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Ascoltare le imprese: produttività e innovazione e non spesa pubblica per l’economia assistita 

Andiamo a passi incerti e dolorosi verso “l’inverno del nostro scontento”, per dirla con le parole del “Riccardo III” di Shakespeare e del drammatico romanzo di John Steinbeck. Un autunno e un inverno in cui rischiamo “un uragano” o “uno tsunami”, secondo i giudizi ricorrenti nei discorsi di banchieri, imprenditori e personalità dell’economia internazionale.

La vecchia globalizzazione è entrata in crisi da tempo, la “ri-globalizzazione selettiva” è un processo in corso, carico di incognite e di turbolenze inedite. E stiamo entrando nelle strettoie d’una crisi segnata da recessione e alta inflazione, dall’insostenibile prezzo del gas e dell’energia in generale e dalle crescenti tensioni geopolitiche (a cominciare dalla oramai lunga e  devastante guerra in Ucraina), dai rischi di nuove speculazioni finanziarie (soprattutto sull’Italia, come ha rivelato il Financial Times) e dalle preoccupazioni diffuse sul lavoro, sui redditi delle famiglie e sui conti delle imprese.

Ecco, le imprese italiane. Mettiamoci, adesso, dal loro punto di vista, come motore fondamentale dello sviluppo economico, dell’occupazione e dei salari. E proviamo a ragionare sul loro ruolo di fronte alle minacce di crisi economica e sociale, rese ancora più cariche di tensioni di fronte a una campagna elettorale, per il voto del 25 settembre, in cui molto si parla di diritti, sussidi, sostegni economici, aumento di salari e pensioni e mirabolanti promesse tutte a carico dei conti pubblici (il partito trasversale del “forza debito”) e pochissimo, invece, di produttività, competitività, innovazione, investimenti privati, nuovi lavori. Di come distribuire ricchezza e quasi mai di come produrla. La campagna elettorale delle demagogie e non della responsabilità, dopo le mosse improvvide di chi ha determinato la fine anticipata del governo Draghi, con tutto il carico delle conseguenze negative per l’Italia e gli italiani.

Le campagne elettorali, si sa, sono occasioni in cui si è particolarmente inclini alla propaganda, alle promesse, alla raccolta la più ampia possibile dei consensi e quasi mai al racconto della verità (bisognerebbe essere dei veri statisti con un forte senso dell’etica politica, per farlo: figure purtroppo rarissime, in questi tempi critici). Ma è altrettanto vero che proprio la costruzione del consenso per poter governare bene ha bisogno di grande chiarezza negli annunci e nella definizione dei programmi, nella indicazione degli equilibri politici, economici e sociali del futuro. Anche perché, in ogni campagna elettorale, si parla certamente con gli elettori ma anche con i mercati, con chi investe nel nostro Paese, con chi detiene il nostro debito e con tutti i soggetti istituzionali ed economici alle cui valutazioni è legato il nostro futuro. A cominciare da una puntuale attuazione del Pnrr, con le riforme e le scelte di investimento concordate con la Ue (senza cedere alla pericolosa tentazione di rimettere tutto in discussione).

Sono queste, d’altronde, le condizioni delle società complesse e delle economie interconnesse, delle istituzioni di cui si fa parte (a cominciare dalla Ue e dalla Bce, dal Fondo Monetario internazionale e dalla Nato), dei sistemi di relazione che assicurano collaborazione, cooperazione e sviluppo. Ma anche le conseguenze dell’essere un’economia di mercato, una società aperta, una comunità dialogante con un ruolo di rilievo nel consesso internazionale.

Le imprese italiane, oramai da tempo, vivono di mercato e sui mercati internazionali. Nel corso degli ultimi vent’anni e, con particolare vigore, dopo la Grande Crisi finanziaria del 2008, hanno investito, innovato, trasformato prodotti e sistemi di produzione, puntando su alti standard di qualità e sostenibilità ambientale e sociale (molte le testimonianze, dalle cartiere Burgo ristrutturate per l’autonomia energetica alle “acciaierie verdi” del gruppo Arvedi, per citare solo due tra i tanti esempi possibili). Legate in distretti e filiere, le manifatture hanno superato parte dei limiti legati alle dimensioni e alla strutturale sottocapitalizzazione. E sono state attente a utilizzare bene gli incentivi e le misure fiscali dei governi che si sono succeduti (eccezion fatta per il governo Conte 1 giallo-verde, nettamente anti-impresa) per le trasformazioni digitali secondo i paradigmi di Industria 4.0. Sono diventate, insomma, sempre più dinamiche, resilienti e flessibili, grazie anche a una diffusa “cultura politecnica” che ha saputo coniugare memoria e futuro, sapienza umanistica (bellezza e qualità) e conoscenze scientifiche, radici storiche nei territori produttivi e attitudini alla competitività internazionale. Hanno esportato, conquistato posizioni di eccellenza nelle nicchie globali a maggior valore aggiunto. E affrontato con spirito imprenditoriale innovativo la twin transition ambientale e digitale.

La conferma di una tendenza così rilevante arriva anche dalle parole di Gregorio De Felice, capo economista di Intesa San Paolo: “L’industria italiana meglio della tedesca. Siamo diventati più bravi a produrre beni di medio-alta qualità e abbiamo filiere più resilienti” (la Repubblica, 24 agosto).

Le imprese sono, insomma, attori sociali con un forte ruolo positivo, per creare ricchezza, lavoro, benessere diffuso, futuro sostenibile per le nuove generazioni. E hanno tutto il diritto di venire considerate, da chi governa (Draghi lo sa bene) e soprattutto da chi governerà, interlocutori essenziali per la crescita economica di lungo periodo (lo documentano i 18 punti del documento discusso alla fine di luglio dal Consiglio generale di Confindustria, di cui abbiamo parlato in questo blog).

Inflazione e crisi energetica mettono naturalmente in grandissima difficoltà il mondo produttivo. E sono necessarie misure urgenti per affrontare l’emergenza. Chi conosce il nostro mondo manifatturiero, comunque, sa bene che al suo interno ci sono risorse straordinarie per fare da pilastri della ripresa, proprio com’è già successo dopo la fase più acuta della pandemia, con la crescita economica maggiore d’Europa.

Ha dunque ragione chi (Ferruccio de Bortoli, Corriere della Sera, 29 agosto) sollecita “il giorno delle imprese”, con “una tregua nel dibattito elettorale sulla spesa pubblica, per discutere solo di aziende, competenze, studio, ricerca, innovazione, competitività” e affrontare, con sguardo lungimirante, “la parte più faticosa della costruzione di una società futura”. Sviluppo e non assistenzialismo, investimenti produttivi e non sussidi ai danni di un già altissimo debito pubblico. Mercato e concorrenza secondo qualità e sostenibilità e non statalismo economico. Facendo tesoro proprio dell’applauditissimo discorso di Draghi al Meeting di Rimini: “Il nostro posto è al centro dell’Europa. Sovranismo e protezionismo non fanno l’interesse del Paese”.

Le imprese ne sono attivamente consapevoli. Sarebbe indispensabile lo imparassero anche la maggior parte dei politici.

Andiamo a passi incerti e dolorosi verso “l’inverno del nostro scontento”, per dirla con le parole del “Riccardo III” di Shakespeare e del drammatico romanzo di John Steinbeck. Un autunno e un inverno in cui rischiamo “un uragano” o “uno tsunami”, secondo i giudizi ricorrenti nei discorsi di banchieri, imprenditori e personalità dell’economia internazionale.

La vecchia globalizzazione è entrata in crisi da tempo, la “ri-globalizzazione selettiva” è un processo in corso, carico di incognite e di turbolenze inedite. E stiamo entrando nelle strettoie d’una crisi segnata da recessione e alta inflazione, dall’insostenibile prezzo del gas e dell’energia in generale e dalle crescenti tensioni geopolitiche (a cominciare dalla oramai lunga e  devastante guerra in Ucraina), dai rischi di nuove speculazioni finanziarie (soprattutto sull’Italia, come ha rivelato il Financial Times) e dalle preoccupazioni diffuse sul lavoro, sui redditi delle famiglie e sui conti delle imprese.

Ecco, le imprese italiane. Mettiamoci, adesso, dal loro punto di vista, come motore fondamentale dello sviluppo economico, dell’occupazione e dei salari. E proviamo a ragionare sul loro ruolo di fronte alle minacce di crisi economica e sociale, rese ancora più cariche di tensioni di fronte a una campagna elettorale, per il voto del 25 settembre, in cui molto si parla di diritti, sussidi, sostegni economici, aumento di salari e pensioni e mirabolanti promesse tutte a carico dei conti pubblici (il partito trasversale del “forza debito”) e pochissimo, invece, di produttività, competitività, innovazione, investimenti privati, nuovi lavori. Di come distribuire ricchezza e quasi mai di come produrla. La campagna elettorale delle demagogie e non della responsabilità, dopo le mosse improvvide di chi ha determinato la fine anticipata del governo Draghi, con tutto il carico delle conseguenze negative per l’Italia e gli italiani.

Le campagne elettorali, si sa, sono occasioni in cui si è particolarmente inclini alla propaganda, alle promesse, alla raccolta la più ampia possibile dei consensi e quasi mai al racconto della verità (bisognerebbe essere dei veri statisti con un forte senso dell’etica politica, per farlo: figure purtroppo rarissime, in questi tempi critici). Ma è altrettanto vero che proprio la costruzione del consenso per poter governare bene ha bisogno di grande chiarezza negli annunci e nella definizione dei programmi, nella indicazione degli equilibri politici, economici e sociali del futuro. Anche perché, in ogni campagna elettorale, si parla certamente con gli elettori ma anche con i mercati, con chi investe nel nostro Paese, con chi detiene il nostro debito e con tutti i soggetti istituzionali ed economici alle cui valutazioni è legato il nostro futuro. A cominciare da una puntuale attuazione del Pnrr, con le riforme e le scelte di investimento concordate con la Ue (senza cedere alla pericolosa tentazione di rimettere tutto in discussione).

Sono queste, d’altronde, le condizioni delle società complesse e delle economie interconnesse, delle istituzioni di cui si fa parte (a cominciare dalla Ue e dalla Bce, dal Fondo Monetario internazionale e dalla Nato), dei sistemi di relazione che assicurano collaborazione, cooperazione e sviluppo. Ma anche le conseguenze dell’essere un’economia di mercato, una società aperta, una comunità dialogante con un ruolo di rilievo nel consesso internazionale.

Le imprese italiane, oramai da tempo, vivono di mercato e sui mercati internazionali. Nel corso degli ultimi vent’anni e, con particolare vigore, dopo la Grande Crisi finanziaria del 2008, hanno investito, innovato, trasformato prodotti e sistemi di produzione, puntando su alti standard di qualità e sostenibilità ambientale e sociale (molte le testimonianze, dalle cartiere Burgo ristrutturate per l’autonomia energetica alle “acciaierie verdi” del gruppo Arvedi, per citare solo due tra i tanti esempi possibili). Legate in distretti e filiere, le manifatture hanno superato parte dei limiti legati alle dimensioni e alla strutturale sottocapitalizzazione. E sono state attente a utilizzare bene gli incentivi e le misure fiscali dei governi che si sono succeduti (eccezion fatta per il governo Conte 1 giallo-verde, nettamente anti-impresa) per le trasformazioni digitali secondo i paradigmi di Industria 4.0. Sono diventate, insomma, sempre più dinamiche, resilienti e flessibili, grazie anche a una diffusa “cultura politecnica” che ha saputo coniugare memoria e futuro, sapienza umanistica (bellezza e qualità) e conoscenze scientifiche, radici storiche nei territori produttivi e attitudini alla competitività internazionale. Hanno esportato, conquistato posizioni di eccellenza nelle nicchie globali a maggior valore aggiunto. E affrontato con spirito imprenditoriale innovativo la twin transition ambientale e digitale.

La conferma di una tendenza così rilevante arriva anche dalle parole di Gregorio De Felice, capo economista di Intesa San Paolo: “L’industria italiana meglio della tedesca. Siamo diventati più bravi a produrre beni di medio-alta qualità e abbiamo filiere più resilienti” (la Repubblica, 24 agosto).

Le imprese sono, insomma, attori sociali con un forte ruolo positivo, per creare ricchezza, lavoro, benessere diffuso, futuro sostenibile per le nuove generazioni. E hanno tutto il diritto di venire considerate, da chi governa (Draghi lo sa bene) e soprattutto da chi governerà, interlocutori essenziali per la crescita economica di lungo periodo (lo documentano i 18 punti del documento discusso alla fine di luglio dal Consiglio generale di Confindustria, di cui abbiamo parlato in questo blog).

Inflazione e crisi energetica mettono naturalmente in grandissima difficoltà il mondo produttivo. E sono necessarie misure urgenti per affrontare l’emergenza. Chi conosce il nostro mondo manifatturiero, comunque, sa bene che al suo interno ci sono risorse straordinarie per fare da pilastri della ripresa, proprio com’è già successo dopo la fase più acuta della pandemia, con la crescita economica maggiore d’Europa.

Ha dunque ragione chi (Ferruccio de Bortoli, Corriere della Sera, 29 agosto) sollecita “il giorno delle imprese”, con “una tregua nel dibattito elettorale sulla spesa pubblica, per discutere solo di aziende, competenze, studio, ricerca, innovazione, competitività” e affrontare, con sguardo lungimirante, “la parte più faticosa della costruzione di una società futura”. Sviluppo e non assistenzialismo, investimenti produttivi e non sussidi ai danni di un già altissimo debito pubblico. Mercato e concorrenza secondo qualità e sostenibilità e non statalismo economico. Facendo tesoro proprio dell’applauditissimo discorso di Draghi al Meeting di Rimini: “Il nostro posto è al centro dell’Europa. Sovranismo e protezionismo non fanno l’interesse del Paese”.

Le imprese ne sono attivamente consapevoli. Sarebbe indispensabile lo imparassero anche la maggior parte dei politici.

Un secolo di record:
la nascita dell’Autodromo di Monza

Monza, 1922. È l’anno del primo Gran Premio dell’Automobile Club, si chiama così il Gran Premio di Monza: nasce un’eccellenza italiana. A dominare quella gara d’esordio sono Felice Nazzaro e Pietro Bordino, al volante di due Fiat gommate Pirelli Superflex Cord, di cui si dichiarano “soddisfattissimi”. Nel 1924 è il momento dell’Alfa Romeo, al debutto nei Grand Prix con la fortissima P2: in pista ci sono Antonio Ascari e Giuseppe Campari, le macchine montano pneumatici Pirelli Cord. Durante il Gran Premio di Francia del 1925, sul circuito di Montlhéry, Antonio Ascari, in testa alla gara, perde la vita in un brutto incidente. Un duro colpo per Alfa e Pirelli che devono comunque prepararsi per una corsa internazionale: a Monza si disputa infatti il primo Campionato Automobilistico del mondo.

A trionfare è il conte fiorentino Gastone Brilli Peri, proprio con Alfa e Pirelli.  Nel 1933 il circuito brianzolo è però fatale a Giuseppe Campari, compagno di squadra di Ascari, proprio all’inizio di quella “parabolica” che rappresenta una delle meraviglie del moderno automobilismo. Negli anni Trenta l’autodromo fa da scenario a quello che ormai è diventato un mix insuperabile in pista: le monoposto Alfa Romeo, il patron della squadra corse Enzo Ferrari, il pilota Tazio Nuvolari e, non da ultimo, i pneumatici Pirelli Stella Bianca.

Quella di Monza è anche una storia di record su due ruote: resta negli annali la fotografia in cui Gianni Leoni, sdraiato sul “Guzzino”, nel novembre del 1948 punta verso il cartellone pubblicitario Pirelli, alla conquista di un altro primato. Nel 1950 il circuito di Monza suggella la vittoria di Nino Farina, primo Campione Mondiale di Formula 1 con l’Alfa Romeo, e segnerà i successi e il destino di Alberto Ascari. L’abbandono di Pirelli delle competizioni del 1956 non ha allentato il legame storico tra l’azienda e l’Autodromo di Monza. Il rientro sperimentale in Formula 1 negli anni Ottanta e le grandi stagioni dei campionati Turismo hanno riportato spesso i radiali “con la P Lunga” sull’”asfalto più famoso del mondo”.

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Monza, 1922. È l’anno del primo Gran Premio dell’Automobile Club, si chiama così il Gran Premio di Monza: nasce un’eccellenza italiana. A dominare quella gara d’esordio sono Felice Nazzaro e Pietro Bordino, al volante di due Fiat gommate Pirelli Superflex Cord, di cui si dichiarano “soddisfattissimi”. Nel 1924 è il momento dell’Alfa Romeo, al debutto nei Grand Prix con la fortissima P2: in pista ci sono Antonio Ascari e Giuseppe Campari, le macchine montano pneumatici Pirelli Cord. Durante il Gran Premio di Francia del 1925, sul circuito di Montlhéry, Antonio Ascari, in testa alla gara, perde la vita in un brutto incidente. Un duro colpo per Alfa e Pirelli che devono comunque prepararsi per una corsa internazionale: a Monza si disputa infatti il primo Campionato Automobilistico del mondo.

A trionfare è il conte fiorentino Gastone Brilli Peri, proprio con Alfa e Pirelli.  Nel 1933 il circuito brianzolo è però fatale a Giuseppe Campari, compagno di squadra di Ascari, proprio all’inizio di quella “parabolica” che rappresenta una delle meraviglie del moderno automobilismo. Negli anni Trenta l’autodromo fa da scenario a quello che ormai è diventato un mix insuperabile in pista: le monoposto Alfa Romeo, il patron della squadra corse Enzo Ferrari, il pilota Tazio Nuvolari e, non da ultimo, i pneumatici Pirelli Stella Bianca.

Quella di Monza è anche una storia di record su due ruote: resta negli annali la fotografia in cui Gianni Leoni, sdraiato sul “Guzzino”, nel novembre del 1948 punta verso il cartellone pubblicitario Pirelli, alla conquista di un altro primato. Nel 1950 il circuito di Monza suggella la vittoria di Nino Farina, primo Campione Mondiale di Formula 1 con l’Alfa Romeo, e segnerà i successi e il destino di Alberto Ascari. L’abbandono di Pirelli delle competizioni del 1956 non ha allentato il legame storico tra l’azienda e l’Autodromo di Monza. Il rientro sperimentale in Formula 1 negli anni Ottanta e le grandi stagioni dei campionati Turismo hanno riportato spesso i radiali “con la P Lunga” sull’”asfalto più famoso del mondo”.

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La Variante Ascari

Sono tanti i piloti che, nel corso della loro carriera, si sono misurati con le curve del circuito di Monza. Il Gran Premio d’Italia di Formula 1 del 1950 è la gara dei campioni: diverse scuderie, stessi pneumatici, tutti Pirelli. Juan Manuel Fangio e Nino Farina con l’Alfa Romeo, che si laurea Campione del Mondo, Felice Bonetto e Louis Chiron su Maserati. E poi c’è Alberto Ascari, giovane pilota della Ferrari, che torna a mettersi in luce sulla pista che l’ha visto vincere già l’anno prima: anche lui è un “pilota Pirelli”. Ascari torna a trionfare a Monza nel 1951: il titolo iridato è sempre più vicino e nella stagione 1952, dopo sei successi consecutivi, Monza è la passerella ideale per laurearsi Campione del Mondo, davanti al compagno di squadra Nino Farina. Con lui, per il terzo anno consecutivo, è titolo mondiale anche per i pneumatici Pirelli Stella Bianca.

I furgoni gialli del servizio corse Pirelli diventano il simbolo di “una squadra di specialisti, ingegneri e operai, che assiste e consiglia in tutte le gare, su tutte le strade i maestri della velocità”. Sempre a Monza, il 13 settembre 1953, Ascari parte in pole position nel Gran Premio d’Italia con la Ferrari 735, ma deve ritirarsi per un incidente, lasciando la vittoria alla Maserati di Fangio. Ormai però i giochi sono fatti: le cinque vittorie della stagione hanno assicurato a lui e alla Ferrari il secondo titolo Mondiale consecutivo. Per i pneumatici Pirelli – gli Stella Bianca sono diventati, dopo alcune modifiche, Stelvio –  i Mondiali di Formula 1 sono già quattro di fila. Il 26 maggio del 1955 Alberto Ascari è ancora a Monza, ad assistere a una sessione di prove Ferrari con Eugenio Castellotti. Alla fine dei test, chiede all’amico di fargli provare la monoposto.

L’incidente avviene al terzo giro di pista, su una curva del Vialone che da allora, in sua memoria, si chiamerà “Variante Ascari”. La Rivista Pirelli lo ricorda così: “C’era molta simpatia in tutti per lui, alla Pirelli. E più che simpatia, affetto; affetto che che andava ben oltre la gratitudine per aver avuto in lui l’uomo che per due volte nella conquista del campionato del mondo aveva associato il proprio nome e a quello della Ferrari il nome della Casa che gommava le sue vetture…”.

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Sono tanti i piloti che, nel corso della loro carriera, si sono misurati con le curve del circuito di Monza. Il Gran Premio d’Italia di Formula 1 del 1950 è la gara dei campioni: diverse scuderie, stessi pneumatici, tutti Pirelli. Juan Manuel Fangio e Nino Farina con l’Alfa Romeo, che si laurea Campione del Mondo, Felice Bonetto e Louis Chiron su Maserati. E poi c’è Alberto Ascari, giovane pilota della Ferrari, che torna a mettersi in luce sulla pista che l’ha visto vincere già l’anno prima: anche lui è un “pilota Pirelli”. Ascari torna a trionfare a Monza nel 1951: il titolo iridato è sempre più vicino e nella stagione 1952, dopo sei successi consecutivi, Monza è la passerella ideale per laurearsi Campione del Mondo, davanti al compagno di squadra Nino Farina. Con lui, per il terzo anno consecutivo, è titolo mondiale anche per i pneumatici Pirelli Stella Bianca.

I furgoni gialli del servizio corse Pirelli diventano il simbolo di “una squadra di specialisti, ingegneri e operai, che assiste e consiglia in tutte le gare, su tutte le strade i maestri della velocità”. Sempre a Monza, il 13 settembre 1953, Ascari parte in pole position nel Gran Premio d’Italia con la Ferrari 735, ma deve ritirarsi per un incidente, lasciando la vittoria alla Maserati di Fangio. Ormai però i giochi sono fatti: le cinque vittorie della stagione hanno assicurato a lui e alla Ferrari il secondo titolo Mondiale consecutivo. Per i pneumatici Pirelli – gli Stella Bianca sono diventati, dopo alcune modifiche, Stelvio –  i Mondiali di Formula 1 sono già quattro di fila. Il 26 maggio del 1955 Alberto Ascari è ancora a Monza, ad assistere a una sessione di prove Ferrari con Eugenio Castellotti. Alla fine dei test, chiede all’amico di fargli provare la monoposto.

L’incidente avviene al terzo giro di pista, su una curva del Vialone che da allora, in sua memoria, si chiamerà “Variante Ascari”. La Rivista Pirelli lo ricorda così: “C’era molta simpatia in tutti per lui, alla Pirelli. E più che simpatia, affetto; affetto che che andava ben oltre la gratitudine per aver avuto in lui l’uomo che per due volte nella conquista del campionato del mondo aveva associato il proprio nome e a quello della Ferrari il nome della Casa che gommava le sue vetture…”.

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Un circuito con la P lunga
nel tempio della velocità

È il 1938 quando viene messo in cantiere un programma di ammodernamento dell’Autodromo di Monza che prevede il rifacimento del manto stradale, la costruzione di una nuova parte del circuito e di una grande tribuna. In questa occasione viene realizzato quello che è ancora oggi noto come “circuito Pirelli”. Poco si sa di questo circuito, che compare per la prima volta proprio nella pianta del nuovo tracciato dell’Autodromo in quell’anno. Non risulta che fosse utilizzato per le competizioni e molto probabilmente viene realizzato, in collaborazione con Pirelli, come pista prove per testare i pneumatici. A sostenere questa ipotesi la composizione del circuito, con due rettilinei raccordati da due “curvette” di raggio differente e il diverso manto stradale, in parte in asfalto e in parte in porfido.

Lo scoppio della guerra porta alla sospensione delle attività dell’Autodromo di Monza fino al 1948 e a partire dagli anni Cinquanta si susseguono diverse modifiche nel tracciato. Oggi il circuito Pirelli resta ancora riconoscibile nei rettilinei e nella curva Nord – parzialmente asfaltata – dove è ancora visibile una parte del rivestimento in porfido, e rappresenta un’importante testimonianza della storia dell’Autodromo e delle attività di testing di Pirelli. A partire dal 1963 le prove su pista dei pneumatici Pirelli in Italia vengono trasferite sulla pista di Lainate, e successivamente, dal 1969, in quella di Vizzola Ticino. Realizzata appositamente per la sperimentazione e provvista di tutte le più moderne attrezzature e tecnologie, la pista di Vizzola è ancora oggi un punto di eccellenza della sperimentazione outdoor dei pneumatici Pirelli: una pista con la “P lunga”, proprio come il circuito nato negli anni Trenta a Monza, nel tempio della velocità.

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È il 1938 quando viene messo in cantiere un programma di ammodernamento dell’Autodromo di Monza che prevede il rifacimento del manto stradale, la costruzione di una nuova parte del circuito e di una grande tribuna. In questa occasione viene realizzato quello che è ancora oggi noto come “circuito Pirelli”. Poco si sa di questo circuito, che compare per la prima volta proprio nella pianta del nuovo tracciato dell’Autodromo in quell’anno. Non risulta che fosse utilizzato per le competizioni e molto probabilmente viene realizzato, in collaborazione con Pirelli, come pista prove per testare i pneumatici. A sostenere questa ipotesi la composizione del circuito, con due rettilinei raccordati da due “curvette” di raggio differente e il diverso manto stradale, in parte in asfalto e in parte in porfido.

Lo scoppio della guerra porta alla sospensione delle attività dell’Autodromo di Monza fino al 1948 e a partire dagli anni Cinquanta si susseguono diverse modifiche nel tracciato. Oggi il circuito Pirelli resta ancora riconoscibile nei rettilinei e nella curva Nord – parzialmente asfaltata – dove è ancora visibile una parte del rivestimento in porfido, e rappresenta un’importante testimonianza della storia dell’Autodromo e delle attività di testing di Pirelli. A partire dal 1963 le prove su pista dei pneumatici Pirelli in Italia vengono trasferite sulla pista di Lainate, e successivamente, dal 1969, in quella di Vizzola Ticino. Realizzata appositamente per la sperimentazione e provvista di tutte le più moderne attrezzature e tecnologie, la pista di Vizzola è ancora oggi un punto di eccellenza della sperimentazione outdoor dei pneumatici Pirelli: una pista con la “P lunga”, proprio come il circuito nato negli anni Trenta a Monza, nel tempio della velocità.

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Vittorie e competizioni:
comunicare con stile

I successi dei pneumatici Pirelli nel mondo delle competizioni sportive sono amplificati dalle campagne pubblicitarie che l’azienda commissiona ai più importanti esponenti della scuola grafica italiana e internazionale, contribuendo alla creazione dello stile Pirelli. Cartellonisti, designer, illustratori sono chiamati a confrontarsi con il mondo della gomma, per raccontare i prodotti in modo non convenzionale. Nel 1914 esce, a firma Stanley Charles Roowy, una delle pubblicità che più hanno contribuito ad alimentare il mito della velocità e degli “pneus Pirelli”: un’automobile rossa che sbuffa fiamme e fumo.

Un’icona della modernità, della velocità, del gusto per i primati sportivi. A partire dagli anni Venti, mentre la Pirelli comincia ad affrontare le gare di tutta Europa in circuito e su strada, forte della rivoluzionaria tecnologia cord che conferisce una maggiore resistenza e tenuta di strada al pneumatico, nasce, all’interno dell’organigramma aziendale, una funzione dedicata alla Propaganda. L’ufficio, che ha tra i suoi obiettivi la “pubblicità e reclame”, la realizzazione di listini, cataloghi e stampati pubblicitari vari, cura anche la partecipazione alle gare automobilistiche, percepite fin da allora come veicolo di promozione di forte impatto. Tra le attività svolte c’è anche quella di documentare con reportage fotografici la partecipazione di Pirelli alle gare: la Coppa della Consuma, il circuito del Garda, il circuito del Savio a Ravenna.

E naturalmente il circuito di Monza. Nel 1924 il “Manuale di istruzioni per l’uso del Pirelli Superflex Cord” spiega come utilizzare al meglio l’innovativo pneumatico a bassa pressione e carcassa in tessuto cord. Tra le lettere riprodotte in quarta di copertina c’è anche quella, entusiasta, dell’ingegner Nicola Romeo, proprietario di un’Alfa 4 cilindri. A fine 1924, il listino prezzi del Pirelli Cord e Superflex Cord può fregiarsi del titolo “Il pneumatico delle vittorie”. Negli anni Cinquanta Monza è protagonista anche di uno splendido servizio fotografico di Federico Patellani, con le tute e i cappellini Pirelli dei meccanici-gommisti che occupano la scena dei box: un reportage d’autore dalla pista. E ancora una volta le corse sono protagoniste della pubblicità della P lunga.

È il 1965 quando l’azienda progetta una strategia di comunicazione destinata a imporre sul mercato italiano uno dei prodotti di punta dell’azienda, già affermato in tutto il mondo: il Cinturato Pirelli. La campagna si avvale di testimonial d’eccezione, rappresentati attraverso ritratti e slogan nelle rispettive lingue: il Cinturato è “Ancora più sicuro” per Giovanni Bracco, “Sensationnel” per Louis Chiron, e “Ricama sulla strada” secondo Gigi Villoresi. Ovunque sfilano poster e cartelloni con i volti sorridenti degli assi del volante, tra cui anche Juan Manuel Fangio, José Froilán González, Umberto Maglioli e Piero Taruffi. Piloti-simbolo di record e imprese adrenaliniche che comunicano la loro esperienza alla guida di una vettura equipaggiata Pirelli e che, grazie alle straordinarie vittorie in carriera, rappresentano la voce perfetta per raccontare la potenza, l’innovazione e la sicurezza dei prodotti Pirelli, dalla pista alla strada.

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I successi dei pneumatici Pirelli nel mondo delle competizioni sportive sono amplificati dalle campagne pubblicitarie che l’azienda commissiona ai più importanti esponenti della scuola grafica italiana e internazionale, contribuendo alla creazione dello stile Pirelli. Cartellonisti, designer, illustratori sono chiamati a confrontarsi con il mondo della gomma, per raccontare i prodotti in modo non convenzionale. Nel 1914 esce, a firma Stanley Charles Roowy, una delle pubblicità che più hanno contribuito ad alimentare il mito della velocità e degli “pneus Pirelli”: un’automobile rossa che sbuffa fiamme e fumo.

Un’icona della modernità, della velocità, del gusto per i primati sportivi. A partire dagli anni Venti, mentre la Pirelli comincia ad affrontare le gare di tutta Europa in circuito e su strada, forte della rivoluzionaria tecnologia cord che conferisce una maggiore resistenza e tenuta di strada al pneumatico, nasce, all’interno dell’organigramma aziendale, una funzione dedicata alla Propaganda. L’ufficio, che ha tra i suoi obiettivi la “pubblicità e reclame”, la realizzazione di listini, cataloghi e stampati pubblicitari vari, cura anche la partecipazione alle gare automobilistiche, percepite fin da allora come veicolo di promozione di forte impatto. Tra le attività svolte c’è anche quella di documentare con reportage fotografici la partecipazione di Pirelli alle gare: la Coppa della Consuma, il circuito del Garda, il circuito del Savio a Ravenna.

E naturalmente il circuito di Monza. Nel 1924 il “Manuale di istruzioni per l’uso del Pirelli Superflex Cord” spiega come utilizzare al meglio l’innovativo pneumatico a bassa pressione e carcassa in tessuto cord. Tra le lettere riprodotte in quarta di copertina c’è anche quella, entusiasta, dell’ingegner Nicola Romeo, proprietario di un’Alfa 4 cilindri. A fine 1924, il listino prezzi del Pirelli Cord e Superflex Cord può fregiarsi del titolo “Il pneumatico delle vittorie”. Negli anni Cinquanta Monza è protagonista anche di uno splendido servizio fotografico di Federico Patellani, con le tute e i cappellini Pirelli dei meccanici-gommisti che occupano la scena dei box: un reportage d’autore dalla pista. E ancora una volta le corse sono protagoniste della pubblicità della P lunga.

È il 1965 quando l’azienda progetta una strategia di comunicazione destinata a imporre sul mercato italiano uno dei prodotti di punta dell’azienda, già affermato in tutto il mondo: il Cinturato Pirelli. La campagna si avvale di testimonial d’eccezione, rappresentati attraverso ritratti e slogan nelle rispettive lingue: il Cinturato è “Ancora più sicuro” per Giovanni Bracco, “Sensationnel” per Louis Chiron, e “Ricama sulla strada” secondo Gigi Villoresi. Ovunque sfilano poster e cartelloni con i volti sorridenti degli assi del volante, tra cui anche Juan Manuel Fangio, José Froilán González, Umberto Maglioli e Piero Taruffi. Piloti-simbolo di record e imprese adrenaliniche che comunicano la loro esperienza alla guida di una vettura equipaggiata Pirelli e che, grazie alle straordinarie vittorie in carriera, rappresentano la voce perfetta per raccontare la potenza, l’innovazione e la sicurezza dei prodotti Pirelli, dalla pista alla strada.

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Ciak si parte:
tutti in pista

Al fascino del circuito di Monza non sono certo immuni il cinema e la televisione. Nel 1950 sulla pista trasformata in set c’è Amedeo Nazzari insieme al pilota del momento, Juan Manuel Fangio. Nazzari correrà per finzione nel film “L’ultimo incontro”, una popolare produzione di Dino De Laurentiis e Carlo Ponti sceneggiato, tra gli altri, dallo scrittore Alberto Moravia. A correre davvero è proprio Fangio, con l’esordiente Alfa 159 al Gran Premio d’Italia di quell’anno; sulla tuta, in bella vista, i loghi “Alfa Romeo” e “Pirelli”. Nel 1951 l’house organ “Fatti e Notizie” scrive di “Attori e piloti” e già allora, forse, il campione argentino intuiva che sarebbe diventato il pilota più filmato della storia. Quindici anni e cinque Mondiali di Formula 1 dopo “L’ultimo incontro”, Juan Manuel Fangio è sulla Parabolica di Monza, davanti alla macchina da presa a bordo di una spider rossa. Poi si ferma, si toglie i guanti e guarda il pubblico: “Una volta correvo con lo Stelvio Pirelli  ma questo Cinturato è extraordinario!”.

Il pilota è protagonista di uno spot pubblicitario per la rubrica televisiva Carosello prodotto dalla Gamma Film e di un reportage fotografico firmato da Ugo Mulas. Dal cinema alla tv e poi di nuovo al cinema: nel 1981 esce il biopic “Fangio, una vita a 300 all’ora” . Il regista è Hugh Hudson, che solo qualche anno prima, nel 1966, aveva diretto per Pirelli “La lepre e la tartaruga”, road movie pubblicitario per quel pneumatico Cinturato che Fangio definiva “Extraordinario”. E proprio nel 1981 un altro film diretto da Hudson vincerà quattro Oscar: “Momenti di gloria”, con l’indimenticabile colonna sonora di Vangelis.

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Al fascino del circuito di Monza non sono certo immuni il cinema e la televisione. Nel 1950 sulla pista trasformata in set c’è Amedeo Nazzari insieme al pilota del momento, Juan Manuel Fangio. Nazzari correrà per finzione nel film “L’ultimo incontro”, una popolare produzione di Dino De Laurentiis e Carlo Ponti sceneggiato, tra gli altri, dallo scrittore Alberto Moravia. A correre davvero è proprio Fangio, con l’esordiente Alfa 159 al Gran Premio d’Italia di quell’anno; sulla tuta, in bella vista, i loghi “Alfa Romeo” e “Pirelli”. Nel 1951 l’house organ “Fatti e Notizie” scrive di “Attori e piloti” e già allora, forse, il campione argentino intuiva che sarebbe diventato il pilota più filmato della storia. Quindici anni e cinque Mondiali di Formula 1 dopo “L’ultimo incontro”, Juan Manuel Fangio è sulla Parabolica di Monza, davanti alla macchina da presa a bordo di una spider rossa. Poi si ferma, si toglie i guanti e guarda il pubblico: “Una volta correvo con lo Stelvio Pirelli  ma questo Cinturato è extraordinario!”.

Il pilota è protagonista di uno spot pubblicitario per la rubrica televisiva Carosello prodotto dalla Gamma Film e di un reportage fotografico firmato da Ugo Mulas. Dal cinema alla tv e poi di nuovo al cinema: nel 1981 esce il biopic “Fangio, una vita a 300 all’ora” . Il regista è Hugh Hudson, che solo qualche anno prima, nel 1966, aveva diretto per Pirelli “La lepre e la tartaruga”, road movie pubblicitario per quel pneumatico Cinturato che Fangio definiva “Extraordinario”. E proprio nel 1981 un altro film diretto da Hudson vincerà quattro Oscar: “Momenti di gloria”, con l’indimenticabile colonna sonora di Vangelis.

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Sulle strade del successo, gli esordi di Pirelli nelle competizioni

Aprile 1904, parte la Carovana automobilistica Milano-Roma organizzata dall’Automobile Club di Milano. Grande prova per la Pirelli per testare sulle vetture Eisenach e sulle Isotta Fraschini i pneumatici Ercole, primo modello brevettato nel 1901 dall’azienda. L’anno successivo si disputa la corsa “Susa-Moncenisio”: monta gomme Pirelli la Marchand di Giuseppe Tamagni che fa una buona gara, finita troppo presto, però, per la rottura del cambio. Va meglio alla Darracq di Bruno Corbetta, terza in Categoria 2, e alla piccola Peugeot Bébé di Giovanni Piena, seconda in Categoria 3. I testimoni raccontano che tagliano il traguardo “con pneus intatti”: “pneus” Pirelli, naturalmente.

Fin dai suoi albori la storia dell’automobilismo sportivo è segnata dalla presenza della P lunga. Marzo 1906, nasce la “Settimana Automobilistica di Sanremo”, Tamagni è di nuovo pronto al via sulla Marchand gommata con pneumatici Ercole, e vince nella categoria 1. Per Pirelli è il primo vero successo nelle competizioni automobilistiche. Il 1907 segna l’avvio delle grandi imprese internazionali: la Itala gommata Pirelli trionfa nel raid Pechino-Parigi. Il clamore dell’impresa si diffonde rapidamente e l’anno successivo la Pirelli affronta la New York-Parigi, quasi un giro del mondo, equipaggiando la Züst di Emilio “Giulio” Sirtori. Al suo fianco, il giornalista Antonio Scarfoglio, firma de Il Mattino di Napoli. Si parte da New-York per correre coast-to-coast verso San Francisco, puntare verso l’Alaska, attraversare l’Oceano e, dalla Siberia, raggiungere il traguardo a Parigi.

La mattina del 12 luglio 1913, al Grand Prix dell’Automobile Club de France, c’è anche Alberto Pirelli ad Amiens: sul Circuito di Picardie, Jacques Boillot non è tra i favoriti, eppure taglia il traguardo per primo. Secondo, Louis Goux: entrambi su Peugeot con “Pneumatiques Pirelli”. Il 1913 è un anno formidabile: tra il mare del golfo di Palermo e i tornanti delle Madonie si corre la Targa Florio, prova durissima per i piloti, per le auto e i loro equipaggiamenti. È sul podio Felice Nazzaro, vincitore a bordo della Fiat gommata Pirelli. Lo stesso giorno Boillot trionfa nella corsa di velocità al Meeting de la Sarthe a Le Mans. Negli anni Venti si susseguono le vittorie nelle corse auto di tutto il mondo, e la storia della Pirelli si intreccia a quella di un circuito che si appresta oggi a raggiungere il traguardo di un secolo di vita: l’Autodromo di Monza.

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Aprile 1904, parte la Carovana automobilistica Milano-Roma organizzata dall’Automobile Club di Milano. Grande prova per la Pirelli per testare sulle vetture Eisenach e sulle Isotta Fraschini i pneumatici Ercole, primo modello brevettato nel 1901 dall’azienda. L’anno successivo si disputa la corsa “Susa-Moncenisio”: monta gomme Pirelli la Marchand di Giuseppe Tamagni che fa una buona gara, finita troppo presto, però, per la rottura del cambio. Va meglio alla Darracq di Bruno Corbetta, terza in Categoria 2, e alla piccola Peugeot Bébé di Giovanni Piena, seconda in Categoria 3. I testimoni raccontano che tagliano il traguardo “con pneus intatti”: “pneus” Pirelli, naturalmente.

Fin dai suoi albori la storia dell’automobilismo sportivo è segnata dalla presenza della P lunga. Marzo 1906, nasce la “Settimana Automobilistica di Sanremo”, Tamagni è di nuovo pronto al via sulla Marchand gommata con pneumatici Ercole, e vince nella categoria 1. Per Pirelli è il primo vero successo nelle competizioni automobilistiche. Il 1907 segna l’avvio delle grandi imprese internazionali: la Itala gommata Pirelli trionfa nel raid Pechino-Parigi. Il clamore dell’impresa si diffonde rapidamente e l’anno successivo la Pirelli affronta la New York-Parigi, quasi un giro del mondo, equipaggiando la Züst di Emilio “Giulio” Sirtori. Al suo fianco, il giornalista Antonio Scarfoglio, firma de Il Mattino di Napoli. Si parte da New-York per correre coast-to-coast verso San Francisco, puntare verso l’Alaska, attraversare l’Oceano e, dalla Siberia, raggiungere il traguardo a Parigi.

La mattina del 12 luglio 1913, al Grand Prix dell’Automobile Club de France, c’è anche Alberto Pirelli ad Amiens: sul Circuito di Picardie, Jacques Boillot non è tra i favoriti, eppure taglia il traguardo per primo. Secondo, Louis Goux: entrambi su Peugeot con “Pneumatiques Pirelli”. Il 1913 è un anno formidabile: tra il mare del golfo di Palermo e i tornanti delle Madonie si corre la Targa Florio, prova durissima per i piloti, per le auto e i loro equipaggiamenti. È sul podio Felice Nazzaro, vincitore a bordo della Fiat gommata Pirelli. Lo stesso giorno Boillot trionfa nella corsa di velocità al Meeting de la Sarthe a Le Mans. Negli anni Venti si susseguono le vittorie nelle corse auto di tutto il mondo, e la storia della Pirelli si intreccia a quella di un circuito che si appresta oggi a raggiungere il traguardo di un secolo di vita: l’Autodromo di Monza.

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Annunciato il vincitore della sessantesima edizione del Premio Campiello

Nella serata di sabato 3 settembre si è conclusa la sessantesima edizione del Premio Campiello: ad aggiudicarsi l’ambito riconoscimento letterario, che dal 1962 premia alcuni dei più grandi autori della letteratura italiana, è stato Bernardo Zannoni, con il libro “I miei stupidi intenti” (Sellerio).

Per conoscere l’autore e il suo libro è possibile visionare l’intervista di Fondazione Pirelli, cliccando qui

Durante la cerimonia Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli, ed Enrico Carraro, Presidente della Fondazione Il Campiello, hanno premiato anche Antonella Sbuelz, vincitrice con il libro “Questa notte non torno” della prima edizione del Premio Campiello Junior, il riconoscimento promosso dalla Fondazione Pirelli e rivolto alle opere italiane di narrativa e poesia per i ragazzi, e che per la seconda edizione di quest’anno presenterà importanti novità.

Per conoscere la scrittrice e il suo libro  è possibile visionare l’intervista di Fondazione Pirelli, cliccando qui

Inoltre per rimanere aggiornati sulle iniziative del Premio Campiello Junior potete visitare i siti www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org

Nella serata di sabato 3 settembre si è conclusa la sessantesima edizione del Premio Campiello: ad aggiudicarsi l’ambito riconoscimento letterario, che dal 1962 premia alcuni dei più grandi autori della letteratura italiana, è stato Bernardo Zannoni, con il libro “I miei stupidi intenti” (Sellerio).

Per conoscere l’autore e il suo libro è possibile visionare l’intervista di Fondazione Pirelli, cliccando qui

Durante la cerimonia Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli, ed Enrico Carraro, Presidente della Fondazione Il Campiello, hanno premiato anche Antonella Sbuelz, vincitrice con il libro “Questa notte non torno” della prima edizione del Premio Campiello Junior, il riconoscimento promosso dalla Fondazione Pirelli e rivolto alle opere italiane di narrativa e poesia per i ragazzi, e che per la seconda edizione di quest’anno presenterà importanti novità.

Per conoscere la scrittrice e il suo libro  è possibile visionare l’intervista di Fondazione Pirelli, cliccando qui

Inoltre per rimanere aggiornati sulle iniziative del Premio Campiello Junior potete visitare i siti www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org

Verso la finale del Premio Campiello 2022: conosciamo i cinque libri finalisti e i loro autori

Si avvicina la serata della cerimonia di premiazione del Premio Campiello 2022, sostenuto anche quest’anno da Pirelli, sempre in prima linea nel supporto alle iniziative di promozione della lettura. Per conoscere meglio i protagonisti di questa sessantesima edizione del prestigioso riconoscimento letterario, Fondazione Pirelli ha invitato i cinque scrittori finalisti a raccontare i loro libri, attraverso un dialogo con Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli. Le interviste accompagneranno i lettori in un countdown verso la serata di premiazione, in programma sabato 3 settembre, che quest’anno tornerà al Teatro La Fenice di Venezia e sarà trasmessa in diretta televisiva su Rai 5 a partire dalle ore 20:45.

Da oggi fino a venerdì 2 settembre i cinque autori finalisti ci racconteranno le loro opere: romanzi che parlano di alberi che conservano ricordi e memorie, dei baci che scandiscono la vita di una giovane donna, della violenza dirompente che può stravolgere un’esistenza, di una generazione di uomini di potere che ha segnato la storia d’Italia e di animali che si interrogano sul senso della vita.

Ecco il programma completo dei video che verranno pubblicati sul sito fondazionepirelli.org a partire da oggi:

Lunedì 29 agosto 2022: Antonio Pascale – La foglia di fico (Einaudi)

Martedì 30 agosto 2022: Daniela Ranieri – Stradario aggiornato di tutti i miei baci (Ponte alle Grazie)

Mercoledì 31 agosto 2022: Fabio Bacà – Nova (Adelphi)

Giovedì 1 settembre 2022: Elena Stancanelli – Il tuffatore (La nave di Teseo)

Venerdì 2 settembre 2022: Bernardo Zannoni – I miei stupidi intenti (Sellerio)

Buona visione e buona lettura.

Fondazione Pirelli

Si avvicina la serata della cerimonia di premiazione del Premio Campiello 2022, sostenuto anche quest’anno da Pirelli, sempre in prima linea nel supporto alle iniziative di promozione della lettura. Per conoscere meglio i protagonisti di questa sessantesima edizione del prestigioso riconoscimento letterario, Fondazione Pirelli ha invitato i cinque scrittori finalisti a raccontare i loro libri, attraverso un dialogo con Antonio Calabrò, Direttore della Fondazione Pirelli. Le interviste accompagneranno i lettori in un countdown verso la serata di premiazione, in programma sabato 3 settembre, che quest’anno tornerà al Teatro La Fenice di Venezia e sarà trasmessa in diretta televisiva su Rai 5 a partire dalle ore 20:45.

Da oggi fino a venerdì 2 settembre i cinque autori finalisti ci racconteranno le loro opere: romanzi che parlano di alberi che conservano ricordi e memorie, dei baci che scandiscono la vita di una giovane donna, della violenza dirompente che può stravolgere un’esistenza, di una generazione di uomini di potere che ha segnato la storia d’Italia e di animali che si interrogano sul senso della vita.

Ecco il programma completo dei video che verranno pubblicati sul sito fondazionepirelli.org a partire da oggi:

Lunedì 29 agosto 2022: Antonio Pascale – La foglia di fico (Einaudi)

Martedì 30 agosto 2022: Daniela Ranieri – Stradario aggiornato di tutti i miei baci (Ponte alle Grazie)

Mercoledì 31 agosto 2022: Fabio Bacà – Nova (Adelphi)

Giovedì 1 settembre 2022: Elena Stancanelli – Il tuffatore (La nave di Teseo)

Venerdì 2 settembre 2022: Bernardo Zannoni – I miei stupidi intenti (Sellerio)

Buona visione e buona lettura.

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Gino Valle, gli orologi e la sintesi tra tecnologia e design

Negli stessi anni in cui Bruno Munari progetta il gatto Meo Romeo, Fermo Solari, discendente di una famiglia di orologiai attiva in Friuli sin dal Settecento, fonda a Udine la Solari & C. per la produzione su base industriale di orologi elettromeccanici a scatto di cifre. Per dare forma alla tecnologia di avanguardia degli orologi Solari, in cui le lancette sono appunto sostituite da cifre che scattano minuto per minuto, si rivolge a un designer di fama, l’architetto Gino Valle. Nasce così il Cifra 5, orologio vincitore del Compasso d’Oro nel 1956, composto da un guscio compatto tipico dell’estetica di quel periodo e da un rullo di 40 palette con cifre leggibili a 15 metri di distanza. È il primo di una vera e propria “famiglia” di orologi, considerati una delle più alte espressioni della sintesi tra tecnologia e design, un concetto che è anche alla base dell’ideazione del teleindicatore alfanumerico per aeroporti e stazioni, sempre disegnato da Gino Valle, che nel 1962 si aggiudica il Compasso d’Oro per le sue caratteristiche “estetico-funzionali”. Sotto la guida della Pirelli, di cui la Solari diventa consociata nel 1964, i teleindicatori si diffondono negli aeroporti e nelle stazioni di tutto il mondo, da Tokyo a Londra, da Beirut a Sydney, fino a costituire la strumentazione per il “conto alla rovescia” della base aerospaziale di Cape Canaveral. Nel 1966 è la volta del Cifra 3, il più piccolo tra gli orologi elettrici a lettura diretta prodotti dalla Solari, disegnato da Gino Valle con lettering curato da Massimo Vignelli, che nel 1968 entra a far parte della collezione permanente del MoMA di New York.

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Negli stessi anni in cui Bruno Munari progetta il gatto Meo Romeo, Fermo Solari, discendente di una famiglia di orologiai attiva in Friuli sin dal Settecento, fonda a Udine la Solari & C. per la produzione su base industriale di orologi elettromeccanici a scatto di cifre. Per dare forma alla tecnologia di avanguardia degli orologi Solari, in cui le lancette sono appunto sostituite da cifre che scattano minuto per minuto, si rivolge a un designer di fama, l’architetto Gino Valle. Nasce così il Cifra 5, orologio vincitore del Compasso d’Oro nel 1956, composto da un guscio compatto tipico dell’estetica di quel periodo e da un rullo di 40 palette con cifre leggibili a 15 metri di distanza. È il primo di una vera e propria “famiglia” di orologi, considerati una delle più alte espressioni della sintesi tra tecnologia e design, un concetto che è anche alla base dell’ideazione del teleindicatore alfanumerico per aeroporti e stazioni, sempre disegnato da Gino Valle, che nel 1962 si aggiudica il Compasso d’Oro per le sue caratteristiche “estetico-funzionali”. Sotto la guida della Pirelli, di cui la Solari diventa consociata nel 1964, i teleindicatori si diffondono negli aeroporti e nelle stazioni di tutto il mondo, da Tokyo a Londra, da Beirut a Sydney, fino a costituire la strumentazione per il “conto alla rovescia” della base aerospaziale di Cape Canaveral. Nel 1966 è la volta del Cifra 3, il più piccolo tra gli orologi elettrici a lettura diretta prodotti dalla Solari, disegnato da Gino Valle con lettering curato da Massimo Vignelli, che nel 1968 entra a far parte della collezione permanente del MoMA di New York.

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