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Innovazione, sostenibilità e valorizzazione del territorio

La Fondazione Pirelli con i ragazzi della Future Class dell’IIS di Pescara

All’Istituto Volta di Pescara, eccellenza nel panorama scolastico abruzzese, dallo scorso settembre è al lavoro un team di 28 ragazzi, provenienti dai diversi indirizzi dell’istituto, che, guidati da insegnanti ed esperti, ricercano e sviluppano prototipi e contenuti innovativi in linea con alcuni obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. Per la progettazione gli studenti hanno a disposizione uno spazio didattico innovativo “Future Lab” che ospita tecnologie all’avanguardia. I ragazzi si avvalgano inoltre della collaborazione di imprese specializzate nel settore dell’automazione industriale, delle biotecnologie, della sostenibilità, con il mondo accademico e con centri di ricerca. Tra queste imprese c’è la Pirelli. La scuola di Pescara, infatti, è il primo istituto scolastico italiano a scegliere la soluzione di noleggio e-bike Pirelli CYCL-e around per muoversi in sicurezza, con un mezzo di trasporto facile da usare e sostenibile. Un progetto di micro-mobilità scolastica che ha portato e porterà i ragazzi a ragionare sulla mobiltà sostenibile sperimentando concretamente le possibilità offerte dalla e-bike gommate Pirelli.

Anche la  Fondazione Pirelli ha contribuito al progetto attraverso due incontri virtuali e interattivi con i ragazzi raccontando le proprie esperienze di valorizzazione del patrimonio (libri, podcast, percorsi espositivi e documentali), mostrando i diversi progetti digitali messi in campo nel corso degli anni e approfondendo tematiche legate all’ impegno di Pirelli nel campo della sostenibilità. Un racconto da cui il team Future Class potrà trarre ispirazione per la realizzazione delle diverse iniziative in programma, come ad esempio un tour virtuale della Regione Abruzzo.

La Fondazione Pirelli con i ragazzi della Future Class dell’IIS di Pescara

All’Istituto Volta di Pescara, eccellenza nel panorama scolastico abruzzese, dallo scorso settembre è al lavoro un team di 28 ragazzi, provenienti dai diversi indirizzi dell’istituto, che, guidati da insegnanti ed esperti, ricercano e sviluppano prototipi e contenuti innovativi in linea con alcuni obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile. Per la progettazione gli studenti hanno a disposizione uno spazio didattico innovativo “Future Lab” che ospita tecnologie all’avanguardia. I ragazzi si avvalgano inoltre della collaborazione di imprese specializzate nel settore dell’automazione industriale, delle biotecnologie, della sostenibilità, con il mondo accademico e con centri di ricerca. Tra queste imprese c’è la Pirelli. La scuola di Pescara, infatti, è il primo istituto scolastico italiano a scegliere la soluzione di noleggio e-bike Pirelli CYCL-e around per muoversi in sicurezza, con un mezzo di trasporto facile da usare e sostenibile. Un progetto di micro-mobilità scolastica che ha portato e porterà i ragazzi a ragionare sulla mobiltà sostenibile sperimentando concretamente le possibilità offerte dalla e-bike gommate Pirelli.

Anche la  Fondazione Pirelli ha contribuito al progetto attraverso due incontri virtuali e interattivi con i ragazzi raccontando le proprie esperienze di valorizzazione del patrimonio (libri, podcast, percorsi espositivi e documentali), mostrando i diversi progetti digitali messi in campo nel corso degli anni e approfondendo tematiche legate all’ impegno di Pirelli nel campo della sostenibilità. Un racconto da cui il team Future Class potrà trarre ispirazione per la realizzazione delle diverse iniziative in programma, come ad esempio un tour virtuale della Regione Abruzzo.

Il passato che diventa presente

Il significato della digitalizzazione di archivi e musei d’impresa. Il caso del comparto della moda

Buona cultura d’impresa che si mette in mostra, sfruttando anche gli strumenti della digitalizzazione ormai a disposizione. E’ accaduto anche nei mesi scorsi, quando il sistema economico e sociale si è confrontato con gli effetti devastanti della pandemia di Covid-19. Accanto alla diffusione della conoscenza, quanto avvenuto ha dato modo di valutare meglio – e in corso d’opera -, quanta strada occorra ancora fare per l’uso più efficace delle nuove tecnologie per la diffusione dell’attività d’impresa.

L’analisi di quanto è accaduto viene svolta – per il comparto della moda -, da Chiara Pompa (ricercatrice presso il Dipartimento di Scienza per la qualità della vita dell’Università di Bologna), nel suo “La memoria ‘estesa’ della moda. Come valorizzare l’heritage aziendale con la tecnologia” apparso qualche settimana fa in ZoneModa Journal

L’indagine prende proprio le mosse dalla constatazione di come negli ultimi mesi di lockdown e allontanamento sociale, necessari per contrastare la diffusione del Pandemia Covid-19, il mondo della moda abbia aperto le porte dei suoi database digitali, condividendo il patrimonio culturale con la comunità web. Segnale di grande cultura d’impresa che si mette a disposizione di tutti, ma anche iniziativa, spiega Chiara Pompa, “capace di stimolare una riflessione sulla dimensione dell’accessibilità agli archivi di moda, nonché sugli usi che se ne possono fare”.

Quanto accaduto viene analizzato quindi da diverse prospettive: se da un lato, infatti, l’apertura digitale degli archivi ha potuto fornire informazioni utili sui progressi della digitalizzazione, dall’altro ha sottolineato il limitato utilizzo della cosiddetta Extended Reality negli archivi aziendali e nei musei del “sistema moda” che ha adottato questa tecnologia principalmente nella vendita al dettaglio B2B e B2C.

Chiara Pompa, partendo quindi dall’analisi dello stato dell’arte, ha cercato di tracciare potenziali percorsi per future ricerche in questo campo, con l’obiettivo di aiutare la fruizione e valorizzazione del patrimonio fashion attraverso tecnologie di realtà aumentata e virtuale. Ne deriva anche una valorizzazione dell’utilità degli archivi e musei d’impresa che, se ben interpretati, possono svolgere non solo la funzione di “raccolte storiche” ma anche e soprattutto quella di “luoghi vivi di lavoro” a disposizione delle imprese e non solo.

La memoria ‘estesa’ della moda. Come valorizzare l’heritage aziendale con la tecnologia

Chiara Pompa (Università di Bologna)

ZoneModa Journal. Vol.10 n.2 (2020)

Il significato della digitalizzazione di archivi e musei d’impresa. Il caso del comparto della moda

Buona cultura d’impresa che si mette in mostra, sfruttando anche gli strumenti della digitalizzazione ormai a disposizione. E’ accaduto anche nei mesi scorsi, quando il sistema economico e sociale si è confrontato con gli effetti devastanti della pandemia di Covid-19. Accanto alla diffusione della conoscenza, quanto avvenuto ha dato modo di valutare meglio – e in corso d’opera -, quanta strada occorra ancora fare per l’uso più efficace delle nuove tecnologie per la diffusione dell’attività d’impresa.

L’analisi di quanto è accaduto viene svolta – per il comparto della moda -, da Chiara Pompa (ricercatrice presso il Dipartimento di Scienza per la qualità della vita dell’Università di Bologna), nel suo “La memoria ‘estesa’ della moda. Come valorizzare l’heritage aziendale con la tecnologia” apparso qualche settimana fa in ZoneModa Journal

L’indagine prende proprio le mosse dalla constatazione di come negli ultimi mesi di lockdown e allontanamento sociale, necessari per contrastare la diffusione del Pandemia Covid-19, il mondo della moda abbia aperto le porte dei suoi database digitali, condividendo il patrimonio culturale con la comunità web. Segnale di grande cultura d’impresa che si mette a disposizione di tutti, ma anche iniziativa, spiega Chiara Pompa, “capace di stimolare una riflessione sulla dimensione dell’accessibilità agli archivi di moda, nonché sugli usi che se ne possono fare”.

Quanto accaduto viene analizzato quindi da diverse prospettive: se da un lato, infatti, l’apertura digitale degli archivi ha potuto fornire informazioni utili sui progressi della digitalizzazione, dall’altro ha sottolineato il limitato utilizzo della cosiddetta Extended Reality negli archivi aziendali e nei musei del “sistema moda” che ha adottato questa tecnologia principalmente nella vendita al dettaglio B2B e B2C.

Chiara Pompa, partendo quindi dall’analisi dello stato dell’arte, ha cercato di tracciare potenziali percorsi per future ricerche in questo campo, con l’obiettivo di aiutare la fruizione e valorizzazione del patrimonio fashion attraverso tecnologie di realtà aumentata e virtuale. Ne deriva anche una valorizzazione dell’utilità degli archivi e musei d’impresa che, se ben interpretati, possono svolgere non solo la funzione di “raccolte storiche” ma anche e soprattutto quella di “luoghi vivi di lavoro” a disposizione delle imprese e non solo.

La memoria ‘estesa’ della moda. Come valorizzare l’heritage aziendale con la tecnologia

Chiara Pompa (Università di Bologna)

ZoneModa Journal. Vol.10 n.2 (2020)

Il passato presente

Un piccolo libro di un grande storico, serve per comprendere meglio il contesto in cui viviamo e lavoriamo

La buona cultura, e la buona cultura d’impresa in particolare, si nutrono della consapevolezza del presente ma anche del passato. Constatazione che dovrebbe essere acquisita e che, invece, spesso passa in secondo piano, travolta dalla facilità dell’immediato. Leggere il libretto di poco più di un centinaio di pagine che Adriano Prosperi – storico di vaglia e adesso professore emerito di storia moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa -, ha dedicato a “Un tempo senza storia. La distruzione del passato”, serve proprio per rendere più salda quella consapevolezza che fa della cultura (anche d’impresa), una condizione insostituibile dell’agire.

Prosperi ha voluto scrivere un libro che è, contemporaneamente, un’apologia della storia e uno sguardo preoccupato sulla società dell’oblio in cui viviamo. Sulla base della sua lunga esperienza, l’autore commenta la condizione di una società dove la storia, come disciplina, è vituperata e marginalizzata. E dove dimenticare il passato è un fenomeno connesso alla scomparsa del futuro nella prospettiva delle nuove generazioni, mentre le rinascenti mitologie nazistoidi si legano all’odio nei confronti di chi viene “da fuori”.

Passato e presente, così come ruolo della memoria e della storia, ma anche dell’impegno civile dei singoli e delle organizzazioni, sono il tema dell’analisi di Prosperi che descrive la condizione inquietante della nostra società. Proprio quella società nella quale i singoli si muovono e vivono, così come le organizzazioni della produzione e i mercati prendono forma e azione, senza dimenticare i movimenti d’opinione e politici che pare mettano da parte l’accoglienza per privilegiare l’esclusione. Emerge dalle pagine di questo libro una società nella quale visioni positive legate, per esempio, alla responsabilità sociale d’impresa, alla tutela dell’altro, alla conservazione dell’ambiente, appaiono rischiare di essere poste a margine del cammino lungo della storia.

Prosperi scrive in modo denso e appassionato: le sue pagine non sono sempre di facile lettura. Eppure, leggere “Un tempo senza storia” fa bene a tutti: serve per guardare al passato e al presente in modo corretto e andare verso il futuro con passo deciso.

Un tempo senza storia. La distruzione del passato

Adriano Prosperi

Einaudi, 2021

Un piccolo libro di un grande storico, serve per comprendere meglio il contesto in cui viviamo e lavoriamo

La buona cultura, e la buona cultura d’impresa in particolare, si nutrono della consapevolezza del presente ma anche del passato. Constatazione che dovrebbe essere acquisita e che, invece, spesso passa in secondo piano, travolta dalla facilità dell’immediato. Leggere il libretto di poco più di un centinaio di pagine che Adriano Prosperi – storico di vaglia e adesso professore emerito di storia moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa -, ha dedicato a “Un tempo senza storia. La distruzione del passato”, serve proprio per rendere più salda quella consapevolezza che fa della cultura (anche d’impresa), una condizione insostituibile dell’agire.

Prosperi ha voluto scrivere un libro che è, contemporaneamente, un’apologia della storia e uno sguardo preoccupato sulla società dell’oblio in cui viviamo. Sulla base della sua lunga esperienza, l’autore commenta la condizione di una società dove la storia, come disciplina, è vituperata e marginalizzata. E dove dimenticare il passato è un fenomeno connesso alla scomparsa del futuro nella prospettiva delle nuove generazioni, mentre le rinascenti mitologie nazistoidi si legano all’odio nei confronti di chi viene “da fuori”.

Passato e presente, così come ruolo della memoria e della storia, ma anche dell’impegno civile dei singoli e delle organizzazioni, sono il tema dell’analisi di Prosperi che descrive la condizione inquietante della nostra società. Proprio quella società nella quale i singoli si muovono e vivono, così come le organizzazioni della produzione e i mercati prendono forma e azione, senza dimenticare i movimenti d’opinione e politici che pare mettano da parte l’accoglienza per privilegiare l’esclusione. Emerge dalle pagine di questo libro una società nella quale visioni positive legate, per esempio, alla responsabilità sociale d’impresa, alla tutela dell’altro, alla conservazione dell’ambiente, appaiono rischiare di essere poste a margine del cammino lungo della storia.

Prosperi scrive in modo denso e appassionato: le sue pagine non sono sempre di facile lettura. Eppure, leggere “Un tempo senza storia” fa bene a tutti: serve per guardare al passato e al presente in modo corretto e andare verso il futuro con passo deciso.

Un tempo senza storia. La distruzione del passato

Adriano Prosperi

Einaudi, 2021

La povertà educativa dell’Italia
(13 milioni di persone poco istruite)
e le scelte necessarie
per destinare il Recovery Fund alla scuola

Ci sono in Italia 13 milioni di persone con un basso livello di istruzione, appena la terza media al massimo, tra gli adulti dai 25 ai 64 anni. Sono il 39% della nostra popolazione in quella fascia d’età, addirittura il 20% di tutti gli adulti europei nella stessa condizione. E sono in difficoltà con il lavoro, soprattutto in stagioni intense di cambiamento verso l’economia digitale. Ma anche e soprattutto in crisi con la loro stessa condizione di cittadini: non sapere significa molto spesso non capire e dunque non essere in condizione di potere esercitare i propri diritti di decisione, scelta, critica. Le gravi carenze dell’istruzione pongono non solo una questione economica e sociale (la bassa produttività del lavoro, le difficoltà a reggere la competitività) ma anche e soprattutto una questione di democrazia.

Vale la pena ricordare la lezione di Piero Calamandrei, uno dei padri della nostra Costituzione: “Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte Costituzionale”. E ancora: “Trasformare i sudditi in cittadini è miracolo che solo la scuola può compiere”. Sviluppo e democrazia, benessere e partecipazione si tengono insieme.

Il tema delle pessime condizioni dell’istruzione nel nostro Paese è stato meritoriamente rilanciato pochi giorni fa con un grande titolo in prima pagina da “Il Sole24Ore” (“Bassa istruzione per 13 milioni di adulti”, 27 gennaio), dando conto di una lettera aperta al governo da parte degli esperti degli istituti di formazione, con una richiesta molto chiara: investire sulle conoscenze e le competenze, dunque sulla scuola e sulle attività di formazione continua, una parte consistente del Recovery Fund. E cioè fare bene, con progetti seri e ben costruiti, proprio ciò su cui la Ue, con quello stanziamento da oltre 200 miliardi, ci chiede di impegnarci: guardare alla Next Generation, ai giovani, cioè, e a una loro formazione qualificata.

Sulla scuola, proprio in questa drammatica e dolorosa stagione di pandemia da Covid 19 e di recessione, il governo Conte ha mostrato lacune evidentissime. Ha chiacchierato di banchi con le ruote per agevolare il distanziamento sociale, ma non ha saputo esprimere una politica seria e coerente. Ha subito scelte ondivaghe delle regioni sulle chiusure delle scuole. Ha dedicato più attenzione alla discussione sull’apertura o meno gli impianti sciistici o, adesso, sul Festival di Sanremo. Ma non ha elaborato una strategia per permettere agli studenti e ai professori di fare fronte al loro impegno: insegnare e imparare, studiare e capire. Né è venuto incontro ai bisogni di moltissimi ragazzi di poter avere comunque un sostegno digitale: l’11% delle famiglie non ha alcuna connessione a Internet (nel Mezzogiorno va molto peggio) e in parecchie case su un unico computer si concentrano le tensioni di lavoro e di studio tra genitori e figli. Tra i tanti mondi sociali messi in drammatica crisi dalla pandemia, la scuola vive una particolare, profondissima condizione di disagio, con conseguenze che i ragazzi e un po’ tutto il Paese pagherà nei prossimi anni.

La “didattica a distanza” supplisce alle carenze, ma in modo quando mai parziale. La “cronica povertà educativa” denunciata più volte dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella non ha avuto, finora, risposte chiare in termini di scelte di investimenti e riforme.

Vale la pena tenere conto anche di altri dati. Se consideriamo infatti il bisogno di alfabetizzazione linguistica, numerica e digitale, la quota di popolazione adulta che dovrebbe aggiornare le proprie competenze è stimata tra il 50-60% del totale. Siamo infatti di fronte anche al fenomeno di un vero e proprio analfabetismo di ritorno, l’analfabetismo funzionale, che non consente di interagire con il mondo digitale. E l’Ocse documenta come quasi il 70% degli italiani sia sotto il “livello 3” nella comprensione sia di un testo scritto sia di nozioni matematiche. E quel “livello 3” è la soglia minima per vivere e lavorare nel mondo attuale.

E ancora: abbiamo pochi laureati, il 19,6% nella fascia d’età 25-64 anni, rispetto a una media europea del 33,2% (con una incidenza molto bassa delle lauree Stem, quelle scientifiche). E un altissimo livello di abbandono scolastico, con record nelle regioni del Sud.

La ricaduta, in termini di opportunità di lavoro, è evidente. Le imprese non trovano le persone qualificate che cercano, i giovani non riescono ad avere un’occupazione. Un circuito perverso che determina un bassissimo tasso di crescita dell’Italia e una profonda insoddisfazione sociale, con prospettive negative sulla tenuta del Paese nel complesso.
Anche per la formazione sul lavoro i dati sono allarmanti: sono il 24% degli italiani fa attività formativa, contro il 52% della media Ocse (e sulla qualità di questa formazione e sulla sua corrispondenza con i bisogni reali delle imprese le ombre sono molto forti).
Non studiamo, non ci formiamo, non cresciamo. Nell’epoca della “economia della conoscenza”, è un handicap gravissimo. Che aggrava le fratture e i divari sociali e priva i giovani delle speranze in un futuro migliore.

Commenta, su “Il Sole24Ore”, Alberto Orioli: “In questo deserto delle competenze e dei saperi il Paese declina e si impoverisce. Non solo di talenti, ma anche di conoscenze e di senso critico. E diventa un popolo di anime semplici e rozze, prede ideali del neo-conformismo social. E forse a qualcuno conviene così”.

Gli enti di formazione, giustamente, chiedono al governo di “puntare con forza a investire parte delle risorse del Recovery Fund sulla formazione continua non solo per affrontare il gap di competenze a sostegno dell’occupazione, ma anche per garantire la modernizzazione della pubblica amministrazione, la digitalizzazione dell’economia e il sistema di istruzione scolastica”, con lo scopo di realizzare “entro il 2025 l’obiettivo europeo del 50% di adulti che partecipano in attività formative almeno una volta ogni 12 mesi”.

La crisi infatti – insiste la lettera dei formatori al governo – insegna che “reagire all’emergenza e costruire soluzioni sostenibili per il futuro richiede capacità e risorse propriamente umane e in primo luogo tutte le competenze – di base, trasversali, sociali, scientifiche e imprenditoriali – necessarie per affrontare l’incertezza e creare opportunità dalle nuove tecnologie, dall’allargamento degli scambi internazionali, così come dal vasto patrimonio di beni culturali e naturali di cui l’Italia dispone”.

Ci sono in Italia 13 milioni di persone con un basso livello di istruzione, appena la terza media al massimo, tra gli adulti dai 25 ai 64 anni. Sono il 39% della nostra popolazione in quella fascia d’età, addirittura il 20% di tutti gli adulti europei nella stessa condizione. E sono in difficoltà con il lavoro, soprattutto in stagioni intense di cambiamento verso l’economia digitale. Ma anche e soprattutto in crisi con la loro stessa condizione di cittadini: non sapere significa molto spesso non capire e dunque non essere in condizione di potere esercitare i propri diritti di decisione, scelta, critica. Le gravi carenze dell’istruzione pongono non solo una questione economica e sociale (la bassa produttività del lavoro, le difficoltà a reggere la competitività) ma anche e soprattutto una questione di democrazia.

Vale la pena ricordare la lezione di Piero Calamandrei, uno dei padri della nostra Costituzione: “Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte Costituzionale”. E ancora: “Trasformare i sudditi in cittadini è miracolo che solo la scuola può compiere”. Sviluppo e democrazia, benessere e partecipazione si tengono insieme.

Il tema delle pessime condizioni dell’istruzione nel nostro Paese è stato meritoriamente rilanciato pochi giorni fa con un grande titolo in prima pagina da “Il Sole24Ore” (“Bassa istruzione per 13 milioni di adulti”, 27 gennaio), dando conto di una lettera aperta al governo da parte degli esperti degli istituti di formazione, con una richiesta molto chiara: investire sulle conoscenze e le competenze, dunque sulla scuola e sulle attività di formazione continua, una parte consistente del Recovery Fund. E cioè fare bene, con progetti seri e ben costruiti, proprio ciò su cui la Ue, con quello stanziamento da oltre 200 miliardi, ci chiede di impegnarci: guardare alla Next Generation, ai giovani, cioè, e a una loro formazione qualificata.

Sulla scuola, proprio in questa drammatica e dolorosa stagione di pandemia da Covid 19 e di recessione, il governo Conte ha mostrato lacune evidentissime. Ha chiacchierato di banchi con le ruote per agevolare il distanziamento sociale, ma non ha saputo esprimere una politica seria e coerente. Ha subito scelte ondivaghe delle regioni sulle chiusure delle scuole. Ha dedicato più attenzione alla discussione sull’apertura o meno gli impianti sciistici o, adesso, sul Festival di Sanremo. Ma non ha elaborato una strategia per permettere agli studenti e ai professori di fare fronte al loro impegno: insegnare e imparare, studiare e capire. Né è venuto incontro ai bisogni di moltissimi ragazzi di poter avere comunque un sostegno digitale: l’11% delle famiglie non ha alcuna connessione a Internet (nel Mezzogiorno va molto peggio) e in parecchie case su un unico computer si concentrano le tensioni di lavoro e di studio tra genitori e figli. Tra i tanti mondi sociali messi in drammatica crisi dalla pandemia, la scuola vive una particolare, profondissima condizione di disagio, con conseguenze che i ragazzi e un po’ tutto il Paese pagherà nei prossimi anni.

La “didattica a distanza” supplisce alle carenze, ma in modo quando mai parziale. La “cronica povertà educativa” denunciata più volte dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella non ha avuto, finora, risposte chiare in termini di scelte di investimenti e riforme.

Vale la pena tenere conto anche di altri dati. Se consideriamo infatti il bisogno di alfabetizzazione linguistica, numerica e digitale, la quota di popolazione adulta che dovrebbe aggiornare le proprie competenze è stimata tra il 50-60% del totale. Siamo infatti di fronte anche al fenomeno di un vero e proprio analfabetismo di ritorno, l’analfabetismo funzionale, che non consente di interagire con il mondo digitale. E l’Ocse documenta come quasi il 70% degli italiani sia sotto il “livello 3” nella comprensione sia di un testo scritto sia di nozioni matematiche. E quel “livello 3” è la soglia minima per vivere e lavorare nel mondo attuale.

E ancora: abbiamo pochi laureati, il 19,6% nella fascia d’età 25-64 anni, rispetto a una media europea del 33,2% (con una incidenza molto bassa delle lauree Stem, quelle scientifiche). E un altissimo livello di abbandono scolastico, con record nelle regioni del Sud.

La ricaduta, in termini di opportunità di lavoro, è evidente. Le imprese non trovano le persone qualificate che cercano, i giovani non riescono ad avere un’occupazione. Un circuito perverso che determina un bassissimo tasso di crescita dell’Italia e una profonda insoddisfazione sociale, con prospettive negative sulla tenuta del Paese nel complesso.
Anche per la formazione sul lavoro i dati sono allarmanti: sono il 24% degli italiani fa attività formativa, contro il 52% della media Ocse (e sulla qualità di questa formazione e sulla sua corrispondenza con i bisogni reali delle imprese le ombre sono molto forti).
Non studiamo, non ci formiamo, non cresciamo. Nell’epoca della “economia della conoscenza”, è un handicap gravissimo. Che aggrava le fratture e i divari sociali e priva i giovani delle speranze in un futuro migliore.

Commenta, su “Il Sole24Ore”, Alberto Orioli: “In questo deserto delle competenze e dei saperi il Paese declina e si impoverisce. Non solo di talenti, ma anche di conoscenze e di senso critico. E diventa un popolo di anime semplici e rozze, prede ideali del neo-conformismo social. E forse a qualcuno conviene così”.

Gli enti di formazione, giustamente, chiedono al governo di “puntare con forza a investire parte delle risorse del Recovery Fund sulla formazione continua non solo per affrontare il gap di competenze a sostegno dell’occupazione, ma anche per garantire la modernizzazione della pubblica amministrazione, la digitalizzazione dell’economia e il sistema di istruzione scolastica”, con lo scopo di realizzare “entro il 2025 l’obiettivo europeo del 50% di adulti che partecipano in attività formative almeno una volta ogni 12 mesi”.

La crisi infatti – insiste la lettera dei formatori al governo – insegna che “reagire all’emergenza e costruire soluzioni sostenibili per il futuro richiede capacità e risorse propriamente umane e in primo luogo tutte le competenze – di base, trasversali, sociali, scientifiche e imprenditoriali – necessarie per affrontare l’incertezza e creare opportunità dalle nuove tecnologie, dall’allargamento degli scambi internazionali, così come dal vasto patrimonio di beni culturali e naturali di cui l’Italia dispone”.

Pirelli in un mondo in movimento
Dal velocipede alla future mobility

È il 1890. La Pirelli inizia a produrre il “tipo Milano”, primo pneumatico per velocipede, un mezzo di trasporto che allora stava conoscendo numerosi cambiamenti, che lo porteranno a trasformarsi nella moderna bicicletta. Lungo il corso del tempo la bici diventerà sempre più popolare, dando inizio a una vera e propria moda nel mondo dei trasporti. Il XX secolo si apre all’insegna del mito della velocità. Nascono alcune delle più grandi competizioni automobilistiche, come la Targa Florio e il Gran Premio di Le Mans. È l’era dei grandi raid automobilistici che portano team di piloti a competere lungo tratte mai provate prima: si corre dalla Cina alla Francia e poi alla Spagna. Si attraversa anche l’oceano, fino a New York, per poi ritornare in Europa. Sulla scia delle grandi competizioni, l’industria automobilistica inizierà la costruzione in grande serie di autoveicoli, che si diffonderanno sempre più durante tutto il secolo. Il processo di motorizzazione di massa durante il boom economico degli anni Sessanta permette agli italiani di riscoprire la libertà. Le auto, ma anche le moto o gli scooter sono lo strumento che consente di raggiungere il luogo di lavoro, ma anche di viaggiare, alla scoperta di un paese che rinasce. Pirelli è stata la prima azienda italiana a produrre i pneumatici per motorscooter alla fine degli anni Quaranta, gommando le mitiche “Vespa” e “Lambretta”. Gli anni del boom economico si concludono bruscamente con la crisi petrolifera del 1973. Diventa pressante l’esigenza di trovare un combustibile alternativo e i dipartimenti di ricerca e sviluppo delle case automobilistiche si orientano anche verso l’utilizzo dell’energia elettrica. Iniziano gli studi, che porteranno alla produzione delle prime auto elettriche o ibride. Tra la fine del Novecento e i primi anni 2000 si afferma la visione della mobilità sostenibile. Si cercano nuovi modi di immaginare il trasporto, soprattutto urbano, che rispettino l’ambiente e riducano le emissioni. Auto elettriche quindi, ma anche una riscoperta dell’uso della bicicletta. Le bici con pedalata assistita sono sempre più utilizzate per muoversi nelle città, anche attraverso i servizi di Bike sharing che ridefiniscono il concetto di mobilità.

Un mondo in movimento, dal velocipede alla future mobility, sempre “gommato” Pirelli.

È il 1890. La Pirelli inizia a produrre il “tipo Milano”, primo pneumatico per velocipede, un mezzo di trasporto che allora stava conoscendo numerosi cambiamenti, che lo porteranno a trasformarsi nella moderna bicicletta. Lungo il corso del tempo la bici diventerà sempre più popolare, dando inizio a una vera e propria moda nel mondo dei trasporti. Il XX secolo si apre all’insegna del mito della velocità. Nascono alcune delle più grandi competizioni automobilistiche, come la Targa Florio e il Gran Premio di Le Mans. È l’era dei grandi raid automobilistici che portano team di piloti a competere lungo tratte mai provate prima: si corre dalla Cina alla Francia e poi alla Spagna. Si attraversa anche l’oceano, fino a New York, per poi ritornare in Europa. Sulla scia delle grandi competizioni, l’industria automobilistica inizierà la costruzione in grande serie di autoveicoli, che si diffonderanno sempre più durante tutto il secolo. Il processo di motorizzazione di massa durante il boom economico degli anni Sessanta permette agli italiani di riscoprire la libertà. Le auto, ma anche le moto o gli scooter sono lo strumento che consente di raggiungere il luogo di lavoro, ma anche di viaggiare, alla scoperta di un paese che rinasce. Pirelli è stata la prima azienda italiana a produrre i pneumatici per motorscooter alla fine degli anni Quaranta, gommando le mitiche “Vespa” e “Lambretta”. Gli anni del boom economico si concludono bruscamente con la crisi petrolifera del 1973. Diventa pressante l’esigenza di trovare un combustibile alternativo e i dipartimenti di ricerca e sviluppo delle case automobilistiche si orientano anche verso l’utilizzo dell’energia elettrica. Iniziano gli studi, che porteranno alla produzione delle prime auto elettriche o ibride. Tra la fine del Novecento e i primi anni 2000 si afferma la visione della mobilità sostenibile. Si cercano nuovi modi di immaginare il trasporto, soprattutto urbano, che rispettino l’ambiente e riducano le emissioni. Auto elettriche quindi, ma anche una riscoperta dell’uso della bicicletta. Le bici con pedalata assistita sono sempre più utilizzate per muoversi nelle città, anche attraverso i servizi di Bike sharing che ridefiniscono il concetto di mobilità.

Un mondo in movimento, dal velocipede alla future mobility, sempre “gommato” Pirelli.

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Leonardo Sinisgalli, un poeta ingegnere in Pirelli

“Abbiamo provocato incontri tra scienziati e giornalisti, tra tecnici e poeti. Senza tema di commettere eresie abbiamo mandato i reporters negli studi, nelle aule, nei laboratori  a sorprendere con lampi di magnesio personaggi tanto illustri quando riluttanti […]”. E ancora “Una delle nostre ambizioni fu proprio questa: provocare, stimolare una prosa analitica piuttosto che il solito pezzo commemorativo, un referto e non un inno, un commento, non una predica […]. Io aspetto il giorno in cui il Regno dell’Utile sarà rinverdito dalla cultura, dalle metafore, dall’intelligenza. […] La Rivista Pirelli ha cercato di stimolare nei collaboratori la ricerca di un’impressione meditata; ma c’è ancora molto cammino da percorrere per guadagnare precisione e leggerezza”.

In queste citazioni dalla storica Rivista Pirelli convergono e sono sintetizzati l’impegno e l’attività di Leonardo Sinisgalli nei quattro anni di direzione del magazine e la sua concezione della cultura e la sua poetica. Profondo conoscitore delle scienze matematiche, la sua figura incarna infatti la “cultura politecnica” pirelliana, la ricerca continua di armonizzazione di tecnologia e delle arti, cercando di tenerle in equilibrio tra loro, favorendo il dialogo e gli scambi di opinione tra uomini di scienza e letterati. Arte e industria si fondono così in un nuovo umanesimo, che ritrova una delle sue più compiute espressioni tra le pagine, appunto, della Rivista Pirelli. Leonardo Sinisgalli entra in contatto con l’azienda milanese già nel 1937 lavorando alla Società del Linoleum del Gruppo Pirelli, dove conosce  Giuseppe Luraghi, che ritroverà poi nel secondo dopoguerra, negli anni in cui fonderanno e poi dirigeranno insieme la Rivista Pirelli prima, e in seguito “Civiltà delle macchine”, bimestrale di Finmeccanica.

Quali sono i germi che si nascondono dietro a una buona idea pubblicitaria, quali sono i calcoli della natura nel realizzare le forme tanto perfette che ci sono intorno a noi, qual è lo stupore nell’ammirare le “scolpiture” nei disegni del battistrada nati non dalla natura ma da una sapiente ricerca nei laboratori di Pirelli, quale meraviglia si cela dietro al lavoro dell’uomo e delle macchine? E ancora, qual è l’orgine della ruota, dove nasce lo straordinario genio e talento di Leonardo da Vinci? Sono questi solo alcuni degli argomenti trattati da poeta-ingegnere nei 18 articoli firmati per la Rivista Pirelli tra il 1948 al 1952.

Sono gli anni in cui Sinisgalli chiama a collaborare al progetto editoriale molte firme importanti del giornalismo, della letteratura e dell’arte, esigendo per le inserzioni i manifesti e le campagne pubblicitarie i migliori artisti dell’epoca. Gli vengono infatti assegnati dalla Pirelli anche la curatela e il coordinamento delle “manifestazioni pubblicitarie della Ditta”, sia per il Gruppo Gomma, sia per l’Azienda Impermeabili. Anche le campagne pubblicitarie dell’epoca risentiranno dunque del suo gusto e della sua poetica, come nel caso della pubblicità per il pneumatico Stelvio Pirelli dal titolo “Quanti calcoli fa la natura” del 1952 e del primo film promozionale Pirelli “Novità  al Salone Internazionale dell’Automobile di Torino” del 1951, cortometraggio a colori diretto dai fratelli Nino e Toni Pagot e vincitore di numerosi premi.

La visione e l’eredità di Sinisgalli in Pirelli non si esauriranno anche grazie al suo successore Arrigo Castellani che riporterà negli anni Sessanta la consuetudine degli artisti in fabbrica e continuerà a coinvolgere giornalisti e intellettuali nell’esperienza della Rivista per raccontare il lavoro, la scienza e la tecnologia attraverso il linguaggio della letteratura.

“Abbiamo provocato incontri tra scienziati e giornalisti, tra tecnici e poeti. Senza tema di commettere eresie abbiamo mandato i reporters negli studi, nelle aule, nei laboratori  a sorprendere con lampi di magnesio personaggi tanto illustri quando riluttanti […]”. E ancora “Una delle nostre ambizioni fu proprio questa: provocare, stimolare una prosa analitica piuttosto che il solito pezzo commemorativo, un referto e non un inno, un commento, non una predica […]. Io aspetto il giorno in cui il Regno dell’Utile sarà rinverdito dalla cultura, dalle metafore, dall’intelligenza. […] La Rivista Pirelli ha cercato di stimolare nei collaboratori la ricerca di un’impressione meditata; ma c’è ancora molto cammino da percorrere per guadagnare precisione e leggerezza”.

In queste citazioni dalla storica Rivista Pirelli convergono e sono sintetizzati l’impegno e l’attività di Leonardo Sinisgalli nei quattro anni di direzione del magazine e la sua concezione della cultura e la sua poetica. Profondo conoscitore delle scienze matematiche, la sua figura incarna infatti la “cultura politecnica” pirelliana, la ricerca continua di armonizzazione di tecnologia e delle arti, cercando di tenerle in equilibrio tra loro, favorendo il dialogo e gli scambi di opinione tra uomini di scienza e letterati. Arte e industria si fondono così in un nuovo umanesimo, che ritrova una delle sue più compiute espressioni tra le pagine, appunto, della Rivista Pirelli. Leonardo Sinisgalli entra in contatto con l’azienda milanese già nel 1937 lavorando alla Società del Linoleum del Gruppo Pirelli, dove conosce  Giuseppe Luraghi, che ritroverà poi nel secondo dopoguerra, negli anni in cui fonderanno e poi dirigeranno insieme la Rivista Pirelli prima, e in seguito “Civiltà delle macchine”, bimestrale di Finmeccanica.

Quali sono i germi che si nascondono dietro a una buona idea pubblicitaria, quali sono i calcoli della natura nel realizzare le forme tanto perfette che ci sono intorno a noi, qual è lo stupore nell’ammirare le “scolpiture” nei disegni del battistrada nati non dalla natura ma da una sapiente ricerca nei laboratori di Pirelli, quale meraviglia si cela dietro al lavoro dell’uomo e delle macchine? E ancora, qual è l’orgine della ruota, dove nasce lo straordinario genio e talento di Leonardo da Vinci? Sono questi solo alcuni degli argomenti trattati da poeta-ingegnere nei 18 articoli firmati per la Rivista Pirelli tra il 1948 al 1952.

Sono gli anni in cui Sinisgalli chiama a collaborare al progetto editoriale molte firme importanti del giornalismo, della letteratura e dell’arte, esigendo per le inserzioni i manifesti e le campagne pubblicitarie i migliori artisti dell’epoca. Gli vengono infatti assegnati dalla Pirelli anche la curatela e il coordinamento delle “manifestazioni pubblicitarie della Ditta”, sia per il Gruppo Gomma, sia per l’Azienda Impermeabili. Anche le campagne pubblicitarie dell’epoca risentiranno dunque del suo gusto e della sua poetica, come nel caso della pubblicità per il pneumatico Stelvio Pirelli dal titolo “Quanti calcoli fa la natura” del 1952 e del primo film promozionale Pirelli “Novità  al Salone Internazionale dell’Automobile di Torino” del 1951, cortometraggio a colori diretto dai fratelli Nino e Toni Pagot e vincitore di numerosi premi.

La visione e l’eredità di Sinisgalli in Pirelli non si esauriranno anche grazie al suo successore Arrigo Castellani che riporterà negli anni Sessanta la consuetudine degli artisti in fabbrica e continuerà a coinvolgere giornalisti e intellettuali nell’esperienza della Rivista per raccontare il lavoro, la scienza e la tecnologia attraverso il linguaggio della letteratura.

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La sostenibilità efficiente

Un recente intervento online, contribuisce a fare chiarezza sulle relazioni tra impresa sostenibile e impresa etica

Fare impresa non solo per profitto. Indicazione ormai acquisita in buona parte delle organizzazioni della produzione. Eppure, indicazione che deve sempre essere confermata nella pratica e che, comunque, trova sempre nuovi motivi d’essere. E’ utile allora leggere “Sostenibilità e Impresa: una Sfida per il Futuro nell’Ottica di una Maggiore Competitività”, contributo di Vincenza Vota (del Dipartimento di Economia. Università degli Studi dell’Insubria), apparso recentemente in Economia Aziendale Online – Business and Management Sciences International Quarterly Review.

Vota svolge un ragionamento che lega e approfondisce i contatti tra sostenibilità della condotta d’impresa e responsabilità sociale d’impresa. Il punto di partenza dell’indagine è la constatazione che “la sostenibilità è non solo uno strumento per diminuire le distorsioni create con i sistemi capitalistici moderni, ma rappresenta, nella società attuale, un’opportunità per la creazione di valore e un fattore di maggiore competitività”. Le imprese, in altri termini, non sono “sostenibili” perché “buone”, ma perché ricercano in questo modo una migliore collocazione sui mercati e quindi una maggiore efficienza.

Secondo Vincenza Vota, tuttavia, il concetto di sostenibilità è andato saldandosi con quello di etica d’impresa. Si è arrivati così a saldare comportamenti eticamente e socialmente responsabili con i profili sostenibili dell’azione d’impresa.

L’intento dell’articolo è quindi quello di “indagare, definendo i tratti di un nuovo modello di impresa secondo cui non vi può essere creazione di valore se non si considera, oltre al profilo economico, il contesto ambientale e sociale di riferimento”. Vincenza Vota delinea così “un modello in cui assumono peculiare rilievo gli strumenti di comunicazione non finanziaria” capaci di “monitorare e comunicare gli obiettivi di sostenibilità perseguiti dalle società”. Dopo aver evidenziato come bilancio sociale e bilancio ambientale delle aziende, siano due tra i mezzi migliori a disposizione per raccontare in modo comprensibile e completo la sostenibilità e letica d’impresa, Vota conclude sottolineando come nell’evoluzione degli scopi dell’attività d’impresa, un ruolo determinante abbiano avuto anche i consumatori e il contesto sociale nel quale la stessa agisce.

L’intervento di Vincenza Vota condensa così in poche pagine un argomento complesso e ancora in evoluzione.

Sostenibilità e Impresa: una Sfida per il Futuro nell’Ottica di una Maggiore Competitività

Vincenza Vota

Economia Aziendale Online – Business and Management Sciences International Quarterly Review Vol. 11-4/2020

Un recente intervento online, contribuisce a fare chiarezza sulle relazioni tra impresa sostenibile e impresa etica

Fare impresa non solo per profitto. Indicazione ormai acquisita in buona parte delle organizzazioni della produzione. Eppure, indicazione che deve sempre essere confermata nella pratica e che, comunque, trova sempre nuovi motivi d’essere. E’ utile allora leggere “Sostenibilità e Impresa: una Sfida per il Futuro nell’Ottica di una Maggiore Competitività”, contributo di Vincenza Vota (del Dipartimento di Economia. Università degli Studi dell’Insubria), apparso recentemente in Economia Aziendale Online – Business and Management Sciences International Quarterly Review.

Vota svolge un ragionamento che lega e approfondisce i contatti tra sostenibilità della condotta d’impresa e responsabilità sociale d’impresa. Il punto di partenza dell’indagine è la constatazione che “la sostenibilità è non solo uno strumento per diminuire le distorsioni create con i sistemi capitalistici moderni, ma rappresenta, nella società attuale, un’opportunità per la creazione di valore e un fattore di maggiore competitività”. Le imprese, in altri termini, non sono “sostenibili” perché “buone”, ma perché ricercano in questo modo una migliore collocazione sui mercati e quindi una maggiore efficienza.

Secondo Vincenza Vota, tuttavia, il concetto di sostenibilità è andato saldandosi con quello di etica d’impresa. Si è arrivati così a saldare comportamenti eticamente e socialmente responsabili con i profili sostenibili dell’azione d’impresa.

L’intento dell’articolo è quindi quello di “indagare, definendo i tratti di un nuovo modello di impresa secondo cui non vi può essere creazione di valore se non si considera, oltre al profilo economico, il contesto ambientale e sociale di riferimento”. Vincenza Vota delinea così “un modello in cui assumono peculiare rilievo gli strumenti di comunicazione non finanziaria” capaci di “monitorare e comunicare gli obiettivi di sostenibilità perseguiti dalle società”. Dopo aver evidenziato come bilancio sociale e bilancio ambientale delle aziende, siano due tra i mezzi migliori a disposizione per raccontare in modo comprensibile e completo la sostenibilità e letica d’impresa, Vota conclude sottolineando come nell’evoluzione degli scopi dell’attività d’impresa, un ruolo determinante abbiano avuto anche i consumatori e il contesto sociale nel quale la stessa agisce.

L’intervento di Vincenza Vota condensa così in poche pagine un argomento complesso e ancora in evoluzione.

Sostenibilità e Impresa: una Sfida per il Futuro nell’Ottica di una Maggiore Competitività

Vincenza Vota

Economia Aziendale Online – Business and Management Sciences International Quarterly Review Vol. 11-4/2020

Rischi (anche) d’impresa

La capacità di affrontare il futuro passa anche dai metodi che mettono in grado le organizzazioni di affrontare i rischi

Attrezzarsi per il futuro senza prevederlo. A ben vedere, può essere sintetizzata così una buona parte delle attività d’impresa. Pianificazione della produzione, analisi dei mercati, ipotesi sui cambiamenti degli schemi d’azione della concorrenza e molto altro ancora, hanno come obiettivo finale quello di mettere in condizione l’azienda di affrontare quanto accadrà in modo avveduto. Se, cioè, il futuro non può essere in alcun modo previsto davvero, ci si può comunque preparare a quanto potrebbe ragionevolmente accadere. Ma anche alle sorprese. E’ cioè il rischio che deve entrare nelle avvedute pianificazioni d’impresa. Leggere “La nuova scienza del rischio. L’arte dell’immaginazione della difesa e della protezione” di Federica Spampinato, è allora cosa che può essere utile a molti.
Chi legge il libro viene condotto per mano nell’esplorazione di un tema che forse poco spazio ha avuto fino ad oggi nelle tecniche di gestione d’impresa. E che non ha a che fare solo con il “vecchio” calcolo delle probabilità. La nuova scienza del rischio raccontata da Spampinato, propone infatti una diversa e concreta grammatica del rischio, che permette di immaginare e prevenire il pericolo fuoricampo. L’assunto fondamentale è che non può esistere il “rischio zero”, ma che può esistere la “conseguenza zero”.
Dopo aver puntualizzato i concetti di “futuro” e di “rischio”, l’autrice presenta a chi legge nuove teorie di elaborazione dei rischi ai quali le organizzazioni possono essere esposte. In particolare, partendo dalla Cindynics, la scienza del rischio, disciplina francese comparsa alla fine degli anni Ottanta, Spampinato arriva alla KELONY®: un modello matematico post-probabilistico che rimette l’uomo al centro del processo decisionale, affinché possa agire nel migliore dei modi, anche nelle peggiori condizioni possibili, facendo uso anche dell’immaginazione oltre che di nuovi metodi di messa in sicurezza delle attività e degli ambiti produttivi.
Obiettivo generale di tutto, è, per Spampinato, quello di arrivare a costruire una società più consapevole, in grado di pensare alla protezione dell’essere umano al di là di ogni logica di profitto, sia all’interno dell’ambiente civile, sia all’interno delle aziende e delle organizzazioni.
Si può non essere d’accordo con tutto ciò che Spampinato racconta, ma “La nuova scienza del rischio” è una lettura comunque da fare.

La nuova scienza del rischio. L’arte dell’immaginazione della difesa e della protezione
Federica Spampinato
Guerini e Associati, 2020

La capacità di affrontare il futuro passa anche dai metodi che mettono in grado le organizzazioni di affrontare i rischi

Attrezzarsi per il futuro senza prevederlo. A ben vedere, può essere sintetizzata così una buona parte delle attività d’impresa. Pianificazione della produzione, analisi dei mercati, ipotesi sui cambiamenti degli schemi d’azione della concorrenza e molto altro ancora, hanno come obiettivo finale quello di mettere in condizione l’azienda di affrontare quanto accadrà in modo avveduto. Se, cioè, il futuro non può essere in alcun modo previsto davvero, ci si può comunque preparare a quanto potrebbe ragionevolmente accadere. Ma anche alle sorprese. E’ cioè il rischio che deve entrare nelle avvedute pianificazioni d’impresa. Leggere “La nuova scienza del rischio. L’arte dell’immaginazione della difesa e della protezione” di Federica Spampinato, è allora cosa che può essere utile a molti.
Chi legge il libro viene condotto per mano nell’esplorazione di un tema che forse poco spazio ha avuto fino ad oggi nelle tecniche di gestione d’impresa. E che non ha a che fare solo con il “vecchio” calcolo delle probabilità. La nuova scienza del rischio raccontata da Spampinato, propone infatti una diversa e concreta grammatica del rischio, che permette di immaginare e prevenire il pericolo fuoricampo. L’assunto fondamentale è che non può esistere il “rischio zero”, ma che può esistere la “conseguenza zero”.
Dopo aver puntualizzato i concetti di “futuro” e di “rischio”, l’autrice presenta a chi legge nuove teorie di elaborazione dei rischi ai quali le organizzazioni possono essere esposte. In particolare, partendo dalla Cindynics, la scienza del rischio, disciplina francese comparsa alla fine degli anni Ottanta, Spampinato arriva alla KELONY®: un modello matematico post-probabilistico che rimette l’uomo al centro del processo decisionale, affinché possa agire nel migliore dei modi, anche nelle peggiori condizioni possibili, facendo uso anche dell’immaginazione oltre che di nuovi metodi di messa in sicurezza delle attività e degli ambiti produttivi.
Obiettivo generale di tutto, è, per Spampinato, quello di arrivare a costruire una società più consapevole, in grado di pensare alla protezione dell’essere umano al di là di ogni logica di profitto, sia all’interno dell’ambiente civile, sia all’interno delle aziende e delle organizzazioni.
Si può non essere d’accordo con tutto ciò che Spampinato racconta, ma “La nuova scienza del rischio” è una lettura comunque da fare.

La nuova scienza del rischio. L’arte dell’immaginazione della difesa e della protezione
Federica Spampinato
Guerini e Associati, 2020

La letteratura d’impresa sull’Italia in movimento per raccontare lavoro, creatività e innovazione

Raccontare l’impresa per raccontare l’Italia. Dare voce alle donne e agli uomini protagonisti delle storie di fabbrica, dei laboratori industriali, dei cantieri, delle reti in cui s’intrecciano produzioni e servizi, degli spazi in cui, ogni giorno, si inventano nuovi modi di fare le cose. E così dare dignità di rappresentazione alle persone di un paese attivo, impegnato a cambiare e migliorare, tutto il contrario dello stereotipo dell’”Italia alle vongole”, dell’Italietta pigra, conformista, familista e clientelare. Gli stereotipi, si sa, hanno una base di verità, ma finiscono per essere una distorsione profonda dei modi prevalenti di vivere e di essere di un popolo, di una comunità, di una nazione. Ecco, l’Italia dell’impresa, probabilmente, somiglia un po’ di più all’Italia vera che non la maschera lazzarona e furbastra. L’attitudine a intraprendere è ben altro che l’improntitudine dell’arrangiarsi.

L’Italia, infatti, è territorio di creatività, di imprese che, nonostante tutto, investono, crescono, innovano, conquistano posizioni di rilievo sui mercati internazionali. E sono proprio queste imprese a tenere insieme competitività e inclusione sociale, memoria storica e tecnologie d’avanguardia. Costruiscono benessere, creano lavoro. Sono uno dei motori principali del cambiamento. Ecco, queste nostre imprese meritano di essere considerate un cardine per i programmi del Recovery Fund della Ue su green economy e digital economy. E sollecitano un racconto migliore di quello che purtroppo, da gran tempo, è diffuso in larghi settori dell’opinione pubblica, ambienti politici compresi. Hanno bisogno, insomma, di una più adeguata rappresentazione.

Nasce proprio da queste considerazioni l’idea di un “Premio Letteratura d’impresa”, promosso da ItalyPost, per valorizzare quelle opere che raccontano, in modo originale, il mondo dell’industria e dei servizi, il legame tra lavoro e territori, la capacità del “fare, fare bene e fare del bene”, la spinta al rinnovamento del Paese attraverso i processi economici e l’evoluzione delle tecnologie. Per dare spazio alla diffusione dei valori positivi della cultura d’impresa, cardine fondamentale per lo sviluppo sostenibile dell’Italia, nel contesto europeo.

La risposta di autori ed editori, già per questa prima edizione, è stata molto positiva. Una sessantina i libri arrivati alla giuria, numerose le richieste di informazioni e chiarimenti, rilevanti le attenzioni dei media. Dai venti titoli selezionati da una commissione tecnica, la giuria (composta da personalità dell’economia e della cultura) ne ha indicati cinque, che adesso vanno ad affrontare la prova più difficile: la lettura, il giudizio e infine il voto della giuria popolare (duecento persone), con la proclamazione del vincitore al Festival Città Impresa di Bergamo, nel maggio prossimo.

In attesa, alcune cose si possono già dire. I venti libri della prima selezione sono tutti di qualità e descrivono e documentano bene problemi, tensioni, caratteristiche di un mondo economico in evoluzione, quasi una metamorfosi . Sono saggi, biografie, inchieste, opere che tengono insieme elementi di vita vissuta con strutture narrative tipiche della fiction. E nella loro scelta la giuria non si è fermata sulle questioni di genere letterario e di stile (i generi, da tempo, si mescolano) ma ha privilegiato incisività, leggibilità e soprattutto capacità di rappresentare la complessità del panorama economico e imprenditoriale contemporaneo.

Sono caratteristiche esaltate dai titoli arrivati alla cinquina finale: “Fabbrica Futuro” di Marco Bentivogli e Diodato Pirone, Egea; “Fronte di scavo” di Sara Loffredi, Einaudi; “La classe avversa” di Alberto Albertini, Hacca Edizioni, “Instant Moda” di Andrea Batilla, Edizioni Gribaudo e “Questioni di Stilo” di Cesare Verona, Giunti.

Il primo è un’indagine sulle trasformazioni del più grande gruppo automobilistico italiano, soprattutto nella stagione della guida profondamente innovativa di Sergio Marchionne, attentissimo ai mercati globali, alla qualità dei prodotti, alla produttività del lavoro e alle relazioni con gli investitori internazionali. Il secondo ricostruisce la straordinaria vicenda del tunnel attraverso il Monte Bianco, nei primi anni Sessanta, un capolavoro ingegneristico e costruttivo della migliore tradizione italiana, un esempio per i tempi di realizzazione e per l’efficienza dei risultati (un esempio che vale ancora oggi). Il terzo guarda l’impresa dall’interno, attraverso le traversie e i cambiamenti che investono ruoli e competenze, scatenano paure e conflitti, alimentano sogni. Il quarto libro analizza e descrive con originalità il mondo che vive tra la moda e l’industria tessile, con un occhio di particolare attenzione alla creatività e al dinamismo del tessuto di piccole e medie imprese, tipico del Nord Est. Il quinto ripercorre la storia di un grande marchio italiano, con testimonianze di grande interesse sulle evoluzioni di un’impresa familiare che sfida il tempo e lega a un prodotto antico – una penna stilografica – le più nuove tecnologie di produzione e le più sofisticate strategie di marketing.

Sono tutte vicende esemplari del fare impresa e delle relazioni che si stringono, attraverso l’impresa, tra la ricerca e la produzione, tra il mondo del lavoro e i territori di riferimento, tra la creatività e la severità dell’esecuzione dei programmi, tra i progetti immaginati e la loro trasformazione in realtà. Messe insieme, queste narrazioni sono uno straordinario, efficace racconto di un’Italia in movimento. Che merita, soprattutto in tempi di crisi generale, ascolto e attenzione.

(Nell’immagine: Fulvio Bianconi, interno di fabbrica Pirelli, 1957)

Raccontare l’impresa per raccontare l’Italia. Dare voce alle donne e agli uomini protagonisti delle storie di fabbrica, dei laboratori industriali, dei cantieri, delle reti in cui s’intrecciano produzioni e servizi, degli spazi in cui, ogni giorno, si inventano nuovi modi di fare le cose. E così dare dignità di rappresentazione alle persone di un paese attivo, impegnato a cambiare e migliorare, tutto il contrario dello stereotipo dell’”Italia alle vongole”, dell’Italietta pigra, conformista, familista e clientelare. Gli stereotipi, si sa, hanno una base di verità, ma finiscono per essere una distorsione profonda dei modi prevalenti di vivere e di essere di un popolo, di una comunità, di una nazione. Ecco, l’Italia dell’impresa, probabilmente, somiglia un po’ di più all’Italia vera che non la maschera lazzarona e furbastra. L’attitudine a intraprendere è ben altro che l’improntitudine dell’arrangiarsi.

L’Italia, infatti, è territorio di creatività, di imprese che, nonostante tutto, investono, crescono, innovano, conquistano posizioni di rilievo sui mercati internazionali. E sono proprio queste imprese a tenere insieme competitività e inclusione sociale, memoria storica e tecnologie d’avanguardia. Costruiscono benessere, creano lavoro. Sono uno dei motori principali del cambiamento. Ecco, queste nostre imprese meritano di essere considerate un cardine per i programmi del Recovery Fund della Ue su green economy e digital economy. E sollecitano un racconto migliore di quello che purtroppo, da gran tempo, è diffuso in larghi settori dell’opinione pubblica, ambienti politici compresi. Hanno bisogno, insomma, di una più adeguata rappresentazione.

Nasce proprio da queste considerazioni l’idea di un “Premio Letteratura d’impresa”, promosso da ItalyPost, per valorizzare quelle opere che raccontano, in modo originale, il mondo dell’industria e dei servizi, il legame tra lavoro e territori, la capacità del “fare, fare bene e fare del bene”, la spinta al rinnovamento del Paese attraverso i processi economici e l’evoluzione delle tecnologie. Per dare spazio alla diffusione dei valori positivi della cultura d’impresa, cardine fondamentale per lo sviluppo sostenibile dell’Italia, nel contesto europeo.

La risposta di autori ed editori, già per questa prima edizione, è stata molto positiva. Una sessantina i libri arrivati alla giuria, numerose le richieste di informazioni e chiarimenti, rilevanti le attenzioni dei media. Dai venti titoli selezionati da una commissione tecnica, la giuria (composta da personalità dell’economia e della cultura) ne ha indicati cinque, che adesso vanno ad affrontare la prova più difficile: la lettura, il giudizio e infine il voto della giuria popolare (duecento persone), con la proclamazione del vincitore al Festival Città Impresa di Bergamo, nel maggio prossimo.

In attesa, alcune cose si possono già dire. I venti libri della prima selezione sono tutti di qualità e descrivono e documentano bene problemi, tensioni, caratteristiche di un mondo economico in evoluzione, quasi una metamorfosi . Sono saggi, biografie, inchieste, opere che tengono insieme elementi di vita vissuta con strutture narrative tipiche della fiction. E nella loro scelta la giuria non si è fermata sulle questioni di genere letterario e di stile (i generi, da tempo, si mescolano) ma ha privilegiato incisività, leggibilità e soprattutto capacità di rappresentare la complessità del panorama economico e imprenditoriale contemporaneo.

Sono caratteristiche esaltate dai titoli arrivati alla cinquina finale: “Fabbrica Futuro” di Marco Bentivogli e Diodato Pirone, Egea; “Fronte di scavo” di Sara Loffredi, Einaudi; “La classe avversa” di Alberto Albertini, Hacca Edizioni, “Instant Moda” di Andrea Batilla, Edizioni Gribaudo e “Questioni di Stilo” di Cesare Verona, Giunti.

Il primo è un’indagine sulle trasformazioni del più grande gruppo automobilistico italiano, soprattutto nella stagione della guida profondamente innovativa di Sergio Marchionne, attentissimo ai mercati globali, alla qualità dei prodotti, alla produttività del lavoro e alle relazioni con gli investitori internazionali. Il secondo ricostruisce la straordinaria vicenda del tunnel attraverso il Monte Bianco, nei primi anni Sessanta, un capolavoro ingegneristico e costruttivo della migliore tradizione italiana, un esempio per i tempi di realizzazione e per l’efficienza dei risultati (un esempio che vale ancora oggi). Il terzo guarda l’impresa dall’interno, attraverso le traversie e i cambiamenti che investono ruoli e competenze, scatenano paure e conflitti, alimentano sogni. Il quarto libro analizza e descrive con originalità il mondo che vive tra la moda e l’industria tessile, con un occhio di particolare attenzione alla creatività e al dinamismo del tessuto di piccole e medie imprese, tipico del Nord Est. Il quinto ripercorre la storia di un grande marchio italiano, con testimonianze di grande interesse sulle evoluzioni di un’impresa familiare che sfida il tempo e lega a un prodotto antico – una penna stilografica – le più nuove tecnologie di produzione e le più sofisticate strategie di marketing.

Sono tutte vicende esemplari del fare impresa e delle relazioni che si stringono, attraverso l’impresa, tra la ricerca e la produzione, tra il mondo del lavoro e i territori di riferimento, tra la creatività e la severità dell’esecuzione dei programmi, tra i progetti immaginati e la loro trasformazione in realtà. Messe insieme, queste narrazioni sono uno straordinario, efficace racconto di un’Italia in movimento. Che merita, soprattutto in tempi di crisi generale, ascolto e attenzione.

(Nell’immagine: Fulvio Bianconi, interno di fabbrica Pirelli, 1957)

Tutti i giorni in diretta con i percorsi per le scuole

Sono ripresi a pieno ritmo i percorsi didattici di Fondazione Pirelli Educational in diretta online per raggiungere tutte le scuole d’Italia. La grande partecipazione dei primi mesi dell’anno scolastico prosegue con oltre 70 incontri già prenotati per conoscere da vicino la storia dell’azienda, le sue innovazioni tecnologiche, la produzione del pneumatico e la pubblicità d’autore.

Attorno a quest’ultimo tema si sviluppa Storia e futuro di un manifesto, percorso incentrato sulla comunicazione pubblicitaria di Pirelli nel quale gli studenti sono chiamati ad animare e attualizzare le opere degli autori più importanti che hanno collaborato con l’azienda.

Per conoscere tutti i nostri percorsi didattici, per iscrizioni e informazioni è possibile visitare la sezione dedicata del sito oppure scrivere a scuole@fondazionepirelli.org

Ecco una selezione dei lavori degli studenti in questo videoclip.

Sono ripresi a pieno ritmo i percorsi didattici di Fondazione Pirelli Educational in diretta online per raggiungere tutte le scuole d’Italia. La grande partecipazione dei primi mesi dell’anno scolastico prosegue con oltre 70 incontri già prenotati per conoscere da vicino la storia dell’azienda, le sue innovazioni tecnologiche, la produzione del pneumatico e la pubblicità d’autore.

Attorno a quest’ultimo tema si sviluppa Storia e futuro di un manifesto, percorso incentrato sulla comunicazione pubblicitaria di Pirelli nel quale gli studenti sono chiamati ad animare e attualizzare le opere degli autori più importanti che hanno collaborato con l’azienda.

Per conoscere tutti i nostri percorsi didattici, per iscrizioni e informazioni è possibile visitare la sezione dedicata del sito oppure scrivere a scuole@fondazionepirelli.org

Ecco una selezione dei lavori degli studenti in questo videoclip.

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