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Fondazione Pirelli, al via il nuovo programma didattico 2022-2023 tra webinar e virtual tour

Fondazione Pirelli Educational, al via programma didattico 2022/23

Fondazione Pirelli, al via il nuovo programma didattico: laboratori e visite guidate per gli studenti

Quel capitalismo animato non solo dal profitto

L’ultimo libro di Luigino Bruni racconta delle radici dell’attuale assetto economico occidentale

 

 Prima dell’attuale capitalismo e delle contemporanee forme di produzione e d’impresa, l’Europa ha conosciuto altri capitalismi. Assetti economici la cui conoscenza fa bene anche oggi a chi – imprenditore o manager -, deve ogni giorno occuparsi di impresa, mercato, profitto e responsabilità sociale delle proprie azioni economiche. Soprattutto quando si pone attenzione al fatto che i capitalismi di un tempo sono stati animati e ispirati da qualcosa di più grande e complesso del puro interesse economico delle merci.

Di tutto questo si occupa l’ultimo libro di Luigino Bruni (professore di economia politica alla Lumsa di Roma), che racconta genesi e sviluppo di quella particolare forma di capitalismo che tanta parte ebbe nello sviluppo economico di qualche secolo fa.

“Capitalismo meridiano. Alle radici dello spirito mercantile tra religione e profitto”, racconta come nel corso delle ultime fasi del Medioevo sia stato generato una sorta di “grande codice dell’economia di mercato” che successivamente con la Riforma protestante si biforcherà in un capitalismo nordico, erede di Lutero e Calvino, e in uno meridiano, figlio dei mercatores toscani e di san Francesco. Qualcosa di molto particolare e complesso, che in qualche modo ha continuato l’umanesimo civile dei secoli precedenti ma che in qualcosa d’altro se ne è invece allontanato.

Bruni, con un linguaggio al quale occorre stare molto attenti per non perderne nessuna sfumatura, racconta evoluzione e tratti caratteristici di questa forma di fare impresa e mercato. In particolare, come si è detto, il volume (circa 200 pagine), racconta la genesi del capitalismo meridiano evidenziandone gli aspetti comunitari, meticci e relazionali, maschili ma con inaspettate presenze femminili; con uno sguardo speciale all’intreccio tra lo spirito dei mercanti e quello dei frati mendicanti. Dopo un brillante primo capitolo di sintesi, Bruni affronta quindi i punti fondamentali della vicenda con approfondimenti peculiari che (con ragione) lui stesso indica come quelli forse più interessanti di tutto il libro. Soffermandosi su passaggi fondamentali come l’economia francescana, le controversie su alcuni concetti cardine dell’economia (di allora come di oggi), i tratta specifici della “civil mercatura”, Bruni arriva fino all’epoca della Controriforma quando, come si è detto, verrà data origine  a forme differenti di capitalismo.

Libro breve ma denso, da leggere con attenzione, l’ultima fatica letteraria di Luigino Bruni è un prezioso strumento di conoscenza anche per chi, oggi, si ritrova nel mezzo delle tempeste economiche attuali. Scrive in un passaggio l’autore: “L’economia europea è nata da uno spirito più grande dello spirito delle merci, e se perde questo spirito eccedente rischia seriamente di spegnersi”.

Capitalismo meridiano. Alle radici dello spirito mercantile tra religione e profitto

Luigino Bruni

Il Mulino, 2022

L’ultimo libro di Luigino Bruni racconta delle radici dell’attuale assetto economico occidentale

 

 Prima dell’attuale capitalismo e delle contemporanee forme di produzione e d’impresa, l’Europa ha conosciuto altri capitalismi. Assetti economici la cui conoscenza fa bene anche oggi a chi – imprenditore o manager -, deve ogni giorno occuparsi di impresa, mercato, profitto e responsabilità sociale delle proprie azioni economiche. Soprattutto quando si pone attenzione al fatto che i capitalismi di un tempo sono stati animati e ispirati da qualcosa di più grande e complesso del puro interesse economico delle merci.

Di tutto questo si occupa l’ultimo libro di Luigino Bruni (professore di economia politica alla Lumsa di Roma), che racconta genesi e sviluppo di quella particolare forma di capitalismo che tanta parte ebbe nello sviluppo economico di qualche secolo fa.

“Capitalismo meridiano. Alle radici dello spirito mercantile tra religione e profitto”, racconta come nel corso delle ultime fasi del Medioevo sia stato generato una sorta di “grande codice dell’economia di mercato” che successivamente con la Riforma protestante si biforcherà in un capitalismo nordico, erede di Lutero e Calvino, e in uno meridiano, figlio dei mercatores toscani e di san Francesco. Qualcosa di molto particolare e complesso, che in qualche modo ha continuato l’umanesimo civile dei secoli precedenti ma che in qualcosa d’altro se ne è invece allontanato.

Bruni, con un linguaggio al quale occorre stare molto attenti per non perderne nessuna sfumatura, racconta evoluzione e tratti caratteristici di questa forma di fare impresa e mercato. In particolare, come si è detto, il volume (circa 200 pagine), racconta la genesi del capitalismo meridiano evidenziandone gli aspetti comunitari, meticci e relazionali, maschili ma con inaspettate presenze femminili; con uno sguardo speciale all’intreccio tra lo spirito dei mercanti e quello dei frati mendicanti. Dopo un brillante primo capitolo di sintesi, Bruni affronta quindi i punti fondamentali della vicenda con approfondimenti peculiari che (con ragione) lui stesso indica come quelli forse più interessanti di tutto il libro. Soffermandosi su passaggi fondamentali come l’economia francescana, le controversie su alcuni concetti cardine dell’economia (di allora come di oggi), i tratta specifici della “civil mercatura”, Bruni arriva fino all’epoca della Controriforma quando, come si è detto, verrà data origine  a forme differenti di capitalismo.

Libro breve ma denso, da leggere con attenzione, l’ultima fatica letteraria di Luigino Bruni è un prezioso strumento di conoscenza anche per chi, oggi, si ritrova nel mezzo delle tempeste economiche attuali. Scrive in un passaggio l’autore: “L’economia europea è nata da uno spirito più grande dello spirito delle merci, e se perde questo spirito eccedente rischia seriamente di spegnersi”.

Capitalismo meridiano. Alle radici dello spirito mercantile tra religione e profitto

Luigino Bruni

Il Mulino, 2022

Arte d’impresa

Una ricerca appena pubblicata mette in relazione la storia dell’arte con le attività delle imprese collegate alla valorizzazione del loro patrimonio

 

 Musei come luoghi di cultura viva e “produttiva”, soprattutto quando fanno parte di un sistema d’impresa che si nutre di passato oltre che di presente per costruire un futuro importante. Musei che raccolgono, valorizzano e mettono a disposizione del pubblico patrimoni aziendali ma anche di territorio, di ambito produttivo che, altrimenti, verrebbero irrimediabilmente persi. E’ attorno a queste idee che lavora Virginia Spadaccini con “The Fortune of the Ancient World’s Heritage Within the Context of Fashion Museums’ Communication in Italy”, una ricerca apparsa recentemente in Zone Moda Journal.

Obiettivo del lavoro non è solo quello di dimostrare il contributo e il potenziale comunicativo dei classici alla storia dell’arte italiana e, di conseguenza, alla storia della moda italiana, ma anche quello di approfondire le modalità con le quali alcune delle più importante imprese del sistema-moda hanno usato il loro patrimonio storico e culturale.

Alla base di tutto, la constatazione di quanto la storia e l’arte del passato possano essere formidabili strumenti di accreditamento presso particolari porzioni dell’opinione pubblica, ma veicoli di promozione delle organizzazioni (anche d’impresa) che riescono a valorizzarle e riproporle, così come tramite di un’eredità del saper fare che si rispecchia nel presente e garantisce qualità e affidabilità anche nel futuro.

Spadaccini, dopo un’introduzione che riesce a collegare la valorizzazione dell’arte nell’ambito storico più generale, approfondisce quindi alcuni casi di musei d’impresa che più di altri riescono nell’obiettivo – il Museo Salvatore Ferragamo e il Gucci Garden -, ma anche il Museo Valentino Garavani, il pionieristico museo virtuale della moda lanciato nel 2011 l’immaginario di un tempio moderno come il Museo dell’Ara Pacis a Roma con i suoi “marmi” a decorare le pareti, gli ampi spazi interni scanditi da scale e lucernari. All’esame della ricercatrice, poi, altre esperienze come quelle di Brioni e Bulgari. Oltre ai musei e archivi d’impresa, Spadaccini ricorda inoltre alcune mostre iconiche e sfilate di moda organizzate da marchi di lusso in luoghi culturali viste come espressione generale dell’uso del patrimonio mondiale antico come strumento nella narrazione della moda italiana.

Annota quindi Spadaccini: “Le attività del museo aziendale sono disciplinate dalle leggi del profitto, sebbene il profitto non sia misurabile secondo parametri materiali bensì immateriali: tali istituti, di norma legalmente inquadrabili come fondazioni senza scopo di lucro, debbono sostenere costi di manutenzione nettamente maggiori delle entrate. Dunque i vantaggi si misurano in termini squisitamente comunicativi: attraverso il ritorno d’immagine di cui beneficiano le aziende quando si dotano di un museo, le imprese guadagnano autorevolezza e maggiore engagement”.

La collaborazione tra luoghi di cultura e grandi imprese e le strategie che le sostengono, conclude quindi la ricercatrice dell’Università di Chiet-Pescara, raggiunge pure un altro obiettivo: essere non solo “utilizzate a vantaggio dei brand in termini di ritorno d’immagine” ma anche come in termini di “benefici per le istituzioni che, potendo contare su fattori quali la disponibilità economica o la risonanza mediatica garantita dal giornalismo di moda, riescono a risollevare le proprie finanze e a uscire dall’oblio al quale sembrerebbero talvolta condannate. Questa appare dunque la chiave da cui partire per comunicare e valorizzare la moda nei musei italiani che si lega indissolubilmente all’artigianato e all’arte, marchio di fabbrica tipicamente italiano”.

The Fortune of the Ancient World’s Heritage Within the Context of Fashion Museums’ Communication in Italy

Virginia Spadaccini

ZoneModa Journal. Vol.12 n.1 (2022)

Una ricerca appena pubblicata mette in relazione la storia dell’arte con le attività delle imprese collegate alla valorizzazione del loro patrimonio

 

 Musei come luoghi di cultura viva e “produttiva”, soprattutto quando fanno parte di un sistema d’impresa che si nutre di passato oltre che di presente per costruire un futuro importante. Musei che raccolgono, valorizzano e mettono a disposizione del pubblico patrimoni aziendali ma anche di territorio, di ambito produttivo che, altrimenti, verrebbero irrimediabilmente persi. E’ attorno a queste idee che lavora Virginia Spadaccini con “The Fortune of the Ancient World’s Heritage Within the Context of Fashion Museums’ Communication in Italy”, una ricerca apparsa recentemente in Zone Moda Journal.

Obiettivo del lavoro non è solo quello di dimostrare il contributo e il potenziale comunicativo dei classici alla storia dell’arte italiana e, di conseguenza, alla storia della moda italiana, ma anche quello di approfondire le modalità con le quali alcune delle più importante imprese del sistema-moda hanno usato il loro patrimonio storico e culturale.

Alla base di tutto, la constatazione di quanto la storia e l’arte del passato possano essere formidabili strumenti di accreditamento presso particolari porzioni dell’opinione pubblica, ma veicoli di promozione delle organizzazioni (anche d’impresa) che riescono a valorizzarle e riproporle, così come tramite di un’eredità del saper fare che si rispecchia nel presente e garantisce qualità e affidabilità anche nel futuro.

Spadaccini, dopo un’introduzione che riesce a collegare la valorizzazione dell’arte nell’ambito storico più generale, approfondisce quindi alcuni casi di musei d’impresa che più di altri riescono nell’obiettivo – il Museo Salvatore Ferragamo e il Gucci Garden -, ma anche il Museo Valentino Garavani, il pionieristico museo virtuale della moda lanciato nel 2011 l’immaginario di un tempio moderno come il Museo dell’Ara Pacis a Roma con i suoi “marmi” a decorare le pareti, gli ampi spazi interni scanditi da scale e lucernari. All’esame della ricercatrice, poi, altre esperienze come quelle di Brioni e Bulgari. Oltre ai musei e archivi d’impresa, Spadaccini ricorda inoltre alcune mostre iconiche e sfilate di moda organizzate da marchi di lusso in luoghi culturali viste come espressione generale dell’uso del patrimonio mondiale antico come strumento nella narrazione della moda italiana.

Annota quindi Spadaccini: “Le attività del museo aziendale sono disciplinate dalle leggi del profitto, sebbene il profitto non sia misurabile secondo parametri materiali bensì immateriali: tali istituti, di norma legalmente inquadrabili come fondazioni senza scopo di lucro, debbono sostenere costi di manutenzione nettamente maggiori delle entrate. Dunque i vantaggi si misurano in termini squisitamente comunicativi: attraverso il ritorno d’immagine di cui beneficiano le aziende quando si dotano di un museo, le imprese guadagnano autorevolezza e maggiore engagement”.

La collaborazione tra luoghi di cultura e grandi imprese e le strategie che le sostengono, conclude quindi la ricercatrice dell’Università di Chiet-Pescara, raggiunge pure un altro obiettivo: essere non solo “utilizzate a vantaggio dei brand in termini di ritorno d’immagine” ma anche come in termini di “benefici per le istituzioni che, potendo contare su fattori quali la disponibilità economica o la risonanza mediatica garantita dal giornalismo di moda, riescono a risollevare le proprie finanze e a uscire dall’oblio al quale sembrerebbero talvolta condannate. Questa appare dunque la chiave da cui partire per comunicare e valorizzare la moda nei musei italiani che si lega indissolubilmente all’artigianato e all’arte, marchio di fabbrica tipicamente italiano”.

The Fortune of the Ancient World’s Heritage Within the Context of Fashion Museums’ Communication in Italy

Virginia Spadaccini

ZoneModa Journal. Vol.12 n.1 (2022)

Le priorità del lavoro come dignità e futuro nell’incontro tra il Papa e gli imprenditori

“Siamo nati e cresciuti in mezzo agli operai, alle macchine e agli sviluppi dell’impresa e abbiamo imparato ben presto ad amare il lavoro, i lavoratori e questa nostra Azienda a cui è legato il meglio della nostra vita”. Sono parole di Alberto Pirelli, scritte nell’aprile del 1946, proprio mentre l’Italia, appena uscita dai disastri della guerra e della dittatura fascista, prova a scrivere, con la Costituzione, le nuove regole della democrazia e del patto civile e a costruire nuove e più solide fondamenta di sviluppo economico e sociale. Sono tempi dolorosi e difficili. Ma anche di speranza e di fiducia in un futuro migliore. Il presidente della Confindustria Angelo Costa e il segretario generale della Cgil Giuseppe Di Vittorio, due uomini quanto mai diversi per posizione politica, radici culturali e progetti di società, scrivono un patto che, in vista della ricostruzione, dice “prima le fabbriche e poi le case”, privilegiando dunque il lavoro. E appunto sul “lavoro” la Costituzione pone le fondamenta dell’Italia nuova.

Il lavoro, dunque. E l’impresa che lo crea. La dignità della persona, nel lavoro. E lo sviluppo. I valori economici e il patto sociale per la crescita. Parole simili a quelle di Alberto Pirelli, nel loro significato di fondo, si ritrovano anche nei discorsi che motivano le scelte di Enrico Mattei all’Eni, di Oscar Sinigaglia all’Iri, di Adriano Olivetti (nell’impresa di famiglia che diventa rapidamente paradigma di relazioni positive tra industria e comunità) e di una lunga serie di altri imprenditori che nelle grandi città industriali e nell’operosa provincia manifatturiera pongono le fondamenta del boom economico italiano. La tendenza di fondo, antica e contemporanea, sta nella nota sintesi di un grande storico, Carlo Maria Cipolla: “Gli italiani sono abituati, fin dal Medio Evo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. Lavoro, creatività, bellezza (ecco il design, un nostro primato culturale), manifattura di qualità, radici e futuro nei territori produttivi. Produttività e inclusione sociale, nelle fabbriche in cui, all’incrocio tra diritti e doveri, si impara anche a essere cittadini.

C’è un lungo filo culturale e sociale e, perché no?, etico (una vera e propria “morale del tornio”), quello centrato appunto sul lavoro, che lega la storia dell’impresa italiana alla scelta attuale di Confindustria di celebrare lunedì scorso la propria Assemblea nella solenne Sala Nervi in Vaticano, con una udienza di Papa Francesco a cinquemila persone (imprenditori, esponenti del sistema confindustriale e i loro familiari). Sul lavoro, la dignità e il futuro mette l’accento il presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Sul lavoro, con particolare attenzione per le donne e i giovani, interviene Papa Francesco, entrando anche con severità nel merito delle responsabilità dell’impresa: condividere la ricchezza “creando lavoro”, tutelare i diritti delle donne madri lavoratrici, evitare eccessive disparità retributive. Con un’insistenza chiara proprio su questo tema: “Esistono gerarchie e funzioni differenti, ma i salari non possono essere troppo diversi. Se la forbice tra gli stipendi più alti e quelli più bassi diventa troppo larga, si ammala la comunità aziendale e presto si ammala la società”. E, allargando il senso del discorso: “Oggi la quota di valore che va al lavoro è troppo piccola” soprattutto a confronto “con quella che va alle rendite finanziarie e alle rendite del top manager”.

Tornare al cuore dei valori dell’impresa, dunque. Papa Francesco lo esemplifica con efficacia simbolica: “Noi, nella Chiesa, siamo pastori. Se perdiamo l’odore delle pecore, non saremo più pastori. E così gli imprenditori, se perdono contatto con l’odore del lavoro..”. L’odore del fare, della manifattura, della fabbrica, della condivisione di impegno, fatica, fiducia, speranza.

C’è ancora un punto, su cui il Papa sollecita le imprese a fare la loro parte, sulla strada necessaria della “condivisione”: le tasse. “Il patto fiscale è il cuore del patto sociale”, dice. E dunque pagare le tasse, “che devono essere “giuste” ed “eque”, come prescrive la Costituzione, non è “un’usurpazione” ma “un’altra forma di condivisione dei beni”.

La sensibilità del Papa incontra qui una questione su cui la comunità economica discute da tempo: i guasti provocati dalla rapacità della speculazione finanziaria ai danni dell’economia produttiva e degli equilibri sociali messi in crisi dal crescere della disuguaglianze. Si rafforza, anche tra gli attori economici, la consapevolezza di dover privilegiare un’economia fondata sugli stakeholders values (quelli delle comunità, dei dipendenti, dei consumatori, dei fornitori) e non più sul primato assoluto dello shareholder value (i profitti e i corsi di Borsa per gli azionisti) e dunque di dovere costruire modelli e meccanismi economici centrati sulla sostenibilità ambientale e sociale. Il richiamo di Papa Francesco può accelerare e consolidare questo processo di ricerca e di intervento.

La forza del dialogo sta proprio in tali sinergie. Chiesa e imprese sono mondi diversi, ma in relazione. Nelle Sacre Scritture –  ricorda il Papa agli imprenditori – ci sono i trenta denari di Giuda, ma anche i due denari del Buon Samaritano. I talenti ben impiegati. La vigna coltivata con saggezza e sapienza. I mercati scacciati da Gesù dal tempio. E i ricchi misericordiosi. Si tratta di scegliere la capacità di fare, fare bene e fare del bene (un’attitudine peraltro diffusa proprio tra le imprese italiane). E pensare che l’impresa non si limita al confine dell’attività e degli interessi dell’imprenditore ma è “una comunità” di persone che collaborano per “il bene comune”.

Bonomi, facendo leva sulla migliore cultura d’impresa diffusa nel mondo produttivo, parla di “umanesimo industriale” ed evoca i temi della sostenibilità. E d’altronde il Manifesto di Assisi, presentato nel gennaio 2020, promosso da Symbola e dal Francescani della Basilica e firmato da personalità del mondo sociale, culturale ed economico (comprese Confindustria ed Assolombarda) riflette molte delle elaborazioni che vedono in relazione dialettica, profonda e proficua, mondo cattolico e imprenditoria. “L’economia giusta” sollecitata dalle Encicliche del Papa e il pensiero degli economisti che rileggono e rielaborano la lezione di John Maynard Keynes, per un rilancio di un liberalismo responsabile con forte sensibilità sociale camminano su sentieri convergenti. La qualità dello sviluppo sostenibile è un orizzonte comune. Pensando soprattutto alle ragazze e ai ragazzi della Next Generation di cui, nelle indicazioni di strategia politica, si occupa l’Europa.

Ancora un passo avanti può essere fatto approfondendo i temi delle radici comuni tra pensiero religioso e attività economiche. Come suggeriscono anche alcuni recenti buoni libri. Per esempio, “Tra cielo e terra. Economia e finanza nella Bibbia” di Carlo Bellavite Pellegrini, pubblicato da Egea. E soprattutto “Capitalismo meridiano. Alle radici dello spirito mercantile tra religione e profitto” di Luigino Bruni, Il Mulino: dopo la stagione medioevale del “grande codice dell’economia di mercato”, la strada s’è biforcata, con la Riforma protestante che ha animato “il capitalismo nordico” influenzato dalle lezioni di Lutero e Calvino (quell’etica protestante spirito del capitalismo analizzata da Max Weber), mentre la cultura dei mercatores toscani e dei francescani ha fatto da fondamento di un originale “capitalismo meridiano”, appunto. Un patrimonio di idee e di pratiche oggi quanto mai utile per ripensare ruoli e futuro dell’impresa, come soggetto di valori, benessere, inclusione sociale. Attraverso il lavoro, appunto. Con un’avvertenza, su cui Bruni insiste: “L’economia europea è nata da uno spirito più grande dello spirito delle merci. E se perde questo spirito eccedente rischia seriamente di spegnersi”.

“Siamo nati e cresciuti in mezzo agli operai, alle macchine e agli sviluppi dell’impresa e abbiamo imparato ben presto ad amare il lavoro, i lavoratori e questa nostra Azienda a cui è legato il meglio della nostra vita”. Sono parole di Alberto Pirelli, scritte nell’aprile del 1946, proprio mentre l’Italia, appena uscita dai disastri della guerra e della dittatura fascista, prova a scrivere, con la Costituzione, le nuove regole della democrazia e del patto civile e a costruire nuove e più solide fondamenta di sviluppo economico e sociale. Sono tempi dolorosi e difficili. Ma anche di speranza e di fiducia in un futuro migliore. Il presidente della Confindustria Angelo Costa e il segretario generale della Cgil Giuseppe Di Vittorio, due uomini quanto mai diversi per posizione politica, radici culturali e progetti di società, scrivono un patto che, in vista della ricostruzione, dice “prima le fabbriche e poi le case”, privilegiando dunque il lavoro. E appunto sul “lavoro” la Costituzione pone le fondamenta dell’Italia nuova.

Il lavoro, dunque. E l’impresa che lo crea. La dignità della persona, nel lavoro. E lo sviluppo. I valori economici e il patto sociale per la crescita. Parole simili a quelle di Alberto Pirelli, nel loro significato di fondo, si ritrovano anche nei discorsi che motivano le scelte di Enrico Mattei all’Eni, di Oscar Sinigaglia all’Iri, di Adriano Olivetti (nell’impresa di famiglia che diventa rapidamente paradigma di relazioni positive tra industria e comunità) e di una lunga serie di altri imprenditori che nelle grandi città industriali e nell’operosa provincia manifatturiera pongono le fondamenta del boom economico italiano. La tendenza di fondo, antica e contemporanea, sta nella nota sintesi di un grande storico, Carlo Maria Cipolla: “Gli italiani sono abituati, fin dal Medio Evo, a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. Lavoro, creatività, bellezza (ecco il design, un nostro primato culturale), manifattura di qualità, radici e futuro nei territori produttivi. Produttività e inclusione sociale, nelle fabbriche in cui, all’incrocio tra diritti e doveri, si impara anche a essere cittadini.

C’è un lungo filo culturale e sociale e, perché no?, etico (una vera e propria “morale del tornio”), quello centrato appunto sul lavoro, che lega la storia dell’impresa italiana alla scelta attuale di Confindustria di celebrare lunedì scorso la propria Assemblea nella solenne Sala Nervi in Vaticano, con una udienza di Papa Francesco a cinquemila persone (imprenditori, esponenti del sistema confindustriale e i loro familiari). Sul lavoro, la dignità e il futuro mette l’accento il presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Sul lavoro, con particolare attenzione per le donne e i giovani, interviene Papa Francesco, entrando anche con severità nel merito delle responsabilità dell’impresa: condividere la ricchezza “creando lavoro”, tutelare i diritti delle donne madri lavoratrici, evitare eccessive disparità retributive. Con un’insistenza chiara proprio su questo tema: “Esistono gerarchie e funzioni differenti, ma i salari non possono essere troppo diversi. Se la forbice tra gli stipendi più alti e quelli più bassi diventa troppo larga, si ammala la comunità aziendale e presto si ammala la società”. E, allargando il senso del discorso: “Oggi la quota di valore che va al lavoro è troppo piccola” soprattutto a confronto “con quella che va alle rendite finanziarie e alle rendite del top manager”.

Tornare al cuore dei valori dell’impresa, dunque. Papa Francesco lo esemplifica con efficacia simbolica: “Noi, nella Chiesa, siamo pastori. Se perdiamo l’odore delle pecore, non saremo più pastori. E così gli imprenditori, se perdono contatto con l’odore del lavoro..”. L’odore del fare, della manifattura, della fabbrica, della condivisione di impegno, fatica, fiducia, speranza.

C’è ancora un punto, su cui il Papa sollecita le imprese a fare la loro parte, sulla strada necessaria della “condivisione”: le tasse. “Il patto fiscale è il cuore del patto sociale”, dice. E dunque pagare le tasse, “che devono essere “giuste” ed “eque”, come prescrive la Costituzione, non è “un’usurpazione” ma “un’altra forma di condivisione dei beni”.

La sensibilità del Papa incontra qui una questione su cui la comunità economica discute da tempo: i guasti provocati dalla rapacità della speculazione finanziaria ai danni dell’economia produttiva e degli equilibri sociali messi in crisi dal crescere della disuguaglianze. Si rafforza, anche tra gli attori economici, la consapevolezza di dover privilegiare un’economia fondata sugli stakeholders values (quelli delle comunità, dei dipendenti, dei consumatori, dei fornitori) e non più sul primato assoluto dello shareholder value (i profitti e i corsi di Borsa per gli azionisti) e dunque di dovere costruire modelli e meccanismi economici centrati sulla sostenibilità ambientale e sociale. Il richiamo di Papa Francesco può accelerare e consolidare questo processo di ricerca e di intervento.

La forza del dialogo sta proprio in tali sinergie. Chiesa e imprese sono mondi diversi, ma in relazione. Nelle Sacre Scritture –  ricorda il Papa agli imprenditori – ci sono i trenta denari di Giuda, ma anche i due denari del Buon Samaritano. I talenti ben impiegati. La vigna coltivata con saggezza e sapienza. I mercati scacciati da Gesù dal tempio. E i ricchi misericordiosi. Si tratta di scegliere la capacità di fare, fare bene e fare del bene (un’attitudine peraltro diffusa proprio tra le imprese italiane). E pensare che l’impresa non si limita al confine dell’attività e degli interessi dell’imprenditore ma è “una comunità” di persone che collaborano per “il bene comune”.

Bonomi, facendo leva sulla migliore cultura d’impresa diffusa nel mondo produttivo, parla di “umanesimo industriale” ed evoca i temi della sostenibilità. E d’altronde il Manifesto di Assisi, presentato nel gennaio 2020, promosso da Symbola e dal Francescani della Basilica e firmato da personalità del mondo sociale, culturale ed economico (comprese Confindustria ed Assolombarda) riflette molte delle elaborazioni che vedono in relazione dialettica, profonda e proficua, mondo cattolico e imprenditoria. “L’economia giusta” sollecitata dalle Encicliche del Papa e il pensiero degli economisti che rileggono e rielaborano la lezione di John Maynard Keynes, per un rilancio di un liberalismo responsabile con forte sensibilità sociale camminano su sentieri convergenti. La qualità dello sviluppo sostenibile è un orizzonte comune. Pensando soprattutto alle ragazze e ai ragazzi della Next Generation di cui, nelle indicazioni di strategia politica, si occupa l’Europa.

Ancora un passo avanti può essere fatto approfondendo i temi delle radici comuni tra pensiero religioso e attività economiche. Come suggeriscono anche alcuni recenti buoni libri. Per esempio, “Tra cielo e terra. Economia e finanza nella Bibbia” di Carlo Bellavite Pellegrini, pubblicato da Egea. E soprattutto “Capitalismo meridiano. Alle radici dello spirito mercantile tra religione e profitto” di Luigino Bruni, Il Mulino: dopo la stagione medioevale del “grande codice dell’economia di mercato”, la strada s’è biforcata, con la Riforma protestante che ha animato “il capitalismo nordico” influenzato dalle lezioni di Lutero e Calvino (quell’etica protestante spirito del capitalismo analizzata da Max Weber), mentre la cultura dei mercatores toscani e dei francescani ha fatto da fondamento di un originale “capitalismo meridiano”, appunto. Un patrimonio di idee e di pratiche oggi quanto mai utile per ripensare ruoli e futuro dell’impresa, come soggetto di valori, benessere, inclusione sociale. Attraverso il lavoro, appunto. Con un’avvertenza, su cui Bruni insiste: “L’economia europea è nata da uno spirito più grande dello spirito delle merci. E se perde questo spirito eccedente rischia seriamente di spegnersi”.

La Bicocca degli Arcimboldi: acquisite nuovi fonti per ricostruirne la storia

La Fondazione Pirelli ha di recente acquisito 25 fotografie che rappresentano una rara e interessante testimonianza del passato della Bicocca degli Arcimboldi, la villa costruita nella seconda metà del XV secolo che ha dato il nome al quartiere ed è oggi parte dell’Headquarters Pirelli. Il gruppo più consistente di fotografie attesta i lavori di restauro eseguiti sulla villa nel 1910 sotto la guida dell’architetto Ambrogio Annoni. A quel tempo la Bicocca è in stato di abbandono: “… le tracce dell’architettura quattrocentesca erano sepolte sotto i tramezzi e gli usci e le finestre e i ballatoi del fabbricato colonico ch’essa ormai costituiva”, ricorda lo stesso Annoni in una pubblicazione del 1922 dedicata all’edificio. Dopo l’estinzione della famiglia proprietaria, gli Arcimboldi, la villa era passata di mano in mano, fino ad arrivare, a inizio Novecento, alla Società Anonima Quartiere Industriale Nord Milano. La società, costituita nel 1907 dalle aziende Pirelli ed Ernesto Breda, insieme con alcuni istituti finanziari con lo scopo di gestire la trasformazione dell’area a nord di Milano da agricola a industriale, come primo atto acquisisce i terreni. È quindi la SAQINM ad avviare i lavori di restauro, in collaborazione con la Soprintendenza ai monumenti, come ricorda sempre Annoni: “… ad essa si deve il merito di non aver trascurato lo storico edificio, di averne anzi compreso il valore artistico con una larghezza di idee, che alla prima non si sarebbe nemmeno sperato […] E lungo il viale diretto fra Milano e Monza ideava di far risorgere, con la Mirabello all’inizio e la Torretta alla fine del Quartiere, la Bicocca”. La villa era in rovina, come mostra una delle fotografie che ritrae una donna in posa davanti al portico, ingombro di macerie. Alcune immagini mostrano gli operai sui ponteggi o mentre sistemano una delle colonne del portico. Altre, datate novembre 1910, documentano alcuni particolari a restauro completato: l’interno della loggia, una finestra, l’orologio. Altri 4 scatti del 1911, immortalano ancora l’esterno della villa (e in particolare il lato est, dove si trovava una piccola cappella, poi demolita) e l’interno dell’attuale “Sala del Dovere”. Completano il gruppo di fotografie due scatti di Dino Zani del 1923-24, che mostrano gli affreschi dell’attuale “sala delle dame”, di cui si distinguono solo alcuni frammenti. Queste stampe fanno parte di un servizio di Zani sugli affreschi della “Sala delle Dame”, conservato presso il Civico Archivio Fotografico di Milano, e molto probabilmente provengono, come le altre fotografie di recente acquisizione, dall’archivio personale di Ambrogio Annoni. Una delle due fotografie reca infatti il timbro dell’architetto, e l’altra un appunto sul verso siglata “A.”, relativo probabilmente alla riproduzione dell’immagine all’interno di una pubblicazione. Le fotografie vanno ad arricchire il patrimonio fotografico della Fondazione Pirelli e costituiscono un’importante testimonianza delle vicende della Bicocca degli Arcimboldi, che il pubblico può oggi scoprire ed esplorare da remoto attraverso il virtual tour accessibile dal nostro sito.

La Fondazione Pirelli ha di recente acquisito 25 fotografie che rappresentano una rara e interessante testimonianza del passato della Bicocca degli Arcimboldi, la villa costruita nella seconda metà del XV secolo che ha dato il nome al quartiere ed è oggi parte dell’Headquarters Pirelli. Il gruppo più consistente di fotografie attesta i lavori di restauro eseguiti sulla villa nel 1910 sotto la guida dell’architetto Ambrogio Annoni. A quel tempo la Bicocca è in stato di abbandono: “… le tracce dell’architettura quattrocentesca erano sepolte sotto i tramezzi e gli usci e le finestre e i ballatoi del fabbricato colonico ch’essa ormai costituiva”, ricorda lo stesso Annoni in una pubblicazione del 1922 dedicata all’edificio. Dopo l’estinzione della famiglia proprietaria, gli Arcimboldi, la villa era passata di mano in mano, fino ad arrivare, a inizio Novecento, alla Società Anonima Quartiere Industriale Nord Milano. La società, costituita nel 1907 dalle aziende Pirelli ed Ernesto Breda, insieme con alcuni istituti finanziari con lo scopo di gestire la trasformazione dell’area a nord di Milano da agricola a industriale, come primo atto acquisisce i terreni. È quindi la SAQINM ad avviare i lavori di restauro, in collaborazione con la Soprintendenza ai monumenti, come ricorda sempre Annoni: “… ad essa si deve il merito di non aver trascurato lo storico edificio, di averne anzi compreso il valore artistico con una larghezza di idee, che alla prima non si sarebbe nemmeno sperato […] E lungo il viale diretto fra Milano e Monza ideava di far risorgere, con la Mirabello all’inizio e la Torretta alla fine del Quartiere, la Bicocca”. La villa era in rovina, come mostra una delle fotografie che ritrae una donna in posa davanti al portico, ingombro di macerie. Alcune immagini mostrano gli operai sui ponteggi o mentre sistemano una delle colonne del portico. Altre, datate novembre 1910, documentano alcuni particolari a restauro completato: l’interno della loggia, una finestra, l’orologio. Altri 4 scatti del 1911, immortalano ancora l’esterno della villa (e in particolare il lato est, dove si trovava una piccola cappella, poi demolita) e l’interno dell’attuale “Sala del Dovere”. Completano il gruppo di fotografie due scatti di Dino Zani del 1923-24, che mostrano gli affreschi dell’attuale “sala delle dame”, di cui si distinguono solo alcuni frammenti. Queste stampe fanno parte di un servizio di Zani sugli affreschi della “Sala delle Dame”, conservato presso il Civico Archivio Fotografico di Milano, e molto probabilmente provengono, come le altre fotografie di recente acquisizione, dall’archivio personale di Ambrogio Annoni. Una delle due fotografie reca infatti il timbro dell’architetto, e l’altra un appunto sul verso siglata “A.”, relativo probabilmente alla riproduzione dell’immagine all’interno di una pubblicazione. Le fotografie vanno ad arricchire il patrimonio fotografico della Fondazione Pirelli e costituiscono un’importante testimonianza delle vicende della Bicocca degli Arcimboldi, che il pubblico può oggi scoprire ed esplorare da remoto attraverso il virtual tour accessibile dal nostro sito.

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Rileggere Qohélet sul tempo responsabile e pensare riforme, non promesse elettorali

In stagioni difficili e controverse è quanto mai utile rileggere i classici. Il Qohélet, per esempio. A proposito del tempo. Per ricordare che “ha il suo tempo ogni cosa sotto il cielo/… il tempo di piantare e il tempo di estirpare/… il tempo delle pietre scagliate e il tempo delle pietre raccolte/… il tempo di strappare e il tempo di cucire/… il tempo della guerra e il tempo della pace”.

Oggi, nell’età dell’incertezza e della “società del rischio”, tra crisi ambientali e sociali e sconvolgimenti geopolitici, pandemie che ancora durano e recessioni che, minacciose, si annunciano, è il tempo di “raccogliere le pietre scagliate” e dunque del pensiero critico e delle consapevolezze storiche e, contemporaneamente, della costruzione di una buona politica che ci consenta di definire i criteri e le azioni per “ripensare la globalizzazione” e costruire nuove e migliori prospettive di sviluppo sostenibile.

“Il tempo di cucire” suggerito da Qohélet, insomma. Insistendo sulle caratteristiche di un’Europa fondata sulla democrazia liberale e l’economia di mercato, le culture dell’inclusione e del welfare, le virtù repubblicane delle sintesi tra diritti e doveri e l’attitudine al confronto e al dialogo.

Un’Europa che ha saputo affrontare la pandemia da Covid19 meglio che in Russia, in Cina e negli stessi Usa (e, qui in Italia, con particolari livelli di efficacia, nonostante ombre, disfunzioni, fratture, errori). Merito di sistemi sanitari che, pur tra tante diversità, hanno fatto leva sull’incrocio tra la forza inclusiva delle strutture pubbliche e l’efficienza delle strutture private e sulla collaborazione di qualità degli istituti di ricerca e delle imprese delle life sciences. Anche il gioco dell’opinione pubblica ha avuto, tutto sommato, un ruolo positivo, pur se inquinato da fake news, opportunismi politici populisti, distorsioni no vax e gran vociare schematico e spesso volgarmente aggressivo sui social media.

Alla fine, competenze scientifiche e intelligenza politica (determinante la nascita del governo Draghi) hanno avuto la meglio, consentendo la vaccinazione di massa e la definizione di efficaci protocolli sanitari di intervento. L’Europa come paradigma positivo. Come buon esempio internazionale. Non solo per l’emergenza sanitaria, ma anche per la capacità di affrontarne le conseguenze economiche e sociali, tra risposte d’emergenza e scelte di lungo periodo, con il Recovery Fund Next Generation.

Torniamo, così, alla riflessione sul tempo. E all’importanza di avere “il tempo di piantare”, il tempo lungo della costruzione di un nuovo e migliore panorama politico e sociale. Un tempo sapiente, riflessivo, capace di sguardi lunghi. Tutt’altro che un tempo effimero, labile, incapace dunque di memoria e di progetto.

Sul “Corriere della Sera” (domenica 4 settembre) Sabino Cassese ci mette giustamente in guardia, ancora una volta, sui guasti di una retorica politica condizionata dall’immediatezza dei sondaggi d’opinione e dalla rincorsa dei consensi, dei like su social media tutt’altro che inclini alla riflessione e all’approfondimento. Una cattiva politica dell’istante, delle promesse della propaganda populista incuranti delle conseguenze, del gioco corrivo di chi sollecita emozioni facili piuttosto che ragionamenti responsabili. Un circolo vizioso che rischia di deprimere l’Italia e le sue possibilità di reagire alla crisi e tornare a crescere. Le proposte di aumento del debito pubblico per fare fronte alla crisi energetica e alla recessione in arrivo ne sono inaccettabile esempio.

Vale la pena, proprio nel cuore di una campagna elettorale chiassosa, ricordare l’antica saggezza di Alcide De Gasperi (“Un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni”) e insistere sul fatto che le grandi questioni che proprio oggi abbiamo di fronte, dall’ambiente all’autonomia energetica, dalla sicurezza alla tutela nei nostri valori democratici vanno affrontati, contemporaneamente, con lo sguardo ravvicinato della risposta alle emergenze e con lo sguardo lungo delle strategie. Un’attitudine in cui l’Europa, forte della sua cultura e delle sue esperienze democratiche, deve saper dare il meglio di sé.

È una richiesta che viene, chiara e forte, anche dal mondo delle imprese, preoccupate per i costi dell’energia, l’inflazione, la recessione e i pericoli di fratture sociali. Guardando proprio alle UE come riferimento essenziale.

L’Europa, infatti, per le migliori imprese italiane, è il mercato di partenza per l’espansione internazionale, lungo le più profittevoli catene del valore tra manifattura di qualità e servizi high tech. L’euro è la valuta di riferimento. Le istituzioni UE, dagli organismi di Bruxelles alla Bce, i cardini su cui orientare le politiche di investimento e di crescita. E i valori europei, dalla democrazia liberale cui abbiamo già fatto riferimento alla cultura del mercato aperto, competitivo e ben regolato, sono la cornice di ideali e interessi in cui iscrivere le proprie scelte di espansione. Ecco la sintesi: le imprese vivono l’Europa come identità e opportunità e come vincolo per ricostruire, dopo gli anni di pandemia e di crisi, una nuova stagione di fiducia e di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale, un percorso di competitività che si afferma, partendo appunto dall’Europa, solo se strettamente connessa con la solidarietà e l’inclusione sociale.

Nel “nuovo paradigma” del passaggio dal capitalismo dominato dallo shareholders value (profitti e corsi di Borsa) a quello caratterizzato dagli stakeholders values (l’attenzione per dipendenti, consumatori, fornitori, comunità su cui le imprese insistono) le imprese italiane hanno posizioni di eccellenza, costruite con lungimiranza e responsabilità nel corso del tempo, legando innovazione tecnologica e innovazione sociale, produttività e cura per la comunità. E adesso non hanno alcuna voglia che una crisi politica in tempi di recessione e un crollo dei valori determinato dalle miopie di sovranismi e populismi metta in discussione il loro ruolo e la qualità della loro presenza sui mercati globali.

Sono questi, appunto, i giudizi che raccoglie chi conosce bene punti di forza e fragilità del mondo industriale italiano, sia nella grande regione produttiva “A1-A4” (per indicare, con le sigle delle autostrade trafficatissime da persone e merci, quell’area centrale della manifattura tra Lombardia, Piemonte, Emilia e Nord Est) sia negli altri territori in cui l’impresa ha rivelato, anche in tempi di crisi, una straordinaria vivacità (dalla Marche ai tanti territori produttivi che cominciano a connotare pure il Sud di Campania, Puglia e Sicilia). Un mondo sorpreso negativamente dalla sconsiderata crisi in cui è stato fatto precipitare, nel luglio scorso, il governo guidato da Mario Draghi, la personalità di maggior prestigio internazionale che il nostro Paese possa vantare, insieme al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Un mondo, adesso, quanto mai attento alle prospettive di tutela di valori e interessi di sviluppo e preoccupato di eventuali fratture politiche tra l’Italia, Bruxelles, l’Occidente.

Il punto di riferimento, come indicazione per il futuro governo, evitando appunto populismi e sovranismi, continua a essere il documento in 18 punti discusso dal Consiglio Generale di Confindustria nel luglio scorso. Mercati aperti. Dialogo. Centralità del Mediterraneo. Attenzione a produttività e competitività. Equilibrio dei conti pubblici. Investimenti sulle infrastrutture, materiali e immateriali (scuola, cultura, formazione di lungo periodo, etc.). Il “tempo delle pietre raccolte”, per tornare al Qohélet. Il tempo dello sviluppo sostenibile, guardando alle opportunità per le nuove generazioni. In altre parole. Il tempo della responsabilità.

(foto Getty images)

In stagioni difficili e controverse è quanto mai utile rileggere i classici. Il Qohélet, per esempio. A proposito del tempo. Per ricordare che “ha il suo tempo ogni cosa sotto il cielo/… il tempo di piantare e il tempo di estirpare/… il tempo delle pietre scagliate e il tempo delle pietre raccolte/… il tempo di strappare e il tempo di cucire/… il tempo della guerra e il tempo della pace”.

Oggi, nell’età dell’incertezza e della “società del rischio”, tra crisi ambientali e sociali e sconvolgimenti geopolitici, pandemie che ancora durano e recessioni che, minacciose, si annunciano, è il tempo di “raccogliere le pietre scagliate” e dunque del pensiero critico e delle consapevolezze storiche e, contemporaneamente, della costruzione di una buona politica che ci consenta di definire i criteri e le azioni per “ripensare la globalizzazione” e costruire nuove e migliori prospettive di sviluppo sostenibile.

“Il tempo di cucire” suggerito da Qohélet, insomma. Insistendo sulle caratteristiche di un’Europa fondata sulla democrazia liberale e l’economia di mercato, le culture dell’inclusione e del welfare, le virtù repubblicane delle sintesi tra diritti e doveri e l’attitudine al confronto e al dialogo.

Un’Europa che ha saputo affrontare la pandemia da Covid19 meglio che in Russia, in Cina e negli stessi Usa (e, qui in Italia, con particolari livelli di efficacia, nonostante ombre, disfunzioni, fratture, errori). Merito di sistemi sanitari che, pur tra tante diversità, hanno fatto leva sull’incrocio tra la forza inclusiva delle strutture pubbliche e l’efficienza delle strutture private e sulla collaborazione di qualità degli istituti di ricerca e delle imprese delle life sciences. Anche il gioco dell’opinione pubblica ha avuto, tutto sommato, un ruolo positivo, pur se inquinato da fake news, opportunismi politici populisti, distorsioni no vax e gran vociare schematico e spesso volgarmente aggressivo sui social media.

Alla fine, competenze scientifiche e intelligenza politica (determinante la nascita del governo Draghi) hanno avuto la meglio, consentendo la vaccinazione di massa e la definizione di efficaci protocolli sanitari di intervento. L’Europa come paradigma positivo. Come buon esempio internazionale. Non solo per l’emergenza sanitaria, ma anche per la capacità di affrontarne le conseguenze economiche e sociali, tra risposte d’emergenza e scelte di lungo periodo, con il Recovery Fund Next Generation.

Torniamo, così, alla riflessione sul tempo. E all’importanza di avere “il tempo di piantare”, il tempo lungo della costruzione di un nuovo e migliore panorama politico e sociale. Un tempo sapiente, riflessivo, capace di sguardi lunghi. Tutt’altro che un tempo effimero, labile, incapace dunque di memoria e di progetto.

Sul “Corriere della Sera” (domenica 4 settembre) Sabino Cassese ci mette giustamente in guardia, ancora una volta, sui guasti di una retorica politica condizionata dall’immediatezza dei sondaggi d’opinione e dalla rincorsa dei consensi, dei like su social media tutt’altro che inclini alla riflessione e all’approfondimento. Una cattiva politica dell’istante, delle promesse della propaganda populista incuranti delle conseguenze, del gioco corrivo di chi sollecita emozioni facili piuttosto che ragionamenti responsabili. Un circolo vizioso che rischia di deprimere l’Italia e le sue possibilità di reagire alla crisi e tornare a crescere. Le proposte di aumento del debito pubblico per fare fronte alla crisi energetica e alla recessione in arrivo ne sono inaccettabile esempio.

Vale la pena, proprio nel cuore di una campagna elettorale chiassosa, ricordare l’antica saggezza di Alcide De Gasperi (“Un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alle prossime generazioni”) e insistere sul fatto che le grandi questioni che proprio oggi abbiamo di fronte, dall’ambiente all’autonomia energetica, dalla sicurezza alla tutela nei nostri valori democratici vanno affrontati, contemporaneamente, con lo sguardo ravvicinato della risposta alle emergenze e con lo sguardo lungo delle strategie. Un’attitudine in cui l’Europa, forte della sua cultura e delle sue esperienze democratiche, deve saper dare il meglio di sé.

È una richiesta che viene, chiara e forte, anche dal mondo delle imprese, preoccupate per i costi dell’energia, l’inflazione, la recessione e i pericoli di fratture sociali. Guardando proprio alle UE come riferimento essenziale.

L’Europa, infatti, per le migliori imprese italiane, è il mercato di partenza per l’espansione internazionale, lungo le più profittevoli catene del valore tra manifattura di qualità e servizi high tech. L’euro è la valuta di riferimento. Le istituzioni UE, dagli organismi di Bruxelles alla Bce, i cardini su cui orientare le politiche di investimento e di crescita. E i valori europei, dalla democrazia liberale cui abbiamo già fatto riferimento alla cultura del mercato aperto, competitivo e ben regolato, sono la cornice di ideali e interessi in cui iscrivere le proprie scelte di espansione. Ecco la sintesi: le imprese vivono l’Europa come identità e opportunità e come vincolo per ricostruire, dopo gli anni di pandemia e di crisi, una nuova stagione di fiducia e di sviluppo sostenibile, ambientale e sociale, un percorso di competitività che si afferma, partendo appunto dall’Europa, solo se strettamente connessa con la solidarietà e l’inclusione sociale.

Nel “nuovo paradigma” del passaggio dal capitalismo dominato dallo shareholders value (profitti e corsi di Borsa) a quello caratterizzato dagli stakeholders values (l’attenzione per dipendenti, consumatori, fornitori, comunità su cui le imprese insistono) le imprese italiane hanno posizioni di eccellenza, costruite con lungimiranza e responsabilità nel corso del tempo, legando innovazione tecnologica e innovazione sociale, produttività e cura per la comunità. E adesso non hanno alcuna voglia che una crisi politica in tempi di recessione e un crollo dei valori determinato dalle miopie di sovranismi e populismi metta in discussione il loro ruolo e la qualità della loro presenza sui mercati globali.

Sono questi, appunto, i giudizi che raccoglie chi conosce bene punti di forza e fragilità del mondo industriale italiano, sia nella grande regione produttiva “A1-A4” (per indicare, con le sigle delle autostrade trafficatissime da persone e merci, quell’area centrale della manifattura tra Lombardia, Piemonte, Emilia e Nord Est) sia negli altri territori in cui l’impresa ha rivelato, anche in tempi di crisi, una straordinaria vivacità (dalla Marche ai tanti territori produttivi che cominciano a connotare pure il Sud di Campania, Puglia e Sicilia). Un mondo sorpreso negativamente dalla sconsiderata crisi in cui è stato fatto precipitare, nel luglio scorso, il governo guidato da Mario Draghi, la personalità di maggior prestigio internazionale che il nostro Paese possa vantare, insieme al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Un mondo, adesso, quanto mai attento alle prospettive di tutela di valori e interessi di sviluppo e preoccupato di eventuali fratture politiche tra l’Italia, Bruxelles, l’Occidente.

Il punto di riferimento, come indicazione per il futuro governo, evitando appunto populismi e sovranismi, continua a essere il documento in 18 punti discusso dal Consiglio Generale di Confindustria nel luglio scorso. Mercati aperti. Dialogo. Centralità del Mediterraneo. Attenzione a produttività e competitività. Equilibrio dei conti pubblici. Investimenti sulle infrastrutture, materiali e immateriali (scuola, cultura, formazione di lungo periodo, etc.). Il “tempo delle pietre raccolte”, per tornare al Qohélet. Il tempo dello sviluppo sostenibile, guardando alle opportunità per le nuove generazioni. In altre parole. Il tempo della responsabilità.

(foto Getty images)

Cultura d’impresa circolare

Il passaggio dall’economia lineare a quella circolare: le condizioni, i vincoli, le opportunità e i tempi

 Dalla fabbrica tradizionale a quella avanzata, attenta all’ambiente, ai riflessi del suo agire sul territorio e sulla società. In altri termini, dall’economia tradizionale all’economia circolare. Con tutto quello che ne consegue. Anche, e prima di tutto forse, in termini di cultura del produrre che deve essere diversa da prima.

È attorno a questi argomenti che si esercitano Piero Bonavero e Paolo Falconier con “Economia circolare, istituzioni e imprese nella transizione post-pandemica: due esempi nel settore aerospaziale in Italia”, il loro intervento apparso recentemente in Documenti geografici, la rivista open access dell’Università Tor Vergata di Roma.

La ricerca si propone di – viene spiegato dagli stessi autori -, di individuare ed illustrare alcuni dei fattori che hanno determinato negli anni recenti, e determinano tuttora, una accelerazione del processo di transizione dall’economia lineare all’economia circolare nel contesto europeo. Quanto preso in considerazione dai due, fa riferimento sostanzialmente a tre ambiti: il cambiamento di atteggiamento rispetto al tema da parte del mondo imprenditoriale, il maggiore impulso al realizzarsi della transizione fornito dalle istituzioni che lavorano su scale geografiche differenti e l’esplodere dell’emergenza sanitaria della pandemia Covid 19. Una condizione, quest’ultima, che è stata vista – e con ragione -, anche  come una opportunità per una “ripartenza post-pandemica” fondata su nuovi modelli di organizzazione dell’economia e della società. Una revisione del produrre e del fare impresa che, a sua volta, si fonda su almeno quattro principali transizioni: ecologica, tecnologica, economica e sociale.

Il contributo di Bonavero e Falconier, inizia quindi con una messa a punto del concetto di economia circolare per poi passare ad approfondire l’argomento spostando l’attenzione dal “piano teorico” al “piano pragmatico”. Successivamente, la ricerca esamina il ruolo delle istituzioni e in particolare quello del PNRR. Si passa quindi a due casi concreti d’imprese impegnate nel passaggio all’economia circolare. Si tratta di due PMI italiane che lavorano nel settore aerospaziale: la LMA srl e la Superelectric srl.

L’indagine di Bonavero e Falconier si conclude quindi con una sottolineatura: il valore fondamentale delle istituzioni nel colmare il divario temporale esistente tra i costi (di breve e medio periodo) che devono essere sostenuti dalle imprese nel processo di transizione all’economia circolare, e i benefici economici (di lungo periodo) che la realizzazione di tale percorso comporta per le imprese stesse. Un divario che deve essere colmato per consentire anche alla cultura d’impresa di cambiare in modo graduale ed efficace.

Economia circolare, istituzioni e imprese nella transizione post-pandemica: due esempi nel settore aerospaziale in Italia

Piero Bonavero – Paolo Falconier, in Documenti geografici, Università Tor Vergata

https://www.documentigeografici.it/index.php/docugeo/article/viewFile/342/294

Il passaggio dall’economia lineare a quella circolare: le condizioni, i vincoli, le opportunità e i tempi

 Dalla fabbrica tradizionale a quella avanzata, attenta all’ambiente, ai riflessi del suo agire sul territorio e sulla società. In altri termini, dall’economia tradizionale all’economia circolare. Con tutto quello che ne consegue. Anche, e prima di tutto forse, in termini di cultura del produrre che deve essere diversa da prima.

È attorno a questi argomenti che si esercitano Piero Bonavero e Paolo Falconier con “Economia circolare, istituzioni e imprese nella transizione post-pandemica: due esempi nel settore aerospaziale in Italia”, il loro intervento apparso recentemente in Documenti geografici, la rivista open access dell’Università Tor Vergata di Roma.

La ricerca si propone di – viene spiegato dagli stessi autori -, di individuare ed illustrare alcuni dei fattori che hanno determinato negli anni recenti, e determinano tuttora, una accelerazione del processo di transizione dall’economia lineare all’economia circolare nel contesto europeo. Quanto preso in considerazione dai due, fa riferimento sostanzialmente a tre ambiti: il cambiamento di atteggiamento rispetto al tema da parte del mondo imprenditoriale, il maggiore impulso al realizzarsi della transizione fornito dalle istituzioni che lavorano su scale geografiche differenti e l’esplodere dell’emergenza sanitaria della pandemia Covid 19. Una condizione, quest’ultima, che è stata vista – e con ragione -, anche  come una opportunità per una “ripartenza post-pandemica” fondata su nuovi modelli di organizzazione dell’economia e della società. Una revisione del produrre e del fare impresa che, a sua volta, si fonda su almeno quattro principali transizioni: ecologica, tecnologica, economica e sociale.

Il contributo di Bonavero e Falconier, inizia quindi con una messa a punto del concetto di economia circolare per poi passare ad approfondire l’argomento spostando l’attenzione dal “piano teorico” al “piano pragmatico”. Successivamente, la ricerca esamina il ruolo delle istituzioni e in particolare quello del PNRR. Si passa quindi a due casi concreti d’imprese impegnate nel passaggio all’economia circolare. Si tratta di due PMI italiane che lavorano nel settore aerospaziale: la LMA srl e la Superelectric srl.

L’indagine di Bonavero e Falconier si conclude quindi con una sottolineatura: il valore fondamentale delle istituzioni nel colmare il divario temporale esistente tra i costi (di breve e medio periodo) che devono essere sostenuti dalle imprese nel processo di transizione all’economia circolare, e i benefici economici (di lungo periodo) che la realizzazione di tale percorso comporta per le imprese stesse. Un divario che deve essere colmato per consentire anche alla cultura d’impresa di cambiare in modo graduale ed efficace.

Economia circolare, istituzioni e imprese nella transizione post-pandemica: due esempi nel settore aerospaziale in Italia

Piero Bonavero – Paolo Falconier, in Documenti geografici, Università Tor Vergata

https://www.documentigeografici.it/index.php/docugeo/article/viewFile/342/294

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