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La formazione al centro dell’impresa

Nel 1958 viene inaugurato a Milano l’Istituto Piero Pirelli, centro aziendale per la formazione professionale intitolato alla memoria di Piero Pirelli, scomparso nel 1956. Il progetto dell’edificio è firmato dell’architetto Roberto Menghi, che collaborerà ancora con l’azienda qualche anno più tardi per la realizzazione di un prodotto dal design moderno e funzionale: il canestro in polietilene, esposto al MoMA di New York nel 1961. Come racconta un articolo di Fatti e Notizie, il fabbricato che ospita il centro di formazione sorge su un’area di 6.800 mq in Viale Fulvio Testi e comprende tre edifici: uno con le aule per le lezioni teoriche, il laboratorio di fisica, la mensa, una biblioteca, gli uffici; un altro con l’officina per le lezioni pratiche; e un terzo dedicato ai servizi. L’attività dell’istituto, al quale dedica un articolo anche la Rivista Pirelli, prende il via nell’ottobre del 1958 con 50 allievi, selezionati per due terzi tra figli di dipendenti e per un terzo tra candidati esterni, con l’obiettivo di “formare operai pronti ad affrontare la crescente meccanizzazione dell’industria e fornire alle nuove leve una formazione professionale moderna e tecnicamente avanzata”.  Tra le lezioni teoriche impartite figurano matematica, meccanica, fisica, tecnologia della gomma e delle materie plastiche, elettrotecnica, economia. Nel 1969 l’Istituto viene insignito della medaglia d’oro del Presidente della Repubblica per le benemerenze acquisite nel campo della scuola e della cultura. Nello stesso anno entra a far parte della struttura formativa della Regione Lombardia, svolgendo corsi professionali anche per il personale di altre imprese lombarde che non dispongono di proprie strutture per la formazione, tra cui Autobianchi, Marelli, Philps, Same. Negli anni Settanta, ai corsi di avviamento professionale per i nuovi assunti si affianca un’intensa attività di aggiornamento, qualificazione e specializzazione di tutti i dipendenti del Gruppo, sia in Italia sia all’estero, per mantenere il passo dei cambiamenti delle tecnologie, dei processi e dell’organizzazione. La formazione si allarga a quadri e manager, con l’ingresso in azienda dei primi modelli manageriali di provenienza anglosassone. Negli anni Novanta l’elevato know-how formativo raggiunto consente di allargare sempre di più la percentuale di esterni tra i fruitori dei corsi. Oggi l’attività formativa continua a rivestire un’importanza centrale per il Gruppo Pirelli e viene proposta, oltre che in modalità digitale, in una nuova sede all’interno del quartier generale della Bicocca interamente deputata ai servizi per i dipendenti: l’edificioCinturato”. Inaugurato nel 2020 e progettato da Onsitestudio ispirandosi ai materiali pubblicitari dell’Archivio Storico per alcuni elementi architettonici che richiamano il battistrada dei pneumatici Pirelli, l’edificio è realizzato con materiali innovativi ed elevati standard di sostenibilità, e accoglie  i servizi di formazione, welfare e ristorazione aziendale.

Nel 1958 viene inaugurato a Milano l’Istituto Piero Pirelli, centro aziendale per la formazione professionale intitolato alla memoria di Piero Pirelli, scomparso nel 1956. Il progetto dell’edificio è firmato dell’architetto Roberto Menghi, che collaborerà ancora con l’azienda qualche anno più tardi per la realizzazione di un prodotto dal design moderno e funzionale: il canestro in polietilene, esposto al MoMA di New York nel 1961. Come racconta un articolo di Fatti e Notizie, il fabbricato che ospita il centro di formazione sorge su un’area di 6.800 mq in Viale Fulvio Testi e comprende tre edifici: uno con le aule per le lezioni teoriche, il laboratorio di fisica, la mensa, una biblioteca, gli uffici; un altro con l’officina per le lezioni pratiche; e un terzo dedicato ai servizi. L’attività dell’istituto, al quale dedica un articolo anche la Rivista Pirelli, prende il via nell’ottobre del 1958 con 50 allievi, selezionati per due terzi tra figli di dipendenti e per un terzo tra candidati esterni, con l’obiettivo di “formare operai pronti ad affrontare la crescente meccanizzazione dell’industria e fornire alle nuove leve una formazione professionale moderna e tecnicamente avanzata”.  Tra le lezioni teoriche impartite figurano matematica, meccanica, fisica, tecnologia della gomma e delle materie plastiche, elettrotecnica, economia. Nel 1969 l’Istituto viene insignito della medaglia d’oro del Presidente della Repubblica per le benemerenze acquisite nel campo della scuola e della cultura. Nello stesso anno entra a far parte della struttura formativa della Regione Lombardia, svolgendo corsi professionali anche per il personale di altre imprese lombarde che non dispongono di proprie strutture per la formazione, tra cui Autobianchi, Marelli, Philps, Same. Negli anni Settanta, ai corsi di avviamento professionale per i nuovi assunti si affianca un’intensa attività di aggiornamento, qualificazione e specializzazione di tutti i dipendenti del Gruppo, sia in Italia sia all’estero, per mantenere il passo dei cambiamenti delle tecnologie, dei processi e dell’organizzazione. La formazione si allarga a quadri e manager, con l’ingresso in azienda dei primi modelli manageriali di provenienza anglosassone. Negli anni Novanta l’elevato know-how formativo raggiunto consente di allargare sempre di più la percentuale di esterni tra i fruitori dei corsi. Oggi l’attività formativa continua a rivestire un’importanza centrale per il Gruppo Pirelli e viene proposta, oltre che in modalità digitale, in una nuova sede all’interno del quartier generale della Bicocca interamente deputata ai servizi per i dipendenti: l’edificioCinturato”. Inaugurato nel 2020 e progettato da Onsitestudio ispirandosi ai materiali pubblicitari dell’Archivio Storico per alcuni elementi architettonici che richiamano il battistrada dei pneumatici Pirelli, l’edificio è realizzato con materiali innovativi ed elevati standard di sostenibilità, e accoglie  i servizi di formazione, welfare e ristorazione aziendale.

Energia, rischi e necessità di sviluppo

Il direttore di Banca d’Italia ragiona sui cambiamenti in corso e sul “trilemma energetico”

Ripensare velocemente piani e prospettive, la stessa “filosofia” che guida le azioni dei singoli oppure dei gruppi. E’ quanto si è indotti a fare in questi ultimi giorni. Ed è quanto fanno (oppure dovrebbero fare), sostanzialmente tutti. Senza, ben inteso, mutare i fondamenti della propria cultura (anche d’impresa), ma certamente  rivedendoli, migliorandoli, facendoli evolvere. Serve anche a questo leggere “Transizione climatica, finanza e regole prudenziali” intervento di i Luigi Federico Signorini (Direttore Generale della Banca d’Italia e Presidente dell’IVASS) svolto il 3 marzo scorso alla XVII Convention AIFIRM.

Signorini prende in considerazione un particolare aspetto della quotidianità – quello della transizione climatica e quindi dell’energia -, ma le sue considerazioni valgono un po’ per tutti i campi dell’attuale agire sociale.

“Sono giorni molto difficili quelli in cui ci stiamo incontrando – dice quindi il relatore -. Gli eventi sconvolgenti dell’ultima settimana impongono di ripensare a certi snodi essenziali del nostro comportamento individuale e collettivo. Tra essi, forse non al primo posto ma sicuramente neanche all’ultimo, le strategie energetiche, di cui gli avvenimenti correnti stanno mostrando le implicazioni politiche e di sicurezza, oltre a quelle più propriamente ambientali”.

Signorini quindi passa ad analizzare il tema che gli è stato affidato ragionando sul cosiddetto “trilemma energetico” per poi passare al “ruolo della finanza e degli intermediari finanziari nella transizione energetica” oltre che della “gestione dei rischi relativi”. Ed è quindi sulla questione del rischi climatici (e catastrofali) e delle relative possibilità di assicurazione che il presidente di IVASS conduce la sua analisi; a questa segue poi un’ulteriore analisi sul fronte della finanza in qualche modo toccata sia dal mutamento climatico, sia da quello energetico (entrambi poi influenzati dai mutamenti delle politiche internazionali e dei rapporti di forza). Il punto su banche, assicurazioni e affidabilità dei dati, conclude poi l’intervento del direttore di Banca d’Italia.

La necessità di assicurare una gestione positiva e prudenziale della produzione e degli usi dell’energia, fa capire Signorini, costituisce non solo una questione tecnica ma anche politica e culturale ormai imprescindibile.

Serve davvero leggere l’analisi condotta da Signorini che ha il gran pregio di collegare tra loro argomenti che nella realtà sono intrecciati ma dei quali non tutti colgono i legami.

Transizione climatica, finanza e regole prudenziali

Intervento di Luigi Federico Signorini Direttore Generale della Banca d’Italia e Presidente dell’IVASS XVII convention AIFIRM “Il trend inarrestabile dell’economia digitale e ESG: il pensiero dei banchieri, dei CRO e della Vigilanza”

3 marzo 2022

Il direttore di Banca d’Italia ragiona sui cambiamenti in corso e sul “trilemma energetico”

Ripensare velocemente piani e prospettive, la stessa “filosofia” che guida le azioni dei singoli oppure dei gruppi. E’ quanto si è indotti a fare in questi ultimi giorni. Ed è quanto fanno (oppure dovrebbero fare), sostanzialmente tutti. Senza, ben inteso, mutare i fondamenti della propria cultura (anche d’impresa), ma certamente  rivedendoli, migliorandoli, facendoli evolvere. Serve anche a questo leggere “Transizione climatica, finanza e regole prudenziali” intervento di i Luigi Federico Signorini (Direttore Generale della Banca d’Italia e Presidente dell’IVASS) svolto il 3 marzo scorso alla XVII Convention AIFIRM.

Signorini prende in considerazione un particolare aspetto della quotidianità – quello della transizione climatica e quindi dell’energia -, ma le sue considerazioni valgono un po’ per tutti i campi dell’attuale agire sociale.

“Sono giorni molto difficili quelli in cui ci stiamo incontrando – dice quindi il relatore -. Gli eventi sconvolgenti dell’ultima settimana impongono di ripensare a certi snodi essenziali del nostro comportamento individuale e collettivo. Tra essi, forse non al primo posto ma sicuramente neanche all’ultimo, le strategie energetiche, di cui gli avvenimenti correnti stanno mostrando le implicazioni politiche e di sicurezza, oltre a quelle più propriamente ambientali”.

Signorini quindi passa ad analizzare il tema che gli è stato affidato ragionando sul cosiddetto “trilemma energetico” per poi passare al “ruolo della finanza e degli intermediari finanziari nella transizione energetica” oltre che della “gestione dei rischi relativi”. Ed è quindi sulla questione del rischi climatici (e catastrofali) e delle relative possibilità di assicurazione che il presidente di IVASS conduce la sua analisi; a questa segue poi un’ulteriore analisi sul fronte della finanza in qualche modo toccata sia dal mutamento climatico, sia da quello energetico (entrambi poi influenzati dai mutamenti delle politiche internazionali e dei rapporti di forza). Il punto su banche, assicurazioni e affidabilità dei dati, conclude poi l’intervento del direttore di Banca d’Italia.

La necessità di assicurare una gestione positiva e prudenziale della produzione e degli usi dell’energia, fa capire Signorini, costituisce non solo una questione tecnica ma anche politica e culturale ormai imprescindibile.

Serve davvero leggere l’analisi condotta da Signorini che ha il gran pregio di collegare tra loro argomenti che nella realtà sono intrecciati ma dei quali non tutti colgono i legami.

Transizione climatica, finanza e regole prudenziali

Intervento di Luigi Federico Signorini Direttore Generale della Banca d’Italia e Presidente dell’IVASS XVII convention AIFIRM “Il trend inarrestabile dell’economia digitale e ESG: il pensiero dei banchieri, dei CRO e della Vigilanza”

3 marzo 2022

Un nuovo “spirito” per migliorare il pianeta

L’ultimo libro tradotto in Italia di W.D. Nordhaus (premio Nobel 2018)racconta di una strada possibile per proteggere l’ambiente e l’economia

Cambiamento avveduto e attento. E’ ciò che serve per affrontare il riscaldamento globale, le pandemie, la sovrappopolazione, la catastrofe climatica. Senza dire delle crisi politiche internazionali. Occorre, per tutto questo, un approccio complessivo e “rivoluzionario”, che riesca a ripensare l’efficienza economica, la sostenibilità, la politica, i profitti, la finanza, la responsabilità sociale delle imprese. Nodo complesso di questioni a cui guarda William D. Nordhaus – Premio Nobel per l’economia nel 2018 e Sterling Professor of Economics alla School of the Environment di Yale -, con il suo “Spirito Green” appena pubblicato in Italia.

Il libro racconta di una strada, urgente e promettente, per gestire le minacce che incombono senza sacrificare la prosperità economica e senza aumentare le disuguaglianze.

Nordhaus, forte della sua esperienza di economista, conduce un’analisi serrata del tema partendo dalle fondamenta e quindi dall’osservazione di quanto è accaduto per poi passare a ragionare della “sostenibilità in un mondo pericoloso” per quindi approfondire quali possano essere le politiche adatte per intraprendere un cammino diverso dal consueto (e delinea quindi una sorta di Green New Deal). L’autore, poi, colloca questo possibile nuovo approccio del quadro concreto delle singole strutture sociali: profitti, aspetti fiscali, esternalità d’impresa e sociali, aspetti etici, finanza e responsabilità sociale d’impresa costituiscono così altrettante tappe del percorso di Nordhaus che conclude il libro delineando la necessità di “patti climatici per la protezione del pianeta”.

Dalle pagine di Nordhaus emerge una visione piena di speranza sulla possibilità di salvare l’ambiente e insieme fare prosperare la nostra economia. Una lettura da compiere con attenzione e, appunto, spirito positivo (nonostante tutto).

Spirito Green

William D. Nordhaus

il Mulino, 2022

L’ultimo libro tradotto in Italia di W.D. Nordhaus (premio Nobel 2018)racconta di una strada possibile per proteggere l’ambiente e l’economia

Cambiamento avveduto e attento. E’ ciò che serve per affrontare il riscaldamento globale, le pandemie, la sovrappopolazione, la catastrofe climatica. Senza dire delle crisi politiche internazionali. Occorre, per tutto questo, un approccio complessivo e “rivoluzionario”, che riesca a ripensare l’efficienza economica, la sostenibilità, la politica, i profitti, la finanza, la responsabilità sociale delle imprese. Nodo complesso di questioni a cui guarda William D. Nordhaus – Premio Nobel per l’economia nel 2018 e Sterling Professor of Economics alla School of the Environment di Yale -, con il suo “Spirito Green” appena pubblicato in Italia.

Il libro racconta di una strada, urgente e promettente, per gestire le minacce che incombono senza sacrificare la prosperità economica e senza aumentare le disuguaglianze.

Nordhaus, forte della sua esperienza di economista, conduce un’analisi serrata del tema partendo dalle fondamenta e quindi dall’osservazione di quanto è accaduto per poi passare a ragionare della “sostenibilità in un mondo pericoloso” per quindi approfondire quali possano essere le politiche adatte per intraprendere un cammino diverso dal consueto (e delinea quindi una sorta di Green New Deal). L’autore, poi, colloca questo possibile nuovo approccio del quadro concreto delle singole strutture sociali: profitti, aspetti fiscali, esternalità d’impresa e sociali, aspetti etici, finanza e responsabilità sociale d’impresa costituiscono così altrettante tappe del percorso di Nordhaus che conclude il libro delineando la necessità di “patti climatici per la protezione del pianeta”.

Dalle pagine di Nordhaus emerge una visione piena di speranza sulla possibilità di salvare l’ambiente e insieme fare prosperare la nostra economia. Una lettura da compiere con attenzione e, appunto, spirito positivo (nonostante tutto).

Spirito Green

William D. Nordhaus

il Mulino, 2022

Un giovane su quattro non studia né lavora: un’emergenza sociale e politica da affrontare 

Il lavoro e i giovani in Italia. Un mondo di divari, una prospettiva di crescente degrado. E dunque un drammatico rischio proprio per le prospettive di sviluppo dell’intero Paese. Un rischio, ancora, che non riguarda solo l’economia, ma più in generale l’intero assetto sociale e, naturalmente, la qualità stessa della nostra democrazia. C’è un nesso forte tra partecipazione politica, senso di responsabilità civile verso la comunità e occupazione (come indica, già nell’articolo 1, la Costituzione). E troppo a lungo il problema è rimasto senza risposte.

Partiamo da due dati, per cercare di capire meglio. Uno è 3 milioni. L’altro è una percentuale, 40%.

3 milioni sono i giovani che non studiano, non lavorano e non sono inseriti in alcun percorso formativo (anzi, per l’esattezza, 3 milioni e 47mila). In sigla, i Neet (che vuol dire not in employment, education or training). In percentuale, il 25% dei ragazzi e delle ragazze tra i 15 e i 34 anni, la media più alta della Ue, peggio ancora che in Grecia, Bulgaria, Spagna e Romania. Una lost generation, una generazione perduta, per usare la definizione preoccupata del presidente del Consiglio Mario Draghi.

40% è la percentuale dei posti che l’impresa vorrebbe coprire, ma per cui non trova personale qualificato o pronto a qualificarsi rapidamente.

In sintesi: un giovane su quattro è lontano da scuola e lavoro, proprio mentre dal mondo dell’impresa risuona l’allarme per la perdita di opportunità di crescita economica generale ma anche di affermazione professionale e individuale di milioni di persone. In sintesi: I ragazzi restano a casa, sfiduciati e le aziende non sanno chi assumere. Un inquietante paradosso.

Chi sono i Neet? I dati istat, Ocse ed Eurostat contenuti nell’indagine “Neet Working”, il Piano di emersione e orientamento giovani inattivi organizzato dal ministero per le Politiche giovanili in collaborazione con il ministero del Lavoro dicono che di quei 3 milioni e più, 1,7 sono donne (un terzo di coloro che sono nella stessa condizione in tutta Europa, un tristissimo primato). Molti hanno abbandonato la scuola dopo la licenza media. E sono concentrarti soprattutto nel Mezzogiorno, in Sicilia, con il 30% di Neet fra i 15 e i 24 anni, in Calabria con i 28,4% e in Campania con il 27,3%.

Guardando ancora più in dettaglio, di quei 3 milioni, i disoccupati (ovvero chi non ha un lavoro ma lo sta cercando) sono circa 1 milione, mentre gli inattivi (chi non ha un lavoro ma nemmeno lo cerca) sono gli altri 2milioni. Uno scenario drammatico, che adesso è aggravato dalla crisi determinata da pandemia, recessione ed effetti da aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime e rallentamento del tasso di crescita a causa della guerra in Ucraina.

Può dunque un Paese, nel medio periodo e in una situazione caratterizzata dall’affermazione della cosiddetta “economia della conoscenza” rassegnarsi a perdere per strada, nell’ignoranza e nell’inattività (o nell’assoluta precarietà del lavoro irregolare e “nero”) un quarto delle nuove generazioni, con una percentuale ancora più alta di donne? No, naturalmente. Non solo perché il permanere di tali clamorosi divari squilibra profondamente gli assetti sociali (determinando frustrazioni, rancore, senso di estraneità rispetto agli interessi e ai valori dell’intero sistema Paese, come documentano da alcuni anni le indagini del Censis) ma anche perché alle imprese, motore dello sviluppo, vengono a mancare risorse umane indispensabili.

Lo conferma appunto quel 40% di posti rimasti scoperti, di cui parlavamo. Mancano professionalità sofisticate per le professioni legate all’innovazione tecnologica e alla digital economy (ingegneri, matematici, informatici, statistici, fisici, chimici, data analyst ed esperti di cyber security, neuroscienziati e tecnici del complesso mondo delle life sciences), ma anche tecnici intermedi per l’industria meccanica, meccatronica, chimica oltre che per l’intero comparto delle costruzioni.

Come uscirne? Le scelte fatte sinora si sono dimostrate fallimentari, dall’uso del reddito di cittadinanza come anticamera per trovare lavoro ai pensionamenti anticipati degli anziani nell’illusioni che al loro posto entrassero i giovani, dai programmi di formazione (affidati alle regioni  e quanto mai carenti rispetto ai bisogni reali del mondo del lavoro) alle iniziative europee chiamate Youth Guarentee e tradotte nei progetti “GOL” (Garanze occupabilità dei lavoratori).

E’ necessario cambiare strada. E destinare le risorse previste dal Pnrr secondo le indicazioni del Recovery Plan della Ue alle nuove generazioni, insistendo su formazione di qualità, rapporto scuola-lavoro, valorizzazione degli istituti tecnici normali e superiori.

Misure specifiche a parte, è indispensabile un impegno politico e culturale più generale, per fare capire alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi scoraggiati e sfiduciati l’importanza della scuola e della conoscenza, con progetti di formazione credibili e utili e con una vera e propria battaglia civile in cui coinvolgere personalità della cultura, dello spettacolo e dello sport, influencer e testimonial legati al mondo giovanile.

L’Italia è un paese che vive una crescente, allarmante crisi demografica, invecchia e declina (“in 50 anni in Italia saremo 12 milioni in meno”, ha calcolato l’Istat nel novembre ‘21). E a maggior ragione non può rassegnarsi a perdere un quarto dei propri ragazzi senza né capacità di studio né impegno per il lavoro. L’emergenza sociale merita risposte rapide ed efficaci. E un’assunzione di responsabilità politica forte. Il presidente della Repubblica Mattarella, in più occasioni, ha posto il problema con incisiva chiarezza. Tocca al governo, al Parlamento e alle forze politiche definire scelte e provvedimenti concreti. Finalmente, con senso di volontà civile e passione per un migliore futuro.

foto: Getty Images

Il lavoro e i giovani in Italia. Un mondo di divari, una prospettiva di crescente degrado. E dunque un drammatico rischio proprio per le prospettive di sviluppo dell’intero Paese. Un rischio, ancora, che non riguarda solo l’economia, ma più in generale l’intero assetto sociale e, naturalmente, la qualità stessa della nostra democrazia. C’è un nesso forte tra partecipazione politica, senso di responsabilità civile verso la comunità e occupazione (come indica, già nell’articolo 1, la Costituzione). E troppo a lungo il problema è rimasto senza risposte.

Partiamo da due dati, per cercare di capire meglio. Uno è 3 milioni. L’altro è una percentuale, 40%.

3 milioni sono i giovani che non studiano, non lavorano e non sono inseriti in alcun percorso formativo (anzi, per l’esattezza, 3 milioni e 47mila). In sigla, i Neet (che vuol dire not in employment, education or training). In percentuale, il 25% dei ragazzi e delle ragazze tra i 15 e i 34 anni, la media più alta della Ue, peggio ancora che in Grecia, Bulgaria, Spagna e Romania. Una lost generation, una generazione perduta, per usare la definizione preoccupata del presidente del Consiglio Mario Draghi.

40% è la percentuale dei posti che l’impresa vorrebbe coprire, ma per cui non trova personale qualificato o pronto a qualificarsi rapidamente.

In sintesi: un giovane su quattro è lontano da scuola e lavoro, proprio mentre dal mondo dell’impresa risuona l’allarme per la perdita di opportunità di crescita economica generale ma anche di affermazione professionale e individuale di milioni di persone. In sintesi: I ragazzi restano a casa, sfiduciati e le aziende non sanno chi assumere. Un inquietante paradosso.

Chi sono i Neet? I dati istat, Ocse ed Eurostat contenuti nell’indagine “Neet Working”, il Piano di emersione e orientamento giovani inattivi organizzato dal ministero per le Politiche giovanili in collaborazione con il ministero del Lavoro dicono che di quei 3 milioni e più, 1,7 sono donne (un terzo di coloro che sono nella stessa condizione in tutta Europa, un tristissimo primato). Molti hanno abbandonato la scuola dopo la licenza media. E sono concentrarti soprattutto nel Mezzogiorno, in Sicilia, con il 30% di Neet fra i 15 e i 24 anni, in Calabria con i 28,4% e in Campania con il 27,3%.

Guardando ancora più in dettaglio, di quei 3 milioni, i disoccupati (ovvero chi non ha un lavoro ma lo sta cercando) sono circa 1 milione, mentre gli inattivi (chi non ha un lavoro ma nemmeno lo cerca) sono gli altri 2milioni. Uno scenario drammatico, che adesso è aggravato dalla crisi determinata da pandemia, recessione ed effetti da aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime e rallentamento del tasso di crescita a causa della guerra in Ucraina.

Può dunque un Paese, nel medio periodo e in una situazione caratterizzata dall’affermazione della cosiddetta “economia della conoscenza” rassegnarsi a perdere per strada, nell’ignoranza e nell’inattività (o nell’assoluta precarietà del lavoro irregolare e “nero”) un quarto delle nuove generazioni, con una percentuale ancora più alta di donne? No, naturalmente. Non solo perché il permanere di tali clamorosi divari squilibra profondamente gli assetti sociali (determinando frustrazioni, rancore, senso di estraneità rispetto agli interessi e ai valori dell’intero sistema Paese, come documentano da alcuni anni le indagini del Censis) ma anche perché alle imprese, motore dello sviluppo, vengono a mancare risorse umane indispensabili.

Lo conferma appunto quel 40% di posti rimasti scoperti, di cui parlavamo. Mancano professionalità sofisticate per le professioni legate all’innovazione tecnologica e alla digital economy (ingegneri, matematici, informatici, statistici, fisici, chimici, data analyst ed esperti di cyber security, neuroscienziati e tecnici del complesso mondo delle life sciences), ma anche tecnici intermedi per l’industria meccanica, meccatronica, chimica oltre che per l’intero comparto delle costruzioni.

Come uscirne? Le scelte fatte sinora si sono dimostrate fallimentari, dall’uso del reddito di cittadinanza come anticamera per trovare lavoro ai pensionamenti anticipati degli anziani nell’illusioni che al loro posto entrassero i giovani, dai programmi di formazione (affidati alle regioni  e quanto mai carenti rispetto ai bisogni reali del mondo del lavoro) alle iniziative europee chiamate Youth Guarentee e tradotte nei progetti “GOL” (Garanze occupabilità dei lavoratori).

E’ necessario cambiare strada. E destinare le risorse previste dal Pnrr secondo le indicazioni del Recovery Plan della Ue alle nuove generazioni, insistendo su formazione di qualità, rapporto scuola-lavoro, valorizzazione degli istituti tecnici normali e superiori.

Misure specifiche a parte, è indispensabile un impegno politico e culturale più generale, per fare capire alle nostre ragazze e ai nostri ragazzi scoraggiati e sfiduciati l’importanza della scuola e della conoscenza, con progetti di formazione credibili e utili e con una vera e propria battaglia civile in cui coinvolgere personalità della cultura, dello spettacolo e dello sport, influencer e testimonial legati al mondo giovanile.

L’Italia è un paese che vive una crescente, allarmante crisi demografica, invecchia e declina (“in 50 anni in Italia saremo 12 milioni in meno”, ha calcolato l’Istat nel novembre ‘21). E a maggior ragione non può rassegnarsi a perdere un quarto dei propri ragazzi senza né capacità di studio né impegno per il lavoro. L’emergenza sociale merita risposte rapide ed efficaci. E un’assunzione di responsabilità politica forte. Il presidente della Repubblica Mattarella, in più occasioni, ha posto il problema con incisiva chiarezza. Tocca al governo, al Parlamento e alle forze politiche definire scelte e provvedimenti concreti. Finalmente, con senso di volontà civile e passione per un migliore futuro.

foto: Getty Images

Impresa, femminile singolare

Operaie, campionesse sportive, scrittrici, giornaliste, designer. E molto altro. La storia della Pirelli si intreccia con un universo femminile da leggere, interpretare, immaginare. Libri matricola, rubriche, fascicoli del personale, fotografie, articoli: l’archivio racconta una storia d’impresa che è anche una storia al femminile. Rosa Navoni è la prima donna assunta alla Pirelli, nella fabbrica milanese di via Ponte Seveso. Nel 1873 ha solo 15 anni, è operaia nel reparto palloni “da giuoco”; il suo nome compare nei libri matricola, e il suo volto nel volume pubblicato per celebrare i cinquant’anni del Gruppo, nel 1922. Anche sulle piste, in un contesto tipicamente maschile, c’è una “prima donna”: Maria Teresa de Filippis, contessa nata a Napoli nel 1926, campionessa delle quattro ruote. In una foto del nostro archivio, si prepara ad affrontare la corsa Stella Alpina 1949 su una Taraschi Urania Sport, motorizzata BMW e gommata Pirelli Stella Bianca. Donne e scrittura: tra le firme pubblicate sulla Rivista Pirelli, tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, c’è quella di Fernanda Pivano, che porta i lettori alla scoperta dell’America letteraria nel 1953, tra Francis Scott Fitzgerald e John Steinbeck. Gianna Manzini descrive senza filtri le “Donne al mare” “che sentono la loro potenza in modo assoluto, libere, dimentiche dei quotidiani duelli e delle stesse quotidiane vittorie”. Camilla Cederna inventa giochi di parole per “Un viaggio ma”, da percorre con pneumatici modello Cinturato, Lietta Tornabuoni intervista Pasolini nella sua casa romana: “Anche se non lo avessero spinto la curiosità, il desiderio di gioco e l’esibizionismo, avrebbe potuto comunque fare l’attore: nella parte di un poeta o magari di una apparizione simbolica (il Destino, la Morte, cose così) in un film francese del 1937.”

Negli stessi anni designer di fama internazionale come Lora Lamm, Jeanne Michot Grignani, Christiane Beylier e Christa Tschopp contribuiscono alla creazione di uno stile grafico unico nella storia della comunicazione visiva. Firmano campagne pubblicitarie per impermeabili alla moda, disegnano donne in sella a bici, scooter Vespa e Lambretta gommati Pirelli, reinventano il logo sperimentando forme nuove per la P lunga. Un marchio che, in un secolo e mezzo d’impresa, accomuna storie di lavoro, competenza, intraprendenza, creatività. Storie, anche, al femminile.

Operaie, campionesse sportive, scrittrici, giornaliste, designer. E molto altro. La storia della Pirelli si intreccia con un universo femminile da leggere, interpretare, immaginare. Libri matricola, rubriche, fascicoli del personale, fotografie, articoli: l’archivio racconta una storia d’impresa che è anche una storia al femminile. Rosa Navoni è la prima donna assunta alla Pirelli, nella fabbrica milanese di via Ponte Seveso. Nel 1873 ha solo 15 anni, è operaia nel reparto palloni “da giuoco”; il suo nome compare nei libri matricola, e il suo volto nel volume pubblicato per celebrare i cinquant’anni del Gruppo, nel 1922. Anche sulle piste, in un contesto tipicamente maschile, c’è una “prima donna”: Maria Teresa de Filippis, contessa nata a Napoli nel 1926, campionessa delle quattro ruote. In una foto del nostro archivio, si prepara ad affrontare la corsa Stella Alpina 1949 su una Taraschi Urania Sport, motorizzata BMW e gommata Pirelli Stella Bianca. Donne e scrittura: tra le firme pubblicate sulla Rivista Pirelli, tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, c’è quella di Fernanda Pivano, che porta i lettori alla scoperta dell’America letteraria nel 1953, tra Francis Scott Fitzgerald e John Steinbeck. Gianna Manzini descrive senza filtri le “Donne al mare” “che sentono la loro potenza in modo assoluto, libere, dimentiche dei quotidiani duelli e delle stesse quotidiane vittorie”. Camilla Cederna inventa giochi di parole per “Un viaggio ma”, da percorre con pneumatici modello Cinturato, Lietta Tornabuoni intervista Pasolini nella sua casa romana: “Anche se non lo avessero spinto la curiosità, il desiderio di gioco e l’esibizionismo, avrebbe potuto comunque fare l’attore: nella parte di un poeta o magari di una apparizione simbolica (il Destino, la Morte, cose così) in un film francese del 1937.”

Negli stessi anni designer di fama internazionale come Lora Lamm, Jeanne Michot Grignani, Christiane Beylier e Christa Tschopp contribuiscono alla creazione di uno stile grafico unico nella storia della comunicazione visiva. Firmano campagne pubblicitarie per impermeabili alla moda, disegnano donne in sella a bici, scooter Vespa e Lambretta gommati Pirelli, reinventano il logo sperimentando forme nuove per la P lunga. Un marchio che, in un secolo e mezzo d’impresa, accomuna storie di lavoro, competenza, intraprendenza, creatività. Storie, anche, al femminile.

Difendere la migliore italianità industriale

Una saggio pubblicato da poco approfondisce gli aspetti tecnico-giuridici del Made in Italy

La cultura d’impresa del ben fatto va non solo valorizzata ma anche difesa. Questione di diritti, oltre che di creatività. E tema che va ben conosciuto, anche dai creativi. E’ attorno a questo argomento che si concentra il saggio di Valentina Barella apparso su Osservatorio del diritto civile e commerciale.
“La creatività della moda in Italia e negli Stati Uniti: necessità di un nuovo approccio di tutela” affronta il diritto della moda descrivendo i tanti esempi di contraffazione, copia, imitazioni e le minacce alla creatività. L’obiettivo è quello di confrontare la tutela offerta in Italia (secondo le scelte europee) – attraverso le discipline diverse e talvolta sovrapposte come il diritto dei marchi , diritto sui brevetti, diritto d’autore e diritto del design -, con la protezione offerta negli Stati Uniti dove non sono state emanate leggi sul design.
Il nocciolo del tema, infatti, è che c’è una netta differenza tra le due firme di protezione in Europa a seconda che si tratti di un design registrato o di un design non registrato. In altre parole, se in Europa si pone l’attenzione sulla differenza delle due forme di tutela a seconda che si tratti o meno di un design registrato, negli USA la protezione è ottenuta grazie all’identità avanzata del marchio e alla possibile separazione fisica e concettuale dell’aspetto creativo da quello funzionale, condizione ambiziosa per usufruire della tutela del diritto d’autore. A causa della difficoltà di utilizzare quest’ultimo criterio, incerto e poco chiaro, l’obiettivo è infine quello di individuare le tutele alternative e considerare il ruolo cruciale dei social media, che rappresentano i nuovi campi di battaglia per la tutela di questi diritti. E’ importante – sottolinea Valentina Barella -, contare su un sistema globale che incida su piattaforme digitali complesse e permetta quindi di superare il problema del territorio senza sottovalutare l’importante ruolo svolto dalle Autorità Antitrust. E’ quindi l’imprescindibile legame tra creatività e luoghi nei quali si esplicita che viene posta al centro delle possibili di fese della stessa.
Il saggio di Barella ha certamente un tratto tecnico-giuridico non facile da affrontare, ma ha il pregio di accendere una luce vivida su aspetto troppo spesso trascurato di quella cultura d’impresa che ogni giorno contribuisce a far conoscere il meglio dell’italianità industriale nel mondo.

La creatività della moda in Italia e negli Stati Uniti: necessità di un nuovo approccio di tutela
Valentina Barella
Osservatorio del diritto civile e commerciale, 2/2021, pp. 321-346

Una saggio pubblicato da poco approfondisce gli aspetti tecnico-giuridici del Made in Italy

La cultura d’impresa del ben fatto va non solo valorizzata ma anche difesa. Questione di diritti, oltre che di creatività. E tema che va ben conosciuto, anche dai creativi. E’ attorno a questo argomento che si concentra il saggio di Valentina Barella apparso su Osservatorio del diritto civile e commerciale.
“La creatività della moda in Italia e negli Stati Uniti: necessità di un nuovo approccio di tutela” affronta il diritto della moda descrivendo i tanti esempi di contraffazione, copia, imitazioni e le minacce alla creatività. L’obiettivo è quello di confrontare la tutela offerta in Italia (secondo le scelte europee) – attraverso le discipline diverse e talvolta sovrapposte come il diritto dei marchi , diritto sui brevetti, diritto d’autore e diritto del design -, con la protezione offerta negli Stati Uniti dove non sono state emanate leggi sul design.
Il nocciolo del tema, infatti, è che c’è una netta differenza tra le due firme di protezione in Europa a seconda che si tratti di un design registrato o di un design non registrato. In altre parole, se in Europa si pone l’attenzione sulla differenza delle due forme di tutela a seconda che si tratti o meno di un design registrato, negli USA la protezione è ottenuta grazie all’identità avanzata del marchio e alla possibile separazione fisica e concettuale dell’aspetto creativo da quello funzionale, condizione ambiziosa per usufruire della tutela del diritto d’autore. A causa della difficoltà di utilizzare quest’ultimo criterio, incerto e poco chiaro, l’obiettivo è infine quello di individuare le tutele alternative e considerare il ruolo cruciale dei social media, che rappresentano i nuovi campi di battaglia per la tutela di questi diritti. E’ importante – sottolinea Valentina Barella -, contare su un sistema globale che incida su piattaforme digitali complesse e permetta quindi di superare il problema del territorio senza sottovalutare l’importante ruolo svolto dalle Autorità Antitrust. E’ quindi l’imprescindibile legame tra creatività e luoghi nei quali si esplicita che viene posta al centro delle possibili di fese della stessa.
Il saggio di Barella ha certamente un tratto tecnico-giuridico non facile da affrontare, ma ha il pregio di accendere una luce vivida su aspetto troppo spesso trascurato di quella cultura d’impresa che ogni giorno contribuisce a far conoscere il meglio dell’italianità industriale nel mondo.

La creatività della moda in Italia e negli Stati Uniti: necessità di un nuovo approccio di tutela
Valentina Barella
Osservatorio del diritto civile e commerciale, 2/2021, pp. 321-346

L’aria che tira a Milano, tra moda, scienza e paure. E la chiave per capire sta in un romanzo noir

Che aria tira, in questi giorni, a Milano? Arie diverse ma comunque intense, coinvolgenti, inquietanti.

Aria di solidarietà con l’Ucraina invasa dall’esercito russo, i colori blu e giallo nelle piazze e sulle facciate dei monumenti, le dichiarazioni politiche e culturali, la sirena dell’allarme aereo che apre gli spettacoli al Teatro Parenti di Andrée Ruth Shammah per sottolineare la solidarietà tra noi che siamo qui davanti a un palcoscenico e gli ucraini che resistono sotto le bombe.

Aria di scienza, con l’inaugurazione dei primi laboratori sperimentali allo Human Technopole, con i cinque sofisticatissimi microscopi per sequenziale cento filamenti di Dna in parallelo in 48 ore: scienza e ricerca, salute come bene pubblico primario e conoscenza di quel che serve per migliorare la qualità della vita.
Aria di “amarcord”, con le ricorrenze dei trent’anni dall’esplosione di Mani Pulite, tangenti e indagini giudiziarie, un terremoto che disastrò i partiti della Prima Repubblica e un pezzo rilevante di imprenditoria: fioriscono libri, convegni, racconti critici e autocritici. Ma la corruzione diffusa continua a umiliare amministratori, imprese e cittadini perbene.
Aria di violenza, con le bande criminali di ragazzini che dalla provincia e dalle periferie imperversano “nella Milano che luccica”, una rissa, una rapina, un accoltellamento. Marginalità, disagio, rancore sociale, frenesia di soldi immediati per consumi facili. “Movida sotto scorta per fermare le proteste”, titolano le cronache milanesi dei grandi quotidiani, dando conto dell’esasperazione di chi vive nelle strade e nelle piazze del centro prese d’assalto.
Aria di moda, con le sfilate, le modelle, le vetrine fashion nel Quadrilatero, le Mercedes nere degli autisti, non un posto libero in cui dormire o cenare se non hai prenotato settimane fa. Tutto glamour, con punte di consapevolezza (niente musica alla sfilata di Armani) dei tempi difficili che stiamo attraversando.
Aria di trasformazioni di lungo periodo, con vecchi quartieri che rinascono (come NoLo, North of Loreto, nelle aree di nord est tra viale Monza, via Padova e Greco: ne abbiamo parlato nel blog di due settimane fa) e nuovi insediamenti di tendenza, a sud ovest, nella zona tutt’attorno alla Fondazione Prada, arte contemporanea e lusso, ribattezzata Pradate.

Le metropoli, d’altronde, sono così. Mutevoli. Molteplici. E’ la loro natura complessa. Il loro bello. La loro ricchezza. La loro dannazione.

“Milano è l’unico luogo che ha tutti i pregi e i difetti dell’Italia”, sentenzia Gianni Biondillo, architetto urbanista per formazione, scrittore di noir per passione, mentre sfoglia le pagine del suo ultimo libro, appena pubblicato da Guanda, “I cani del Barrio”, con un’indagine del protagonista preferito, l’ispettore Ferraro, sul tentato omicidio di un imprenditore “etico, molto corteggiato dalla politica, che ha costruito la sua fortuna combattendo mafia e malaffare”. L’area di partenza dell’inchiesta è il commissariato di Quarto Oggiaro, dove l’autore è cresciuto, per divagare poi verso viale Padova (riecco NoLo…), il Corvetto, Rogoredo. Quartieri con radici in ambienti sociali difficili e cambiamenti antropologici e sociali in corso. In realtà “il protagonista dei miei libri non è l’ispettore Ferraro, ma Milano. Tutti pensano che io scriva noir, ma è il mio modo per fare urbanistica, scrivo saggi di interpretazione della città”.

Ecco il punto: uno dei modi migliori per cercare di capire e raccontare Milano è affidarsi alla letteratura, ai romanzi “gialli” o noir che dir si voglia. Perché, spiega Alessandro Robecchi, inventore, per Sellerio, dell’investigatore per caso Carlo Monterossi, autore di spettacoli trash per la Tv, “Milano è piccola, le sue ambientazioni e le sue componenti sociali si muovono gomito a gomito. Per dire: a San Siro, in duecento metri, c’è la villa del calciatore e la casba di piazza Selinunte. Sacche di disagio affiorano nei quartieri cosiddetti residenziali: la presenza di contraddizioni così vicine rende la città bella da narrare”.

E’ dunque quanto mai acuta e pertinente la scelta dell’ultimo numero de “La Lettura” del Corriere della Sera (domenica, 27 gennaio) di dedicare l’inchiesta di copertina a “Il giallo di Milano”, ricordandone l’origine nelle pagine di Giorgio Scerbanenco (ucraino d’origine, val la pena notare proprio in questi giorni, pronto a cambiare il nome originale di Vladimir Scerbanenko per non sentirsi troppo estraneo alla città d’elezione) e ricostruendo storie, ambienti e stili letterari delle opere di Biondillo e Robecchi appena citati e poi di Luca Crovi, Gian Andrea Cerone, Enrico Vanzina, Hans Tuzzi, Andrea G. Pinketts, Rosa Teruzzi e tanti altri ancora.

“Milano – spiega Tuzzi – è sempre stata un laboratorio che ha anticipato scelte nazionali. Questo tratto la rende una città simbolo, anche nelle sue brusche accelerazioni. È la più moderna e la più europea tra quelle italiane, anche nella criminalità. C’è un accumulo di ricchezze e i soldi portano con sé ombre e conflitti sociali, tutte contraddizioni che invitano a sfruttare l’elemento del giallo come lo videro André Gide e Carlo Emilio Gadda, un tipo di storia che può fornire, poiché ha al suo centro un crimine, una chiave per rappresentare il nostro tempo”.

Milano paradigma, insomma. In un tempo inquieto. Drammatico. Controverso. Ma forse, proprio per questo, quanto mai interessante da vivere. E da scrivere.

foto: Getty Images

Che aria tira, in questi giorni, a Milano? Arie diverse ma comunque intense, coinvolgenti, inquietanti.

Aria di solidarietà con l’Ucraina invasa dall’esercito russo, i colori blu e giallo nelle piazze e sulle facciate dei monumenti, le dichiarazioni politiche e culturali, la sirena dell’allarme aereo che apre gli spettacoli al Teatro Parenti di Andrée Ruth Shammah per sottolineare la solidarietà tra noi che siamo qui davanti a un palcoscenico e gli ucraini che resistono sotto le bombe.

Aria di scienza, con l’inaugurazione dei primi laboratori sperimentali allo Human Technopole, con i cinque sofisticatissimi microscopi per sequenziale cento filamenti di Dna in parallelo in 48 ore: scienza e ricerca, salute come bene pubblico primario e conoscenza di quel che serve per migliorare la qualità della vita.
Aria di “amarcord”, con le ricorrenze dei trent’anni dall’esplosione di Mani Pulite, tangenti e indagini giudiziarie, un terremoto che disastrò i partiti della Prima Repubblica e un pezzo rilevante di imprenditoria: fioriscono libri, convegni, racconti critici e autocritici. Ma la corruzione diffusa continua a umiliare amministratori, imprese e cittadini perbene.
Aria di violenza, con le bande criminali di ragazzini che dalla provincia e dalle periferie imperversano “nella Milano che luccica”, una rissa, una rapina, un accoltellamento. Marginalità, disagio, rancore sociale, frenesia di soldi immediati per consumi facili. “Movida sotto scorta per fermare le proteste”, titolano le cronache milanesi dei grandi quotidiani, dando conto dell’esasperazione di chi vive nelle strade e nelle piazze del centro prese d’assalto.
Aria di moda, con le sfilate, le modelle, le vetrine fashion nel Quadrilatero, le Mercedes nere degli autisti, non un posto libero in cui dormire o cenare se non hai prenotato settimane fa. Tutto glamour, con punte di consapevolezza (niente musica alla sfilata di Armani) dei tempi difficili che stiamo attraversando.
Aria di trasformazioni di lungo periodo, con vecchi quartieri che rinascono (come NoLo, North of Loreto, nelle aree di nord est tra viale Monza, via Padova e Greco: ne abbiamo parlato nel blog di due settimane fa) e nuovi insediamenti di tendenza, a sud ovest, nella zona tutt’attorno alla Fondazione Prada, arte contemporanea e lusso, ribattezzata Pradate.

Le metropoli, d’altronde, sono così. Mutevoli. Molteplici. E’ la loro natura complessa. Il loro bello. La loro ricchezza. La loro dannazione.

“Milano è l’unico luogo che ha tutti i pregi e i difetti dell’Italia”, sentenzia Gianni Biondillo, architetto urbanista per formazione, scrittore di noir per passione, mentre sfoglia le pagine del suo ultimo libro, appena pubblicato da Guanda, “I cani del Barrio”, con un’indagine del protagonista preferito, l’ispettore Ferraro, sul tentato omicidio di un imprenditore “etico, molto corteggiato dalla politica, che ha costruito la sua fortuna combattendo mafia e malaffare”. L’area di partenza dell’inchiesta è il commissariato di Quarto Oggiaro, dove l’autore è cresciuto, per divagare poi verso viale Padova (riecco NoLo…), il Corvetto, Rogoredo. Quartieri con radici in ambienti sociali difficili e cambiamenti antropologici e sociali in corso. In realtà “il protagonista dei miei libri non è l’ispettore Ferraro, ma Milano. Tutti pensano che io scriva noir, ma è il mio modo per fare urbanistica, scrivo saggi di interpretazione della città”.

Ecco il punto: uno dei modi migliori per cercare di capire e raccontare Milano è affidarsi alla letteratura, ai romanzi “gialli” o noir che dir si voglia. Perché, spiega Alessandro Robecchi, inventore, per Sellerio, dell’investigatore per caso Carlo Monterossi, autore di spettacoli trash per la Tv, “Milano è piccola, le sue ambientazioni e le sue componenti sociali si muovono gomito a gomito. Per dire: a San Siro, in duecento metri, c’è la villa del calciatore e la casba di piazza Selinunte. Sacche di disagio affiorano nei quartieri cosiddetti residenziali: la presenza di contraddizioni così vicine rende la città bella da narrare”.

E’ dunque quanto mai acuta e pertinente la scelta dell’ultimo numero de “La Lettura” del Corriere della Sera (domenica, 27 gennaio) di dedicare l’inchiesta di copertina a “Il giallo di Milano”, ricordandone l’origine nelle pagine di Giorgio Scerbanenco (ucraino d’origine, val la pena notare proprio in questi giorni, pronto a cambiare il nome originale di Vladimir Scerbanenko per non sentirsi troppo estraneo alla città d’elezione) e ricostruendo storie, ambienti e stili letterari delle opere di Biondillo e Robecchi appena citati e poi di Luca Crovi, Gian Andrea Cerone, Enrico Vanzina, Hans Tuzzi, Andrea G. Pinketts, Rosa Teruzzi e tanti altri ancora.

“Milano – spiega Tuzzi – è sempre stata un laboratorio che ha anticipato scelte nazionali. Questo tratto la rende una città simbolo, anche nelle sue brusche accelerazioni. È la più moderna e la più europea tra quelle italiane, anche nella criminalità. C’è un accumulo di ricchezze e i soldi portano con sé ombre e conflitti sociali, tutte contraddizioni che invitano a sfruttare l’elemento del giallo come lo videro André Gide e Carlo Emilio Gadda, un tipo di storia che può fornire, poiché ha al suo centro un crimine, una chiave per rappresentare il nostro tempo”.

Milano paradigma, insomma. In un tempo inquieto. Drammatico. Controverso. Ma forse, proprio per questo, quanto mai interessante da vivere. E da scrivere.

foto: Getty Images

Culture della buona finanza e della buona impresa

Sintetizzati in un libro scritto a più mani gli aspetti cruciali dell’etica, dell’impresa e della finanza

Economia e finanza a confronto con l’etica e sguardo verso gli altri. Confronto che deve essere costruttivo. E che va condotto con grande attenzione. Che può essere accresciuta leggendo “Etica ed educazione finanziaria”, buon libro collettaneo curato da Paolo Moro e Mario Pomini che hanno raccolto contributi di da economisti e da giuristi che, con un approccio interdisciplinare e un’esposizione lineare, presentano alcune recenti prospettive sviluppate nella ricerca scientifica e nella prassi didattica. Perché l’accento del volume – importante e da non trascurare -, è proprio quello sulle connessioni tra etica ed educazione finanziaria. L’intero libro è infatti fondato sul ragionamento attorno  della centralità odierna dell’educazione finanziaria, intesa anche come educazione civica.

Ad essere “passati al setaccio”, quindi, alcuni dei grandi temi del momento: l’etica del consumatore e il “merito” del debitore, i profili etici e giuridici della prestazione dei servizi d’investimento, la cultura finanziaria nelle piccole e medie imprese nonché nelle banche, anche alla luce del principio di sostenibilità, la struttura degli investimenti speculativi nel sistema finanziario. Il volume contiene anche uno sguardo puntuale ed aggiornato sull’educazione alla tecnofinanza (fintech), con l’analisi giuridica ed economica dello scambio algoritmico nel mercato e lo spinoso tema  degli investimenti in crypto assets.

Si delinea così la necessità di una “cultura finanziaria” che ancora stenta a farsi largo nel nostro Paese e che, invece, potrebbe essere valida compagna di strada di quella buona cultura d’impresa riconosciuta ormai come imprescindibile all’interno dell’economia e della società, ma che necessita comunque di attenzioni continue

In poco meno di duecento pagine, Moro e Pomini (rispettivamente professore ordinario di filosofia del diritto e professore associato di economia politica  presso l’Università degli Studi di Padova), forniscono così una sorta di vademecum intelligente per districarsi lungo i tortuosi sentieri che uniscono l’etica alla finanza, i corretti rapporti all’interno della società e quelli contenuti nelle strutture finanziarie che ne costituiscono una parte importante.

Etica ed educazione finanziaria

Paolo Moro, Mario Pomini (a cura di)

Francio Angeli, 2022

Sintetizzati in un libro scritto a più mani gli aspetti cruciali dell’etica, dell’impresa e della finanza

Economia e finanza a confronto con l’etica e sguardo verso gli altri. Confronto che deve essere costruttivo. E che va condotto con grande attenzione. Che può essere accresciuta leggendo “Etica ed educazione finanziaria”, buon libro collettaneo curato da Paolo Moro e Mario Pomini che hanno raccolto contributi di da economisti e da giuristi che, con un approccio interdisciplinare e un’esposizione lineare, presentano alcune recenti prospettive sviluppate nella ricerca scientifica e nella prassi didattica. Perché l’accento del volume – importante e da non trascurare -, è proprio quello sulle connessioni tra etica ed educazione finanziaria. L’intero libro è infatti fondato sul ragionamento attorno  della centralità odierna dell’educazione finanziaria, intesa anche come educazione civica.

Ad essere “passati al setaccio”, quindi, alcuni dei grandi temi del momento: l’etica del consumatore e il “merito” del debitore, i profili etici e giuridici della prestazione dei servizi d’investimento, la cultura finanziaria nelle piccole e medie imprese nonché nelle banche, anche alla luce del principio di sostenibilità, la struttura degli investimenti speculativi nel sistema finanziario. Il volume contiene anche uno sguardo puntuale ed aggiornato sull’educazione alla tecnofinanza (fintech), con l’analisi giuridica ed economica dello scambio algoritmico nel mercato e lo spinoso tema  degli investimenti in crypto assets.

Si delinea così la necessità di una “cultura finanziaria” che ancora stenta a farsi largo nel nostro Paese e che, invece, potrebbe essere valida compagna di strada di quella buona cultura d’impresa riconosciuta ormai come imprescindibile all’interno dell’economia e della società, ma che necessita comunque di attenzioni continue

In poco meno di duecento pagine, Moro e Pomini (rispettivamente professore ordinario di filosofia del diritto e professore associato di economia politica  presso l’Università degli Studi di Padova), forniscono così una sorta di vademecum intelligente per districarsi lungo i tortuosi sentieri che uniscono l’etica alla finanza, i corretti rapporti all’interno della società e quelli contenuti nelle strutture finanziarie che ne costituiscono una parte importante.

Etica ed educazione finanziaria

Paolo Moro, Mario Pomini (a cura di)

Francio Angeli, 2022

3 marzo 1997: le “prime” 100 vittorie della P lunga nel rally

Tutto ha inizio nel 1973. In quell’anno si disputa il primo Campionato Mondiale Rally e la Pirelli sigla la sua prima vittoria iridata nella specialità, su Fiat 124 Abarth guidata dal tedesco Achim Warmbold. A questa sarebbero seguite molte altre vittorie, fino ad arrivare alla celebrazione della numero 100, il 3 marzo del 1997.  Prima dell’istituzione del campionato ufficiale i rally esistevano già da diversi anni, e avevano visto la Pirelli protagonista di alcune vere e proprie imprese, come la vittoria della Lancia Fulvia HF 1600 di Sandro Munari e Mario Mannucci nel 41° Rally di Montecarlo il 28 gennaio 1972. A partire dal 1973, le prime 14 stagioni del mondiale sono all’insegna della collaborazione ufficiale con il gruppo Fiat: cinque titoli conquistati con auto del marchio torinese tra il 1974 e il 1978 e poi con Lancia nel 1983 e nel 1987, trionfando in Canada, Svezia, Grecia, Nuova Zelanda, Argentina, su ogni tipo di terreno. È poi la volta della collaborazione con Toyota, e i primi successi in Africa nel 1984 – con l’esordio del futuro campione Juha Kankkunen – e poi le vittorie dello spagnolo Carlos Sainz che conquista due titoli nel 1990 e nel 1992. Un’altra era che vede protagonista la Pirelli nel campionato mondiale rally inizia nel 1994, quando la P lunga equipaggia le Subaru Impreza Gr. A del 555 World Rally Team, pilotate da Sainz e da Colin McRae. Fino alla vittoria n. 100 nel 1997, sempre con il 555 World Rally Team.

Una serie di successi che non si ferma e che continua ancora oggi con la fornitura esclusiva da parte di Pirelli nel Campionato Mondiale Rally.

Tutto ha inizio nel 1973. In quell’anno si disputa il primo Campionato Mondiale Rally e la Pirelli sigla la sua prima vittoria iridata nella specialità, su Fiat 124 Abarth guidata dal tedesco Achim Warmbold. A questa sarebbero seguite molte altre vittorie, fino ad arrivare alla celebrazione della numero 100, il 3 marzo del 1997.  Prima dell’istituzione del campionato ufficiale i rally esistevano già da diversi anni, e avevano visto la Pirelli protagonista di alcune vere e proprie imprese, come la vittoria della Lancia Fulvia HF 1600 di Sandro Munari e Mario Mannucci nel 41° Rally di Montecarlo il 28 gennaio 1972. A partire dal 1973, le prime 14 stagioni del mondiale sono all’insegna della collaborazione ufficiale con il gruppo Fiat: cinque titoli conquistati con auto del marchio torinese tra il 1974 e il 1978 e poi con Lancia nel 1983 e nel 1987, trionfando in Canada, Svezia, Grecia, Nuova Zelanda, Argentina, su ogni tipo di terreno. È poi la volta della collaborazione con Toyota, e i primi successi in Africa nel 1984 – con l’esordio del futuro campione Juha Kankkunen – e poi le vittorie dello spagnolo Carlos Sainz che conquista due titoli nel 1990 e nel 1992. Un’altra era che vede protagonista la Pirelli nel campionato mondiale rally inizia nel 1994, quando la P lunga equipaggia le Subaru Impreza Gr. A del 555 World Rally Team, pilotate da Sainz e da Colin McRae. Fino alla vittoria n. 100 nel 1997, sempre con il 555 World Rally Team.

Una serie di successi che non si ferma e che continua ancora oggi con la fornitura esclusiva da parte di Pirelli nel Campionato Mondiale Rally.

150 anni d’impresa in scena al Piccolo Teatro di Milano tra passato, presente e futuro

“Abbiamo voluto percorrere insieme un viaggio nella storia guardando al futuro. Anticipare il cambiamento è quello che Pirelli fa da 150 anni grazie alla solidità della sua cultura di impresa e al suo saper essere sempre protagonista del presente. Elementi che oggi ci consentono di arrivare a questo traguardo con un brand affermato in tutto il mondo. Ci è sembrato importante condividere questo racconto con la nostra città, il nostro Paese e con tutte le realtà e le comunità internazionali con le quali quotidianamente ci confrontiamo. Un grazie a tutte le 30.000 persone che ogni giorno in Pirelli costruiscono la nostra storia”. Marco Tronchetti Provera ha commentato così lo spettacolo che il 28 gennaio scorso ha dato il via ai festeggiamenti per i 150 anni dell’azienda di cui è Vice Presidente Esecutivo & CEO. L’evento, condotto da Ilaria D’Amico, ha visto alternarsi sul palco del Piccolo Teatro di Milano testimonianze, voci e immagini, provenienti dall’archivio aziendale, per rappresentare una storia d’industria, cultura, costume, tecnologia e passione, iniziata il 28 gennaio 1872. A ripercorrere i momenti più significativi sono stati Ferruccio De Bortoli, Stefano Domenicali, Paolo Mieli, Renzo Piano, Alberto Pirelli, Ferruccio Resta, Annamaria Testa, oltre allo stesso Tronchetti Provera. Un secolo e mezzo vissuto dalla Pirelli nel segno di ciò che la distingue maggiormente: la dimensione internazionale, le fabbriche, il rapporto con la cultura e con gli artisti, la creatività nella comunicazione, la presenza nello sport e nel motorsport, la costante ricerca di innovazione e l’avanguardia tecnologica.

Un viaggio nella storia, nel presente e nel futuro della società italiana pioniera nel settore della gomma che si intreccia con quella di una famiglia, di una città e di un intero Paese.

Guarda qui il video dell’evento

“Abbiamo voluto percorrere insieme un viaggio nella storia guardando al futuro. Anticipare il cambiamento è quello che Pirelli fa da 150 anni grazie alla solidità della sua cultura di impresa e al suo saper essere sempre protagonista del presente. Elementi che oggi ci consentono di arrivare a questo traguardo con un brand affermato in tutto il mondo. Ci è sembrato importante condividere questo racconto con la nostra città, il nostro Paese e con tutte le realtà e le comunità internazionali con le quali quotidianamente ci confrontiamo. Un grazie a tutte le 30.000 persone che ogni giorno in Pirelli costruiscono la nostra storia”. Marco Tronchetti Provera ha commentato così lo spettacolo che il 28 gennaio scorso ha dato il via ai festeggiamenti per i 150 anni dell’azienda di cui è Vice Presidente Esecutivo & CEO. L’evento, condotto da Ilaria D’Amico, ha visto alternarsi sul palco del Piccolo Teatro di Milano testimonianze, voci e immagini, provenienti dall’archivio aziendale, per rappresentare una storia d’industria, cultura, costume, tecnologia e passione, iniziata il 28 gennaio 1872. A ripercorrere i momenti più significativi sono stati Ferruccio De Bortoli, Stefano Domenicali, Paolo Mieli, Renzo Piano, Alberto Pirelli, Ferruccio Resta, Annamaria Testa, oltre allo stesso Tronchetti Provera. Un secolo e mezzo vissuto dalla Pirelli nel segno di ciò che la distingue maggiormente: la dimensione internazionale, le fabbriche, il rapporto con la cultura e con gli artisti, la creatività nella comunicazione, la presenza nello sport e nel motorsport, la costante ricerca di innovazione e l’avanguardia tecnologica.

Un viaggio nella storia, nel presente e nel futuro della società italiana pioniera nel settore della gomma che si intreccia con quella di una famiglia, di una città e di un intero Paese.

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