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Munari e la Coria Pirelli,
tra Milano e New York

Possiamo chiamarli “stand d’autore”. Cioé a quelle esposizioni e fiere – ieri la Campionaria di Milano, oggi il Salone del Mobile con la sua Design Week – dove la mano dell’artista interviene a dare la sua interpretazione forte all’immagine dell’azienda in vetrina. Spesso l’autore dell’allestimento è il designer, altre volte presta il proprio segno distintivo per nobilitare i prodotti esposti.

E’ il caso di Bruno Munari e del suo “labirinto”, immagine pubblicitaria creata nel 1954 per promuovere la suola Pirelli Coria. Suole e tacchi figurano già nel “Catalogo degli oggetti sagomati in gomma di cui l’azienda detiene gli stampi” del 1889 e vengono prodotti dalla Pirelli fino al 1992. Ma cos’è la “Coria”, inventata nel 1951 da una delle tante aziende del Gruppo Pirelli operanti nel settore dei Prodotti Diversificati? E’ una suola non in gomma nè in cuoio, piuttosto una miscela di tutti e due: leggera, flessibile, aderente, impermeabile. Soprattutto di lunghissima durata. “Non ho risuolato la scarpa, ho riscarpato la suola” recita la geniale pubblicità realizzata già nel 1953 da Joan Jordan per la suola delle meraviglie.

Sulla Coria si esercita anche Ezio Bonini, sempre nel 1953: “resiste al passo del tempo”, dice l’impronta che cammina a fianco di un prezioso orologio da tasca le cui lancette sfilano inesorabili ma lente verso le 12:44. Ma è nel 1954 che arriva la “zampata” di Bruno Munari, che per magnificare le virtù della suola Coria alla Fiera Campionaria di Milano di quell’anno si inventa il famoso “labirinto”, percorso grafico pieno di insidie facilmente superato da un paio d’impronte di scarpe naturalmente protette da suola Coria: impermeabile, igienica, flessibile. Dura due volte e mezzo di più: è come “camminare col progresso”. Una pubblicità iconica, tanto da essere presente anche nella collezione del MoMA di New York. La collaborazione tra il designer e Pirelli comprende peraltro l’ideazione di una pubblicità per impermeabili, diversi articoli per la rivista “Pirelli e arriverà a far vincere la prima edizione del “Compasso d’Oro” alla Scimmietta Zizì, giocattolo per bambini in gommapiuma armata progettato da Munari per la Pigomma srl.

Nasce dunque a Milano, per la Fiera stracittadina, il labirinto Coria. Ma ben presto si trasferisce  nella vicina Vigevano, capitale assoluta della scarpa, dove Pirelli per diversi anni ha allestito il proprio stand presso la locale Mostra Mercato Internazionale delle Calzature. A Vigevano la Coria ha già fatto il suo esordio nel 1951, cominciando a convincere clienti e operatori del settore sulle sue capacità di “durare più di una scarpa”. Ma dal ’55 in poi, lo stand Pirelli a Vigevano rielabora l’idea grafica di Munari: così è una grande suola a dominare lo stand della Mostra del 1955, oppure tante piccole suole che si rincorrono sotto la scritta “La salute ha i piedi asciutti” nell’edizione 1956. E poi ancora abbinata al cuoio Salpa -nè cuoio nè gomma- è l’era dei materiali “alternativi” a Vigevano ’57. Ormai il labirinto di Munari è diventato quasi un marchio di fabbrica. Il Salone 1958 è emblematico: la Coria è una vera e propria “filosofia del camminare” che produce massime come “Le chiacchiere non fermano il progresso: il progresso cammina con suole Coria Pirelli”. In fondo allo stand c’è sempre il cartello vetrina disegnato anni prima da Munari. Quel cartello è ancora oggi conservato presso il nostro Archivio Storico.

Possiamo chiamarli “stand d’autore”. Cioé a quelle esposizioni e fiere – ieri la Campionaria di Milano, oggi il Salone del Mobile con la sua Design Week – dove la mano dell’artista interviene a dare la sua interpretazione forte all’immagine dell’azienda in vetrina. Spesso l’autore dell’allestimento è il designer, altre volte presta il proprio segno distintivo per nobilitare i prodotti esposti.

E’ il caso di Bruno Munari e del suo “labirinto”, immagine pubblicitaria creata nel 1954 per promuovere la suola Pirelli Coria. Suole e tacchi figurano già nel “Catalogo degli oggetti sagomati in gomma di cui l’azienda detiene gli stampi” del 1889 e vengono prodotti dalla Pirelli fino al 1992. Ma cos’è la “Coria”, inventata nel 1951 da una delle tante aziende del Gruppo Pirelli operanti nel settore dei Prodotti Diversificati? E’ una suola non in gomma nè in cuoio, piuttosto una miscela di tutti e due: leggera, flessibile, aderente, impermeabile. Soprattutto di lunghissima durata. “Non ho risuolato la scarpa, ho riscarpato la suola” recita la geniale pubblicità realizzata già nel 1953 da Joan Jordan per la suola delle meraviglie.

Sulla Coria si esercita anche Ezio Bonini, sempre nel 1953: “resiste al passo del tempo”, dice l’impronta che cammina a fianco di un prezioso orologio da tasca le cui lancette sfilano inesorabili ma lente verso le 12:44. Ma è nel 1954 che arriva la “zampata” di Bruno Munari, che per magnificare le virtù della suola Coria alla Fiera Campionaria di Milano di quell’anno si inventa il famoso “labirinto”, percorso grafico pieno di insidie facilmente superato da un paio d’impronte di scarpe naturalmente protette da suola Coria: impermeabile, igienica, flessibile. Dura due volte e mezzo di più: è come “camminare col progresso”. Una pubblicità iconica, tanto da essere presente anche nella collezione del MoMA di New York. La collaborazione tra il designer e Pirelli comprende peraltro l’ideazione di una pubblicità per impermeabili, diversi articoli per la rivista “Pirelli e arriverà a far vincere la prima edizione del “Compasso d’Oro” alla Scimmietta Zizì, giocattolo per bambini in gommapiuma armata progettato da Munari per la Pigomma srl.

Nasce dunque a Milano, per la Fiera stracittadina, il labirinto Coria. Ma ben presto si trasferisce  nella vicina Vigevano, capitale assoluta della scarpa, dove Pirelli per diversi anni ha allestito il proprio stand presso la locale Mostra Mercato Internazionale delle Calzature. A Vigevano la Coria ha già fatto il suo esordio nel 1951, cominciando a convincere clienti e operatori del settore sulle sue capacità di “durare più di una scarpa”. Ma dal ’55 in poi, lo stand Pirelli a Vigevano rielabora l’idea grafica di Munari: così è una grande suola a dominare lo stand della Mostra del 1955, oppure tante piccole suole che si rincorrono sotto la scritta “La salute ha i piedi asciutti” nell’edizione 1956. E poi ancora abbinata al cuoio Salpa -nè cuoio nè gomma- è l’era dei materiali “alternativi” a Vigevano ’57. Ormai il labirinto di Munari è diventato quasi un marchio di fabbrica. Il Salone 1958 è emblematico: la Coria è una vera e propria “filosofia del camminare” che produce massime come “Le chiacchiere non fermano il progresso: il progresso cammina con suole Coria Pirelli”. In fondo allo stand c’è sempre il cartello vetrina disegnato anni prima da Munari. Quel cartello è ancora oggi conservato presso il nostro Archivio Storico.

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Cultura d’impresa globale

Attraverso l’analisi di come l’IBM è stata raccontata negli anni, un saggio spiega la complessità di cui occorre tenere conto quando si guarda ad un’organizzazione della produzione

 

Cultura d’impresa come chiave per capire il successo di un’organizzazione della produzione. E per comprendere anche quali siano gli elementi che in qualche modo possano essere trasferiti anche in altre realtà produttive. Tutto non solo e non tanto dal punto di vista teorico, ma soprattutto da quello pratico ed operativo. Partendo dai casi d’azienda più importanti.

E’ quanto ha fatto James W. Cortada (Senior research fellow al  Charles Babbage Institute dell’Università del Minnesota) con una ricerca che ha messo in fila e organizzato i numerosissimi studi sulla IBM.

Il principio di partenza del lavoro di Cortada è semplice: IBM è stata oggetto di studi approfonditi da storici, economisti, professori di gestione aziendale e giornalisti, ma solamente guardando globalmente alla cultura d’impresa propria della IBM è possibile coglierne la vera essenza.

La ricerca, apparsa sulla Business History Review della Harvard Business School, esamina quindi i vari saggi sull’azienda, mettendo i contributi in un resoconto approssimativamente cronologico della storia della società, dai suoi primi giorni fino alla sua posizione dominante nei mercati globali dell’informatica. Dopo un’impostazione generale sulla natura stessa della IBM, la ricerca inizia ad esaminare gli inizi della società – quando ancora si chiamava Computing-Tabulating-Recording Corporation (C-T-R) per poi diventare  International Business Machines Corporation -, così come sono descritti dalla serie di indagini sulla stessa, passando poi ad approfondire il periodo di attività fino al 1950 e successivamente focalizzando l’attenzione sulla trasformazione dell’azienda (fra il 1940 e il 1960) in Computer Company che gradualmente arriva ad essere la prima società al mondo nel comparto, per poi arrivare (attorno al 1980) ad un periodo di crisi superato con una nuova cultura d’impresa.

Il saggio di Cortada è una bella lettura da fare, che racconta non solo la storia di una delle aziende simbolo delle nuove tecnologie, ma anche di come sia necessario considerare nella cultura di un’impresa elementi variegati che devono comprendere anche i suoi cambiamenti tecnologici e manageriali.

Change and Continuity at IBM: Key Themes in Histories of IBM

James W. Cortada

Business History Review, Harvard Business School, 2018, page 1 of 32

Attraverso l’analisi di come l’IBM è stata raccontata negli anni, un saggio spiega la complessità di cui occorre tenere conto quando si guarda ad un’organizzazione della produzione

 

Cultura d’impresa come chiave per capire il successo di un’organizzazione della produzione. E per comprendere anche quali siano gli elementi che in qualche modo possano essere trasferiti anche in altre realtà produttive. Tutto non solo e non tanto dal punto di vista teorico, ma soprattutto da quello pratico ed operativo. Partendo dai casi d’azienda più importanti.

E’ quanto ha fatto James W. Cortada (Senior research fellow al  Charles Babbage Institute dell’Università del Minnesota) con una ricerca che ha messo in fila e organizzato i numerosissimi studi sulla IBM.

Il principio di partenza del lavoro di Cortada è semplice: IBM è stata oggetto di studi approfonditi da storici, economisti, professori di gestione aziendale e giornalisti, ma solamente guardando globalmente alla cultura d’impresa propria della IBM è possibile coglierne la vera essenza.

La ricerca, apparsa sulla Business History Review della Harvard Business School, esamina quindi i vari saggi sull’azienda, mettendo i contributi in un resoconto approssimativamente cronologico della storia della società, dai suoi primi giorni fino alla sua posizione dominante nei mercati globali dell’informatica. Dopo un’impostazione generale sulla natura stessa della IBM, la ricerca inizia ad esaminare gli inizi della società – quando ancora si chiamava Computing-Tabulating-Recording Corporation (C-T-R) per poi diventare  International Business Machines Corporation -, così come sono descritti dalla serie di indagini sulla stessa, passando poi ad approfondire il periodo di attività fino al 1950 e successivamente focalizzando l’attenzione sulla trasformazione dell’azienda (fra il 1940 e il 1960) in Computer Company che gradualmente arriva ad essere la prima società al mondo nel comparto, per poi arrivare (attorno al 1980) ad un periodo di crisi superato con una nuova cultura d’impresa.

Il saggio di Cortada è una bella lettura da fare, che racconta non solo la storia di una delle aziende simbolo delle nuove tecnologie, ma anche di come sia necessario considerare nella cultura di un’impresa elementi variegati che devono comprendere anche i suoi cambiamenti tecnologici e manageriali.

Change and Continuity at IBM: Key Themes in Histories of IBM

James W. Cortada

Business History Review, Harvard Business School, 2018, page 1 of 32

Il futuro oggi

La generazione dei Millennials  affrontata dal punto di vista delle organizzazione della produzione alle prese con un cambiamento culturale importante

Adeguarsi al cambiamento. E magari anticiparlo. Chi governa un’impresa lo sa, la capacità di anticipare il mercato, seguire velocemente il mutamento dell’ambiente esterno, essere in sintonia con questo, sono alcuni dei principi di base di per il successo di ogni organizzazione della produzione. Tutto questo vale anche per i cosiddetti Millennials. Loro, stando ad alcuni previsioni, entro il 2020 costituiranno oltre un terzo dei lavoratori a livello globale. E’ quindi a loro che le imprese devono dedicare più di un’attenzione.

A questo serve leggere il libro curato da Giulio Beronia (Managing Director di HRC Millennials e con una lunga esperienza nello studio e nell’orientamento professionale dei giovani), che si basa sulla considerazione che per ogni azienda verrà molto presto il momento di definire strategie efficaci per costruire relazioni più responsabili con le giovani risorse e valorizzare le loro caratteristiche. Doppio fronte quindi: quello rivolto al mercato e quello rivolto all’interno dell’organizzazione d’impresa.

Guardando più da vicino all’organizzazione aziendale, ragiona quindi Beronia, occorre individuare nell’ambito dell’organizzazione del personale la figura del Millennials friendly cioè di chi è capace di essere affine a questa generazione di giovani in modo tale da comprenderli, valorizzarli e attrarli. Cosa non facile, che il libro di Beronia cerca di affrontare partendo dal tentativo di identificare gli stessi componenti dei Millennials  per poi passare all’esame dei diversi strumenti a disposizione per comprenderli e diventarne affini. Nel libro, quindi, vengono presi in considerazione gli aspetti-chiave legati alla definizione delle strategie future di gestione del cambiamento culturale e del rapporto con i giovani. Tutto con particolari approfondimenti su temi come la gestione dei talenti, l’innovazione digitale, il divario tecnologico, i ruoli all’interno delle imprese, la capacità di accoglienza e così via. E’ un cambiamento culturale quello che occorre di fronte ai a questa generazione.

Molti gli esempi d’impresa che con i Millennials  hanno già avuto a che fare (magari attraverso i programmi di alternanza-scuola lavoro), come Banca Widiba, Cassa di risparmio  di Cento, Fabbricadigitale, FS Italiane, Lindt & Sprüngli, RDS Radio Dimensione Suono, Gruppo BNP Paribas Italia, Italo  ‒ NTV, Vodafone Italia. Il libro è scritto a più mani ma ha un filo rosso che lega tutti gli interventi: l’approccio curioso e positivo ad una generazione di ragazze e ragazzi e poi di adulti che occorre apprezzare e quindi conoscere bene.

Bella la frase di Italo Calvino all’inizio del libro che dà il senso dell’attenzione che occorre porre a questa generazione: “Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane”.

Millennials Effect. HR & Nuove Generazioni

Giulio Beronia (a cura di)

Franco Angeli, 2018

La generazione dei Millennials  affrontata dal punto di vista delle organizzazione della produzione alle prese con un cambiamento culturale importante

Adeguarsi al cambiamento. E magari anticiparlo. Chi governa un’impresa lo sa, la capacità di anticipare il mercato, seguire velocemente il mutamento dell’ambiente esterno, essere in sintonia con questo, sono alcuni dei principi di base di per il successo di ogni organizzazione della produzione. Tutto questo vale anche per i cosiddetti Millennials. Loro, stando ad alcuni previsioni, entro il 2020 costituiranno oltre un terzo dei lavoratori a livello globale. E’ quindi a loro che le imprese devono dedicare più di un’attenzione.

A questo serve leggere il libro curato da Giulio Beronia (Managing Director di HRC Millennials e con una lunga esperienza nello studio e nell’orientamento professionale dei giovani), che si basa sulla considerazione che per ogni azienda verrà molto presto il momento di definire strategie efficaci per costruire relazioni più responsabili con le giovani risorse e valorizzare le loro caratteristiche. Doppio fronte quindi: quello rivolto al mercato e quello rivolto all’interno dell’organizzazione d’impresa.

Guardando più da vicino all’organizzazione aziendale, ragiona quindi Beronia, occorre individuare nell’ambito dell’organizzazione del personale la figura del Millennials friendly cioè di chi è capace di essere affine a questa generazione di giovani in modo tale da comprenderli, valorizzarli e attrarli. Cosa non facile, che il libro di Beronia cerca di affrontare partendo dal tentativo di identificare gli stessi componenti dei Millennials  per poi passare all’esame dei diversi strumenti a disposizione per comprenderli e diventarne affini. Nel libro, quindi, vengono presi in considerazione gli aspetti-chiave legati alla definizione delle strategie future di gestione del cambiamento culturale e del rapporto con i giovani. Tutto con particolari approfondimenti su temi come la gestione dei talenti, l’innovazione digitale, il divario tecnologico, i ruoli all’interno delle imprese, la capacità di accoglienza e così via. E’ un cambiamento culturale quello che occorre di fronte ai a questa generazione.

Molti gli esempi d’impresa che con i Millennials  hanno già avuto a che fare (magari attraverso i programmi di alternanza-scuola lavoro), come Banca Widiba, Cassa di risparmio  di Cento, Fabbricadigitale, FS Italiane, Lindt & Sprüngli, RDS Radio Dimensione Suono, Gruppo BNP Paribas Italia, Italo  ‒ NTV, Vodafone Italia. Il libro è scritto a più mani ma ha un filo rosso che lega tutti gli interventi: l’approccio curioso e positivo ad una generazione di ragazze e ragazzi e poi di adulti che occorre apprezzare e quindi conoscere bene.

Bella la frase di Italo Calvino all’inizio del libro che dà il senso dell’attenzione che occorre porre a questa generazione: “Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane”.

Millennials Effect. HR & Nuove Generazioni

Giulio Beronia (a cura di)

Franco Angeli, 2018

Welfare aziendale, le sfide per la qualità di vita: fabbricare valori anche per migliorare il lavoro

Il welfare aziendale sta conoscendo una straordinaria diffusione. Soprattutto nelle aree in cui l’innovazione nell’industria e nei servizi è un cardine di sviluppo economico e sociale. In Lombardia, in Emilia, in Veneto.

In molte imprese private, oggi, parlare di welfare significa, infatti, guardare dentro una nuova dimensione del lavoro, in cui i contratti aziendali integrativi, grazie anche ai benefici fiscali di recenti provvedimenti di governo, consentono di avere migliori condizioni per l’assistenza sanitaria, la pensione integrativa, il supporto per fare studiare i propri figli e occuparsi dei familiari disabili. Non si tratta di soldi in più. Ma spesso di servizi. O di tempo libero. Un vero vantaggio.

A Milano, Monza e Brianza e Lodi, una delle aree a maggior industrializzazione d’Italia, il welfare aziendale è presente nel 60% dei contratti integrativi, rispetto al 30% della media nazionale, secondo dati presentati di recente dall’Osservatorio sul Welfare dell’Assolombarda e riguarda 25mila lavoratori e le loro famiglie (Corriere della Sera, 5 maggio). Ed è un buon esempio da diffondere. “Sebbene molti paesi europei siano più avanti di noi sul fronte del welfare, sempre più imprese in Italia, grazie anche alle facilitazioni introdotte dalla Legge di Stabilità, stanno affiancando alla retribuzione strumenti non monetari”, commenta Mauro Chiassarini, presidente di Bayer Italia e vicepresidente di Assolombarda, con deleghe per lavoro, sicurezza e, appunto, welfare.

Ci sono esempi storici importanti, da ricordare. Il welfare aziendale in Pirelli, per esempio, già a metà del Novecento, con iniziative di tutela della salute, mense, asili nido e attività per i figli dei dipendenti, sport). O i programmi diffusi in altre medie e grandi imprese, dall’Aem all’Asm, dall’Eni all’Iri (un approfondimento sta negli atti del convegno “Il welfare aziendale nell’Italia del secondo dopoguerra”, organizzato dalla Fondazione Isec, 13 maggio 2016) . E oggi, grazie anche alle nuove sensibilità sul welfare e i nuovi contratti di lavoro, si fanno importanti passi avanti.

Lo testimoniano altre storie d’attualità. Come l’esperimento avviato alla Siderforgerossi di Arsiero (acciaieria in provincia di Vicenza) di monitorare, su base volontaria, la salute dei propri dipendenti, per prevenire malattie aziendali o generali (colesterolo e stili di vita sotto controllo) per migliorare la qualità della vita, ma anche per prevenire infortuni e assenteismo (“Ecco l’azienda-medico: diete e analisi per gli operai”, ha titolato “la Repubblica”, 1 aprile, commentando positivamente l’iniziativa). O la possibilità di scegliere, nei contratti aziendali, fra aumento della retribuzione e maggior tempo libero, per sè stessi e la famiglia: una scelta fatta dai dipendenti di Ducati, Marposs, Lamborghini e Coesia, nell’Emilia delle medie imprese d’eccellenza. Nuove forme del lavoro, del tempo, della partecipazione e della cittadinanza. Valori. Essenziali, anche per imprese che vogliono continuare a produrre valore.

Il capitalismo italiano, soprattutto nelle sue dimensioni attuali, cresce secondo due direttrici, non sempre ben collegate, ma comunque dinamiche. Imprese medie e piccole solidamente radicate nei territori e, contemporaneamente, abili a essere presenti e farsi valere nelle nicchie globali ad alto valore aggiunto. Un “capitalismo intermedio”, lo definisce Aldo Bonomi (IlSole24Ore, 8 aprile). Produttività elevata, competitività che regge le sfide. E proprio come fondamento di questa competitività vanno considerate anche le scelte di welfare aziendali, che stimolano sicurezza, senso di appartenenza, intelligente generosità nelle relazioni di lavoro e, dunque, migliore e maggiore produttività.

C’è un passaggio in più da fare, come suggerisce Bonomi, nella relazione tra impresa e territorio: “La promozione di un nuovo modello di welfare community, fatto dall’intreccio tra estensione delle pratiche di welfare aziendale e la trasformazione dei sistemi di welfare territoriali e del diffuso mondo del privato sociale, oggi sempre più portato ad assumere una configurazione imprenditiva e impegnato nel definire un proprio modus vivendi con la potenza della finanza, interessata a sviluppare forme di investimento ‘paziente’ sui temi della coesione sociale”.

Sono processi innovativi, in movimento. Che si situano all’incrocio tra impresa produttiva, servizi, sistemi di relazione, cure per le comunità e le persone, life sciences e salute. Vanno oltre l’idea tradizionale del “terzo settore”. Trovano nelle “società benefit” (introdotte finalmente anche in Italia da una legge del 2016) un punto di riferimento, per valorizzare “un servizio alla società” e non solo per dare un reddito ai propri azionisti (dando attuazione al monito di un grande economista americano, E.M. Dodd, sulla “Harvard Law Review” del 1932). E possono avere un ruolo fondamentale nell’evoluzione dell’economia di mercato, nell’impegno di “rilegittimazione” di un buon capitalismo d’impresa in cerca di un migliore futuro.

I processi di cui parliamo, infatti, impongono riflessioni originali e creative sui rapporti tra competitività e inclusione sociale: un tema particolarmente avvertito a Milano, nel bresciano di robusta cultura cattolica, nell’Emilia in cui valori d’impresa e valori cooperativi si sono incrociati con esperienze di buon governo regionale e locale, nel Veneto in cui, tanto per fare un solo esempio, la Confindustria di Vicenza ha avviato un importante progetto di responsabilità sociale delle imprese il cui nome è già tutto un programma: “Fabbricare valori”. C’è un mondo in movimento, anche se ancora non visibile agli occhi della grande opinione pubblica, come meriterebbe. Un mondo di straordinaria qualità, con forti valenze economiche, sociali, culturali, se cultura vuol dire appunto innovazione anche sociale, sensibilità, inclusività, cittadinanza responsabile, valori di comunità e civiltà.

Sono processi che interpellano pure la politica. E chiedono un ripensamento critico della concezione e dell’attrazione del welfare, con riforme intelligenti e responsabili che non appesantiscano il carico sulla spesa pubblica ma migliorino comunque le prestazioni sociali. Come? L’incrocio tra welfare aziendale e welfare di territorio di cui abbiamo parlato è appunto un’utile indicazione.

Per capire ancora meglio, si possono riprendere utilmente in mano le categorie dell’”economia civile”, magari ristudiandone l’origine, nelle lezioni di Antonio Genovesi, considerato “maestro” da Adam Smith e sostenitore di un’economia che sia fonte di benessere per persone e società (ne abbiamo parlato nel blog del 20 marzo scorso) e quelli dell’”economia circolare”, aggiornando la lezione di comunità operosa e solidale che discende dall’esperienza di Adriano Olivetti (nel 1908, giusto 110 anni fa, nasceva l’azienda di Ivrea, un laboratori e una vera e propria “fabbrica” d’innovazione economica e sociale, un paradigma di cultura, relazioni industriali e tecnologie d’avanguardia che ancora oggi hanno molto da dire). E ricordando, perché no?, due indicazioni storiche che suonano d’attualità.

La prima è quella di Carlo Cattaneo, gran lombardo, studioso originale d’economia e politica, scritta nel 1864: “Non v’è lavoro, non v’è capitale, che non cominci con un atto d’intelligenza. Prima d’ogni lavoro, prima d’ogni capitale, quando le cose giacciono ancora non curate e ignote in seno alla natura, è l’intelligenza che comincia l’opera, e imprime in esse per la prima volta il carattere della ricchezza”.

La seconda è di Ferdinando Galiani, abate, ascoltato alla corte di Napoli nelle purtroppo effimera stagione dell’Illuminismo riformista a metà del Settecento e apprezzatissimo nei salotti di Parigi frequentati da Montesquieu e Diderot: “Il buon governo non è già quello in cui tutti sono felici, poiché questo governo non vi sarebbe mai, ma è quello in cui tutti possono essere felici, quando cause interne e particolari non lo impediscono. La tirannide è quel governo in cui pochi diventano felici a spese e col danno di tutto il rimanente, che diventa infelice”.

Felicità pubblica e privata e benessere, intelligenza e lavoro, oggi diremmo cultura d’impresa e welfare nelle dimensioni aziendali e territoriali. Una sfida, appunto, politica, culturale e imprenditoriale.

Parlare dunque di welfare, con lo sguardo lungo sulle trasformazioni economiche e sociali, significa anche affrontare in pieno la questione della sostenibilità, sia ambientale che sociale, considerandola una chiave fondamentale della competitività delle imprese. Come confermano due autorevoli studiosi, Piergaetano Marchetti e Marco Ventoruzzo (“L’Economia – Corriere della Sera”, 3 aprile): “Imprese più responsabili per il bene sociale (e dei profitti”: “Una spinta inedita verso comportamenti e istanze largamente condivise, che non guardano solo al conto economico ma dedicano maggiore attenzione ai diritti umani e ai temi ambientali”.

Il welfare aziendale sta conoscendo una straordinaria diffusione. Soprattutto nelle aree in cui l’innovazione nell’industria e nei servizi è un cardine di sviluppo economico e sociale. In Lombardia, in Emilia, in Veneto.

In molte imprese private, oggi, parlare di welfare significa, infatti, guardare dentro una nuova dimensione del lavoro, in cui i contratti aziendali integrativi, grazie anche ai benefici fiscali di recenti provvedimenti di governo, consentono di avere migliori condizioni per l’assistenza sanitaria, la pensione integrativa, il supporto per fare studiare i propri figli e occuparsi dei familiari disabili. Non si tratta di soldi in più. Ma spesso di servizi. O di tempo libero. Un vero vantaggio.

A Milano, Monza e Brianza e Lodi, una delle aree a maggior industrializzazione d’Italia, il welfare aziendale è presente nel 60% dei contratti integrativi, rispetto al 30% della media nazionale, secondo dati presentati di recente dall’Osservatorio sul Welfare dell’Assolombarda e riguarda 25mila lavoratori e le loro famiglie (Corriere della Sera, 5 maggio). Ed è un buon esempio da diffondere. “Sebbene molti paesi europei siano più avanti di noi sul fronte del welfare, sempre più imprese in Italia, grazie anche alle facilitazioni introdotte dalla Legge di Stabilità, stanno affiancando alla retribuzione strumenti non monetari”, commenta Mauro Chiassarini, presidente di Bayer Italia e vicepresidente di Assolombarda, con deleghe per lavoro, sicurezza e, appunto, welfare.

Ci sono esempi storici importanti, da ricordare. Il welfare aziendale in Pirelli, per esempio, già a metà del Novecento, con iniziative di tutela della salute, mense, asili nido e attività per i figli dei dipendenti, sport). O i programmi diffusi in altre medie e grandi imprese, dall’Aem all’Asm, dall’Eni all’Iri (un approfondimento sta negli atti del convegno “Il welfare aziendale nell’Italia del secondo dopoguerra”, organizzato dalla Fondazione Isec, 13 maggio 2016) . E oggi, grazie anche alle nuove sensibilità sul welfare e i nuovi contratti di lavoro, si fanno importanti passi avanti.

Lo testimoniano altre storie d’attualità. Come l’esperimento avviato alla Siderforgerossi di Arsiero (acciaieria in provincia di Vicenza) di monitorare, su base volontaria, la salute dei propri dipendenti, per prevenire malattie aziendali o generali (colesterolo e stili di vita sotto controllo) per migliorare la qualità della vita, ma anche per prevenire infortuni e assenteismo (“Ecco l’azienda-medico: diete e analisi per gli operai”, ha titolato “la Repubblica”, 1 aprile, commentando positivamente l’iniziativa). O la possibilità di scegliere, nei contratti aziendali, fra aumento della retribuzione e maggior tempo libero, per sè stessi e la famiglia: una scelta fatta dai dipendenti di Ducati, Marposs, Lamborghini e Coesia, nell’Emilia delle medie imprese d’eccellenza. Nuove forme del lavoro, del tempo, della partecipazione e della cittadinanza. Valori. Essenziali, anche per imprese che vogliono continuare a produrre valore.

Il capitalismo italiano, soprattutto nelle sue dimensioni attuali, cresce secondo due direttrici, non sempre ben collegate, ma comunque dinamiche. Imprese medie e piccole solidamente radicate nei territori e, contemporaneamente, abili a essere presenti e farsi valere nelle nicchie globali ad alto valore aggiunto. Un “capitalismo intermedio”, lo definisce Aldo Bonomi (IlSole24Ore, 8 aprile). Produttività elevata, competitività che regge le sfide. E proprio come fondamento di questa competitività vanno considerate anche le scelte di welfare aziendali, che stimolano sicurezza, senso di appartenenza, intelligente generosità nelle relazioni di lavoro e, dunque, migliore e maggiore produttività.

C’è un passaggio in più da fare, come suggerisce Bonomi, nella relazione tra impresa e territorio: “La promozione di un nuovo modello di welfare community, fatto dall’intreccio tra estensione delle pratiche di welfare aziendale e la trasformazione dei sistemi di welfare territoriali e del diffuso mondo del privato sociale, oggi sempre più portato ad assumere una configurazione imprenditiva e impegnato nel definire un proprio modus vivendi con la potenza della finanza, interessata a sviluppare forme di investimento ‘paziente’ sui temi della coesione sociale”.

Sono processi innovativi, in movimento. Che si situano all’incrocio tra impresa produttiva, servizi, sistemi di relazione, cure per le comunità e le persone, life sciences e salute. Vanno oltre l’idea tradizionale del “terzo settore”. Trovano nelle “società benefit” (introdotte finalmente anche in Italia da una legge del 2016) un punto di riferimento, per valorizzare “un servizio alla società” e non solo per dare un reddito ai propri azionisti (dando attuazione al monito di un grande economista americano, E.M. Dodd, sulla “Harvard Law Review” del 1932). E possono avere un ruolo fondamentale nell’evoluzione dell’economia di mercato, nell’impegno di “rilegittimazione” di un buon capitalismo d’impresa in cerca di un migliore futuro.

I processi di cui parliamo, infatti, impongono riflessioni originali e creative sui rapporti tra competitività e inclusione sociale: un tema particolarmente avvertito a Milano, nel bresciano di robusta cultura cattolica, nell’Emilia in cui valori d’impresa e valori cooperativi si sono incrociati con esperienze di buon governo regionale e locale, nel Veneto in cui, tanto per fare un solo esempio, la Confindustria di Vicenza ha avviato un importante progetto di responsabilità sociale delle imprese il cui nome è già tutto un programma: “Fabbricare valori”. C’è un mondo in movimento, anche se ancora non visibile agli occhi della grande opinione pubblica, come meriterebbe. Un mondo di straordinaria qualità, con forti valenze economiche, sociali, culturali, se cultura vuol dire appunto innovazione anche sociale, sensibilità, inclusività, cittadinanza responsabile, valori di comunità e civiltà.

Sono processi che interpellano pure la politica. E chiedono un ripensamento critico della concezione e dell’attrazione del welfare, con riforme intelligenti e responsabili che non appesantiscano il carico sulla spesa pubblica ma migliorino comunque le prestazioni sociali. Come? L’incrocio tra welfare aziendale e welfare di territorio di cui abbiamo parlato è appunto un’utile indicazione.

Per capire ancora meglio, si possono riprendere utilmente in mano le categorie dell’”economia civile”, magari ristudiandone l’origine, nelle lezioni di Antonio Genovesi, considerato “maestro” da Adam Smith e sostenitore di un’economia che sia fonte di benessere per persone e società (ne abbiamo parlato nel blog del 20 marzo scorso) e quelli dell’”economia circolare”, aggiornando la lezione di comunità operosa e solidale che discende dall’esperienza di Adriano Olivetti (nel 1908, giusto 110 anni fa, nasceva l’azienda di Ivrea, un laboratori e una vera e propria “fabbrica” d’innovazione economica e sociale, un paradigma di cultura, relazioni industriali e tecnologie d’avanguardia che ancora oggi hanno molto da dire). E ricordando, perché no?, due indicazioni storiche che suonano d’attualità.

La prima è quella di Carlo Cattaneo, gran lombardo, studioso originale d’economia e politica, scritta nel 1864: “Non v’è lavoro, non v’è capitale, che non cominci con un atto d’intelligenza. Prima d’ogni lavoro, prima d’ogni capitale, quando le cose giacciono ancora non curate e ignote in seno alla natura, è l’intelligenza che comincia l’opera, e imprime in esse per la prima volta il carattere della ricchezza”.

La seconda è di Ferdinando Galiani, abate, ascoltato alla corte di Napoli nelle purtroppo effimera stagione dell’Illuminismo riformista a metà del Settecento e apprezzatissimo nei salotti di Parigi frequentati da Montesquieu e Diderot: “Il buon governo non è già quello in cui tutti sono felici, poiché questo governo non vi sarebbe mai, ma è quello in cui tutti possono essere felici, quando cause interne e particolari non lo impediscono. La tirannide è quel governo in cui pochi diventano felici a spese e col danno di tutto il rimanente, che diventa infelice”.

Felicità pubblica e privata e benessere, intelligenza e lavoro, oggi diremmo cultura d’impresa e welfare nelle dimensioni aziendali e territoriali. Una sfida, appunto, politica, culturale e imprenditoriale.

Parlare dunque di welfare, con lo sguardo lungo sulle trasformazioni economiche e sociali, significa anche affrontare in pieno la questione della sostenibilità, sia ambientale che sociale, considerandola una chiave fondamentale della competitività delle imprese. Come confermano due autorevoli studiosi, Piergaetano Marchetti e Marco Ventoruzzo (“L’Economia – Corriere della Sera”, 3 aprile): “Imprese più responsabili per il bene sociale (e dei profitti”: “Una spinta inedita verso comportamenti e istanze largamente condivise, che non guardano solo al conto economico ma dedicano maggiore attenzione ai diritti umani e ai temi ambientali”.

Il design va in Fiera: un secolo di stand Pirelli a Milano

Ieri c’era la Fiera Campionaria, oggi il Salone del Mobile: aprile a Milano è da sempre sinonimo di design. Non solo quello delle grandi firme, ma anche quello estremamente “popolare” dello stand espositivo, della vetrina che deve comunicare con la massima efficacia al grande pubblico tutta la potenza commerciale dell’azienda.

Presso il nostro Archivio Storico, nella sezione fotografica dedicata alle “fiere e mostre” c’è una foto del 1924: ritrae il padiglione Pirelli proprio alla Fiera Campionaria di Milano. E’ una delle foto più antiche, una testimonianza pressoché unica di come fosse concepito il “design” espositivo di quasi un secolo fa. Pieno, pienissimo di oggetti di ogni tipo, a testimonianza di una capacità e una diversificazione produttiva ormai da grande multinazionale qual è la Società in quel primo scorcio degli anni Venti del Novecento. Ci sono i meravigliosi pneumatici Pirelli Cord che hanno fatto vincere quello stesso anno a Tazio Nuvolari – su moto Bianchi – il Circuito del Tigullio. Ci sono rotoloni di filo elastico e matasse di cavi. Ci sono diversi tessuti gommati e un austero giaccone impermeabile. Ma quello che colpisce sono i due alberi della gomma: sono veri, vengono dalle piantagioni Pirelli di Giava, e vogliono ricordare al visitatore che tutto nasce da lì, da quel lattice che è il nuovo “oro bianco” dell’Occidente. Quattro seggiole in stile orientaleggiante invitano gli interessati a fermarsi allo stand.

Sedici anni possono sembrare una vita: allo stand Pirelli presso la Fiera di Milano del 1940 tutto è cambiato rispetto allo stand liberty degli Anni Venti. Minimalista ed essenziale, ora. Rigoroso, quasi. L’Autarchia impone la ricerca di materiali alternativi, che non sono solo la gomma sintetica al posto del caucciù ma anche il rayon, che si ottiene dalla cellulosa,  in sostituzione del cotone per la costruzione della carcassa dei pneumatici. “Rayon italiano ad altissima resistenza”, tanto per il pneumatico Stella Bianca per autovetture quanto per il Sigillo Verde per autocarri: tutti e due portano la scritta “Raiflex” che segnala “la nuova copertura autarchica”.

E poi arriva il Dopoguerra. E la voglia di ricostruire. Una foto a colori mostra lo stand Pirelli alla Fiera Campionaria del 1951, allestimento in esterno. I visitatori, in giacca e cravatta,  guardano ammirati gli impermeabili dell’Azienda Arona e i giocattoli dell’Azienda Sigma, le pubblicità delle cinghie per trebbiatrici dipinte da Bob Noorda e quelle degli elastici portapacchi disegnate da Riccardo Manzi. Domina su tutto il nuovo logo commerciale – introdotto nel 1946 – con scudetto, stella e P lunga stilizzata. Arriva il “boom” economico: non è un caso se il padiglione Pirelli alla Fiera di Milano 1961 è tutto dedicato alle vacanze, sintomo di benessere e di gioia. Ed ecco quindi i canotti e i materassini gommati prodotti dall’Azienda Seregno, e le barche dell’Azienda Monza costruite con nuovi materiali plastici dai nomi strani come “kelesite” e “resivite”. Galleggiano nella darsena di fianco allo stand, come fosse un vero mare per  vere vacanze. Perchè il “racconto” del prodotto è importante, è tutto.

Ieri c’era la Fiera Campionaria, oggi il Salone del Mobile: aprile a Milano è da sempre sinonimo di design. Non solo quello delle grandi firme, ma anche quello estremamente “popolare” dello stand espositivo, della vetrina che deve comunicare con la massima efficacia al grande pubblico tutta la potenza commerciale dell’azienda.

Presso il nostro Archivio Storico, nella sezione fotografica dedicata alle “fiere e mostre” c’è una foto del 1924: ritrae il padiglione Pirelli proprio alla Fiera Campionaria di Milano. E’ una delle foto più antiche, una testimonianza pressoché unica di come fosse concepito il “design” espositivo di quasi un secolo fa. Pieno, pienissimo di oggetti di ogni tipo, a testimonianza di una capacità e una diversificazione produttiva ormai da grande multinazionale qual è la Società in quel primo scorcio degli anni Venti del Novecento. Ci sono i meravigliosi pneumatici Pirelli Cord che hanno fatto vincere quello stesso anno a Tazio Nuvolari – su moto Bianchi – il Circuito del Tigullio. Ci sono rotoloni di filo elastico e matasse di cavi. Ci sono diversi tessuti gommati e un austero giaccone impermeabile. Ma quello che colpisce sono i due alberi della gomma: sono veri, vengono dalle piantagioni Pirelli di Giava, e vogliono ricordare al visitatore che tutto nasce da lì, da quel lattice che è il nuovo “oro bianco” dell’Occidente. Quattro seggiole in stile orientaleggiante invitano gli interessati a fermarsi allo stand.

Sedici anni possono sembrare una vita: allo stand Pirelli presso la Fiera di Milano del 1940 tutto è cambiato rispetto allo stand liberty degli Anni Venti. Minimalista ed essenziale, ora. Rigoroso, quasi. L’Autarchia impone la ricerca di materiali alternativi, che non sono solo la gomma sintetica al posto del caucciù ma anche il rayon, che si ottiene dalla cellulosa,  in sostituzione del cotone per la costruzione della carcassa dei pneumatici. “Rayon italiano ad altissima resistenza”, tanto per il pneumatico Stella Bianca per autovetture quanto per il Sigillo Verde per autocarri: tutti e due portano la scritta “Raiflex” che segnala “la nuova copertura autarchica”.

E poi arriva il Dopoguerra. E la voglia di ricostruire. Una foto a colori mostra lo stand Pirelli alla Fiera Campionaria del 1951, allestimento in esterno. I visitatori, in giacca e cravatta,  guardano ammirati gli impermeabili dell’Azienda Arona e i giocattoli dell’Azienda Sigma, le pubblicità delle cinghie per trebbiatrici dipinte da Bob Noorda e quelle degli elastici portapacchi disegnate da Riccardo Manzi. Domina su tutto il nuovo logo commerciale – introdotto nel 1946 – con scudetto, stella e P lunga stilizzata. Arriva il “boom” economico: non è un caso se il padiglione Pirelli alla Fiera di Milano 1961 è tutto dedicato alle vacanze, sintomo di benessere e di gioia. Ed ecco quindi i canotti e i materassini gommati prodotti dall’Azienda Seregno, e le barche dell’Azienda Monza costruite con nuovi materiali plastici dai nomi strani come “kelesite” e “resivite”. Galleggiano nella darsena di fianco allo stand, come fosse un vero mare per  vere vacanze. Perchè il “racconto” del prodotto è importante, è tutto.

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Positività in produzione

Un libro di una filosofa e di una sociologa, fornisce uno schema nuovo per organizzare l’impresa

 

Lavorare insieme. Con tutto ciò che un principio di questo genere comporta. Cosa solo in apparenza facile, in realtà estremamente difficile da realizzare. Lo sanno bene imprenditori e manager  che nelle loro imprese cercano ogni giorno di mettere in pratica un’impostazione di lavoro simile. Eppure, l’orizzonte della produzione appare sempre di più in questi termini: creare ambienti e meccanismi di lavoro e produzione condivisi, è la strada giusta per lo sviluppo. Soprattutto in situazioni come quella che si sta attraversando.

“La Scienza delle Organizzazioni Positive. Far fiorire le persone e ottenere risultati che superano le aspettative” – libro scritto a quattro mani da Veruscka Gennari (filosofa con una notevole esperienza nell’ambito di quella che viene definita “”Intelligenza emotiva applicata) e Daniela Di Ciaccio (sociologa e consulente nell’ambito della formazione e nello sviluppo delle organizzazioni) -, è una lettura che può aiutare a capire di più in questo vasto ambito dell’organizzazione della produzione.

Secondo le due autrici, il nuovo modello d’impresa deve arrivare a condividere uno scopo forte e collettivo, affiancare il paradigma emozionale a quello razionale, sperimentare la coerenza tra cultura e processi. Passi necessari per dare vita ad organizzazioni in cui “le persone fioriscono e ottengono risultati che superano le aspettative”. Il libro integra quindi informazioni scientifiche e letteratura manageriale, offrendo anche un risvolto pratico, grazie alle voci di esperti e attraverso diverse storie italiane di successo, che dimostrano che un nuovo modo di fare impresa, scuola, informazione e amministrazione esiste già nel nostro Paese.

Tutto sulla scorta non solo della teoria classica dell’organizzazione della produzione, ma soprattutto di scienze come la chimica, l’epigenetica, la fisica, la biologia, le neuroscienze. In tutto il testo, aleggia un principio di base: la positività e il benessere “pagano” perché attivano i centri dell’apprendimento, della creatività e della concentrazione, innescando un circolo virtuoso che si traduce in maggiore produttività e innovazione.

Parte essenziale del libro è la raccolta di una serie di storie d’impresa e di imprenditori come quelle di Gianni Ferrario, Chimica Zero, “Rebranding Headquarters” (RBHQ), Money Surfers, Daniele Raspini, Zeta Service, Foxwin, Artademia.

Il libro di Gennari e Di Ciaccio è interessante da leggere e soprattutto fornisce delle provocazioni sulle quali ragionare.

La Scienza delle Organizzazioni Positive. Far fiorire le persone e ottenere risultati che superano le aspettative

Veruscka Gennari, Daniela Di Ciaccio

Franco Angeli, 2018

Un libro di una filosofa e di una sociologa, fornisce uno schema nuovo per organizzare l’impresa

 

Lavorare insieme. Con tutto ciò che un principio di questo genere comporta. Cosa solo in apparenza facile, in realtà estremamente difficile da realizzare. Lo sanno bene imprenditori e manager  che nelle loro imprese cercano ogni giorno di mettere in pratica un’impostazione di lavoro simile. Eppure, l’orizzonte della produzione appare sempre di più in questi termini: creare ambienti e meccanismi di lavoro e produzione condivisi, è la strada giusta per lo sviluppo. Soprattutto in situazioni come quella che si sta attraversando.

“La Scienza delle Organizzazioni Positive. Far fiorire le persone e ottenere risultati che superano le aspettative” – libro scritto a quattro mani da Veruscka Gennari (filosofa con una notevole esperienza nell’ambito di quella che viene definita “”Intelligenza emotiva applicata) e Daniela Di Ciaccio (sociologa e consulente nell’ambito della formazione e nello sviluppo delle organizzazioni) -, è una lettura che può aiutare a capire di più in questo vasto ambito dell’organizzazione della produzione.

Secondo le due autrici, il nuovo modello d’impresa deve arrivare a condividere uno scopo forte e collettivo, affiancare il paradigma emozionale a quello razionale, sperimentare la coerenza tra cultura e processi. Passi necessari per dare vita ad organizzazioni in cui “le persone fioriscono e ottengono risultati che superano le aspettative”. Il libro integra quindi informazioni scientifiche e letteratura manageriale, offrendo anche un risvolto pratico, grazie alle voci di esperti e attraverso diverse storie italiane di successo, che dimostrano che un nuovo modo di fare impresa, scuola, informazione e amministrazione esiste già nel nostro Paese.

Tutto sulla scorta non solo della teoria classica dell’organizzazione della produzione, ma soprattutto di scienze come la chimica, l’epigenetica, la fisica, la biologia, le neuroscienze. In tutto il testo, aleggia un principio di base: la positività e il benessere “pagano” perché attivano i centri dell’apprendimento, della creatività e della concentrazione, innescando un circolo virtuoso che si traduce in maggiore produttività e innovazione.

Parte essenziale del libro è la raccolta di una serie di storie d’impresa e di imprenditori come quelle di Gianni Ferrario, Chimica Zero, “Rebranding Headquarters” (RBHQ), Money Surfers, Daniele Raspini, Zeta Service, Foxwin, Artademia.

Il libro di Gennari e Di Ciaccio è interessante da leggere e soprattutto fornisce delle provocazioni sulle quali ragionare.

La Scienza delle Organizzazioni Positive. Far fiorire le persone e ottenere risultati che superano le aspettative

Veruscka Gennari, Daniela Di Ciaccio

Franco Angeli, 2018

Etica ingegneristica d’impresa

Una ricerca dell’Università dell’Illinois fornisce una interpretazione aggiornata di un tema delicato dell’organizzazione della produzione

 

Etica anche nel calcolo. E anche nelle imprese. Traguardi certamente difficili da raggiungere, ma non impossibili. E soprattutto necessari in un momento in cui di fronte alla digitalizzazione dell’economia e della produzione, il significato della responsabilità dell’azione d’impresa si fa più forte, accompagnato da una cultura del produrre più consapevole. E tutto senza dimenticare il ruolo comunque importante anche dell’organizzazione come motore del produrre.

E’ attorno a queste idee che ruota l’articolo di Amir Hedayati Mehdiabadi e di Jessica Li (dell’Università dell’Illinois Urbana, Champaign) apparso recentemente sui Proceedings of the American Society for Engineering Management. La ricerca – “Toward a framework for developing computing professional ethics: a review of literature” -, è una ricognizione della teoria e della letteratura sul ruolo, l’etica e le funzioni all’interno delle imprese delle professioni dedicate al computing. Ed è una buona base di conoscenza per comprendere meglio l’importanza di queste ma anche il necessario “contrappeso” in termini gestionale che nelle imprese ci deve essere.

Gli “ingegneri” – è l’idea di base di Amir Hedayati Mehdiabadi e di Jessica Li -, svolgono ruoli importanti nelle odierne organizzazioni che operano nell’economia della conoscenza (e non solo). Detto questo, gli autori precisano che i professionisti del computing potrebbero avere una grande influenza sulle società moderne a causa dell’uso prevalente di informazioni e tecnologie basate su computer. Da qui la sottolineatura dell’importanza del “loro sviluppo etico”.

L’articolo, attraverso una analisi della letteratura scientifica già prodotta, rivede quindi la storia, le teorie e gli approcci all’etica nello sviluppo professionale, fornisce poi una valutazione critica dello stato attuale delle conoscenze sull’etica e dell’educazione etica nello sviluppo professionale nell’ambito delle imprese, e, infine, delinea un quadro per quella che viene definita “educazione etica nello sviluppo professionale”. Come dire: computing  certamente, ma con misura.

L’articolo di Amir Hedayati Mehdiabadi e Jessica Li non aggiunge particolari novità sul tema dell’eticità d’impresa e del computing, ma ha il merito di delineare con chiarezza lo stato dell’arte di un argomento complesso, che deve essere però compreso con sicurezza nell’ambito dell’agire moderno delle imprese.

Toward a framework for developing computing professional ethics: a review of literature

Amir Hedayati Mehdiabadi, Jessica Li

Proceedings of the American Society for Engineering Management ,2017 International Annual Conference E-H. Ng, B. Nepal, and E. Schott eds.

Una ricerca dell’Università dell’Illinois fornisce una interpretazione aggiornata di un tema delicato dell’organizzazione della produzione

 

Etica anche nel calcolo. E anche nelle imprese. Traguardi certamente difficili da raggiungere, ma non impossibili. E soprattutto necessari in un momento in cui di fronte alla digitalizzazione dell’economia e della produzione, il significato della responsabilità dell’azione d’impresa si fa più forte, accompagnato da una cultura del produrre più consapevole. E tutto senza dimenticare il ruolo comunque importante anche dell’organizzazione come motore del produrre.

E’ attorno a queste idee che ruota l’articolo di Amir Hedayati Mehdiabadi e di Jessica Li (dell’Università dell’Illinois Urbana, Champaign) apparso recentemente sui Proceedings of the American Society for Engineering Management. La ricerca – “Toward a framework for developing computing professional ethics: a review of literature” -, è una ricognizione della teoria e della letteratura sul ruolo, l’etica e le funzioni all’interno delle imprese delle professioni dedicate al computing. Ed è una buona base di conoscenza per comprendere meglio l’importanza di queste ma anche il necessario “contrappeso” in termini gestionale che nelle imprese ci deve essere.

Gli “ingegneri” – è l’idea di base di Amir Hedayati Mehdiabadi e di Jessica Li -, svolgono ruoli importanti nelle odierne organizzazioni che operano nell’economia della conoscenza (e non solo). Detto questo, gli autori precisano che i professionisti del computing potrebbero avere una grande influenza sulle società moderne a causa dell’uso prevalente di informazioni e tecnologie basate su computer. Da qui la sottolineatura dell’importanza del “loro sviluppo etico”.

L’articolo, attraverso una analisi della letteratura scientifica già prodotta, rivede quindi la storia, le teorie e gli approcci all’etica nello sviluppo professionale, fornisce poi una valutazione critica dello stato attuale delle conoscenze sull’etica e dell’educazione etica nello sviluppo professionale nell’ambito delle imprese, e, infine, delinea un quadro per quella che viene definita “educazione etica nello sviluppo professionale”. Come dire: computing  certamente, ma con misura.

L’articolo di Amir Hedayati Mehdiabadi e Jessica Li non aggiunge particolari novità sul tema dell’eticità d’impresa e del computing, ma ha il merito di delineare con chiarezza lo stato dell’arte di un argomento complesso, che deve essere però compreso con sicurezza nell’ambito dell’agire moderno delle imprese.

Toward a framework for developing computing professional ethics: a review of literature

Amir Hedayati Mehdiabadi, Jessica Li

Proceedings of the American Society for Engineering Management ,2017 International Annual Conference E-H. Ng, B. Nepal, and E. Schott eds.

A Milano nasce Mind, distretto dell’innovazione: università, life sciences e memoria di Leonardo

Si chiamerà Mind. La mente, il cervello pulsante della nuova Milano metropoli di scienza e conoscenza. O, traducendo l’acronimo, Milano Innovation District. È il nome deciso per la grande area ex Expo, il Parco della Scienza che ospiterà Human Technopole, il campus scientifico dell’Università Statale, un grande centro ospedaliero come il Galeazzi e gli uffici e i laboratori di una lunga serie di imprese private attive nei settori della ricerca scientifica, medica e farmaceutica, delle life sciences di cui proprio Milano è avanguardia europea. Area grande, un milione di metri quadri. E già attrattiva: arrivati 1,8 miliardi di investimenti privati, una prima robusta quota di altri fondi in previsione di crescita di valore internazionale.

Bel nome, Mind. Coerente con funzioni e progetti di un luogo e di una città che si sta rilanciando come smart, tecnologica ma anche socialmente aperta e inclusiva. Rem tene, verba sequentur o anche nomina sunt consequentia rerum, avrebbero detto i romani, con quell’esattezza dei termini e dei concetti che caratterizzava una lingua, il latino, di cui, per fortuna, si torna ad apprezzare qualità e attualità: è la sostanza delle cose, la funzione delle attività a determinare il loro nome.

Il presente e il futuro di Milano, nella stagione della cosiddetta “economia della conoscenza”, sta nella capacità di legare competenza scientifica e saperi umanistici nell’orizzonte originale della “cultura politecnica”. E di quel Mind bisognerà trovare declinazioni d’immagine e comunicazione, rappresentazione di valori e racconto. Se ne occuperanno il Politecnico, l’Università Iulm e l’Accademia di Brera, cui Arexpo (la società proprietaria dell’area, guidata da Giuseppe Bonomi), ha già affidato l’incarico di definirne l’identità, la divulgazione del Masterplan e le strategie di comunicazione e promozione.

Milano, d’altronde, di “cultura politecnica” è da lungo tempo centro vitale. Le radici possono essere rintracciate nel lavoro quattrocentesco d’un grande architetto, Bramante, abile matematico e raffinato pittore (ce ne sono rilevanti impronte in Sant’Ambrogio e soprattutto in Santa Maria delle Grazie). E nelle opere d’ingegno di Leonardo, la cui intelligenza progettuale e realizzativa è ancora netta, attuale, dal funzionamento dei Navigli allo splendore de “L’Ultima Cena”. E il suo “Codice Atlantico”, ben custodito alla Biblioteca Ambrosiana, è sempre meta di studiosi di scienza e turisti in cerca dei fondamenti della bellezza. Scienza e umanesimo di Leonardo sono riferimenti utili, anche nella preparazione non rituale né retorica delle tante iniziative in vista dell’anniversario dei cinquecento anni dalla sua morte, in calendario per il 2019. E potranno ben ispirare pure le attività di definizione identitaria e di rappresentazione di Mind.

Ragione e scienza hanno segnato anche le discussioni de “Il Caffè” illuminista e riformista dei Verri e di Beccaria. Scienza ed economia moderna hanno ispirato le pagine de “Il Politecnico” di Carlo Cattaneo a metà Ottocento. E proprio così, “Il Politecnico”, Elio Vittorini volle chiamare la sua rivista, impegnata, proprio all’indomani della Liberazione, nel tentativo di rifondare la cultura italiana, oltre l’idealismo crociano. E privilegiando ciò che è essenziale a scienza e ricerca, la libertà: “Gli intellettuali non devono suonare il piffero per la rivoluzione”.

Sono anni frenetici, quei Cinquanta e Sessanta milanesi di cui Vittorini è tra i protagonisti. Animati da pittori e scrittori, pubblicitari e imprenditori, grafici e architetti. Sino al design, una dimensione della creatività molto milanese che investe l’industria e la rende più competitiva: chne, funzionalità e bellezza camminano insieme, le grandi imprese (Pirelli, Eni) sostengono sofisticare riviste culturali, ha successo una figura speciale, Leonardo Sinisgalli, ingegnere e poeta, che lavora per Pirelli, Olivetti e Finmeccanica: fabbriche, lavoro, “Civiltà delle macchine”. Cultura alta e cultura popolare, se popolare è l’industria. La Triennale è ancora oggi testimone del tempo e motore d’innovazione, dall’arte pop all’urbanistica e al migliore design.

La cultura, a Milano, è laboratorio. Una parola che evoca l’industria. La bottega d’artista. E il centro di ricerca. Un paradigma di riferimento può essere Giulio Natta, premio Nobel per la chimica nel 1963, l’anno culmine del boom economico: laurea al Politecnico di Milano, studi nei laboratori Pirelli e Montecatini. Sino al Nobel. Con forti ricadute industriali: il polipropilene, la produzione del “moplen”, la plastica che cambia anche consumi e costumi. Vale ancora oggi, il “paradigma Natta”. Nel passaggio dalle manifatture alle imprese digitali, e all’economia della conoscenza, la sintesi politecnica regge bene. Dalle fabbriche e nelle fabbriche si organizzano musica e teatro, la scienza si rappresenta sulla scena, i prodotti industriali e di design vengono messi in mostra come fossero oggetti d’arte. E proprio in un’ex fabbrica è cresciuto l’HangarBicocca, il più grande centro europeo d’arte contemporanea. La cultura, a Milano, è una buona impresa.

Anche lungo questa strada, si torna a Mind. Luogo di ricerca, innovazione, conoscenza. Di industria. E di costruzione, proprio attraverso le imprese, di ricchezza diffusa, opportunità di lavoro e migliore qualità della vita. Una partita futuribile di grande interesse. Non solo per Milano. Ma per tutto il sistema Paese. Milano capitale politecnica in movimento è infatti locomotiva d’una crescita economica e sociale che coinvolge tutta la grande regione del Nord integrata con l’Europa (a partire dall’asse con Torino e da quello con Bologna e l’Emilia industriale) ma fa pure da riferimento strategico per la declinazione mediterranea dell’Europa stessa, con ruolo essenziale del nostro Mezzogiorno. Il segno: cambiamento e innovazione. Una bella impresa.

Si chiamerà Mind. La mente, il cervello pulsante della nuova Milano metropoli di scienza e conoscenza. O, traducendo l’acronimo, Milano Innovation District. È il nome deciso per la grande area ex Expo, il Parco della Scienza che ospiterà Human Technopole, il campus scientifico dell’Università Statale, un grande centro ospedaliero come il Galeazzi e gli uffici e i laboratori di una lunga serie di imprese private attive nei settori della ricerca scientifica, medica e farmaceutica, delle life sciences di cui proprio Milano è avanguardia europea. Area grande, un milione di metri quadri. E già attrattiva: arrivati 1,8 miliardi di investimenti privati, una prima robusta quota di altri fondi in previsione di crescita di valore internazionale.

Bel nome, Mind. Coerente con funzioni e progetti di un luogo e di una città che si sta rilanciando come smart, tecnologica ma anche socialmente aperta e inclusiva. Rem tene, verba sequentur o anche nomina sunt consequentia rerum, avrebbero detto i romani, con quell’esattezza dei termini e dei concetti che caratterizzava una lingua, il latino, di cui, per fortuna, si torna ad apprezzare qualità e attualità: è la sostanza delle cose, la funzione delle attività a determinare il loro nome.

Il presente e il futuro di Milano, nella stagione della cosiddetta “economia della conoscenza”, sta nella capacità di legare competenza scientifica e saperi umanistici nell’orizzonte originale della “cultura politecnica”. E di quel Mind bisognerà trovare declinazioni d’immagine e comunicazione, rappresentazione di valori e racconto. Se ne occuperanno il Politecnico, l’Università Iulm e l’Accademia di Brera, cui Arexpo (la società proprietaria dell’area, guidata da Giuseppe Bonomi), ha già affidato l’incarico di definirne l’identità, la divulgazione del Masterplan e le strategie di comunicazione e promozione.

Milano, d’altronde, di “cultura politecnica” è da lungo tempo centro vitale. Le radici possono essere rintracciate nel lavoro quattrocentesco d’un grande architetto, Bramante, abile matematico e raffinato pittore (ce ne sono rilevanti impronte in Sant’Ambrogio e soprattutto in Santa Maria delle Grazie). E nelle opere d’ingegno di Leonardo, la cui intelligenza progettuale e realizzativa è ancora netta, attuale, dal funzionamento dei Navigli allo splendore de “L’Ultima Cena”. E il suo “Codice Atlantico”, ben custodito alla Biblioteca Ambrosiana, è sempre meta di studiosi di scienza e turisti in cerca dei fondamenti della bellezza. Scienza e umanesimo di Leonardo sono riferimenti utili, anche nella preparazione non rituale né retorica delle tante iniziative in vista dell’anniversario dei cinquecento anni dalla sua morte, in calendario per il 2019. E potranno ben ispirare pure le attività di definizione identitaria e di rappresentazione di Mind.

Ragione e scienza hanno segnato anche le discussioni de “Il Caffè” illuminista e riformista dei Verri e di Beccaria. Scienza ed economia moderna hanno ispirato le pagine de “Il Politecnico” di Carlo Cattaneo a metà Ottocento. E proprio così, “Il Politecnico”, Elio Vittorini volle chiamare la sua rivista, impegnata, proprio all’indomani della Liberazione, nel tentativo di rifondare la cultura italiana, oltre l’idealismo crociano. E privilegiando ciò che è essenziale a scienza e ricerca, la libertà: “Gli intellettuali non devono suonare il piffero per la rivoluzione”.

Sono anni frenetici, quei Cinquanta e Sessanta milanesi di cui Vittorini è tra i protagonisti. Animati da pittori e scrittori, pubblicitari e imprenditori, grafici e architetti. Sino al design, una dimensione della creatività molto milanese che investe l’industria e la rende più competitiva: chne, funzionalità e bellezza camminano insieme, le grandi imprese (Pirelli, Eni) sostengono sofisticare riviste culturali, ha successo una figura speciale, Leonardo Sinisgalli, ingegnere e poeta, che lavora per Pirelli, Olivetti e Finmeccanica: fabbriche, lavoro, “Civiltà delle macchine”. Cultura alta e cultura popolare, se popolare è l’industria. La Triennale è ancora oggi testimone del tempo e motore d’innovazione, dall’arte pop all’urbanistica e al migliore design.

La cultura, a Milano, è laboratorio. Una parola che evoca l’industria. La bottega d’artista. E il centro di ricerca. Un paradigma di riferimento può essere Giulio Natta, premio Nobel per la chimica nel 1963, l’anno culmine del boom economico: laurea al Politecnico di Milano, studi nei laboratori Pirelli e Montecatini. Sino al Nobel. Con forti ricadute industriali: il polipropilene, la produzione del “moplen”, la plastica che cambia anche consumi e costumi. Vale ancora oggi, il “paradigma Natta”. Nel passaggio dalle manifatture alle imprese digitali, e all’economia della conoscenza, la sintesi politecnica regge bene. Dalle fabbriche e nelle fabbriche si organizzano musica e teatro, la scienza si rappresenta sulla scena, i prodotti industriali e di design vengono messi in mostra come fossero oggetti d’arte. E proprio in un’ex fabbrica è cresciuto l’HangarBicocca, il più grande centro europeo d’arte contemporanea. La cultura, a Milano, è una buona impresa.

Anche lungo questa strada, si torna a Mind. Luogo di ricerca, innovazione, conoscenza. Di industria. E di costruzione, proprio attraverso le imprese, di ricchezza diffusa, opportunità di lavoro e migliore qualità della vita. Una partita futuribile di grande interesse. Non solo per Milano. Ma per tutto il sistema Paese. Milano capitale politecnica in movimento è infatti locomotiva d’una crescita economica e sociale che coinvolge tutta la grande regione del Nord integrata con l’Europa (a partire dall’asse con Torino e da quello con Bologna e l’Emilia industriale) ma fa pure da riferimento strategico per la declinazione mediterranea dell’Europa stessa, con ruolo essenziale del nostro Mezzogiorno. Il segno: cambiamento e innovazione. Una bella impresa.

Donne che lavorano: le operaie delle fabbriche Pirelli

Questo racconto di primavera, marzo 2018, parla di loro: di tutte le operaie che in un secolo e mezzo di industria hanno varcato ogni mattina i cancelli delle fabbriche Pirelli.

La prima fu Rosa. Rosa Navoni, nata il 22 gennaio 1858 a Lacchiarella. Aveva quindici anni nell’agosto del 1873: la prima donna assunta alla Pirelli. Medaglia n°606, operaia in gomma, reparto II, palloni “da giuoco”. Il nome di Rosa Navoni  lo troviamo nei libri matricola della prima fabbrica di via Ponte Seveso, che raccontano di come Rosa poi divenne Capo Sala e andò ad abitare in via Galilei 11, praticamente di fronte alla fabbrica. La sua foto compare nel volume edito nel 1922 per i cinquant’anni del Gruppo. Il Concordato tra azienda e lavoratori del 1902 aveva fissato i livelli retributivi: Rosa nel 1904 guadagnava ad esempio 40 centesimi al giorno.

Nel corso della Prima Guerra Mondiale la popolazione operaia femminile raddoppiò. A Bicocca il Reparto 15 era composto quasi esclusivamente da giovani operaie, assunte a decine al giorno per far fronte all’aumento continuo della produzione e alla contemporanea contrazione della presenza maschile in fabbrica. La “Rubrica Operai” di Bicocca relativa agli anni 1915-1918 –custodita presso l’Archivio Storico-  ne dà un grande quadro d’insieme: sono oltre 150 i fascicoli personali delle operaie che lavorarono a Bicocca in quegli anni di guerra. Di molte di loro c’è la fotografia, scattata tuttavia in anni successivi. E molte di loro, dopo Caporetto, avevano cognomi friulani e abitavano nella “casa rifugio” di Via Biglia a Niguarda.

Poi venne il secondo Dopoguerra: c’era un’Italia da ricostruire. Fiumi di ragazze si avviavano verso la fabbrica, verso il lavoro fuori casa retribuito. Verso l’emancipazione da padri e mariti. Nelle foto d’archivio sono belle e libere le ragazze in fabbrica del Quarantasette: hanno i capelli “all’onda” e sorridono. Maneggiano cerchietti per pneumatici e strumenti di controllo da laboratorio, danno forma a palle da tennis e guanti in lattice.

Dopo il boom del “lavoro per tutti” degli anni Cinquanta, scoppiò la contraddizione tra capitale e forza lavoro, anche femminile. Un tema affrontato direttamente nel cuore della fabbrica dall’house organ “Fatti e Notizie” e dalla rivista “Pirelli”, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta del Novecento.

Oggi, a centosessant’anni dalla nascita di Rosa Navoni, molte cose sono cambiate nel mondo del lavoro e dell’industria. Le fabbriche del Duemila, come il Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese, sono il paradigma dell’Industria 4.0, con processi produttivi tecnologicamente avanzati, attenzione alla sostenibilità in termini di sicurezza e “bellezza” del luogo di lavoro e innovazione dei prodotti. Per adattarsi alle “sfide digitali” e ai nuovi ritmi della produzione.

Questo racconto di primavera, marzo 2018, parla di loro: di tutte le operaie che in un secolo e mezzo di industria hanno varcato ogni mattina i cancelli delle fabbriche Pirelli.

La prima fu Rosa. Rosa Navoni, nata il 22 gennaio 1858 a Lacchiarella. Aveva quindici anni nell’agosto del 1873: la prima donna assunta alla Pirelli. Medaglia n°606, operaia in gomma, reparto II, palloni “da giuoco”. Il nome di Rosa Navoni  lo troviamo nei libri matricola della prima fabbrica di via Ponte Seveso, che raccontano di come Rosa poi divenne Capo Sala e andò ad abitare in via Galilei 11, praticamente di fronte alla fabbrica. La sua foto compare nel volume edito nel 1922 per i cinquant’anni del Gruppo. Il Concordato tra azienda e lavoratori del 1902 aveva fissato i livelli retributivi: Rosa nel 1904 guadagnava ad esempio 40 centesimi al giorno.

Nel corso della Prima Guerra Mondiale la popolazione operaia femminile raddoppiò. A Bicocca il Reparto 15 era composto quasi esclusivamente da giovani operaie, assunte a decine al giorno per far fronte all’aumento continuo della produzione e alla contemporanea contrazione della presenza maschile in fabbrica. La “Rubrica Operai” di Bicocca relativa agli anni 1915-1918 –custodita presso l’Archivio Storico-  ne dà un grande quadro d’insieme: sono oltre 150 i fascicoli personali delle operaie che lavorarono a Bicocca in quegli anni di guerra. Di molte di loro c’è la fotografia, scattata tuttavia in anni successivi. E molte di loro, dopo Caporetto, avevano cognomi friulani e abitavano nella “casa rifugio” di Via Biglia a Niguarda.

Poi venne il secondo Dopoguerra: c’era un’Italia da ricostruire. Fiumi di ragazze si avviavano verso la fabbrica, verso il lavoro fuori casa retribuito. Verso l’emancipazione da padri e mariti. Nelle foto d’archivio sono belle e libere le ragazze in fabbrica del Quarantasette: hanno i capelli “all’onda” e sorridono. Maneggiano cerchietti per pneumatici e strumenti di controllo da laboratorio, danno forma a palle da tennis e guanti in lattice.

Dopo il boom del “lavoro per tutti” degli anni Cinquanta, scoppiò la contraddizione tra capitale e forza lavoro, anche femminile. Un tema affrontato direttamente nel cuore della fabbrica dall’house organ “Fatti e Notizie” e dalla rivista “Pirelli”, tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta del Novecento.

Oggi, a centosessant’anni dalla nascita di Rosa Navoni, molte cose sono cambiate nel mondo del lavoro e dell’industria. Le fabbriche del Duemila, come il Polo Industriale Pirelli di Settimo Torinese, sono il paradigma dell’Industria 4.0, con processi produttivi tecnologicamente avanzati, attenzione alla sostenibilità in termini di sicurezza e “bellezza” del luogo di lavoro e innovazione dei prodotti. Per adattarsi alle “sfide digitali” e ai nuovi ritmi della produzione.

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Come sono le nuove aziende?

Pubblicati i risultati di Startup Survey 2016, la prima indagine censuaria sulle nuove realtà produttive innovative in Italia

 

Nuovi imprenditori pieni di buona volontà. Che devono essere incoraggiati, ma che devono fare i conti con le condizioni di mercato e di contesto. Portatori comunque di una cultura d’impresa che contribuisce positivamente alla crescita di tutto il sistema economico e sociale di un Paese. Di questa compagine, occorre però conoscere molto. A questo serve “Startup Survey 2016”, la prima indagine sulle aziende startup innovative italiane. Il rapporto prodotto dall’Istat è stato appena pubblicato, anche se riguarda la ricerca censuaria condotta nel 2016 dal Ministero dello sviluppo economico (Mise) e dall’Istituto nazionale di statistica stesso. Startup Survey è stata ideata in quanto a contenuti tematici nell’ambito del Comitato tecnico di monitoraggio e valutazione previsto dalla disciplina nazionale sulle startup innovative – lo Startup Act italiano pubblicato nel 2012 – e si è posta come obiettivo quello di indagare i molteplici aspetti di natura socioeconomica tipici del fenomeno della nuova imprenditoria innovativa italiana. Ma non solo. La ricerca infatti ha raccolto dalla viva voce degli stessi imprenditori opinioni e suggerimenti sulle varie misure che compongono lo Startup Act italiano, con l’obiettivo di intervenire quindi sulle possibili future regole. Fra i temi toccati: le caratteristiche socioeconomiche dei nuovi imprenditori, le loro motivazioni e la propensione all’interazione con l’insieme delle norme.

Più in particolare, il Rapporto dell’Istat, dopo aver ragionato sulla definizione stessa di startup e di imprenditore innovativo, approfondisce le possibilità e le fonti di finanziamento di imprese di questo genere per passare poi ad un esame approfondito delle strategie di innovazione in base alle quali queste aziende sono state concepite e sono state create. Chiude il Rapporto l’esame delle misure di politica economica per favorire le startup e, infine, il resoconto delle interviste condotte direttamente nelle aziende.

“Startup Survey 2016” non ha l’ambizione di essere un saggio di interpretazione del fenomeno delle aziende innovative italiane, ma ha comunque un grande pregio: quello di descrivere con un linguaggio preciso è chiaro una realtà multiforme, variegata, in continuo cambiamento e per questo difficile da cogliere nella sua interezza. E’ quindi una lettura utile per tutti.

Startup Survey 2016

AA.VV.

Istat, 2018

Pubblicati i risultati di Startup Survey 2016, la prima indagine censuaria sulle nuove realtà produttive innovative in Italia

 

Nuovi imprenditori pieni di buona volontà. Che devono essere incoraggiati, ma che devono fare i conti con le condizioni di mercato e di contesto. Portatori comunque di una cultura d’impresa che contribuisce positivamente alla crescita di tutto il sistema economico e sociale di un Paese. Di questa compagine, occorre però conoscere molto. A questo serve “Startup Survey 2016”, la prima indagine sulle aziende startup innovative italiane. Il rapporto prodotto dall’Istat è stato appena pubblicato, anche se riguarda la ricerca censuaria condotta nel 2016 dal Ministero dello sviluppo economico (Mise) e dall’Istituto nazionale di statistica stesso. Startup Survey è stata ideata in quanto a contenuti tematici nell’ambito del Comitato tecnico di monitoraggio e valutazione previsto dalla disciplina nazionale sulle startup innovative – lo Startup Act italiano pubblicato nel 2012 – e si è posta come obiettivo quello di indagare i molteplici aspetti di natura socioeconomica tipici del fenomeno della nuova imprenditoria innovativa italiana. Ma non solo. La ricerca infatti ha raccolto dalla viva voce degli stessi imprenditori opinioni e suggerimenti sulle varie misure che compongono lo Startup Act italiano, con l’obiettivo di intervenire quindi sulle possibili future regole. Fra i temi toccati: le caratteristiche socioeconomiche dei nuovi imprenditori, le loro motivazioni e la propensione all’interazione con l’insieme delle norme.

Più in particolare, il Rapporto dell’Istat, dopo aver ragionato sulla definizione stessa di startup e di imprenditore innovativo, approfondisce le possibilità e le fonti di finanziamento di imprese di questo genere per passare poi ad un esame approfondito delle strategie di innovazione in base alle quali queste aziende sono state concepite e sono state create. Chiude il Rapporto l’esame delle misure di politica economica per favorire le startup e, infine, il resoconto delle interviste condotte direttamente nelle aziende.

“Startup Survey 2016” non ha l’ambizione di essere un saggio di interpretazione del fenomeno delle aziende innovative italiane, ma ha comunque un grande pregio: quello di descrivere con un linguaggio preciso è chiaro una realtà multiforme, variegata, in continuo cambiamento e per questo difficile da cogliere nella sua interezza. E’ quindi una lettura utile per tutti.

Startup Survey 2016

AA.VV.

Istat, 2018

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