Storia – Corso di formazione e aggiornamento per docenti 2017/2018

Giunto alla sua sesta edizione, grazie alla collaborazione tra Fondazione Pirelli, Fondazione Isec e Fondazione Cineteca Italiana, il corso d’aggiornamento per docenti “Cinema & Storia” coniuga l’analisi storica e l’approfondimento del presente con i percorsi laboratoriali e la visione di opere cinematografiche.

Dopo le prime due lezioni legate ai temi della geopolitica contemporanea e delle nuove frontiere del lavoro tenute presso la Fondazione ISEC, il corso è entrato nel vivo dei laboratori tematici con l’incontro tenutosi all’interno dell’Headquarters Pirelli. I docenti, accolti nell’auditorium  dell’ex torre di raffreddamento, hanno ripercorso attraverso la visione di documenti e immagini provenienti dall’Archivio Storico Pirelli la storia dell’azienda milanese che dal 1872 è stata protagonista di molteplici trasformazioni.

Per favorire uno sguardo diretto verso il mondo della produzione odierna, i professori sono stati invitati a visitare lo stabilimento produttivo Next MIRS – Modular Integrated Robotized System, in Bicocca. Il processo robotizzato MIRS, e la sua seconda generazione Next MIRS, permette la specializzazione e la diversificazione del prodotto in base alle esigenze del mercato, come per esempio pneumatici ultra high-performance specifici richiesti da marche prestige, o pneumatici personalizzabili con i fianchi colorati, che non sarebbe possibile ottenere – né sarebbe economicamente sostenibile – attraverso i processi produttivi tradizionali.

Il corso prosegue nelle prossime settimane con le proiezioni dei film “Un re allo sbando” di Peter Brosens e “Mum’s Wrong – Maman a tort” di Marc Fitoussi presso il Museo Interattivo del Cinema, con la lezione dedicata al confronto tra finanza globale ed economia reale e i laboratori di Fondazione Isec e Fondazione Cineteca Italiana.

Imprese d’istinto

Tradotto in italiano il libro del Premio Nobel per l’economia 2017, che fa luce su cosa davvero muove le azioni economiche di individui e imprese

 

Istinti. Spesso, molto più spesso di quanto si pensi, il comportamento degli uomini è condotto sulla base di istinti, spinte irrazionali, concause diverse fra loro, emozioni miste a calcolo. Accade anche per gli imprenditori, le loro creature (le imprese), i manager, le organizzazioni della produzione. Come dire: certo, la razionalità c’è e ci deve essere, ma non basta.

D’altra parte, capire come in realtà si possa svolgere il meccanismo delle scelte economiche è determinante, così come lo è la consapevolezza degli elementi che condizionano il divenire di un mercato oppure di un’impresa. Tutto tenendo però conto che uno degli assunti di base della teoria economica di base – la razionalità nelle scelte –, è di fatto privo di fondamento o quasi. È in un’avventura di questo genere che si è lanciato da anni Richard Thaler, vincitore del premio Nobel per l’economia 2017, che ha dedicato l’intera carriera a studiare l’idea (radicale un tempo), per cui gli agenti economici sono individui prevedibili e inclini a commettere errori. “Misbehaving” appena tradotto in italiano è il libro-resoconto del suo percorso intellettuale e di ricerca.

Il succo del pensiero di Thaler, e del suo libro, è semplice. La teoria economica tradizionale assume che gli individui siano razionali. Ma fin dall’inizio della sua ricerca, Thaler ha compreso che questi automi non somigliavano affatto alle persone vere che ragionano sottoposte a sollecitazioni diverse, sbagliano, si riprendono, cambiano orientamento. E’ la contrapposizione fra l’Homo sapiens (amichevolmente indicato da Thaler come Human) e l’Homo economicus (che Thaler chiama Econ). Scrive l’autore: “Rispetto al mondo fittizio degli Econ, gli essere umani (Human) hanno molti comportamenti anomali e ciò significa che i modelli economici generano una quantità di predizioni sbagliate, predizione che possono avere conseguenze molto” serie. Il ragionamento attorno a questa constatazione occupa tutto il volume. Che non è scritto da manuale di economia, ma piuttosto da racconto di vita, a tratti anche divertente. E che ha un obiettivo: riportare una disciplina accademica con i piedi per terra.

Lettura utile per tutti, quella di Thaler. Anche per le organizzazioni della produzione. Non a caso, proprio nelle ultime pagine del libro, l’autore puntualizza tre passaggi importanti per capire: osservare, raccogliere dati, dire la propria. Principi di comportamento e di indagine che vengono riferiti anche alle imprese.

Quanto scritto da Thaler non è solo la sintesi lucida di una delle più avanzate frontiere dell’analisi economica (che fra l’altro attinge al meglio del pensiero economico, ricordando anche come John Maynard Keynes abbia fra i primi “praticato la macroeconomia comportamentale”), ma anche un’avventura del pensiero che si rivolge a tutti.

Misbehaving. La nascita dell’economia comportamentale

Richard H. Thaler

Einaudi, 2018

Tradotto in italiano il libro del Premio Nobel per l’economia 2017, che fa luce su cosa davvero muove le azioni economiche di individui e imprese

 

Istinti. Spesso, molto più spesso di quanto si pensi, il comportamento degli uomini è condotto sulla base di istinti, spinte irrazionali, concause diverse fra loro, emozioni miste a calcolo. Accade anche per gli imprenditori, le loro creature (le imprese), i manager, le organizzazioni della produzione. Come dire: certo, la razionalità c’è e ci deve essere, ma non basta.

D’altra parte, capire come in realtà si possa svolgere il meccanismo delle scelte economiche è determinante, così come lo è la consapevolezza degli elementi che condizionano il divenire di un mercato oppure di un’impresa. Tutto tenendo però conto che uno degli assunti di base della teoria economica di base – la razionalità nelle scelte –, è di fatto privo di fondamento o quasi. È in un’avventura di questo genere che si è lanciato da anni Richard Thaler, vincitore del premio Nobel per l’economia 2017, che ha dedicato l’intera carriera a studiare l’idea (radicale un tempo), per cui gli agenti economici sono individui prevedibili e inclini a commettere errori. “Misbehaving” appena tradotto in italiano è il libro-resoconto del suo percorso intellettuale e di ricerca.

Il succo del pensiero di Thaler, e del suo libro, è semplice. La teoria economica tradizionale assume che gli individui siano razionali. Ma fin dall’inizio della sua ricerca, Thaler ha compreso che questi automi non somigliavano affatto alle persone vere che ragionano sottoposte a sollecitazioni diverse, sbagliano, si riprendono, cambiano orientamento. E’ la contrapposizione fra l’Homo sapiens (amichevolmente indicato da Thaler come Human) e l’Homo economicus (che Thaler chiama Econ). Scrive l’autore: “Rispetto al mondo fittizio degli Econ, gli essere umani (Human) hanno molti comportamenti anomali e ciò significa che i modelli economici generano una quantità di predizioni sbagliate, predizione che possono avere conseguenze molto” serie. Il ragionamento attorno a questa constatazione occupa tutto il volume. Che non è scritto da manuale di economia, ma piuttosto da racconto di vita, a tratti anche divertente. E che ha un obiettivo: riportare una disciplina accademica con i piedi per terra.

Lettura utile per tutti, quella di Thaler. Anche per le organizzazioni della produzione. Non a caso, proprio nelle ultime pagine del libro, l’autore puntualizza tre passaggi importanti per capire: osservare, raccogliere dati, dire la propria. Principi di comportamento e di indagine che vengono riferiti anche alle imprese.

Quanto scritto da Thaler non è solo la sintesi lucida di una delle più avanzate frontiere dell’analisi economica (che fra l’altro attinge al meglio del pensiero economico, ricordando anche come John Maynard Keynes abbia fra i primi “praticato la macroeconomia comportamentale”), ma anche un’avventura del pensiero che si rivolge a tutti.

Misbehaving. La nascita dell’economia comportamentale

Richard H. Thaler

Einaudi, 2018

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?