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Premio Campiello Junior 2022. Proclamato il vincitore di questa prima edizione

Oggi 6 maggio 2022 presso The Big Hall di H-Farm di Roncade (TV) è stato proclamato il vincitore della prima edizione del Premio Campiello Junior. Tra i tre libri finalisti i ragazzi della Giuria dei lettori hanno scelto:

Antonella Sbuelz, Questa notte non torno, Feltrinelli

Durante l’evento, presentato da Federico Russo con la partecipazione di Virginia Stagni, il Presidente della Giuria di Selezione Roberto Piumini e i giurati Chiara Lagani, Michela Possamai e David Tolin, hanno raccontato ai ragazzi presenti e a quelli collegati in streaming la loro passione per i libri e per la lettura.

Al 2023 con la prossima edizione del Premio!

Per guardare la registrazione dell’evento clicca qui.

Maggiori informazioni sulle iniziative del Premio Campiello Junior ai siti www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org.

Oggi 6 maggio 2022 presso The Big Hall di H-Farm di Roncade (TV) è stato proclamato il vincitore della prima edizione del Premio Campiello Junior. Tra i tre libri finalisti i ragazzi della Giuria dei lettori hanno scelto:

Antonella Sbuelz, Questa notte non torno, Feltrinelli

Durante l’evento, presentato da Federico Russo con la partecipazione di Virginia Stagni, il Presidente della Giuria di Selezione Roberto Piumini e i giurati Chiara Lagani, Michela Possamai e David Tolin, hanno raccontato ai ragazzi presenti e a quelli collegati in streaming la loro passione per i libri e per la lettura.

Al 2023 con la prossima edizione del Premio!

Per guardare la registrazione dell’evento clicca qui.

Maggiori informazioni sulle iniziative del Premio Campiello Junior ai siti www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org.

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Smart working, necessario oppure opportuno

Una tesi discussa all’Università di Padova fornisce una buona sintesi di un argomento complesso e in evoluzione

Lavorare “in remoto”. Smart working. Lavoro “da casa”. Indicato attraverso modalità linguistiche diverse, il cambiamento dell’organizzazione del lavoro negli uffici e in particolari imprese e determinato dal dilagare del Covid-19, rappresenta sempre di più una spinta al mutamento oltre che una semplice soluzione ad una condizione avversa. Ed è proprio su questa duplice natura dello smart working  che ragiona Speranta Bocan con il suo lavoro di ricerca condensato in “Smart working al tempo del Covid-19: opportunità o necessità?” tesi discussa presso l’Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno”, Corso di laurea in economia.

La ricerca inizia dalla collocazione di quanto sta avvenendo oggi nell’ambito della più ampia storia della rivoluzione industriale. La “quarta rivoluzione industriale – viene nell’introduzione al lavoro -, che sta interessando le società più avanzate e ha radicalmente cambiato il nostro modo di vivere, ma soprattutto il nostro modo di lavorare. Si presenta con un impatto ancora più dirompente rispetto alla precedente per almeno due motivi: la pervasività della connessione nella vita di persone e organizzazioni che ha come conseguenza l’espandersi infinito dello spazio-tempo individuale e collettivo e la velocità inedita con cui questa rivoluzione si sta manifestando”. Tutto, secondo Speranta Bocan, viene intensificato “dallo sviluppo della cosiddetta ‘economia delle piattaforme’, nata per facilitare il contatto, lo scambio e la collaborazione tra le persone sfruttando pratiche e modelli che utilizzano le tecnologie digitali e che si è sempre più trasformato in un nuovo modo di organizzare il lavoro, con realtà immateriali, le piattaforme, che gradualmente sostituiscono come datori di lavoro le più tradizionali organizzazioni aziendali”. E’ con questo bagaglio tecnico e culturale che il mondo industriale ha affrontato, nella gran parte dei casi, lo scatenarsi della pandemia di Covid-19.

La ricerca, dopo aver messo a fuoco il concetto di lavoro flessibile prima e dopo la pandemia, passa ad esaminare le diverse possibili strategie organizzative messe in atto dalle imprese per arrivare ad individuare le potenzialità delle organizzazione della produzione con i loro rischi e i loro vantaggi. Bocan cerca così di determinare se lo smart working debba essere inteso più come una opportunità oppure più come una necessità nell’ambito di un generale cambiamento della stessa cultura del produrre.

Conclude la ricerca: “Nonostante l’evidenza su quello che accadrà nel futuro sia ancora scarsa, sembra suggerire che modalità̀ di lavoro più̀ flessibile siano associate a un maggior utilizzo dell’input di lavoro, una più̀ elevata produttività̀ e un maggior benessere dei lavoratori” e ancora: “Il lavoro flessibile può rappresentare un’evoluzione positiva nel mondo del lavoro dopo aver neutralizzato i rischi che comprendono la sfera del worklife balance, quella dell’isolamento e dell’indebolirsi della dimensione relazionale e le altre già in precedenza elencate”.

La tesi di Speranta Bocan cerca di mettere correttamente a fuoco, e ci riesce, i termini di una questione complessa e ancora in evoluzione e che sta cambiando la cultura d’impresa.

Smart working al tempo del Covid-19: opportunità o necessità?

Speranta Bocan

Tesi, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno”, Corso di laurea in economia, 2021-2022

 

Una tesi discussa all’Università di Padova fornisce una buona sintesi di un argomento complesso e in evoluzione

Lavorare “in remoto”. Smart working. Lavoro “da casa”. Indicato attraverso modalità linguistiche diverse, il cambiamento dell’organizzazione del lavoro negli uffici e in particolari imprese e determinato dal dilagare del Covid-19, rappresenta sempre di più una spinta al mutamento oltre che una semplice soluzione ad una condizione avversa. Ed è proprio su questa duplice natura dello smart working  che ragiona Speranta Bocan con il suo lavoro di ricerca condensato in “Smart working al tempo del Covid-19: opportunità o necessità?” tesi discussa presso l’Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno”, Corso di laurea in economia.

La ricerca inizia dalla collocazione di quanto sta avvenendo oggi nell’ambito della più ampia storia della rivoluzione industriale. La “quarta rivoluzione industriale – viene nell’introduzione al lavoro -, che sta interessando le società più avanzate e ha radicalmente cambiato il nostro modo di vivere, ma soprattutto il nostro modo di lavorare. Si presenta con un impatto ancora più dirompente rispetto alla precedente per almeno due motivi: la pervasività della connessione nella vita di persone e organizzazioni che ha come conseguenza l’espandersi infinito dello spazio-tempo individuale e collettivo e la velocità inedita con cui questa rivoluzione si sta manifestando”. Tutto, secondo Speranta Bocan, viene intensificato “dallo sviluppo della cosiddetta ‘economia delle piattaforme’, nata per facilitare il contatto, lo scambio e la collaborazione tra le persone sfruttando pratiche e modelli che utilizzano le tecnologie digitali e che si è sempre più trasformato in un nuovo modo di organizzare il lavoro, con realtà immateriali, le piattaforme, che gradualmente sostituiscono come datori di lavoro le più tradizionali organizzazioni aziendali”. E’ con questo bagaglio tecnico e culturale che il mondo industriale ha affrontato, nella gran parte dei casi, lo scatenarsi della pandemia di Covid-19.

La ricerca, dopo aver messo a fuoco il concetto di lavoro flessibile prima e dopo la pandemia, passa ad esaminare le diverse possibili strategie organizzative messe in atto dalle imprese per arrivare ad individuare le potenzialità delle organizzazione della produzione con i loro rischi e i loro vantaggi. Bocan cerca così di determinare se lo smart working debba essere inteso più come una opportunità oppure più come una necessità nell’ambito di un generale cambiamento della stessa cultura del produrre.

Conclude la ricerca: “Nonostante l’evidenza su quello che accadrà nel futuro sia ancora scarsa, sembra suggerire che modalità̀ di lavoro più̀ flessibile siano associate a un maggior utilizzo dell’input di lavoro, una più̀ elevata produttività̀ e un maggior benessere dei lavoratori” e ancora: “Il lavoro flessibile può rappresentare un’evoluzione positiva nel mondo del lavoro dopo aver neutralizzato i rischi che comprendono la sfera del worklife balance, quella dell’isolamento e dell’indebolirsi della dimensione relazionale e le altre già in precedenza elencate”.

La tesi di Speranta Bocan cerca di mettere correttamente a fuoco, e ci riesce, i termini di una questione complessa e ancora in evoluzione e che sta cambiando la cultura d’impresa.

Smart working al tempo del Covid-19: opportunità o necessità?

Speranta Bocan

Tesi, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Scienze economiche ed aziendali “M. Fanno”, Corso di laurea in economia, 2021-2022

 

Un lavoro nuovo

La trasformazione dell’organizzazione e delle modalità produttive nelle imprese apre la strada ad una forma diversa di attività che deve essere ancora compresa a fondo

 

Ibrido. E’ è questo il nuovo scenario in cui saremo chiamati a vivere e lavorare e potrà fondarsi sugli aspetti “naturalmente” migliori e più utili di ciascuna condizione, sia quella più tradizionale sia quella più nuova, sperimentata a fondo con la pandemia di Covid-19. E’ la sintesi – tra le più efficaci e soprattutto non negative -, di quanto sta avvenendo nell’ambito di buona parte del sistema della produzione nel nostro Paese (e non solo). Ed è attorno a questa sintesi che ragionano Francesca Manili Pessina Francesco Rotondi in “Il lavoro ibrido” libro appena pubblicato che affronta, in modo leggibile e inconsueto, il tema del cambiamento delle modalità di lavoro a seguito del Covid-19.

Scritto come un racconto, ma con l’esattezza di un saggio attento, il libro sfrutta in pieno l’esperienza dei due autori: Francesca Manili Pessina è Executive Vice President Human Resources, Organization & Facility Management di Sky Italia dal 2013, Francesco Rotondi è Socio Fondatore e Managing Partner LabLaw Studio Legale Rotondi & Partners. Avvocato Giuslavorista con cattedra alla LIUC – Università Carlo Cattaneo di Castellanza. Entrambi ragionano sulla “nuova normalità” di cui tanto si dibatte e che, appunto, viene sintetizzata con il concetto di “ibrido”.

Una condizione, occorre sottolineare, che gli autori attribuiscono all’evoluzione delle condizioni di lavoro e che è stata poi accentuata dalla pandemia. L’eccezione rappresentata dalla fase pandemica, viene spiegato, ha in altri termini fatto da propulsore temporale ad una molteplicità di tendenze di fondo che erano già presenti.
Aspetto importante sottolineato dai due autori, è che questa nuova condizione ibrida avrà una significativa ricaduta sulle regole del gioco, sui modelli di organizzazione, sulle relazioni, sulla leadership, sui processi di socializzazione e così via.

Il libro, poco meno di cento pagine, si legge d’un fiato e inizia l’approfondimento della dimensione sociale dello smart working collegato alle relazioni umane in azienda per passare poi all’analisi del lavoro ibrido inteso come risultato tra lavoro virtuale lavoro reale. Vengono poi affrontati alcuni aspetti specifici della nuova organizzazione del lavoro: gli spazi, la natura e il ruolo del leader, la necessaria nuova forma mentis, gli aspetti contrattuale e quelli internazionali.

Nelle prime pagine del libro, con riferimento al Covid-19,  viene già fornita la chiave dello stesso: “Alla fine di questa fase straordinaria ed episodica, che ha accelerato i tempi, dobbiamo capire che cosa rimarrà”. Tutto da leggere il libro di Francesca Manili Pessina e Francesco Rotondi

Il lavoro ibrido

Francesca Manili Pessina, Francesco Rotondi

Franco Angeli, 2022

La trasformazione dell’organizzazione e delle modalità produttive nelle imprese apre la strada ad una forma diversa di attività che deve essere ancora compresa a fondo

 

Ibrido. E’ è questo il nuovo scenario in cui saremo chiamati a vivere e lavorare e potrà fondarsi sugli aspetti “naturalmente” migliori e più utili di ciascuna condizione, sia quella più tradizionale sia quella più nuova, sperimentata a fondo con la pandemia di Covid-19. E’ la sintesi – tra le più efficaci e soprattutto non negative -, di quanto sta avvenendo nell’ambito di buona parte del sistema della produzione nel nostro Paese (e non solo). Ed è attorno a questa sintesi che ragionano Francesca Manili Pessina Francesco Rotondi in “Il lavoro ibrido” libro appena pubblicato che affronta, in modo leggibile e inconsueto, il tema del cambiamento delle modalità di lavoro a seguito del Covid-19.

Scritto come un racconto, ma con l’esattezza di un saggio attento, il libro sfrutta in pieno l’esperienza dei due autori: Francesca Manili Pessina è Executive Vice President Human Resources, Organization & Facility Management di Sky Italia dal 2013, Francesco Rotondi è Socio Fondatore e Managing Partner LabLaw Studio Legale Rotondi & Partners. Avvocato Giuslavorista con cattedra alla LIUC – Università Carlo Cattaneo di Castellanza. Entrambi ragionano sulla “nuova normalità” di cui tanto si dibatte e che, appunto, viene sintetizzata con il concetto di “ibrido”.

Una condizione, occorre sottolineare, che gli autori attribuiscono all’evoluzione delle condizioni di lavoro e che è stata poi accentuata dalla pandemia. L’eccezione rappresentata dalla fase pandemica, viene spiegato, ha in altri termini fatto da propulsore temporale ad una molteplicità di tendenze di fondo che erano già presenti.
Aspetto importante sottolineato dai due autori, è che questa nuova condizione ibrida avrà una significativa ricaduta sulle regole del gioco, sui modelli di organizzazione, sulle relazioni, sulla leadership, sui processi di socializzazione e così via.

Il libro, poco meno di cento pagine, si legge d’un fiato e inizia l’approfondimento della dimensione sociale dello smart working collegato alle relazioni umane in azienda per passare poi all’analisi del lavoro ibrido inteso come risultato tra lavoro virtuale lavoro reale. Vengono poi affrontati alcuni aspetti specifici della nuova organizzazione del lavoro: gli spazi, la natura e il ruolo del leader, la necessaria nuova forma mentis, gli aspetti contrattuale e quelli internazionali.

Nelle prime pagine del libro, con riferimento al Covid-19,  viene già fornita la chiave dello stesso: “Alla fine di questa fase straordinaria ed episodica, che ha accelerato i tempi, dobbiamo capire che cosa rimarrà”. Tutto da leggere il libro di Francesca Manili Pessina e Francesco Rotondi

Il lavoro ibrido

Francesca Manili Pessina, Francesco Rotondi

Franco Angeli, 2022

Premio Campiello Junior: scrivere, pubblicare e premiare libri per bambini è “costruire granai” per un futuro migliore

Chissà se il mondo è fatto davvero “per finire in un bel libro”, come sosteneva Stéphane Mallarmé. Di certo esperienza e letteratura concordano nel sottolineare la centralità del racconto nella dimensione esistenziale di ogni persona. E nel riconoscersi nelle parole di Gabriel Garcia Marquez: “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”. O in quelle di Umberto Eco: “Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è un’immortalità all’indietro”.

C’è saggezza, viaggiando tra le righe. E piacere. Memoria. E scoperta. Il filo della malinconia che dall’ombra dei ricordi e dal dolore dell’assenza spinge a creare immagini e parole che riempiono il vuoto. E il vento dell’allegria che scompiglia i pensieri consueti e rimette in moto la vita. Perché hanno ali, le parole. E, contemporaneamente, forza di pietre. Fanno volare pensieri ed emozioni. E radicano le esperienze. Rivelano la sostanza delle cose. E aprono mondi che prima d’essere nominati non c’erano. Il racconto è un viaggio. E ogni viaggio fa nascere racconti.

Le parole, insomma, sono un gioco serissimo, come quelli che fanno i bambini. Ed è proprio con i bambini che bisogna impegnarsi con generosità, perché imparino presto, il più presto possibile, la bellezza feconda del leggere e dunque immaginare, scoprire, progettare. Raccontare, appunto. E vivere.

E’ questo il contesto in cui è nato il Premio Campiello Junior, promosso dalla Fondazione Campiello e della Fondazione Pirelli, per valorizzare scrittrici e scrittori di libri per bambini dai 10 ai 14 anni, arrivato adesso alla conclusione della sua prima edizione. Tre libri in finale (Chiara Carminati con “Un pinguino a Trieste”, Bompiani; Guido Quarzo e Anna Vivarelli con “La scatola dei sogni”, EditorialeScienza e Antonella Sbuelz con “Questa notte non torno”, Feltrinelli), selezionati da una Giuria presieduta da Roberto Piumini e poi affidati al voto della Giuria dei lettori composta da 160 giovanissimi lettori e lettrici (appunto secondo le regole del Premio Campiello). Premiazione il 6 maggio, nel Campus di H-Farm a Roncade (Treviso).

Il senso dell’iniziativa sta proprio nelle parole di Roberto Piumini: “Chi scrive per ragazzi, chi stampa libri per ragazzi, chi promuove o premia la letteratura per ragazzi, compie qualcosa di molto più complesso, meritevole e rischioso di altri tipi di scrittura, edizione e promozione. Perché non si tratta, con questi lettori, di trasmettere temi esistenziali, culturali, o emozioni da collocare nella memoria, nel sistema di un gusto letterario, ma di dare linguaggio, parola conoscitiva ed emozionale: dare parola nel senso antropologicamente più denso e delicato”.

Insiste Piumini: “Scrivere, pubblicare, promuovere narrazione per ragazzi, vuol dire fornire modi di conoscenza, affettività, identità, immaginazione e scopo. Questo non si risolve, come nella letteratura dei tempi andati, con la descrizione di esempi e modelli, o la sapienza minacciosa delle esortazioni, ma col dono di un linguaggio ricco, che gioca e invita, creativamente ed energicamente, alla varietà e alla possibilità del mondo”.

Spiega ancora Enrico Carraro, Presidente della Fondazione Campiello e di Confindustria Veneto: “Con la Fondazione Pirelli abbiamo istituito il Campiello Junior con l’obiettivo di valorizzare, ancora una volta, il talento degli scrittori e diffondere la lettura tra i ragazzi. Un nuovo progetto che ha confermato l’impegno degli imprenditori del Veneto per i progetti culturali e, quindi, per lo sviluppo del Paese”.

Dal punto di vista della Fondazione Pirelli, “il sostegno al Premio Campiello Junior intende stimolare la scrittura di libri per le bambine e i bambini, come strumenti che migliorano il piacere della scoperta, la conoscenza, la qualità della vita. E rientra nelle tante iniziative lanciate nel corso della nostra storia per le biblioteche aziendali, la diffusione della cultura, l’affermazione di una ‘civiltà del libro’ come parte indispensabile di una cittadinanza responsabile fin dalla più giovane età”.

Ecco il nodo culturale di fondo: il libro come strumento essenziale di conoscenza e di responsabilità, di sviluppo umano, personale e sociale, di costruzione di un rapporto consapevole con le comunità in cui i bambini crescono e diventano adulti. Il piacere della lettura si coniuga con la definizione di una personalità critica. Perché, appunto, il gioco delle parole stimola confronto, dialogo, apprezzamento dell’altro, coscienza del valore dell’individualità e della diversità. L’avventura raccontata nelle pagine dei libri arricchisce l’esperienza del lettore fin da piccolo. E i protagonisti e le protagoniste di quei racconti rendono molto più fertile la vita di ognuno di noi, insegnandoci a immaginare, costruire, esplorare nuovi mondi.

Libri come fondamenta di una “città dell’uomo” più aperta, accogliente, civile. E biblioteche come deposito di esperienze, progetti, sogni. Come granai che custodiscono la base di un buon cibo del corpo e dell’anima, per un migliore futuro.

“Fondare biblioteche è un po’ come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro l’inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”, scrive Marguerite Yourcenar nelle pagine di un libro fondamentale, “Memorie di Adriano” (la frase sta sul frontone interno d’ingresso della Biblioteca Pirelli in Bicocca, a Milano). I rischi dell’inverno dello spirito sono ricorrenti e in certi momenti, proprio come quelli che adesso stiamo vivendo, particolarmente inquietanti. Giocare con le parole dei libri, insieme ai nostri bambini, aiuta a costruire e tramandare, nonostante tutto, speranze.

Chissà se il mondo è fatto davvero “per finire in un bel libro”, come sosteneva Stéphane Mallarmé. Di certo esperienza e letteratura concordano nel sottolineare la centralità del racconto nella dimensione esistenziale di ogni persona. E nel riconoscersi nelle parole di Gabriel Garcia Marquez: “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”. O in quelle di Umberto Eco: “Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria. Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è un’immortalità all’indietro”.

C’è saggezza, viaggiando tra le righe. E piacere. Memoria. E scoperta. Il filo della malinconia che dall’ombra dei ricordi e dal dolore dell’assenza spinge a creare immagini e parole che riempiono il vuoto. E il vento dell’allegria che scompiglia i pensieri consueti e rimette in moto la vita. Perché hanno ali, le parole. E, contemporaneamente, forza di pietre. Fanno volare pensieri ed emozioni. E radicano le esperienze. Rivelano la sostanza delle cose. E aprono mondi che prima d’essere nominati non c’erano. Il racconto è un viaggio. E ogni viaggio fa nascere racconti.

Le parole, insomma, sono un gioco serissimo, come quelli che fanno i bambini. Ed è proprio con i bambini che bisogna impegnarsi con generosità, perché imparino presto, il più presto possibile, la bellezza feconda del leggere e dunque immaginare, scoprire, progettare. Raccontare, appunto. E vivere.

E’ questo il contesto in cui è nato il Premio Campiello Junior, promosso dalla Fondazione Campiello e della Fondazione Pirelli, per valorizzare scrittrici e scrittori di libri per bambini dai 10 ai 14 anni, arrivato adesso alla conclusione della sua prima edizione. Tre libri in finale (Chiara Carminati con “Un pinguino a Trieste”, Bompiani; Guido Quarzo e Anna Vivarelli con “La scatola dei sogni”, EditorialeScienza e Antonella Sbuelz con “Questa notte non torno”, Feltrinelli), selezionati da una Giuria presieduta da Roberto Piumini e poi affidati al voto della Giuria dei lettori composta da 160 giovanissimi lettori e lettrici (appunto secondo le regole del Premio Campiello). Premiazione il 6 maggio, nel Campus di H-Farm a Roncade (Treviso).

Il senso dell’iniziativa sta proprio nelle parole di Roberto Piumini: “Chi scrive per ragazzi, chi stampa libri per ragazzi, chi promuove o premia la letteratura per ragazzi, compie qualcosa di molto più complesso, meritevole e rischioso di altri tipi di scrittura, edizione e promozione. Perché non si tratta, con questi lettori, di trasmettere temi esistenziali, culturali, o emozioni da collocare nella memoria, nel sistema di un gusto letterario, ma di dare linguaggio, parola conoscitiva ed emozionale: dare parola nel senso antropologicamente più denso e delicato”.

Insiste Piumini: “Scrivere, pubblicare, promuovere narrazione per ragazzi, vuol dire fornire modi di conoscenza, affettività, identità, immaginazione e scopo. Questo non si risolve, come nella letteratura dei tempi andati, con la descrizione di esempi e modelli, o la sapienza minacciosa delle esortazioni, ma col dono di un linguaggio ricco, che gioca e invita, creativamente ed energicamente, alla varietà e alla possibilità del mondo”.

Spiega ancora Enrico Carraro, Presidente della Fondazione Campiello e di Confindustria Veneto: “Con la Fondazione Pirelli abbiamo istituito il Campiello Junior con l’obiettivo di valorizzare, ancora una volta, il talento degli scrittori e diffondere la lettura tra i ragazzi. Un nuovo progetto che ha confermato l’impegno degli imprenditori del Veneto per i progetti culturali e, quindi, per lo sviluppo del Paese”.

Dal punto di vista della Fondazione Pirelli, “il sostegno al Premio Campiello Junior intende stimolare la scrittura di libri per le bambine e i bambini, come strumenti che migliorano il piacere della scoperta, la conoscenza, la qualità della vita. E rientra nelle tante iniziative lanciate nel corso della nostra storia per le biblioteche aziendali, la diffusione della cultura, l’affermazione di una ‘civiltà del libro’ come parte indispensabile di una cittadinanza responsabile fin dalla più giovane età”.

Ecco il nodo culturale di fondo: il libro come strumento essenziale di conoscenza e di responsabilità, di sviluppo umano, personale e sociale, di costruzione di un rapporto consapevole con le comunità in cui i bambini crescono e diventano adulti. Il piacere della lettura si coniuga con la definizione di una personalità critica. Perché, appunto, il gioco delle parole stimola confronto, dialogo, apprezzamento dell’altro, coscienza del valore dell’individualità e della diversità. L’avventura raccontata nelle pagine dei libri arricchisce l’esperienza del lettore fin da piccolo. E i protagonisti e le protagoniste di quei racconti rendono molto più fertile la vita di ognuno di noi, insegnandoci a immaginare, costruire, esplorare nuovi mondi.

Libri come fondamenta di una “città dell’uomo” più aperta, accogliente, civile. E biblioteche come deposito di esperienze, progetti, sogni. Come granai che custodiscono la base di un buon cibo del corpo e dell’anima, per un migliore futuro.

“Fondare biblioteche è un po’ come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro l’inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire”, scrive Marguerite Yourcenar nelle pagine di un libro fondamentale, “Memorie di Adriano” (la frase sta sul frontone interno d’ingresso della Biblioteca Pirelli in Bicocca, a Milano). I rischi dell’inverno dello spirito sono ricorrenti e in certi momenti, proprio come quelli che adesso stiamo vivendo, particolarmente inquietanti. Giocare con le parole dei libri, insieme ai nostri bambini, aiuta a costruire e tramandare, nonostante tutto, speranze.

Premio Campiello Junior.
I ragazzi della Giuria dei Lettori scelgono il libro vincitore

È arrivato il momento della proclamazione del vincitore della prima edizione del Premio Campiello Junior. I 160 ragazzi che fanno parte della Giuria dei Lettori potranno adesso esprimere la loro preferenza, che sarà determinante per la scelta del libro che verrò premiato con il nuovo riconoscimento.

Oggi 6 maggio 2022 alle ore 17.30 presso The Big Hall di H-Farm di Roncade (TV) verrà proclamato il vincitore tra i tre libri finalisti:

  • Chiara Carminati, Un pinguino a Trieste, Bompiani
  • Guido QuarzoAnna Vivarelli, La scatola dei sogni, Editoriale Scienza
  • Antonella Sbuelz, Questa notte non torno, Feltrinelli

L’evento, che sarà presentato da Federico Russo e con la partecipazione di Virginia Stagni, vedrà presenti gli autori e alcuni membri della Giuria di Selezione del Premio, presieduta da Roberto Piumini e composta da Chiara Lagani, Martino Negri, Michela Possamai e David Tolin, che si rivolgeranno direttamente ai ragazzi raccontando la loro passione per i libri e per la lettura.

Per seguire l’evento in diretta streaming clicca qui.

Maggiori informazioni sulle iniziative del Premio Campiello Junior ai siti www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org.

È arrivato il momento della proclamazione del vincitore della prima edizione del Premio Campiello Junior. I 160 ragazzi che fanno parte della Giuria dei Lettori potranno adesso esprimere la loro preferenza, che sarà determinante per la scelta del libro che verrò premiato con il nuovo riconoscimento.

Oggi 6 maggio 2022 alle ore 17.30 presso The Big Hall di H-Farm di Roncade (TV) verrà proclamato il vincitore tra i tre libri finalisti:

  • Chiara Carminati, Un pinguino a Trieste, Bompiani
  • Guido QuarzoAnna Vivarelli, La scatola dei sogni, Editoriale Scienza
  • Antonella Sbuelz, Questa notte non torno, Feltrinelli

L’evento, che sarà presentato da Federico Russo e con la partecipazione di Virginia Stagni, vedrà presenti gli autori e alcuni membri della Giuria di Selezione del Premio, presieduta da Roberto Piumini e composta da Chiara Lagani, Martino Negri, Michela Possamai e David Tolin, che si rivolgeranno direttamente ai ragazzi raccontando la loro passione per i libri e per la lettura.

Per seguire l’evento in diretta streaming clicca qui.

Maggiori informazioni sulle iniziative del Premio Campiello Junior ai siti www.fondazionepirelli.org e www.premiocampiello.org.

140 anni fa nasceva Alberto Pirelli, uno dei protagonisti della storia industriale italiana

Il 28 aprile 1882 nasce a Milano Alberto Pirelli, secondo, dopo Piero nato nel 1881, degli otto figli di Giovanni Battista Pirelli e Maria Sormani. Dieci anni prima era sorta, per iniziativa paterna, la GB Pirelli & C., fabbrica per la lavorazione della gomma elastica. Un destino segnato, quello dei due fratelli, nati e cresciuti all’interno dello stabilimento. Il loro piano di studi superiori, infatti, è pensato per prepararli al ruolo che dovrebbero ricoprire in azienda, con frequentazione di corsi al  Politecnico e all’Università Bocconi di Milano, all’Università di Genova dove conseguono entrambi la laurea in Giurisprudenza. Fin dall’adolescenza affiancano l’attività del padre, partecipando a diverse campagne della nave posacavi Città di Milano e ad alcuni viaggi di affari all’estero.

Nel 1904 Piero e Alberto Pirelli vengono ufficialmente associati al padre nella gerenza della società. L’ingresso formale nella conduzione dell’azienda coincide con un momento di forte espansione internazionale nel settore dei cavi elettrici e telegrafici e con l’avvio della produzione massiccia di pneumatici, dopo un’iniziale fase di sperimentazione. Per entrambi i fratelli sono anni di numerosi viaggi all’estero, durante i quali visitano aziende, presentano la Pirelli nelle fiere internazionali, instaurano rapporti di affari. Alberto è negli Stati Uniti, in Brasile, Canada, Argentina, e si dedica in particolare a stabilire importanti accordi di collaborazione nel settore elettrico, allora dominato da grandi aziende tedesche e americane. È in questi anni che in lui cresce la consapevolezza dell’importanza dei rapporti internazionali e della conoscenza dei mercati esteri e, grazie alle sue capacità diplomatiche e all’ottima conoscenza delle lingue, diventa uno degli imprenditori italiani più noti nel mondo.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale, le sue capacità e l’esperienza accumulata in importanti trattative internazionali lo portano a ottenere un impegno pubblico di grande importanza: tra il 1919 e il 1932 è infatti chiamato dal Governo italiano a un ruolo di primo piano nei negoziati internazionali sulle riparazioni di guerra tedesche e i debiti di guerra interalleati, esperienza che racconterà nel volume “Dopoguerra 1919-1932. Note ed sperienze,” uscito nel 1932. Tra i fratelli si stabilisce così una divisione dei compiti, Alberto più proiettato verso le relazioni internazionali e gli incarichi pubblici, Piero più dedicato agli aspetti organizzativi dell’azienda e ai rapporti con i lavoratori.  Negli anni Venti Alberto è protagonista di alcune operazioni finanziarie volte a risanare i debiti del gruppo, partecipando al prestito americano guidato dalla Banca Morgan, e a consolidare gli interessi dell’industria elettrica e telefonica in Italia. Resta tra gli imprenditori più influenti per il Governo italiano e all’estero per tutti gli anni Trenta e la sua attività è testimoniata sia nelle carte aziendali dell’Archivio Storico sia nel suo Archivio Privato, conservato dalla Fondazione Pirelli. Nel 1927 gli viene affidata la presidenza della Camera di Commercio internazionale, carica di grande prestigio, e nel 1935 la presidenza dell’Ispi – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, che aveva contribuito a fondare l’anno prima. Tra le cariche ricoperte anche la presidenza di Assonime, l’Associazione fra le società anonime. Alla Liberazione, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Pirelli viene commissariata per un breve periodo, ma Alberto e il fratello Piero vengono presto reintegrati nei rispettivi ruoli di Amministratore delegato e Presidente, che ricoprivano dal 1932, anno della morte del padre.

Nel 1946 Alberto vuole ripercorrere la storia del gruppo, che si accinge a celebrare i 75 anni di attività, ed è autore del volume “La Pirelli. Vita di un’azienda industriale”. Nel 1956, alla morte del fratello Piero, assume il ruolo di Presidente, per poi passare il testimone al figlio Leopoldo nel 1965. Si spegne nel 1971 e sarà ricordato come uno dei maggiori industriali e uomini di finanza che l’Italia abbia avuto nella sua storia post unitaria.

Il 28 aprile 1882 nasce a Milano Alberto Pirelli, secondo, dopo Piero nato nel 1881, degli otto figli di Giovanni Battista Pirelli e Maria Sormani. Dieci anni prima era sorta, per iniziativa paterna, la GB Pirelli & C., fabbrica per la lavorazione della gomma elastica. Un destino segnato, quello dei due fratelli, nati e cresciuti all’interno dello stabilimento. Il loro piano di studi superiori, infatti, è pensato per prepararli al ruolo che dovrebbero ricoprire in azienda, con frequentazione di corsi al  Politecnico e all’Università Bocconi di Milano, all’Università di Genova dove conseguono entrambi la laurea in Giurisprudenza. Fin dall’adolescenza affiancano l’attività del padre, partecipando a diverse campagne della nave posacavi Città di Milano e ad alcuni viaggi di affari all’estero.

Nel 1904 Piero e Alberto Pirelli vengono ufficialmente associati al padre nella gerenza della società. L’ingresso formale nella conduzione dell’azienda coincide con un momento di forte espansione internazionale nel settore dei cavi elettrici e telegrafici e con l’avvio della produzione massiccia di pneumatici, dopo un’iniziale fase di sperimentazione. Per entrambi i fratelli sono anni di numerosi viaggi all’estero, durante i quali visitano aziende, presentano la Pirelli nelle fiere internazionali, instaurano rapporti di affari. Alberto è negli Stati Uniti, in Brasile, Canada, Argentina, e si dedica in particolare a stabilire importanti accordi di collaborazione nel settore elettrico, allora dominato da grandi aziende tedesche e americane. È in questi anni che in lui cresce la consapevolezza dell’importanza dei rapporti internazionali e della conoscenza dei mercati esteri e, grazie alle sue capacità diplomatiche e all’ottima conoscenza delle lingue, diventa uno degli imprenditori italiani più noti nel mondo.

Alla fine della Prima Guerra Mondiale, le sue capacità e l’esperienza accumulata in importanti trattative internazionali lo portano a ottenere un impegno pubblico di grande importanza: tra il 1919 e il 1932 è infatti chiamato dal Governo italiano a un ruolo di primo piano nei negoziati internazionali sulle riparazioni di guerra tedesche e i debiti di guerra interalleati, esperienza che racconterà nel volume “Dopoguerra 1919-1932. Note ed sperienze,” uscito nel 1932. Tra i fratelli si stabilisce così una divisione dei compiti, Alberto più proiettato verso le relazioni internazionali e gli incarichi pubblici, Piero più dedicato agli aspetti organizzativi dell’azienda e ai rapporti con i lavoratori.  Negli anni Venti Alberto è protagonista di alcune operazioni finanziarie volte a risanare i debiti del gruppo, partecipando al prestito americano guidato dalla Banca Morgan, e a consolidare gli interessi dell’industria elettrica e telefonica in Italia. Resta tra gli imprenditori più influenti per il Governo italiano e all’estero per tutti gli anni Trenta e la sua attività è testimoniata sia nelle carte aziendali dell’Archivio Storico sia nel suo Archivio Privato, conservato dalla Fondazione Pirelli. Nel 1927 gli viene affidata la presidenza della Camera di Commercio internazionale, carica di grande prestigio, e nel 1935 la presidenza dell’Ispi – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, che aveva contribuito a fondare l’anno prima. Tra le cariche ricoperte anche la presidenza di Assonime, l’Associazione fra le società anonime. Alla Liberazione, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Pirelli viene commissariata per un breve periodo, ma Alberto e il fratello Piero vengono presto reintegrati nei rispettivi ruoli di Amministratore delegato e Presidente, che ricoprivano dal 1932, anno della morte del padre.

Nel 1946 Alberto vuole ripercorrere la storia del gruppo, che si accinge a celebrare i 75 anni di attività, ed è autore del volume “La Pirelli. Vita di un’azienda industriale”. Nel 1956, alla morte del fratello Piero, assume il ruolo di Presidente, per poi passare il testimone al figlio Leopoldo nel 1965. Si spegne nel 1971 e sarà ricordato come uno dei maggiori industriali e uomini di finanza che l’Italia abbia avuto nella sua storia post unitaria.

Pneumatici da collezione: Pirelli e il Cinturato per la Mini Cooper

Due anime diverse e complementari contraddistinguono la linea “Pirelli Collezione”. Nata per offrire al mercato delle vetture d’epoca pneumatici che rispondano perfettamente ai criteri filologici a cui si attengono i collezionisti più attenti e appassionati, unisce aspetto e dinamica di guida originaria delle auto storiche con le più avanzate tecnologie, per garantire performance e sicurezza sempre maggiori.

A partire dagli anni Cinquanta la Pirelli amplia notevolmente la sua gamma di pneumatici, sempre più specializzati per i diversi tipi di veicolo, le diverse stagioni, le particolari condizioni stradali, di velocità, di carico. Per pubblicizzare questi prodotti e renderli riconoscibili, tra gli anni Cinquanta e Settanta vengono realizzate centinaia di tavole per ogni modello di pneumatico: fotografie ritoccate a china e aerografo per far risaltare forme e linee dei battistrada su pubblicità, listini, cataloghi.

Oggi, a distanza di oltre settant’anni, quelle stesse tavole – insieme alle specifiche di prodotto e ad altra documentazione di natura tecnica conservata presso il nostro Archivio Storico – vengono utilizzate per riprodurre pneumatici Pirelli “storicamente corretti”. Da qui, infatti, prendono vita le nuove versioni degli iconici Stella Bianca e Stelvio, o i modelli di Cinturato degli anni Sessanta, fino alle linee più recenti, ma già “storiche”: i super-ribassati P7 e P5 voluto da Jaguar, o il P Zero Rosso di inizio anni Duemila prodotto per Porsche.

La collaborazione con le grandi case automobilistiche è un legame a doppio filo che viene da lontano e che continua ancora oggi. Ne è un esempio, tra gli altri, il rifacimento del pneumatico Cinturato per le diverse versioni della BMW Mini. Le mescole e le tecnologie attuali per lo sviluppo dei pneumatici della linea “Pirelli Collezione” garantiscono infatti affidabilità e alti livelli di sicurezza, e mantengono lo stile originale ridisegnato utilizzando il patrimonio di immagini e progetti messo a disposizione dalla Fondazione Pirelli. Un ritorno di una grande icona degli anni Sessanta che ha aggiunto, ai precedenti Cinturato 367F e P3, anche l’omologazione ad hoc dell’Eufori@ Run Flat, un pneumatico sinonimo di affidabilità di guida in grado di funzionare per 150 chilometri a una velocità di 80 km/h anche in condizioni di totale degonfiamento. E molti sono ancora oggi i progetti in cantiere, tutti con un focus principale: riattualizzare il passato e trasportarlo verso il futuro.

Due anime diverse e complementari contraddistinguono la linea “Pirelli Collezione”. Nata per offrire al mercato delle vetture d’epoca pneumatici che rispondano perfettamente ai criteri filologici a cui si attengono i collezionisti più attenti e appassionati, unisce aspetto e dinamica di guida originaria delle auto storiche con le più avanzate tecnologie, per garantire performance e sicurezza sempre maggiori.

A partire dagli anni Cinquanta la Pirelli amplia notevolmente la sua gamma di pneumatici, sempre più specializzati per i diversi tipi di veicolo, le diverse stagioni, le particolari condizioni stradali, di velocità, di carico. Per pubblicizzare questi prodotti e renderli riconoscibili, tra gli anni Cinquanta e Settanta vengono realizzate centinaia di tavole per ogni modello di pneumatico: fotografie ritoccate a china e aerografo per far risaltare forme e linee dei battistrada su pubblicità, listini, cataloghi.

Oggi, a distanza di oltre settant’anni, quelle stesse tavole – insieme alle specifiche di prodotto e ad altra documentazione di natura tecnica conservata presso il nostro Archivio Storico – vengono utilizzate per riprodurre pneumatici Pirelli “storicamente corretti”. Da qui, infatti, prendono vita le nuove versioni degli iconici Stella Bianca e Stelvio, o i modelli di Cinturato degli anni Sessanta, fino alle linee più recenti, ma già “storiche”: i super-ribassati P7 e P5 voluto da Jaguar, o il P Zero Rosso di inizio anni Duemila prodotto per Porsche.

La collaborazione con le grandi case automobilistiche è un legame a doppio filo che viene da lontano e che continua ancora oggi. Ne è un esempio, tra gli altri, il rifacimento del pneumatico Cinturato per le diverse versioni della BMW Mini. Le mescole e le tecnologie attuali per lo sviluppo dei pneumatici della linea “Pirelli Collezione” garantiscono infatti affidabilità e alti livelli di sicurezza, e mantengono lo stile originale ridisegnato utilizzando il patrimonio di immagini e progetti messo a disposizione dalla Fondazione Pirelli. Un ritorno di una grande icona degli anni Sessanta che ha aggiunto, ai precedenti Cinturato 367F e P3, anche l’omologazione ad hoc dell’Eufori@ Run Flat, un pneumatico sinonimo di affidabilità di guida in grado di funzionare per 150 chilometri a una velocità di 80 km/h anche in condizioni di totale degonfiamento. E molti sono ancora oggi i progetti in cantiere, tutti con un focus principale: riattualizzare il passato e trasportarlo verso il futuro.

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La riconferma di Macron e il “debito buono” per rilanciare l’autonomia e l’economia Ue

“Una nuova era”, ha annunciato Emmanuel Macron, sotto la Tour Eiffel, pochi minuti dopo la sua rielezione a presidente della Repubblica francese. E, retorica vittoriosa a parte, ha usato più volte una parola, accanto all’impegno a dare risposte convincenti ai problemi del disagio sociale e della crisi ambientale: Europa. Anzi, meglio, “la nostra Europa”.

La conferma all’Eliseo di Macron ha allontanato, infatti, i rischi di una vera e propria implosione della Ue. E se è vero che restano allarmanti le pressioni di un’opinione pubblica di estrema destra, sovranista e populista, forte di oltre il 40% dei consensi, è altrettanto vero che si può riprendere con maggior forza e più determinata incisività il cammino per rilanciare la strategia europea verso una maggiore e una migliore integrazione, sull’asse tra Francia, Italia, Spagna e Germania. Una buona notizia, in tempi così carichi di tensioni e fratture, messe drammaticamente in luce dalla pandemia da Covid19 e dalla guerra aperta dalla Russia con l’invasione dell’Ucraina.

Tre i piani di azione che è possibile intravvedere: l’autonomia strategica della Ue, sui pilastri della difesa e dell’energia; la riconsiderazione critica del Patto di Stabilità, in direzione d’una maggiore flessibilità; una politica estera europea che, pur nell’alveo del rafforzamento dell’alleanza atlantica, possa costruire nuove opportunità di dialogo con gli altri grandi protagonisti internazionali, dal Mediterraneo alla scena mondiale. Azioni complesse, difficili, impervie. Controverse. Ma possibili. La Francia europeista di Macron e l’Italia autorevole sotto la guida del tandem Mattarella-Draghi ne sono, oggi, motori credibili.

Sull’autonomia strategica e dunque sui temi della difesa e dell’energia (con le ricadute, anche imprenditoriali, sulle questioni della sostenibilità ambientale e sociale e dell’innovazione tecnologica, la twin transition green and blue) la discussione a Bruxelles e nelle altre principali capitali europee è in pieno svolgimento. E prende corpo l’idea di varare, dopo il Recovery Plan Next Generation Ue in risposta alla crisi pandemica, un nuovo fondo europeo, che raccolga risorse sui mercati internazionali con la garanzia Ue e le investa più in grants (stanziamenti a fondo perduto) che non in loans (prestiti). Non mancano naturalmente riserve (tedesche, innanzitutto) e pareri contrari (i paesi cosiddetti “frugali” ossessionati dalle ipotesi di nuovi debiti europei). E il dibattito che si può già intravvedere sarà molto serrato. Ma, rispetto a tempi recenti, proprio tra i paesi del Nord Europa cresce la consapevolezza della necessità e dell’urgenza di poter mettere rapidamente in piedi strumenti che proteggano dalle pressioni della Russia. E la recente scelta di Svezia e Finlandia per l’adesione alla Nato supporta questa tendenza alla sicurezza. Un esercito europeo è una prospettiva ravvicinata? Ancora no. Ma i passi avanti sulla difesa comune si leggono con una certa chiarezza. Un’Europa più autonoma e forte, dunque. E, proprio in questa prospettiva, più autorevole e dunque dialogante.Si fanno passi avanti anche sulla ridiscussione del Patto di Stabilità, finora sospeso dopo la crisi pandemica e che comunque in tanti, tra Bruxelles, Parigi, Roma, Madrid e Berlino (cautamente) ritengono non più riproponibile negli stessi termini fissati giusto trent’anni fa dal Trattato di Maastricht.

Un sostegno culturale e politico importante arriva da Janet Yellen, la segretaria al Tesoro degli Usa: “Il Patto di Stabilità è irragionevole per i paesi molto indebitati, come l’Italia. Serve più flessibilità, per fare investimenti” (la sua dichiarazione è nelle pagine de “Il prezzo del futuro” di Alan Friedman, pubblicato da La nave di Teseo).

La Yellen, infatti, insiste sulla necessità di investimenti pubblici in infrastrutture e innovazione, cita l’esempio delle attuali scelte di politica economica di Washington e chiarisce che “è giustificabile fare debito quando serve a investire per rendere l’economia più produttiva e per crescere”. È evidente la sintonia con la distinzione neo-keynesiana sostenuta da Mario Draghi tra “debito buono” (innovazione e produttività, appunto) e “debito cattivo” (per alimentare la spesa pubblica corrente assistenzialista, clientelare e corporativa). E chiaro il percorso, per rendere proprio le economie occidentali più solide e competitive. Una competitività, rispetto ai grandi player internazionali (come la Cina, innanzitutto) che ha pure una forte valenza in termini di autonomia strategica e sicurezza. Tutto si tiene, insomma. Con ricadute positive sull’economia di mercato, sul peso internazionale delle nostre imprese, sull’autorevolezza delle democrazie occidentali nella stessa discussione, che andrà rapidamente riaperta e rilanciata, sui nuovi equilibri e una migliore governance della globalizzazione (o, se si vuole usare un termine attuale del dibattito economico, di una “ri-globalizzazione selettiva”).

Il terzo tema cui abbiamo fatti riferimento all’inizio sta proprio qui. Non siamo in presenza di un “tramonto della globalizzazione”. Ma di una critica alle sue distorsioni e di un radicale riassetto, con passaggi drammatici (la guerra in Ucraina, appunto e le altre pesanti tensioni su vari scenari del mondo, dal Medio Oriente al Far East) e nuove possibilità di riforma. E proprio in queste condizioni, in cui equilibri fragili e precari possono drammaticamente infrangersi, è necessario riconsiderare le ragioni politiche del dialogo. Ci sono temi – l’ambiente, l’alimentazione, l’acqua, la salute, i diritti personali e sociali – che possono essere considerati solo sulla scena globale. Su cui tornare a muoversi. Proprio la risposta alla crisi pandemica, con la collaborazione aperta scientifica, medica, tecnologica, ci ha fornito indicazioni positive. Da cui ripartire. La scelta Ue di attenzione alla Next Generation è un buon paradigma.

(photo by Getty Image)

“Una nuova era”, ha annunciato Emmanuel Macron, sotto la Tour Eiffel, pochi minuti dopo la sua rielezione a presidente della Repubblica francese. E, retorica vittoriosa a parte, ha usato più volte una parola, accanto all’impegno a dare risposte convincenti ai problemi del disagio sociale e della crisi ambientale: Europa. Anzi, meglio, “la nostra Europa”.

La conferma all’Eliseo di Macron ha allontanato, infatti, i rischi di una vera e propria implosione della Ue. E se è vero che restano allarmanti le pressioni di un’opinione pubblica di estrema destra, sovranista e populista, forte di oltre il 40% dei consensi, è altrettanto vero che si può riprendere con maggior forza e più determinata incisività il cammino per rilanciare la strategia europea verso una maggiore e una migliore integrazione, sull’asse tra Francia, Italia, Spagna e Germania. Una buona notizia, in tempi così carichi di tensioni e fratture, messe drammaticamente in luce dalla pandemia da Covid19 e dalla guerra aperta dalla Russia con l’invasione dell’Ucraina.

Tre i piani di azione che è possibile intravvedere: l’autonomia strategica della Ue, sui pilastri della difesa e dell’energia; la riconsiderazione critica del Patto di Stabilità, in direzione d’una maggiore flessibilità; una politica estera europea che, pur nell’alveo del rafforzamento dell’alleanza atlantica, possa costruire nuove opportunità di dialogo con gli altri grandi protagonisti internazionali, dal Mediterraneo alla scena mondiale. Azioni complesse, difficili, impervie. Controverse. Ma possibili. La Francia europeista di Macron e l’Italia autorevole sotto la guida del tandem Mattarella-Draghi ne sono, oggi, motori credibili.

Sull’autonomia strategica e dunque sui temi della difesa e dell’energia (con le ricadute, anche imprenditoriali, sulle questioni della sostenibilità ambientale e sociale e dell’innovazione tecnologica, la twin transition green and blue) la discussione a Bruxelles e nelle altre principali capitali europee è in pieno svolgimento. E prende corpo l’idea di varare, dopo il Recovery Plan Next Generation Ue in risposta alla crisi pandemica, un nuovo fondo europeo, che raccolga risorse sui mercati internazionali con la garanzia Ue e le investa più in grants (stanziamenti a fondo perduto) che non in loans (prestiti). Non mancano naturalmente riserve (tedesche, innanzitutto) e pareri contrari (i paesi cosiddetti “frugali” ossessionati dalle ipotesi di nuovi debiti europei). E il dibattito che si può già intravvedere sarà molto serrato. Ma, rispetto a tempi recenti, proprio tra i paesi del Nord Europa cresce la consapevolezza della necessità e dell’urgenza di poter mettere rapidamente in piedi strumenti che proteggano dalle pressioni della Russia. E la recente scelta di Svezia e Finlandia per l’adesione alla Nato supporta questa tendenza alla sicurezza. Un esercito europeo è una prospettiva ravvicinata? Ancora no. Ma i passi avanti sulla difesa comune si leggono con una certa chiarezza. Un’Europa più autonoma e forte, dunque. E, proprio in questa prospettiva, più autorevole e dunque dialogante.Si fanno passi avanti anche sulla ridiscussione del Patto di Stabilità, finora sospeso dopo la crisi pandemica e che comunque in tanti, tra Bruxelles, Parigi, Roma, Madrid e Berlino (cautamente) ritengono non più riproponibile negli stessi termini fissati giusto trent’anni fa dal Trattato di Maastricht.

Un sostegno culturale e politico importante arriva da Janet Yellen, la segretaria al Tesoro degli Usa: “Il Patto di Stabilità è irragionevole per i paesi molto indebitati, come l’Italia. Serve più flessibilità, per fare investimenti” (la sua dichiarazione è nelle pagine de “Il prezzo del futuro” di Alan Friedman, pubblicato da La nave di Teseo).

La Yellen, infatti, insiste sulla necessità di investimenti pubblici in infrastrutture e innovazione, cita l’esempio delle attuali scelte di politica economica di Washington e chiarisce che “è giustificabile fare debito quando serve a investire per rendere l’economia più produttiva e per crescere”. È evidente la sintonia con la distinzione neo-keynesiana sostenuta da Mario Draghi tra “debito buono” (innovazione e produttività, appunto) e “debito cattivo” (per alimentare la spesa pubblica corrente assistenzialista, clientelare e corporativa). E chiaro il percorso, per rendere proprio le economie occidentali più solide e competitive. Una competitività, rispetto ai grandi player internazionali (come la Cina, innanzitutto) che ha pure una forte valenza in termini di autonomia strategica e sicurezza. Tutto si tiene, insomma. Con ricadute positive sull’economia di mercato, sul peso internazionale delle nostre imprese, sull’autorevolezza delle democrazie occidentali nella stessa discussione, che andrà rapidamente riaperta e rilanciata, sui nuovi equilibri e una migliore governance della globalizzazione (o, se si vuole usare un termine attuale del dibattito economico, di una “ri-globalizzazione selettiva”).

Il terzo tema cui abbiamo fatti riferimento all’inizio sta proprio qui. Non siamo in presenza di un “tramonto della globalizzazione”. Ma di una critica alle sue distorsioni e di un radicale riassetto, con passaggi drammatici (la guerra in Ucraina, appunto e le altre pesanti tensioni su vari scenari del mondo, dal Medio Oriente al Far East) e nuove possibilità di riforma. E proprio in queste condizioni, in cui equilibri fragili e precari possono drammaticamente infrangersi, è necessario riconsiderare le ragioni politiche del dialogo. Ci sono temi – l’ambiente, l’alimentazione, l’acqua, la salute, i diritti personali e sociali – che possono essere considerati solo sulla scena globale. Su cui tornare a muoversi. Proprio la risposta alla crisi pandemica, con la collaborazione aperta scientifica, medica, tecnologica, ci ha fornito indicazioni positive. Da cui ripartire. La scelta Ue di attenzione alla Next Generation è un buon paradigma.

(photo by Getty Image)

26 racconti per rinascere

Raccolte in un libro le storie di aziende che possono essere esempi per tutti

Storie d’impresa, 26 per la precisione, unite da un intento che supera quello del profitto. E’ quanto ha raccolto nel suo ultimo libro Francesco Morace (sociologo) raccontando le vicende di una serie di aziende italiane che possono essere d’esempio per la riemersione dalla crisi e, soprattutto, per farlo nel segno di un’utopia fondata su bellezza, umanità e creatività.

“L’alfabeto della rinascita” è davvero una raccolta  di racconti ordinati secondo l’alfabeto. 26 lettere, quindi, che corrispondono ad altrettante storie di imprese italiane dalla “A” di Alessi alla “Z” di Zanotta.
Secondo l’autore, la pandemia può diventare il propulsore inaspettato di un nuovo Rinascimento a cui nessuno avrebbe creduto solo un anno fa. Se nella vita in generale, infatti, non ci sono garanzie, questo insegnamento vale in modo particolare in una fase di radicale cambiamento come quella che si sta vivendo e ancor più per le imprese. Le aziende raccontate sono quelle che (più di altre ma anche come molte altre), riescono a preservare la ricchezza fragile di un luogo composito come il territorio italiano, affrontando le difficoltà del proprio auto-governo, della responsabilità e della decisione. Scorrono quindi le storie di Alessi, Berlucchi, Cosberg, Dallara, Expert, Fastweb, Granarolo, Herno, Inglesina, Jacuzzi®, Kartell, Lago, Melinda, Nexi, Opto Engineering, Pedrollo, QC Terme, Rotaliana, Sofidel, Treccani, Unione Nazionale Consumatori, VéGé, Würth, X Instant, Yomo, Zanotta. Ogni azienda è caratterizzata da una particolare immagine e, soprattutto, dal suo profilo di impresa che va oltre i canoni normali della gestione.
Il volume è arricchito da tre saggi di una giornalista (Marzia Tomasin) sull’importanza della capacità narrativa delle imprese, di un filosofo (Roberto Mordacci) e di un designer (Giulio Ceppi) che, tra l’altro, è autore della dimensione grafica del libro, rappresentata dai pittogrammi che raccontano con l’iniziale di ciascuna delle 26 aziende protagoniste (liberamente reinterpretata) un’idea, un progetto, una visione in cui si sono distinte. Chiude il volume una decalogo dell’Italian Human Design che ha l’ambizione di sintetizzare i messaggi vari e complessi di cui le 26 realtà d’impresa sono in qualche modo esempi.

“La scommessa che con ‘L’alfabeto della rinascita’ vogliamo proporre è quella di raccontare in un libro di carta il saper fare, l’ingegno e più in generale il patrimonio intangibile di cui le imprese selezionate sono portatrici, considerando la narrazione autentica come una cassa di risonanza e un nuovo strumento di consapevolezza”, viene scritto all’inizio del libro. E si può ben dire che la scommessa sia stata vinta, anche se magari non tutto quello che si legge nell’ultima fatica letteraria di Morace troverà tutti d’accordo. Ma, a ben vedere, la funzione di ogni libro che si rispetti è anche questa: far discutere.

L’alfabeto della rinascita. 26 storie di imprese esemplari

Francesco Morace

Egea, 2022

Raccolte in un libro le storie di aziende che possono essere esempi per tutti

Storie d’impresa, 26 per la precisione, unite da un intento che supera quello del profitto. E’ quanto ha raccolto nel suo ultimo libro Francesco Morace (sociologo) raccontando le vicende di una serie di aziende italiane che possono essere d’esempio per la riemersione dalla crisi e, soprattutto, per farlo nel segno di un’utopia fondata su bellezza, umanità e creatività.

“L’alfabeto della rinascita” è davvero una raccolta  di racconti ordinati secondo l’alfabeto. 26 lettere, quindi, che corrispondono ad altrettante storie di imprese italiane dalla “A” di Alessi alla “Z” di Zanotta.
Secondo l’autore, la pandemia può diventare il propulsore inaspettato di un nuovo Rinascimento a cui nessuno avrebbe creduto solo un anno fa. Se nella vita in generale, infatti, non ci sono garanzie, questo insegnamento vale in modo particolare in una fase di radicale cambiamento come quella che si sta vivendo e ancor più per le imprese. Le aziende raccontate sono quelle che (più di altre ma anche come molte altre), riescono a preservare la ricchezza fragile di un luogo composito come il territorio italiano, affrontando le difficoltà del proprio auto-governo, della responsabilità e della decisione. Scorrono quindi le storie di Alessi, Berlucchi, Cosberg, Dallara, Expert, Fastweb, Granarolo, Herno, Inglesina, Jacuzzi®, Kartell, Lago, Melinda, Nexi, Opto Engineering, Pedrollo, QC Terme, Rotaliana, Sofidel, Treccani, Unione Nazionale Consumatori, VéGé, Würth, X Instant, Yomo, Zanotta. Ogni azienda è caratterizzata da una particolare immagine e, soprattutto, dal suo profilo di impresa che va oltre i canoni normali della gestione.
Il volume è arricchito da tre saggi di una giornalista (Marzia Tomasin) sull’importanza della capacità narrativa delle imprese, di un filosofo (Roberto Mordacci) e di un designer (Giulio Ceppi) che, tra l’altro, è autore della dimensione grafica del libro, rappresentata dai pittogrammi che raccontano con l’iniziale di ciascuna delle 26 aziende protagoniste (liberamente reinterpretata) un’idea, un progetto, una visione in cui si sono distinte. Chiude il volume una decalogo dell’Italian Human Design che ha l’ambizione di sintetizzare i messaggi vari e complessi di cui le 26 realtà d’impresa sono in qualche modo esempi.

“La scommessa che con ‘L’alfabeto della rinascita’ vogliamo proporre è quella di raccontare in un libro di carta il saper fare, l’ingegno e più in generale il patrimonio intangibile di cui le imprese selezionate sono portatrici, considerando la narrazione autentica come una cassa di risonanza e un nuovo strumento di consapevolezza”, viene scritto all’inizio del libro. E si può ben dire che la scommessa sia stata vinta, anche se magari non tutto quello che si legge nell’ultima fatica letteraria di Morace troverà tutti d’accordo. Ma, a ben vedere, la funzione di ogni libro che si rispetti è anche questa: far discutere.

L’alfabeto della rinascita. 26 storie di imprese esemplari

Francesco Morace

Egea, 2022

Cultura d’impresa alla prova della pandemia

Un’indagine sociologica affronta il tema dei rapporti tra aziende e territori in periodi di forte crisi rivelando tutta l’importanza del welfare

Affrontare una pandemia. Compito che ci si è dati a più livelli della società. E che si è riusciti ad assolvere unendo forze diverse che hanno agito con modalità differenziate. E compito che è valso anche per il sistema delle imprese, strettamente collegate ai territori in cui sono insediate a produrre. Superata – ma non del tutto – la sfida, vale la pena fermarsi per comprendere che cosa è accaduto e, nello specifico caso delle imprese, come sia cambiata la cultura del produrre oltre che l’organizzazione del produrre.

È il compito che si è data, da un particolare punto di vista, Elena Macchioni con la sua ricerca “Territori che conciliano: il benessere aziendale alla prova della pandemia” apparso sul primo numero del 2022 di Studi di sociologia.

L’indagine di Macchioni è un’analisi condotta con gli strumenti della ricerca sociologica e sul territorio, dei collegamenti virtuosi tra welfare aziendale e responsabilità sociale d’impresa in relazione alla geografia in cui le aziende operano e alle prese con la pandemia.

I concetti cardine della ricerca si condensano, di fatto, in due vocaboli – “benessere” e “conciliazione” -, che forniscono la sintesi e il senso di quanto è accaduto in molte parti d’Italia. Viene quindi dimostrato come attraverso gli strumenti del welfare d’impresa (spesso ormai normati anche dai contratti collettivi nazionali di lavoro), le aziende siano riuscite a rispondere alla pandemia di Covid-19 non solo creando ambiti di lavoro prima pressoché sconosciuti, ma anche modalità di conciliazione tra vita (per forza di cose costretta spesso in spazi limitati) e lavoro che sono state in grado di dare origine ad una solidarietà nuova all’interno delle compagini aziendali, oltre che mantenere le stesse in condizione di produrre. Un modello, viene dimostrato dalla ricerca, che si è riverberato sui territori nei quali le imprese sono collocate.

L’immagine dei “territori che conciliano” è quindi calzante per rappresentare il risultato di una virtuosa azione sinergica tra imprese e sistemi sociali locali, tra la necessità di preservare le strutture produttive di fronte al dilagare del virus e necessità di dare vita ad una rete solidale che tenesse insieme economia e società.

Quella raccontata da Elena Macchioni, di fatto, è la vicenda di un’evoluzione del fare impresa e della stessa responsabilità sociale d’impresa che, superata la prova della pandemia, può risultare adesso valida per superare altre prove.

Territori che conciliano: il benessere aziendale alla prova della pandemia

Elena Macchioni, Vita e Pensiero, Studi di sociologia, LX, 1/2022

Un’indagine sociologica affronta il tema dei rapporti tra aziende e territori in periodi di forte crisi rivelando tutta l’importanza del welfare

Affrontare una pandemia. Compito che ci si è dati a più livelli della società. E che si è riusciti ad assolvere unendo forze diverse che hanno agito con modalità differenziate. E compito che è valso anche per il sistema delle imprese, strettamente collegate ai territori in cui sono insediate a produrre. Superata – ma non del tutto – la sfida, vale la pena fermarsi per comprendere che cosa è accaduto e, nello specifico caso delle imprese, come sia cambiata la cultura del produrre oltre che l’organizzazione del produrre.

È il compito che si è data, da un particolare punto di vista, Elena Macchioni con la sua ricerca “Territori che conciliano: il benessere aziendale alla prova della pandemia” apparso sul primo numero del 2022 di Studi di sociologia.

L’indagine di Macchioni è un’analisi condotta con gli strumenti della ricerca sociologica e sul territorio, dei collegamenti virtuosi tra welfare aziendale e responsabilità sociale d’impresa in relazione alla geografia in cui le aziende operano e alle prese con la pandemia.

I concetti cardine della ricerca si condensano, di fatto, in due vocaboli – “benessere” e “conciliazione” -, che forniscono la sintesi e il senso di quanto è accaduto in molte parti d’Italia. Viene quindi dimostrato come attraverso gli strumenti del welfare d’impresa (spesso ormai normati anche dai contratti collettivi nazionali di lavoro), le aziende siano riuscite a rispondere alla pandemia di Covid-19 non solo creando ambiti di lavoro prima pressoché sconosciuti, ma anche modalità di conciliazione tra vita (per forza di cose costretta spesso in spazi limitati) e lavoro che sono state in grado di dare origine ad una solidarietà nuova all’interno delle compagini aziendali, oltre che mantenere le stesse in condizione di produrre. Un modello, viene dimostrato dalla ricerca, che si è riverberato sui territori nei quali le imprese sono collocate.

L’immagine dei “territori che conciliano” è quindi calzante per rappresentare il risultato di una virtuosa azione sinergica tra imprese e sistemi sociali locali, tra la necessità di preservare le strutture produttive di fronte al dilagare del virus e necessità di dare vita ad una rete solidale che tenesse insieme economia e società.

Quella raccontata da Elena Macchioni, di fatto, è la vicenda di un’evoluzione del fare impresa e della stessa responsabilità sociale d’impresa che, superata la prova della pandemia, può risultare adesso valida per superare altre prove.

Territori che conciliano: il benessere aziendale alla prova della pandemia

Elena Macchioni, Vita e Pensiero, Studi di sociologia, LX, 1/2022

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