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Cultura d’impresa e cultura del pubblico, affinità necessarie

Un’ampia raccolta di saggi pubblicata da Sapienza e LUISS, delinea nuovi orizzonti di cooperazione

Pubblico e privato. Anche nell’economia e nella produzione di ricchezza (che non necessariamente deve essere sempre e solo materiale). Profitto di bilancio e profitto sociale. E poi ancora particolare visione del mercato e del lavoro.  Sono numerose e tutte importanti le relazioni che, negli attuali sistemi sociali, si possono attivare fra area pubblica e area privata. Entrambe espressioni di una cultura del produrre (in senso materiale ma anche immateriale), le due sfere della società interagiscono continuamente, generando effetti che a loro volta sono motivo di interazione. E condizionandosi a vicenda. Ed è per questo che occorre capire meglio natura e aspetti di questo rapporto. Leggere la raccolta di saggi “Dialogo e cooperazione tra società, sistema pubblico ed imprese: politiche pubbliche e strategie di impresa” – scritta a più mani e pubblicata da Università Sapienza e LUISS -, è un buon modo per iniziare ad approfondire questi temi.

Si tratta di una raccolta di saggi che ragionano tutti sui diversi aspetti dei legami fra sistema pubblico e imprese private visti da differenti visuali. La raccolta è articolata in una serie di aree ognuna delle quali indaga sulle relazioni pubblico-privato da un particolare punto di vista: prima in senso generale, poi da quello legislativo, in seguito guardando alla qualità delle politiche pubbliche, poi alle questioni delle autonomie, della programmazione degli interventi, delle relazioni con l’Europa e, infine, dello smart working. Ogni parte della raccolta inizia con una “relazione conclusiva” che ha il compito di sintetizzare i risultati degli studi particolari afferenti ad ogni grande area tematica.

Scrive Mario Bonito (della Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione della Sapienza), in una delle relazioni conclusive della “necessità di una maggiore cooperazione tra pubblico e privato al fine di garantire ordine e competitività. L’assenza di fiducia infatti genera il prevalere dell’uno sull’altro e viceversa, fattore che produce una paralisi e una riduzione della libertà”. E ancora: “Una maggiore fiducia e coesione fra pubblico e privato migliorerebbe la qualità delle politiche pubbliche nel breve periodo, rafforzandone la capacità di formulazione, il coordinamento fra le politiche e le previsioni degli impatti economici, e nel lungo periodo grazie a meccanismi di attuazione, monitoraggio, valutazione e responsabilità”.

Si delinea una sorta di nuova cultura d’impresa unita ad una nuova cultura dell’intervento pubblico: entrambe volte a migliorare il territorio, la produzione, il benessere.

Dialogo e cooperazione tra società, sistema pubblico ed imprese: politiche pubbliche e strategie di impresa

AA.VV.

Scuola per le Politiche Pubbliche, Università Sapienza, LUISS, 2019

Un’ampia raccolta di saggi pubblicata da Sapienza e LUISS, delinea nuovi orizzonti di cooperazione

Pubblico e privato. Anche nell’economia e nella produzione di ricchezza (che non necessariamente deve essere sempre e solo materiale). Profitto di bilancio e profitto sociale. E poi ancora particolare visione del mercato e del lavoro.  Sono numerose e tutte importanti le relazioni che, negli attuali sistemi sociali, si possono attivare fra area pubblica e area privata. Entrambe espressioni di una cultura del produrre (in senso materiale ma anche immateriale), le due sfere della società interagiscono continuamente, generando effetti che a loro volta sono motivo di interazione. E condizionandosi a vicenda. Ed è per questo che occorre capire meglio natura e aspetti di questo rapporto. Leggere la raccolta di saggi “Dialogo e cooperazione tra società, sistema pubblico ed imprese: politiche pubbliche e strategie di impresa” – scritta a più mani e pubblicata da Università Sapienza e LUISS -, è un buon modo per iniziare ad approfondire questi temi.

Si tratta di una raccolta di saggi che ragionano tutti sui diversi aspetti dei legami fra sistema pubblico e imprese private visti da differenti visuali. La raccolta è articolata in una serie di aree ognuna delle quali indaga sulle relazioni pubblico-privato da un particolare punto di vista: prima in senso generale, poi da quello legislativo, in seguito guardando alla qualità delle politiche pubbliche, poi alle questioni delle autonomie, della programmazione degli interventi, delle relazioni con l’Europa e, infine, dello smart working. Ogni parte della raccolta inizia con una “relazione conclusiva” che ha il compito di sintetizzare i risultati degli studi particolari afferenti ad ogni grande area tematica.

Scrive Mario Bonito (della Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione della Sapienza), in una delle relazioni conclusive della “necessità di una maggiore cooperazione tra pubblico e privato al fine di garantire ordine e competitività. L’assenza di fiducia infatti genera il prevalere dell’uno sull’altro e viceversa, fattore che produce una paralisi e una riduzione della libertà”. E ancora: “Una maggiore fiducia e coesione fra pubblico e privato migliorerebbe la qualità delle politiche pubbliche nel breve periodo, rafforzandone la capacità di formulazione, il coordinamento fra le politiche e le previsioni degli impatti economici, e nel lungo periodo grazie a meccanismi di attuazione, monitoraggio, valutazione e responsabilità”.

Si delinea una sorta di nuova cultura d’impresa unita ad una nuova cultura dell’intervento pubblico: entrambe volte a migliorare il territorio, la produzione, il benessere.

Dialogo e cooperazione tra società, sistema pubblico ed imprese: politiche pubbliche e strategie di impresa

AA.VV.

Scuola per le Politiche Pubbliche, Università Sapienza, LUISS, 2019

Itinerari insoliti in sella a e-bike premium con Pirelli

Una nuova avventura appassionante per la Fondazione Pirelli: la collaborazione al progetto CYCL-e around™, il nuovo servizio esclusivo di Pirelli che consente agli utenti di guidare biciclette elettriche di ultima generazione gommate Pirelli e di scoprire luoghi e itinerari unici, tra i quali il tour multi-day da Cortina d’Ampezzo a Venezia o quello da St. Moritz a Milano.

La Fondazione Pirelli ha arricchito questi itinerari con curiosità e racconti inediti, illustrati attraverso documenti e immagini provenienti dall’Archivio Storico. In particolare, con “Pirelli Tales” saranno approfonditi i legami tra Pirelli e alcuni luoghi, edifici e monumenti lungo i percorsi dei tour proposti: dallo Stadio Olimpico del Ghiaccio di Cortina d’Ampezzo, che nel 1959 ospitò la presentazione del rivoluzionario pneumatico Pirelli BS, e che nel 2026 ospiterà la venticinquesima edizione dei Giochi Olimpici Invernali, al Museo dello Scarpone e della Calzatura Sportiva in provincia di Treviso in cui è testimoniato il rapporto tra Pirelli e Vibram per l’ideazione delle suole in gomma vulcanizzata a carrarmato. Al Museo del Vetro di Venezia sarà possibile invece trovare tracce di Fulvio Bianconi, designer di oggetti in vetro soffiato qui esposti, ma anche illustratore di alcuni articoli della Rivista Pirelli e creatore di ironiche pubblicità per l’azienda. Ma ancora, la casa a Varenna che diede i natali a Giovanni Battista Pirelli, fondatore nel 1872 dell’azienda. Ultima tappa Milano, con il Grattacielo Pirelli, esempio straordinario di equilibrio tra estetica e funzionalità e la Bicocca degli Arcimboldi, villa quattrocentesca nel quartiere Bicocca di Milano, oggi sede di rappresentanza del Gruppo Pirelli, all’interno del suo Headquarters.

Una nuova avventura appassionante per la Fondazione Pirelli: la collaborazione al progetto CYCL-e around™, il nuovo servizio esclusivo di Pirelli che consente agli utenti di guidare biciclette elettriche di ultima generazione gommate Pirelli e di scoprire luoghi e itinerari unici, tra i quali il tour multi-day da Cortina d’Ampezzo a Venezia o quello da St. Moritz a Milano.

La Fondazione Pirelli ha arricchito questi itinerari con curiosità e racconti inediti, illustrati attraverso documenti e immagini provenienti dall’Archivio Storico. In particolare, con “Pirelli Tales” saranno approfonditi i legami tra Pirelli e alcuni luoghi, edifici e monumenti lungo i percorsi dei tour proposti: dallo Stadio Olimpico del Ghiaccio di Cortina d’Ampezzo, che nel 1959 ospitò la presentazione del rivoluzionario pneumatico Pirelli BS, e che nel 2026 ospiterà la venticinquesima edizione dei Giochi Olimpici Invernali, al Museo dello Scarpone e della Calzatura Sportiva in provincia di Treviso in cui è testimoniato il rapporto tra Pirelli e Vibram per l’ideazione delle suole in gomma vulcanizzata a carrarmato. Al Museo del Vetro di Venezia sarà possibile invece trovare tracce di Fulvio Bianconi, designer di oggetti in vetro soffiato qui esposti, ma anche illustratore di alcuni articoli della Rivista Pirelli e creatore di ironiche pubblicità per l’azienda. Ma ancora, la casa a Varenna che diede i natali a Giovanni Battista Pirelli, fondatore nel 1872 dell’azienda. Ultima tappa Milano, con il Grattacielo Pirelli, esempio straordinario di equilibrio tra estetica e funzionalità e la Bicocca degli Arcimboldi, villa quattrocentesca nel quartiere Bicocca di Milano, oggi sede di rappresentanza del Gruppo Pirelli, all’interno del suo Headquarters.

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Pirelli e le telecomunicazioni:
storia della nave posa cavi “Città di Milano”

Battezzata “Città di Milano”, la nave posa cavi Pirelli era stata costruita presso i cantieri di Sunderland, in Inghilterra, e varata nel 1886.

Lunga 70 metri, era dotata di tre vasche circolari destinate a contenere, immersi in acqua di mare, fino a 450 km di cavi telegrafici sottomarini già giuntati in fabbrica prima di imbarcarli. Per fabbricare i cavi sottomarini nello stesso 1886 la Pirelli aveva costruito un apposito stabilimento in riva al mare, a San Bartolomeo presso La Spezia. La sfida era audace, per le complesse tecniche legate a questa fabbricazione, ma Giovanni Battista Pirelli era deciso a strappare all’Inghilterra il monopolio del settore cavi. A partire dal 1866 infatti, dopo la posa tra mille difficoltà del cavo telegrafico sottomarino tra l’Inghilterra e l’America del Nord, le società inglesi andavano realizzando, in tutti i mari, una vasta rete telegrafica. Anche i primi collegamenti in Italia, tra la penisola e le isole maggiori, erano stati posati dagli inglesi. Nel 1885 Giovanni Battista Pirelli riuscì a stipulare, sulla fiducia, una convenzione con il Governo italiano per la posa di 12 cavi sottomarini – per un totale di 800 km – tra la penisola e le isole minori, che fu realizzata tra il 1887 e il 1888.

In seguito la Pirelli cominciò ad aggiudicarsi anche commesse da altri paesi, in concorrenza con le principali ditte inglesi: nel giugno 1888 vinse la gara indetta dal Governo spagnolo per la posa di un cavo tra la Spagna e le isole Baleari e in seguito, nel 1890, per la posa di 7 linee per collegare la Spagna con il Marocco e Tangeri. Dopo varie campagne di riparazione, anche per conto degli inglesi sulle loro reti, nel Mediterraneo, nel Mar Rosso e nell’Oceano indiano, tra il 1908 e il 1909 la “Città di Milano” fu impegnata nella riparazione dei cavi che giacevano sul fondo dello stretto di Messina, danneggati dal terremoto, contribuendo anche a portare aiuto e viveri alla popolazione colpita dal sisma.

Durante la guerra di Libia e la Grande Guerra, la “Città di Milano” fu impiegata in diverse missioni militari, come quella di tagliare il cavo austriaco Trieste-Corfù nel maggio 1915: si trattava  dell’unico cavo nemico rimasto in attività dopo la dichiarazione di guerra. La gloriosa attività della Città di Milano terminò qualche anno dopo, nel 1919: il 16 giugno di 100 anni fa, mentre navigava di fronte a Filicudi per riparare il cavo telegrafico che allacciava la piccola isola alla vicina Alicudi, il piroscafo si inabissò dopo aver urtato uno scoglio. Nell’incidente persero la vita 26 membri dell’equipaggio, tra cui l’Ingegner Emanuele Jona, Capo del servizio cavi sottomarini e pioniere dell’elettrotecnica e autore di importanti studi, in particolare sui problemi tecnici dell’isolamento elettrico dei cavi, oggi conservati presso la nostra Fondazione, nella Biblioteca Tecnico-scientifica Pirelli.

Battezzata “Città di Milano”, la nave posa cavi Pirelli era stata costruita presso i cantieri di Sunderland, in Inghilterra, e varata nel 1886.

Lunga 70 metri, era dotata di tre vasche circolari destinate a contenere, immersi in acqua di mare, fino a 450 km di cavi telegrafici sottomarini già giuntati in fabbrica prima di imbarcarli. Per fabbricare i cavi sottomarini nello stesso 1886 la Pirelli aveva costruito un apposito stabilimento in riva al mare, a San Bartolomeo presso La Spezia. La sfida era audace, per le complesse tecniche legate a questa fabbricazione, ma Giovanni Battista Pirelli era deciso a strappare all’Inghilterra il monopolio del settore cavi. A partire dal 1866 infatti, dopo la posa tra mille difficoltà del cavo telegrafico sottomarino tra l’Inghilterra e l’America del Nord, le società inglesi andavano realizzando, in tutti i mari, una vasta rete telegrafica. Anche i primi collegamenti in Italia, tra la penisola e le isole maggiori, erano stati posati dagli inglesi. Nel 1885 Giovanni Battista Pirelli riuscì a stipulare, sulla fiducia, una convenzione con il Governo italiano per la posa di 12 cavi sottomarini – per un totale di 800 km – tra la penisola e le isole minori, che fu realizzata tra il 1887 e il 1888.

In seguito la Pirelli cominciò ad aggiudicarsi anche commesse da altri paesi, in concorrenza con le principali ditte inglesi: nel giugno 1888 vinse la gara indetta dal Governo spagnolo per la posa di un cavo tra la Spagna e le isole Baleari e in seguito, nel 1890, per la posa di 7 linee per collegare la Spagna con il Marocco e Tangeri. Dopo varie campagne di riparazione, anche per conto degli inglesi sulle loro reti, nel Mediterraneo, nel Mar Rosso e nell’Oceano indiano, tra il 1908 e il 1909 la “Città di Milano” fu impegnata nella riparazione dei cavi che giacevano sul fondo dello stretto di Messina, danneggati dal terremoto, contribuendo anche a portare aiuto e viveri alla popolazione colpita dal sisma.

Durante la guerra di Libia e la Grande Guerra, la “Città di Milano” fu impiegata in diverse missioni militari, come quella di tagliare il cavo austriaco Trieste-Corfù nel maggio 1915: si trattava  dell’unico cavo nemico rimasto in attività dopo la dichiarazione di guerra. La gloriosa attività della Città di Milano terminò qualche anno dopo, nel 1919: il 16 giugno di 100 anni fa, mentre navigava di fronte a Filicudi per riparare il cavo telegrafico che allacciava la piccola isola alla vicina Alicudi, il piroscafo si inabissò dopo aver urtato uno scoglio. Nell’incidente persero la vita 26 membri dell’equipaggio, tra cui l’Ingegner Emanuele Jona, Capo del servizio cavi sottomarini e pioniere dell’elettrotecnica e autore di importanti studi, in particolare sui problemi tecnici dell’isolamento elettrico dei cavi, oggi conservati presso la nostra Fondazione, nella Biblioteca Tecnico-scientifica Pirelli.

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Novanta edizioni del Gran Premio d’Italia. E Pirelli c’era fin dall’inizio…

Quello che si correrà a Monza domenica 8 settembre prossimo sarà il Gran Premio d’Italia numero 90. Cifra importante, costruita anno dopo anno attorno a quel simbolo dell’automobilismo mondiale che è l’Autodromo di Monza.

Il primo di questi novanta gran premi d’Italia, tuttavia, non si disputò a Monza ma sul circuito cittadino di Montichiari, vicino a Brescia. Era il 4 settembre del 1921, la pista di Monza sarebbe stata inaugurata solo l’anno successivo: tanta era però la voglia di tornare a correre in macchina dopo gli anni di guerra e quei 17 chilometri di strada immaginati nella campagna di Montichiari dal commendator Arturo Mercanti, allora direttore dell’Automobile Club di Milano, apparvero subito adatti per la prima corsa automobilistica tricolore. In verità, in quel settembre del 1921, all’enorme interesse da parte del pubblico non corrispose una folta presenza di piloti. Erano infatti solo sei le vetture alla partenza: le tre francesi Ballot 3 litri guidate da Jules Goux, Jean Chassagne e Ralph De Palma contro le tre Fiat 802 di Pietro Bordino, Ugo Sivocci e Louis Wagner. Tutte e sei equipaggiate con i nuovissimi pneumatici Pirelli Cord che, grazie alla loro innovativa struttura di carcassa, permettevano prestazioni fino ad allora impensate. Tra qualche incertezza dovuta alla novità del campo di gara e un po’ di ingenuità organizzative – si era pur sempre all’alba dell’automobilismo – la partita Italia-Francia la vinse Jules Goux, che a bordo della Ballot completò i trenta giri di Montichiari in poco più di tre ore e mezza davanti ai connazionali Chassagne e Wagner, quest’ultimo il solo in grado di condurre al traguardo la Fiat. D’altra parte, Goux conosceva molto bene i suoi “pneus”: almeno fin dal Grand Prix di Francia del 1913, quando si era piazzato secondo dietro a Georges  Boillot  portando dunque alla doppietta le Peugeot equipaggiate Pirelli.

Oggi, una rara fotografia custodita presso l’Archivio Storico ci mostra  Goux al volante del suo bolide azzurro intento a fissare il fotografo con aria di sfida: al suo fianco, fa capolino il meccanico Lebouc. Lo scatto è datato 4 settembre 1921. Poi venne il luglio del 1922, con i campioni di casa Pietro Bordino e Felice Nazzaro a inaugurare il nuovissimo autodromo di Monza: da quel momento il Grand Prix d’Italia trovava la sua collocazione pressochè definitiva, se si escludono un paio di edizioni a Livorno e Torino, oltre alle  sospensioni in periodo bellico. Furono proprio Bordino e Nazzaro a imporsi in quel secondo Gran Premio d’Italia, il 10 settembre 1922. Arrivarono rispettivamente primo e secondo, entrambi su automobili Fiat, entrambi con pneumatici Pirelli Cord. Solo una settimana prima, il 3 settembre 1922, le Fiat 502 SS di Bordino, Enrico Giaccone, Evasio Lampiano e Carlo Salamano avevano dominato a Monza la seconda edizione del Gran Premio Vetturette. Anche di quella gloriosa settimana motoristica monzese l’Archivio Storico conserva un meraviglioso servizio fotografico: scatti resi ancora più particolari dal fatto che quelle preziose cartoline color seppia sono state retrodatate a mano al 1921.

Quello che si correrà a Monza domenica 8 settembre prossimo sarà il Gran Premio d’Italia numero 90. Cifra importante, costruita anno dopo anno attorno a quel simbolo dell’automobilismo mondiale che è l’Autodromo di Monza.

Il primo di questi novanta gran premi d’Italia, tuttavia, non si disputò a Monza ma sul circuito cittadino di Montichiari, vicino a Brescia. Era il 4 settembre del 1921, la pista di Monza sarebbe stata inaugurata solo l’anno successivo: tanta era però la voglia di tornare a correre in macchina dopo gli anni di guerra e quei 17 chilometri di strada immaginati nella campagna di Montichiari dal commendator Arturo Mercanti, allora direttore dell’Automobile Club di Milano, apparvero subito adatti per la prima corsa automobilistica tricolore. In verità, in quel settembre del 1921, all’enorme interesse da parte del pubblico non corrispose una folta presenza di piloti. Erano infatti solo sei le vetture alla partenza: le tre francesi Ballot 3 litri guidate da Jules Goux, Jean Chassagne e Ralph De Palma contro le tre Fiat 802 di Pietro Bordino, Ugo Sivocci e Louis Wagner. Tutte e sei equipaggiate con i nuovissimi pneumatici Pirelli Cord che, grazie alla loro innovativa struttura di carcassa, permettevano prestazioni fino ad allora impensate. Tra qualche incertezza dovuta alla novità del campo di gara e un po’ di ingenuità organizzative – si era pur sempre all’alba dell’automobilismo – la partita Italia-Francia la vinse Jules Goux, che a bordo della Ballot completò i trenta giri di Montichiari in poco più di tre ore e mezza davanti ai connazionali Chassagne e Wagner, quest’ultimo il solo in grado di condurre al traguardo la Fiat. D’altra parte, Goux conosceva molto bene i suoi “pneus”: almeno fin dal Grand Prix di Francia del 1913, quando si era piazzato secondo dietro a Georges  Boillot  portando dunque alla doppietta le Peugeot equipaggiate Pirelli.

Oggi, una rara fotografia custodita presso l’Archivio Storico ci mostra  Goux al volante del suo bolide azzurro intento a fissare il fotografo con aria di sfida: al suo fianco, fa capolino il meccanico Lebouc. Lo scatto è datato 4 settembre 1921. Poi venne il luglio del 1922, con i campioni di casa Pietro Bordino e Felice Nazzaro a inaugurare il nuovissimo autodromo di Monza: da quel momento il Grand Prix d’Italia trovava la sua collocazione pressochè definitiva, se si escludono un paio di edizioni a Livorno e Torino, oltre alle  sospensioni in periodo bellico. Furono proprio Bordino e Nazzaro a imporsi in quel secondo Gran Premio d’Italia, il 10 settembre 1922. Arrivarono rispettivamente primo e secondo, entrambi su automobili Fiat, entrambi con pneumatici Pirelli Cord. Solo una settimana prima, il 3 settembre 1922, le Fiat 502 SS di Bordino, Enrico Giaccone, Evasio Lampiano e Carlo Salamano avevano dominato a Monza la seconda edizione del Gran Premio Vetturette. Anche di quella gloriosa settimana motoristica monzese l’Archivio Storico conserva un meraviglioso servizio fotografico: scatti resi ancora più particolari dal fatto che quelle preziose cartoline color seppia sono state retrodatate a mano al 1921.

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L’allarme di Bonomi, Assolombarda, sull’“anno perduto” per la crescita e le proposte al governo: taglio al cuneo fiscale e investimenti digitali

Un’Italia nella palude della “crescita zero”. Un autunno che s’annuncia carico di preoccupazioni economiche e sociali. E un governo “miope” e litigioso che, finora, ha fatto soltanto riforme recessive, dimenticandosi dello sviluppo e della costruzione d’un migliore futuro per il Paese. Non fa sconti, Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda, la principale organizzazione territoriale di Confindustria, 6mila imprese iscritte tra Milano, Lodi, Monza e la Brianza fertile di piccola e media industria produttiva. E pubblica su “Il Foglio” un lungo e articolato punto di vista sulla crisi dell’economia e l’inconcludenza della politica di governo, con un titolo netto e tagliente: “Ora basta”. Insistendo: “Un anno perduto per la crescita”.

C’è un malessere crescente, nel mondo dell’impresa, anche in quelle regioni (Lombardia, Veneto) in cui la maggioranza degli imprenditori ha votato per la Lega, memori della tradizionale sensibilità per istanze ed esigenze del mondo produttivo. E nasce soprattutto dalla constatazione di una serie di provvedimenti e di annunci che, dal “decreto dignità” al reddito di cittadinanza, da “quota cento” per le pensioni ai condoni fiscali e alle proposte per il “salario minimo”, fanno crescere la spesa sociale e gli oneri per le imprese ma nulla smuovono per ridare dinamismo alla crescita. Il blocco degli incentivi e degli stimoli fiscali per “Industria 4.0” aggrava il quadro e frustra le aspettative delle imprese che s’erano già mosse per stare al passo con le sfide dell’economia digitale. Di questi stati d’animo, di tali e tante preoccupazioni Bonomi si fa buon interprete.

Milano, d’altronde, è il termometro più sensibile dell’andamento dell’economia, è la metropoli che, ben salda nel cuore dell’Europa, sa registrare tensioni e aspettative generali e dare corpo concreto a un desiderio diffuso di sviluppo sostenibile, nella consapevolezza profonda che la sua crescita non può non essere strettamente connessa con quella dell’intero Paese, di Roma capitale e del Mezzogiorno. Milano-Italia, dunque. E i suoi imprenditori come soggetti sociali forti d’una solida coscienza non tanto delle esigenze di categoria, ma soprattutto dell’interesse generale nazionale, nel contesto europeo.

Bonomi, che come ogni buon imprenditore sa far bene di conto e non disprezza numeri, conoscenze e competenze, parte dai dati della congiuntura, con quella crescita 2019 dello 0,1% del Pil (riconfermata dall’ultimo Bollettino della Banca d’Italia) che ci vede in coda a una Ue che cresce dell’1,4%. Anche la Germania, come noi paese esportatore, soffre delle tensioni sui commerci internazionali, soprattutto dopo lo scontro Usa-Cina, ma comunque va meno peggio, con lo 0,5% di crescita. “Stagnazione”, rileva l’ultima indagine del Centro Studi Confindustria sul terzo trimestre, con una diminuzione della produzione industriale dello 0,6%.

Ancora dati: il crollo delle vendite e dell’export di macchine utensili; i limiti dell’occupazione; il record di disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno. Ma anche la disattenzione per gli investimenti strategici sul “digitale”: appena 85 euro di spesa pubblica per ogni italiano, rispetto ai 186 euro della Francia, ai 207 della Germania e ai 323 del Regno Unito. Proprio dallo sviluppo dell’economia digitale e dalla digitalizzazione della Pubblica Amministrazione dipende la crescita del Paese. Ma purtroppo il governo mostra “un enorme esercizio di miopia”, guardando “all’interesse elettorale a breve” senza considerare “una seria e sostenibile prospettiva di sostegno alla crescita”.

Non si tratta né di posizione politica partigiana né di pregiudizio. Bonomi ricorda che gli imprenditori non tifano per una parte politica ma “tifano Italia”. Sottolinea le cose positive successe in questi mesi, come la convergenza tra pubblico e privato e l’impegno congiunto delle amministrazioni di Milano, Lombardia e Veneto (politicamente diverse) che hanno portato al successo di Milano e Cortina per le Olimpiadi Invernali del 2026. E ricorda che la responsabilità delle forze produttive è “tenere ferma la barra sulla rotta per lo sviluppo”.

Apprezzato, dunque, il lavoro del presidente del Consiglio Conte e del ministro dell’Economia Tria per evitare la rotta di collisione con l’Europa (sarebbe stato “un autolesionismo”). E la scelta di Conte (contestata dalla Lega di Matteo Salvini) di essere parte attiva nell’elezione di Ursula von der Leyen al vertice della Commissione Ue.

Proprio sulla politica estera la critica di Bonomi, sempre da rappresentante degli imprenditori, è coerentemente severa: sulla firma solitaria dell’intesa con la Cina da parte dell’Italia, unico paese fondatore della Ue e unico del G7; sulle inclinazioni verso la Russia, nonostante “i giudizi quasi sprezzanti di Putin per i valori liberal-democratici e di mercato che sono fondamento della Ue”, sui rischi di isolamento dall’Europa di un’Italia che si ritroverebbe come “una specie di Serbia del Mediterraneo”. Sono profondamente integrate con l’Europa, le nostre imprese. Parti essenziali di una catena del valore che nell’Europa ha le sue radici. E interessate dunque a politiche multilaterali di scambio, non a esercizi di potenza “muscolare” di confronti “bilaterali” in cui la debole Italia, da sola, ha tutto da perdere.

C’è dunque, nel lungo articolo di Bonomi su “Il Foglio”, un catalogo di cose che non vanno. Ma anche un altrettanto corposo elenco di richiami a scelte politiche da fare. A cominciare dalla prossima legge di Bilancio: non fare crescere il deficit oltre il livello del 2019 (dunque senza misure che, come pretende Salvini, sforino questo tetto), non dare spazio a un nuovo forfait dell’Irpef, evitare “fantasiose coperture dell’ultim’ora, come i 18 miliardi di dismissioni” e privatizzazioni, proprio quando si “ristatalizza l’Alitalia”.

L’obiettivo prioritario: “Il rilancio del Pil potenziale, sia sul lato dell’offerta che su quello della domanda”. Lo strumento: devolvere “all’abbattimento permanente, strutturale e universale del cuneo fiscale” l’intera spesa non impiegata di quota 100, reddito di cittadinanza e bonus di 80 euro (ex Renzi). Eliminare, insomma, “la maggior anomalia che grava sull’occupabilità dei lavoratori e i bilanci delle imprese”.

L’idea di fondo è appunto quella di rimettere in moto la crescita. Dunque, ripristinare tutti gli stimoli per “Industria 4.0”, avviare un piano straordinario poliennale per l’economia digitale, realizzare le infrastrutture necessarie allo sviluppo (proprio quelle avversate dei Cinque Stelle). Essere seri in politica, insomma.

Una questione di merito. E di metodo: “Evitare la convulsa serie di convocazioni plurime di associazioni datoriali e sindacali, per partecipare a parate di partito”. Il riferimento alla mossa del vicepremier e ministro degli Interni Salvini, che ha riunito tutti al Viminale, è evidente. Il richiamo, netto: nessuna demagogia ai danni delle parti sociali. E comunque massima disponibilità al confronto: “C’è un presidente del Consiglio, ci convochi…”. “Serietà”, appunto. E non spregiudicata propaganda.

Al sindacato si chiede una battaglia comune “contro il salario minimo”, una misura inutile che abbatte i redditi della maggiori parte dei lavoratori già ben contrattualizzati e fa crescere i costi per le imprese. Meglio insistere sui contratti, che adesso riguardano non solo i salari ma anche il welfare, la formazione, la qualità del lavoro e della vita.

C’è un ammonimento finale, una sorta di clausola di dignità e di responsabilità: “Non saranno le minacce della politica a impedirci di dare voce a quest’Italia, che merita di meglio”.

Meriterebbe, per esempio, politici e governanti capaci di ascoltare, imparare, avere lo sguardo lungimirante e responsabile.

Un’Italia nella palude della “crescita zero”. Un autunno che s’annuncia carico di preoccupazioni economiche e sociali. E un governo “miope” e litigioso che, finora, ha fatto soltanto riforme recessive, dimenticandosi dello sviluppo e della costruzione d’un migliore futuro per il Paese. Non fa sconti, Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda, la principale organizzazione territoriale di Confindustria, 6mila imprese iscritte tra Milano, Lodi, Monza e la Brianza fertile di piccola e media industria produttiva. E pubblica su “Il Foglio” un lungo e articolato punto di vista sulla crisi dell’economia e l’inconcludenza della politica di governo, con un titolo netto e tagliente: “Ora basta”. Insistendo: “Un anno perduto per la crescita”.

C’è un malessere crescente, nel mondo dell’impresa, anche in quelle regioni (Lombardia, Veneto) in cui la maggioranza degli imprenditori ha votato per la Lega, memori della tradizionale sensibilità per istanze ed esigenze del mondo produttivo. E nasce soprattutto dalla constatazione di una serie di provvedimenti e di annunci che, dal “decreto dignità” al reddito di cittadinanza, da “quota cento” per le pensioni ai condoni fiscali e alle proposte per il “salario minimo”, fanno crescere la spesa sociale e gli oneri per le imprese ma nulla smuovono per ridare dinamismo alla crescita. Il blocco degli incentivi e degli stimoli fiscali per “Industria 4.0” aggrava il quadro e frustra le aspettative delle imprese che s’erano già mosse per stare al passo con le sfide dell’economia digitale. Di questi stati d’animo, di tali e tante preoccupazioni Bonomi si fa buon interprete.

Milano, d’altronde, è il termometro più sensibile dell’andamento dell’economia, è la metropoli che, ben salda nel cuore dell’Europa, sa registrare tensioni e aspettative generali e dare corpo concreto a un desiderio diffuso di sviluppo sostenibile, nella consapevolezza profonda che la sua crescita non può non essere strettamente connessa con quella dell’intero Paese, di Roma capitale e del Mezzogiorno. Milano-Italia, dunque. E i suoi imprenditori come soggetti sociali forti d’una solida coscienza non tanto delle esigenze di categoria, ma soprattutto dell’interesse generale nazionale, nel contesto europeo.

Bonomi, che come ogni buon imprenditore sa far bene di conto e non disprezza numeri, conoscenze e competenze, parte dai dati della congiuntura, con quella crescita 2019 dello 0,1% del Pil (riconfermata dall’ultimo Bollettino della Banca d’Italia) che ci vede in coda a una Ue che cresce dell’1,4%. Anche la Germania, come noi paese esportatore, soffre delle tensioni sui commerci internazionali, soprattutto dopo lo scontro Usa-Cina, ma comunque va meno peggio, con lo 0,5% di crescita. “Stagnazione”, rileva l’ultima indagine del Centro Studi Confindustria sul terzo trimestre, con una diminuzione della produzione industriale dello 0,6%.

Ancora dati: il crollo delle vendite e dell’export di macchine utensili; i limiti dell’occupazione; il record di disoccupazione giovanile nel Mezzogiorno. Ma anche la disattenzione per gli investimenti strategici sul “digitale”: appena 85 euro di spesa pubblica per ogni italiano, rispetto ai 186 euro della Francia, ai 207 della Germania e ai 323 del Regno Unito. Proprio dallo sviluppo dell’economia digitale e dalla digitalizzazione della Pubblica Amministrazione dipende la crescita del Paese. Ma purtroppo il governo mostra “un enorme esercizio di miopia”, guardando “all’interesse elettorale a breve” senza considerare “una seria e sostenibile prospettiva di sostegno alla crescita”.

Non si tratta né di posizione politica partigiana né di pregiudizio. Bonomi ricorda che gli imprenditori non tifano per una parte politica ma “tifano Italia”. Sottolinea le cose positive successe in questi mesi, come la convergenza tra pubblico e privato e l’impegno congiunto delle amministrazioni di Milano, Lombardia e Veneto (politicamente diverse) che hanno portato al successo di Milano e Cortina per le Olimpiadi Invernali del 2026. E ricorda che la responsabilità delle forze produttive è “tenere ferma la barra sulla rotta per lo sviluppo”.

Apprezzato, dunque, il lavoro del presidente del Consiglio Conte e del ministro dell’Economia Tria per evitare la rotta di collisione con l’Europa (sarebbe stato “un autolesionismo”). E la scelta di Conte (contestata dalla Lega di Matteo Salvini) di essere parte attiva nell’elezione di Ursula von der Leyen al vertice della Commissione Ue.

Proprio sulla politica estera la critica di Bonomi, sempre da rappresentante degli imprenditori, è coerentemente severa: sulla firma solitaria dell’intesa con la Cina da parte dell’Italia, unico paese fondatore della Ue e unico del G7; sulle inclinazioni verso la Russia, nonostante “i giudizi quasi sprezzanti di Putin per i valori liberal-democratici e di mercato che sono fondamento della Ue”, sui rischi di isolamento dall’Europa di un’Italia che si ritroverebbe come “una specie di Serbia del Mediterraneo”. Sono profondamente integrate con l’Europa, le nostre imprese. Parti essenziali di una catena del valore che nell’Europa ha le sue radici. E interessate dunque a politiche multilaterali di scambio, non a esercizi di potenza “muscolare” di confronti “bilaterali” in cui la debole Italia, da sola, ha tutto da perdere.

C’è dunque, nel lungo articolo di Bonomi su “Il Foglio”, un catalogo di cose che non vanno. Ma anche un altrettanto corposo elenco di richiami a scelte politiche da fare. A cominciare dalla prossima legge di Bilancio: non fare crescere il deficit oltre il livello del 2019 (dunque senza misure che, come pretende Salvini, sforino questo tetto), non dare spazio a un nuovo forfait dell’Irpef, evitare “fantasiose coperture dell’ultim’ora, come i 18 miliardi di dismissioni” e privatizzazioni, proprio quando si “ristatalizza l’Alitalia”.

L’obiettivo prioritario: “Il rilancio del Pil potenziale, sia sul lato dell’offerta che su quello della domanda”. Lo strumento: devolvere “all’abbattimento permanente, strutturale e universale del cuneo fiscale” l’intera spesa non impiegata di quota 100, reddito di cittadinanza e bonus di 80 euro (ex Renzi). Eliminare, insomma, “la maggior anomalia che grava sull’occupabilità dei lavoratori e i bilanci delle imprese”.

L’idea di fondo è appunto quella di rimettere in moto la crescita. Dunque, ripristinare tutti gli stimoli per “Industria 4.0”, avviare un piano straordinario poliennale per l’economia digitale, realizzare le infrastrutture necessarie allo sviluppo (proprio quelle avversate dei Cinque Stelle). Essere seri in politica, insomma.

Una questione di merito. E di metodo: “Evitare la convulsa serie di convocazioni plurime di associazioni datoriali e sindacali, per partecipare a parate di partito”. Il riferimento alla mossa del vicepremier e ministro degli Interni Salvini, che ha riunito tutti al Viminale, è evidente. Il richiamo, netto: nessuna demagogia ai danni delle parti sociali. E comunque massima disponibilità al confronto: “C’è un presidente del Consiglio, ci convochi…”. “Serietà”, appunto. E non spregiudicata propaganda.

Al sindacato si chiede una battaglia comune “contro il salario minimo”, una misura inutile che abbatte i redditi della maggiori parte dei lavoratori già ben contrattualizzati e fa crescere i costi per le imprese. Meglio insistere sui contratti, che adesso riguardano non solo i salari ma anche il welfare, la formazione, la qualità del lavoro e della vita.

C’è un ammonimento finale, una sorta di clausola di dignità e di responsabilità: “Non saranno le minacce della politica a impedirci di dare voce a quest’Italia, che merita di meglio”.

Meriterebbe, per esempio, politici e governanti capaci di ascoltare, imparare, avere lo sguardo lungimirante e responsabile.

Cultura d’impresa umanistica

Una ricerca condotta da due Università approfondisce il “caso Cucinelli”

Gli esempi di buona cultura d’impresa fanno bene a tutti. Esperienze non da imitare, ma dalle quali trarre indicazioni per fare di più e meglio. Perché in fatto di impresa e di cultura del produrre, l’imitazione può essere pericolosa, l’ispirazione può essere benefica. Troppe, infatti, le variabili in gioco che cambiano a seconda della situazione aziendale, degli uomini e delle donne coinvolti, dell’ambiente, delle prospettive che si formano di volta in volta. Eppure, è sempre opportuno apprendere delle storie di chi ha impegnato risorse e volontà, per fare di un’impresa qualcosa di più di un’organizzazione che alla fine dell’anno ottiene buoni profitti ma nient’altro.

E’ quindi interessante leggere “Brunello Cucinelli: la creazione di valore condiviso nell’impresa umanistica”, scritto da Maria Rosaria Napolitano e Floriana Fusco (rispettivamente dell’Università di Napoli e di Milano), che ha l’obiettivo di indagare sull’esperienza imprenditoriale di una delle imprese più importanti, e non solo nel comparto tessile ma in generale nell’industria italiana.

Le ricercatrici partono dal considerare che negli ultimi decenni la responsabilità sociale delle imprese è stata studiata come una leva strategica in grado di favorire la competitività, creando al contempo un valore condiviso per tutte le parti interessate. L’indagine puntualizza quindi prima l’apparato teorico che descrive la cultura d’impresa e la responsabilità sociale d’impresa e, successivamente, descrive (sia dal punto di vista dell’evoluzione storica che da quello dell’attuale gestione), il “caso Cucinelli” indicato come un esempio che incarna perfettamente il concetto di azienda socialmente responsabile e rappresenta anche una storia di successo e orgoglio del Made in Italy nel mondo.

Ma cos’è che fa la differenza? Secondo Napolitano e Fusco, tutta l’impostazione aziendale assume il tema della responsabilità sociale come orientamento strategico “in grado di influenzare l’identità e la cultura aziendale, ma anche di dare ai prodotti un posizionamento unico e distintivo”. Particolarmente chiaro un passaggio riferito al rapporto fra Cucinelli e i suoi collaboratori: “La fiducia è il collante che unisce tutti coloro che lavorano per lui. La condivisione delle finalità dell’impresa è il fondamento del rapporto sano e dignitoso che lega l’imprenditore filosofo ai suoi collaboratori”.

La ricerca di Napolitano e Fusco descrive certo un esempio pressoché unico – e quindi non imitabile -, di cultura d’impresa elevata ai massimi livelli, ma per questo fonte, come si diceva all’inizio, di numerosi spunti (anche provocatori) per tutti. Da leggere e da meditare.

Brunello Cucinelli: la creazione di valore condiviso nell’impresa umanistica

Maria Rosaria Napolitano, Floriana Fusco

Micro & Marco Marketing, 2, 2019, agosto

Una ricerca condotta da due Università approfondisce il “caso Cucinelli”

Gli esempi di buona cultura d’impresa fanno bene a tutti. Esperienze non da imitare, ma dalle quali trarre indicazioni per fare di più e meglio. Perché in fatto di impresa e di cultura del produrre, l’imitazione può essere pericolosa, l’ispirazione può essere benefica. Troppe, infatti, le variabili in gioco che cambiano a seconda della situazione aziendale, degli uomini e delle donne coinvolti, dell’ambiente, delle prospettive che si formano di volta in volta. Eppure, è sempre opportuno apprendere delle storie di chi ha impegnato risorse e volontà, per fare di un’impresa qualcosa di più di un’organizzazione che alla fine dell’anno ottiene buoni profitti ma nient’altro.

E’ quindi interessante leggere “Brunello Cucinelli: la creazione di valore condiviso nell’impresa umanistica”, scritto da Maria Rosaria Napolitano e Floriana Fusco (rispettivamente dell’Università di Napoli e di Milano), che ha l’obiettivo di indagare sull’esperienza imprenditoriale di una delle imprese più importanti, e non solo nel comparto tessile ma in generale nell’industria italiana.

Le ricercatrici partono dal considerare che negli ultimi decenni la responsabilità sociale delle imprese è stata studiata come una leva strategica in grado di favorire la competitività, creando al contempo un valore condiviso per tutte le parti interessate. L’indagine puntualizza quindi prima l’apparato teorico che descrive la cultura d’impresa e la responsabilità sociale d’impresa e, successivamente, descrive (sia dal punto di vista dell’evoluzione storica che da quello dell’attuale gestione), il “caso Cucinelli” indicato come un esempio che incarna perfettamente il concetto di azienda socialmente responsabile e rappresenta anche una storia di successo e orgoglio del Made in Italy nel mondo.

Ma cos’è che fa la differenza? Secondo Napolitano e Fusco, tutta l’impostazione aziendale assume il tema della responsabilità sociale come orientamento strategico “in grado di influenzare l’identità e la cultura aziendale, ma anche di dare ai prodotti un posizionamento unico e distintivo”. Particolarmente chiaro un passaggio riferito al rapporto fra Cucinelli e i suoi collaboratori: “La fiducia è il collante che unisce tutti coloro che lavorano per lui. La condivisione delle finalità dell’impresa è il fondamento del rapporto sano e dignitoso che lega l’imprenditore filosofo ai suoi collaboratori”.

La ricerca di Napolitano e Fusco descrive certo un esempio pressoché unico – e quindi non imitabile -, di cultura d’impresa elevata ai massimi livelli, ma per questo fonte, come si diceva all’inizio, di numerosi spunti (anche provocatori) per tutti. Da leggere e da meditare.

Brunello Cucinelli: la creazione di valore condiviso nell’impresa umanistica

Maria Rosaria Napolitano, Floriana Fusco

Micro & Marco Marketing, 2, 2019, agosto

Dessert d’impresa

In un libro il buon management raccontato sulla base della metafora del pasto

Gestire un’impresa è cosa difficile e complessa. Ma non è detto che debba essere sempre affrontata noiosamente e teoricamente. Occorre anche vivacità e pratica, non gioco (che comunque è una cosa molto seria), ma attenzione all’umanità degli aspetti e delle situazioni. Così è, d’altra parte, anche la buona cultura del produrre.

Per questo leggere “Dessert. Management, dintorni e contorni. Menu per lavorare bene e vivere meglio” scritto a quattro mani da Gianfranco Dentella e da Ezio Paolo Reggia (entrambi manager di lungo corso, il primo nel settore finanziario e il secondo in quello assicurativo), è cosa da fare e dalla quale trarre profitto (in termini prima culturali e poi forse anche operativi).

Il titolo del libro può trarre in inganno. Ed è per questo che sono gli stessi due autori a spiegare fin dalle prime righe che il prodotto del loro impegno letterario “non è un ricettario gastronomico”, ma qualcosa che usa la metafora del pasto in tutte le sue varie componenti, per affrontare meglio un tema complesso come quello della gestione d’impresa visto sotto una luce diversa dal solito.

“Dessert” è quindi a tutti gli effetti un libro di management scritto in maniera inconsueta. E non solo per il titolo e per l’organizzazione degli argomenti, ma anche per la modalità con cui questi sono affrontati: un’antologia di racconti brevi, una raccolta di parabole, talvolta vere e proprie barzellette. Tutto con l’obiettivo di condividere consigli e riflessioni sulla vita, il lavoro e le relazioni aziendali, classificate in una formula tipica dell’organizzazione di un pasto. L’organizzazione del testo prevede quindi quindici consumazioni, per un pranzo in ventiquattro “sapori”, un menu completo da interpretare metaforicamente. E davvero nelle circa 230 pagine scorre tutto quello che la vita da manager (e d’altra parte la vita e basta) può offrire: dal tradimento alle dicerie, dall’ingratitudine alla capacità del fare, dal pregiudizio al non dare nulla per scontato, ma anche a molto di più di tutto questo.

Apparentemente un libro da leggere divertendosi, “Dessert” è in realtà una lettura da fare con attenzione e molto seriamente.

Fra le molte citazioni, una è poi bellissima e, in un certo qual modo, dà il senso al tutto: “Bisogna ricominciare il viaggio, sempre” (José de Sousa Saramago).

Dessert. Management, dintorni e contorni. Menu per lavorare bene e vivere meglio

Gianfranco Dentella, Ezio Paolo Reggia

Guerini e Associati, 2019

In un libro il buon management raccontato sulla base della metafora del pasto

Gestire un’impresa è cosa difficile e complessa. Ma non è detto che debba essere sempre affrontata noiosamente e teoricamente. Occorre anche vivacità e pratica, non gioco (che comunque è una cosa molto seria), ma attenzione all’umanità degli aspetti e delle situazioni. Così è, d’altra parte, anche la buona cultura del produrre.

Per questo leggere “Dessert. Management, dintorni e contorni. Menu per lavorare bene e vivere meglio” scritto a quattro mani da Gianfranco Dentella e da Ezio Paolo Reggia (entrambi manager di lungo corso, il primo nel settore finanziario e il secondo in quello assicurativo), è cosa da fare e dalla quale trarre profitto (in termini prima culturali e poi forse anche operativi).

Il titolo del libro può trarre in inganno. Ed è per questo che sono gli stessi due autori a spiegare fin dalle prime righe che il prodotto del loro impegno letterario “non è un ricettario gastronomico”, ma qualcosa che usa la metafora del pasto in tutte le sue varie componenti, per affrontare meglio un tema complesso come quello della gestione d’impresa visto sotto una luce diversa dal solito.

“Dessert” è quindi a tutti gli effetti un libro di management scritto in maniera inconsueta. E non solo per il titolo e per l’organizzazione degli argomenti, ma anche per la modalità con cui questi sono affrontati: un’antologia di racconti brevi, una raccolta di parabole, talvolta vere e proprie barzellette. Tutto con l’obiettivo di condividere consigli e riflessioni sulla vita, il lavoro e le relazioni aziendali, classificate in una formula tipica dell’organizzazione di un pasto. L’organizzazione del testo prevede quindi quindici consumazioni, per un pranzo in ventiquattro “sapori”, un menu completo da interpretare metaforicamente. E davvero nelle circa 230 pagine scorre tutto quello che la vita da manager (e d’altra parte la vita e basta) può offrire: dal tradimento alle dicerie, dall’ingratitudine alla capacità del fare, dal pregiudizio al non dare nulla per scontato, ma anche a molto di più di tutto questo.

Apparentemente un libro da leggere divertendosi, “Dessert” è in realtà una lettura da fare con attenzione e molto seriamente.

Fra le molte citazioni, una è poi bellissima e, in un certo qual modo, dà il senso al tutto: “Bisogna ricominciare il viaggio, sempre” (José de Sousa Saramago).

Dessert. Management, dintorni e contorni. Menu per lavorare bene e vivere meglio

Gianfranco Dentella, Ezio Paolo Reggia

Guerini e Associati, 2019

Ecco come il “socio occulto” di ‘ndrangheta e mafia inquina l’economia e mette in crisi le buone imprese

“Il socio occulto”, che non appare ufficialmente ma governa in realtà l’impresa, ne condiziona scelte, legami, successi. Un socio mafioso. “Il socio occulto”, appunto, è l’efficace titolo dell’ultimo libro di Marella Caramazza, manager, esperta di marketing e formazione, direttore generale della Fondazione Istud ed esperta indagatrice dell’“anima nera” dell’economia del Nord. Pubblicato da Egea, la casa editrice dell’Università Bocconi, il saggio ricostruisce i legami tra corruzione nella pubblica amministrazione e crescita del peso economico di ‘ndrangheta, camorra, Cosa Nostra siciliana. E vale la pena leggerlo, appunto, per capire le nuove dimensioni della criminalità organizzata, proprio mentre la Dia (la Direzione Investigativa Antimafia) e l’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati alla mafia forniscono all’opinione pubblica i dati sulla presenza dei boss dei clan mafiosi nel mondo degli affari. Una presenza allarmante, in vari settori economici, dagli appalti pubblici alle forniture della sanità, dal traffico dei rifiuti alle attività commerciali, non solo nelle aree d’origine delle famiglie criminali (Calabria, Sicilia, Campania, Puglia) ma soprattutto nelle zone economicamente più dinamiche del Paese, dalla Lombardia all’Emilia, dal Piemonte alla Liguria e a tutto il Nord Est. Non più una “infiltrazione”, come si continua a dire ancora oggi, per pigrizia concettuale. Ma una presenza estesa e profonda, un grave inquinamento, che sta alterando profondamente il funzionamento di mercati, servizi, lavori pubblici.

“La mafia è ovunque”, titola “Il Sole24Ore” (19 luglio) nel dare conto della relazione della Dia, che ricostruisce i principali settori d’affari della mafia (giochi e scommesse on line, energie rinnovabili, agricoltura, ristorazione, attività turistiche e alberghiere, supermercati, sanità e appalti pubblici, edilizia, commercio di opere d’arte e reperti archeologici, raccolta e smaltimento rifiuti, proprio l’ultima frontiera del business illegale su cui si muove, con successo, la Procura della Repubblica di Milano) e mostra come il Nord sia in testa alle classifiche delle operazioni sospette (il 46,8%, quasi una su due), con particolare peso della Lombardia, regione di finanziarie e banche.

“C’è mancanza di allarme sociale”, insiste la Dia, sottolineando la rete di complicità della cosiddetta “area grigia” (ben raccontata anche nelle pagine de “Il socio occulto”) e cioè di quei  professionisti, manager, uomini d’affari che organizzano, favoriscono, coprono le attività delle imprese mafiose e il riciclaggio dei soldi provenienti da traffici illeciti. E preoccupate proprio dall’espansione degli interessi di mafia, l’Assolombarda a Milano e altre organizzazioni imprenditoriali in Veneto hanno intensificato la loro attività sui temi della legalità e per mettere in guardia le imprese: mai avere contatti con le cosche, mai lasciare spazio al “socio occulto”, pena la crisi grade dell’economia di mercato e delle libertà imprenditoriali. Un allarme che, pur lentamente, trova ascolto.

“Nella società c’è voglia di mafia, di natura utilitaristica”, denuncia, sempre sulle pagine de “Il Sole24Ore” (18 luglio), il Procuratore della Repubblica di Palermo Francesco Lo Voi, reduce da una brillante operazione di Polizia, tra la Sicilia e New York, che ha fatto scattare le manette ai polsi dei boss delle famiglie Inzerillo e Gambino, mafia storica in cerca di nuovi affari. I settori economici più permeati, ricorda Lo Voi, sono “energia e rifiuti”. E comunque, Palermo a parte, “Cosa Nostra investe all’estero”. Serve seguirne i flussi degli interessi, le piste dei soldi (come avevano insegnato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino).

“Le mafie diversificano al Nord. Scoperte 2.243 imprese colluse”, titola “La Stampa” (8 luglio), raccogliendo i dati delle prefetture e dell’Anac (l’Autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone) sulle “interdittive” e cioè sui provvedimenti emessi dai prefetti, dopo una tempestiva istruttoria, per estromettere dagli appalti pubblici le imprese sospette di legami con clan mafiosi (l’ultima, dai lavori per il Ponte Morandi a Genova). E proprio quel dato, 2.243 imprese colluse, mostra quanto preoccupante sia il fenomeno della presenza mafiosa nell’economia ma anche come l’apparato dello Stato si stia muovendo efficacemente per stroncare la devastazione criminale che stravolge affari e amministrazione pubblica.

Anche il riordino e il rilancio dell’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati (più risorse, migliore organizzazione) è un importante strumento contro le attività dei boss. Ci sono attualmente 2.982 aziende ex mafiose, in gestione all’Agenzia. Vanno analizzate, per verificare che possano continuare a vivere in condizioni di regolarità e legalità, fuori cioè dai business model mafiosi (credito facile, corruzione, evasione fiscale, uso della violenza contro i concorrenti, lavoro nero, etc.). E affidate in gestione a manager competenti, e non solo a commercialisti e avvocati come custodi giudiziari, per poterle risanare e restituire al mercato. Sostiene Bruno Frattasi, prefetto, direttore dell’Agenzia: “Intendiamo valorizzare forme di collaborazione con associazioni di qualificati professionisti che possano portare all’interno di queste aziende una cultura manageriale fortemente orientata al rispetto delle regole” e dunque a una sana, corretta, efficiente gestione economica.

C’è una condizione da ribaltare: il fatto che delle aziende sequestrate alla mafia (il provvedimento iniziale) appena il 34%, un terzo, sia ancora attivo, mentre arrivati al termine dell’iter, alla confisca, solo il 19%, una su cinque, sopravviva. Le aziende ex mafiose vanno invece risanate, rilanciate, messe in condizione di creare, come ogni altra azienda, ricchezza e lavoro, Anche per evitare la diceria secondo cui con la presenza mafiosa l’impresa vive e dà lavoro, con l’arrivo dello Stato, invece, l’impresa muore e le persone restano disoccupate. Sfida difficile, Ma possibile.

L’obiettivo: legalità, efficienza, competitività, al posto dei danni del “socio occulto”. L’antimafia è anche fare crescere una buona, equilibrata economia.

“Il socio occulto”, che non appare ufficialmente ma governa in realtà l’impresa, ne condiziona scelte, legami, successi. Un socio mafioso. “Il socio occulto”, appunto, è l’efficace titolo dell’ultimo libro di Marella Caramazza, manager, esperta di marketing e formazione, direttore generale della Fondazione Istud ed esperta indagatrice dell’“anima nera” dell’economia del Nord. Pubblicato da Egea, la casa editrice dell’Università Bocconi, il saggio ricostruisce i legami tra corruzione nella pubblica amministrazione e crescita del peso economico di ‘ndrangheta, camorra, Cosa Nostra siciliana. E vale la pena leggerlo, appunto, per capire le nuove dimensioni della criminalità organizzata, proprio mentre la Dia (la Direzione Investigativa Antimafia) e l’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati alla mafia forniscono all’opinione pubblica i dati sulla presenza dei boss dei clan mafiosi nel mondo degli affari. Una presenza allarmante, in vari settori economici, dagli appalti pubblici alle forniture della sanità, dal traffico dei rifiuti alle attività commerciali, non solo nelle aree d’origine delle famiglie criminali (Calabria, Sicilia, Campania, Puglia) ma soprattutto nelle zone economicamente più dinamiche del Paese, dalla Lombardia all’Emilia, dal Piemonte alla Liguria e a tutto il Nord Est. Non più una “infiltrazione”, come si continua a dire ancora oggi, per pigrizia concettuale. Ma una presenza estesa e profonda, un grave inquinamento, che sta alterando profondamente il funzionamento di mercati, servizi, lavori pubblici.

“La mafia è ovunque”, titola “Il Sole24Ore” (19 luglio) nel dare conto della relazione della Dia, che ricostruisce i principali settori d’affari della mafia (giochi e scommesse on line, energie rinnovabili, agricoltura, ristorazione, attività turistiche e alberghiere, supermercati, sanità e appalti pubblici, edilizia, commercio di opere d’arte e reperti archeologici, raccolta e smaltimento rifiuti, proprio l’ultima frontiera del business illegale su cui si muove, con successo, la Procura della Repubblica di Milano) e mostra come il Nord sia in testa alle classifiche delle operazioni sospette (il 46,8%, quasi una su due), con particolare peso della Lombardia, regione di finanziarie e banche.

“C’è mancanza di allarme sociale”, insiste la Dia, sottolineando la rete di complicità della cosiddetta “area grigia” (ben raccontata anche nelle pagine de “Il socio occulto”) e cioè di quei  professionisti, manager, uomini d’affari che organizzano, favoriscono, coprono le attività delle imprese mafiose e il riciclaggio dei soldi provenienti da traffici illeciti. E preoccupate proprio dall’espansione degli interessi di mafia, l’Assolombarda a Milano e altre organizzazioni imprenditoriali in Veneto hanno intensificato la loro attività sui temi della legalità e per mettere in guardia le imprese: mai avere contatti con le cosche, mai lasciare spazio al “socio occulto”, pena la crisi grade dell’economia di mercato e delle libertà imprenditoriali. Un allarme che, pur lentamente, trova ascolto.

“Nella società c’è voglia di mafia, di natura utilitaristica”, denuncia, sempre sulle pagine de “Il Sole24Ore” (18 luglio), il Procuratore della Repubblica di Palermo Francesco Lo Voi, reduce da una brillante operazione di Polizia, tra la Sicilia e New York, che ha fatto scattare le manette ai polsi dei boss delle famiglie Inzerillo e Gambino, mafia storica in cerca di nuovi affari. I settori economici più permeati, ricorda Lo Voi, sono “energia e rifiuti”. E comunque, Palermo a parte, “Cosa Nostra investe all’estero”. Serve seguirne i flussi degli interessi, le piste dei soldi (come avevano insegnato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino).

“Le mafie diversificano al Nord. Scoperte 2.243 imprese colluse”, titola “La Stampa” (8 luglio), raccogliendo i dati delle prefetture e dell’Anac (l’Autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone) sulle “interdittive” e cioè sui provvedimenti emessi dai prefetti, dopo una tempestiva istruttoria, per estromettere dagli appalti pubblici le imprese sospette di legami con clan mafiosi (l’ultima, dai lavori per il Ponte Morandi a Genova). E proprio quel dato, 2.243 imprese colluse, mostra quanto preoccupante sia il fenomeno della presenza mafiosa nell’economia ma anche come l’apparato dello Stato si stia muovendo efficacemente per stroncare la devastazione criminale che stravolge affari e amministrazione pubblica.

Anche il riordino e il rilancio dell’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati (più risorse, migliore organizzazione) è un importante strumento contro le attività dei boss. Ci sono attualmente 2.982 aziende ex mafiose, in gestione all’Agenzia. Vanno analizzate, per verificare che possano continuare a vivere in condizioni di regolarità e legalità, fuori cioè dai business model mafiosi (credito facile, corruzione, evasione fiscale, uso della violenza contro i concorrenti, lavoro nero, etc.). E affidate in gestione a manager competenti, e non solo a commercialisti e avvocati come custodi giudiziari, per poterle risanare e restituire al mercato. Sostiene Bruno Frattasi, prefetto, direttore dell’Agenzia: “Intendiamo valorizzare forme di collaborazione con associazioni di qualificati professionisti che possano portare all’interno di queste aziende una cultura manageriale fortemente orientata al rispetto delle regole” e dunque a una sana, corretta, efficiente gestione economica.

C’è una condizione da ribaltare: il fatto che delle aziende sequestrate alla mafia (il provvedimento iniziale) appena il 34%, un terzo, sia ancora attivo, mentre arrivati al termine dell’iter, alla confisca, solo il 19%, una su cinque, sopravviva. Le aziende ex mafiose vanno invece risanate, rilanciate, messe in condizione di creare, come ogni altra azienda, ricchezza e lavoro, Anche per evitare la diceria secondo cui con la presenza mafiosa l’impresa vive e dà lavoro, con l’arrivo dello Stato, invece, l’impresa muore e le persone restano disoccupate. Sfida difficile, Ma possibile.

L’obiettivo: legalità, efficienza, competitività, al posto dei danni del “socio occulto”. L’antimafia è anche fare crescere una buona, equilibrata economia.

Educare alla cultura d’impresa

Uno studio dell’Università di Napoli Federico II mette in chiaro come l’educazione all’imprenditorialità sia sempre importante, a patto che riesca ad evolversi

È importante educare le giovani generazioni all’imprenditorialità. Assunto che può apparire banale, quest’ultimo è invece importante e, soprattutto, non facile da mettere in pratica. Perché può essere vero, in alcuni casi, che “imprenditori si nasce”, ma appare anche essere vero che, in molti altri casi, occorre “imparare ad essere imprenditori”. Soprattutto in un sistema complesso e vario come quello nel quale agiscono oggi le imprese.

Rosaria Capobianco (dell’Università degli Studi di Napoli Federico II), con il suo contributo “L’educazione all’imprenditorialità per la formazione dei talenti. Un’esperienza didattica nella Scuola Secondaria”, ha provato a indagare sui percorsi di educazione all’imprenditorialità proposti a più riprese dall’Unione europea e sulla loro reale applicazione nelle scuole partendo dalla distinzione tra imprenditività ed educazione all’imprenditorialità.

Capobianco spiega quindi che “l’imprenditorialità è un concetto che afferisce in maggior misura al mondo del lavoro, l’imprenditività, invece, al mondo della formazione e dello sviluppo personale, quindi con il termine ‘imprenditorialità’ si intende l’insieme delle competenze e delle abilità necessarie a creare e condurre un’impresa, mentre con il termine ‘imprenditività’ si fa riferimento in senso più ampio al sapere agire con un certo spirito d’iniziativa e con determinate competenze imprenditoriali nei confronti delle numerose sfide che i progetti di sviluppo professionali e personali presentano”. Concetti simili, quindi, quelli di imprenditorialità e imprendititività che si aiutano a vicenda e che servono l’uno all’altro.  Precisato tutto questo, in particolare, il saggio presenta quindi la struttura e gli esiti della sperimentazione di un’Unità di Apprendimento (UdA) sulla competenza imprenditoriale e sull’imprenditività realizzata in un Istituto Tecnico Economico (Corso AFM, Amministrazione, Finanza, Marketing) di Caserta, che ha dato la possibilità a dei giovani studenti di mettere in luce il proprio talento imprenditoriale. La semplice sperimentazione ha permesso di comprendere quanto l’entrepreneurship education sia fondamentale per il futuro delle nuove generazioni e come ci sia bisogno di un nuovo paradigma formativo. E’ proprio questo il punto più importante rilevato da Capobianco: di fronte ad un sistema della produzione e d’impresa che cambia rapidamente, è necessario usare metodi formativi che riescano ad evolvere altrettanto rapidamente, pena il loro fallimento. Insomma, così come la cultura d’impresa muta con molto più velocità di un tempo, così anche la formazione all’imprenditorialità deve essere capace di cambiare.

L’educazione all’imprenditorialità per la formazione dei talenti. Un’esperienza didattica nella Scuola Secondaria

Rosaria Capobianco

Formazione & Insegnamento X VII – 1 – 2019 Supplemento

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Uno studio dell’Università di Napoli Federico II mette in chiaro come l’educazione all’imprenditorialità sia sempre importante, a patto che riesca ad evolversi

È importante educare le giovani generazioni all’imprenditorialità. Assunto che può apparire banale, quest’ultimo è invece importante e, soprattutto, non facile da mettere in pratica. Perché può essere vero, in alcuni casi, che “imprenditori si nasce”, ma appare anche essere vero che, in molti altri casi, occorre “imparare ad essere imprenditori”. Soprattutto in un sistema complesso e vario come quello nel quale agiscono oggi le imprese.

Rosaria Capobianco (dell’Università degli Studi di Napoli Federico II), con il suo contributo “L’educazione all’imprenditorialità per la formazione dei talenti. Un’esperienza didattica nella Scuola Secondaria”, ha provato a indagare sui percorsi di educazione all’imprenditorialità proposti a più riprese dall’Unione europea e sulla loro reale applicazione nelle scuole partendo dalla distinzione tra imprenditività ed educazione all’imprenditorialità.

Capobianco spiega quindi che “l’imprenditorialità è un concetto che afferisce in maggior misura al mondo del lavoro, l’imprenditività, invece, al mondo della formazione e dello sviluppo personale, quindi con il termine ‘imprenditorialità’ si intende l’insieme delle competenze e delle abilità necessarie a creare e condurre un’impresa, mentre con il termine ‘imprenditività’ si fa riferimento in senso più ampio al sapere agire con un certo spirito d’iniziativa e con determinate competenze imprenditoriali nei confronti delle numerose sfide che i progetti di sviluppo professionali e personali presentano”. Concetti simili, quindi, quelli di imprenditorialità e imprendititività che si aiutano a vicenda e che servono l’uno all’altro.  Precisato tutto questo, in particolare, il saggio presenta quindi la struttura e gli esiti della sperimentazione di un’Unità di Apprendimento (UdA) sulla competenza imprenditoriale e sull’imprenditività realizzata in un Istituto Tecnico Economico (Corso AFM, Amministrazione, Finanza, Marketing) di Caserta, che ha dato la possibilità a dei giovani studenti di mettere in luce il proprio talento imprenditoriale. La semplice sperimentazione ha permesso di comprendere quanto l’entrepreneurship education sia fondamentale per il futuro delle nuove generazioni e come ci sia bisogno di un nuovo paradigma formativo. E’ proprio questo il punto più importante rilevato da Capobianco: di fronte ad un sistema della produzione e d’impresa che cambia rapidamente, è necessario usare metodi formativi che riescano ad evolvere altrettanto rapidamente, pena il loro fallimento. Insomma, così come la cultura d’impresa muta con molto più velocità di un tempo, così anche la formazione all’imprenditorialità deve essere capace di cambiare.

L’educazione all’imprenditorialità per la formazione dei talenti. Un’esperienza didattica nella Scuola Secondaria

Rosaria Capobianco

Formazione & Insegnamento X VII – 1 – 2019 Supplemento

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Saper lavorare con il futuro

Metodi e tecniche per affrontare quanto ci aspetta, raccontati con linguaggio piano e leggibile

Il segreto sta nella capacità di reagire con prontezza agli imprevisti. E’ anche questo, ormai, ciò che viene richiesto al buon imprenditore così come al bravo manager d’impresa. Esigenza alla quale segue un’indicazione di fondo: per gestire situazioni sempre più incerte e confuse è necessario imparare ad anticipare quello che verrà. E’ su questa base che Roberto Poli ha scritto “Lavorare con il futuro. Idee e strumenti per governare l’incertezza”.

L’autore – che insegna Previsione sociale ed Epistemologia delle scienze sociali all’Università di Trento -, spiega che non si tratta di saper prevedere ciò che accadrà, ma piuttosto di saperci lavorare insieme  usando un apparato di strumenti messi a punto “per visualizzare i futuri possibili ed elaborare scenari capaci di guidare le decisioni nel presente”.

Serve quindi sapere misurare i rischi e identificare i cambiamenti, occorre saper distinguere ciò che è solo complicato da ciò che è effettivamente complesso. E’ necessario molto esercizio. Ed è proprio per questo che serve leggere il libro di Poli che affronta il tema in più fasi, ciascuna con i propri specifici strumenti e metodi. A fare da fonti di esercizio – e poi di lavoro -,  sono approcci particolari alla realtà come quelli dell’intelligenza collettiva, delle tattiche militari, delle strategie che insegnano la resilienza.

Il libro è composto da una successione di 10 capitoli. Si parte quindi con il mettere ordine nelle definizioni per passare poi alla puntualizzazione dei concetti di megatrend e di anticipazione. Poli quindi approfondisce i binomi rischio-incertezza e complicato-complesso, per poi passare ad esaminare la cassetta degli attrezzi di chi “lavora con il futuro”.

Il libro di Roberto Poli è affascinante e si deve percorrere da cima a fondo: non sempre facile da leggere, è comunque una buona lettura.

Bellissimo, in chiusura, il ricordo di Aurelio Peccei e dell’inscindibilità del futuro dalla qualità umana.

Lavorare con il futuro. Idee e strumenti per governare l’incertezza

Roberto Poli

EGEA, 2019

Metodi e tecniche per affrontare quanto ci aspetta, raccontati con linguaggio piano e leggibile

Il segreto sta nella capacità di reagire con prontezza agli imprevisti. E’ anche questo, ormai, ciò che viene richiesto al buon imprenditore così come al bravo manager d’impresa. Esigenza alla quale segue un’indicazione di fondo: per gestire situazioni sempre più incerte e confuse è necessario imparare ad anticipare quello che verrà. E’ su questa base che Roberto Poli ha scritto “Lavorare con il futuro. Idee e strumenti per governare l’incertezza”.

L’autore – che insegna Previsione sociale ed Epistemologia delle scienze sociali all’Università di Trento -, spiega che non si tratta di saper prevedere ciò che accadrà, ma piuttosto di saperci lavorare insieme  usando un apparato di strumenti messi a punto “per visualizzare i futuri possibili ed elaborare scenari capaci di guidare le decisioni nel presente”.

Serve quindi sapere misurare i rischi e identificare i cambiamenti, occorre saper distinguere ciò che è solo complicato da ciò che è effettivamente complesso. E’ necessario molto esercizio. Ed è proprio per questo che serve leggere il libro di Poli che affronta il tema in più fasi, ciascuna con i propri specifici strumenti e metodi. A fare da fonti di esercizio – e poi di lavoro -,  sono approcci particolari alla realtà come quelli dell’intelligenza collettiva, delle tattiche militari, delle strategie che insegnano la resilienza.

Il libro è composto da una successione di 10 capitoli. Si parte quindi con il mettere ordine nelle definizioni per passare poi alla puntualizzazione dei concetti di megatrend e di anticipazione. Poli quindi approfondisce i binomi rischio-incertezza e complicato-complesso, per poi passare ad esaminare la cassetta degli attrezzi di chi “lavora con il futuro”.

Il libro di Roberto Poli è affascinante e si deve percorrere da cima a fondo: non sempre facile da leggere, è comunque una buona lettura.

Bellissimo, in chiusura, il ricordo di Aurelio Peccei e dell’inscindibilità del futuro dalla qualità umana.

Lavorare con il futuro. Idee e strumenti per governare l’incertezza

Roberto Poli

EGEA, 2019

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?