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Pirelli, una multinazionale all’Expo nel primo Novecento

C’è un segnale che, fin da che esiste l’industria, ci restituisce il grado di internazionalizzazione di un’azienda: la sua partecipazione alle grandi esposizioni universali. E’ una Pirelli che sta per costruire il suo primo stabilimento all’estero – lo inaugurerà di lì a due anni, in Spagna – quella che si presenta con i suoi prodotti all’Esposizione Universale di Parigi del 1900. L’azienda si definisce  “Società per le industrie della gomma elastica, della guttaperca e affini, dei fili e cavi elettrici isolati”: il pneumatico è ancora di là da venire come oggetto di uso comune e la modernità si misura in prodotti e servizi per il nuovo mondo dell’elettricità. “All’Esposizione la Ditta Pirelli & C. si è limitata ad esporre i suoi prodotti relativi all’elettricità – si legge nello stampato di presentazione – ma la sua mostra è ciò nonpertanto interessantissima, quantunque risenta un poco della mancanza di spazio, di cui soffre tutta la Sezione italiana”. Così, con un velato appunto alla grandeur francese, l’azienda italiana fa conoscere al mondo intero convenuto a Parigi le sue meravigliose conquiste tecnologiche: quelle che le hanno permesso di porsi stabilmente tra i leader mondiali dell’elettricità, soprattutto nell’ambito dei cavi sottomarini. “E’ insomma una mostra completa e al più alto grado interessante, che può dare l’idea della grandiosità degli Stabilimenti della Ditta Pirelli & C.”.

Il grande salto verso il Nuovo Mondo avviene quattro anni dopo, all’Esposizione Universale di Saint-Louis del 1904. Dalla fabbrica di Milano partono per la Louisiana non solo cavi elettrici e telegrafici ma anche “tubi in gomma per ferrovia, articoli di merceria, un vestito da palombaro, articoli tecnici in gomma, camere d’aria per velocipedi”. E, finalmente, “1 pneumatico completo per automobile”. A dimostrare come una grande azienda italiana non abbia nulla da invidiare ai colossi americani, le prime sei delle ventun casse complessive spedite a Saint Louis il 16 febbraio 1904 contengono l’intero padiglione della Pirelli & C. con disegni e istruzioni per il montaggio in loco. I fasti della partecipazione all’Expo Universale di Milano 1906 fanno spesso dimenticare che, nello stesso anno, la Pirelli & C. è presente ancora una volta al di là dell’Atlantico, e all’Esposizione di New York dell’ottobre 1906 è ormai protagonista assoluto il pneumatico. Nella patria dei motori l’Azienda si presenta promuovendo il suo nuovissimo business per il mondo dei trasporti: in esposizione c’è un Ercole di misura 910 x 90 montato su un innovativo cerchio smontabile che permette un “cambio gomme” facile e rapidissimo. Troppo importante è l’America per chi vuole crescere nel mondo dei pneumatici: proprio presso gli uffici dell’importatore newyorkese nascerà infatti l’anno dopo la “P lunga”, e dalla metropoli statunitense prenderà il via, nel 1908, il raid New York-Parigi a cui parteciperanno il pilota Emilio “Giulio” Sirtori e il giornalista Antonio Scarfoglio a bordo della Züst gommata Pirelli.

Ma la vera “seconda patria” del Gruppo Pirelli diventa il Sudamerica, tra Argentina e Brasile, a cominciare dalla fine degli anni Venti del Novecento. Non è quindi casuale che, già nel maggio del 1910, Pirelli partecipi all’Esposizione Internazionale di Buenos Aires, in occasione del centenario della Repubblica Argentina. “Ferrovie e Trasporti terrestri. Agricoltura. Igiene e Medicina” sono le tre grandi aree che costituiscono l’expo sudamericana: Pirelli è presente in tutte, dai tubi e paracolpi per le carrozze ferroviarie ai pneumatici per automobili e gomme piene per camion, dai “necessaires da viaggio” ai tessuti gommati per aeroplani, dalle pompe per disinfezione ai cavi speciali per linee subacquee. E’ un’azienda che sta costruendo il proprio ruolo di multinazionale quella presente in tutte le grandi expo universali di questo inizio secolo. Poi, ci pensa la Storia a dettare i tempi della crescita: presso l’Archivio Storico Pirelli c’è un fascicolo dedicato alla partecipazione del Gruppo all’Esposizione Internazionale delle Industrie Elettriche di Barcellona. O almeno, di quella che sarebbe dovuta essere la partecipazione: il fascicolo – vuoto – porta la data dell’aprile 1915.

C’è un segnale che, fin da che esiste l’industria, ci restituisce il grado di internazionalizzazione di un’azienda: la sua partecipazione alle grandi esposizioni universali. E’ una Pirelli che sta per costruire il suo primo stabilimento all’estero – lo inaugurerà di lì a due anni, in Spagna – quella che si presenta con i suoi prodotti all’Esposizione Universale di Parigi del 1900. L’azienda si definisce  “Società per le industrie della gomma elastica, della guttaperca e affini, dei fili e cavi elettrici isolati”: il pneumatico è ancora di là da venire come oggetto di uso comune e la modernità si misura in prodotti e servizi per il nuovo mondo dell’elettricità. “All’Esposizione la Ditta Pirelli & C. si è limitata ad esporre i suoi prodotti relativi all’elettricità – si legge nello stampato di presentazione – ma la sua mostra è ciò nonpertanto interessantissima, quantunque risenta un poco della mancanza di spazio, di cui soffre tutta la Sezione italiana”. Così, con un velato appunto alla grandeur francese, l’azienda italiana fa conoscere al mondo intero convenuto a Parigi le sue meravigliose conquiste tecnologiche: quelle che le hanno permesso di porsi stabilmente tra i leader mondiali dell’elettricità, soprattutto nell’ambito dei cavi sottomarini. “E’ insomma una mostra completa e al più alto grado interessante, che può dare l’idea della grandiosità degli Stabilimenti della Ditta Pirelli & C.”.

Il grande salto verso il Nuovo Mondo avviene quattro anni dopo, all’Esposizione Universale di Saint-Louis del 1904. Dalla fabbrica di Milano partono per la Louisiana non solo cavi elettrici e telegrafici ma anche “tubi in gomma per ferrovia, articoli di merceria, un vestito da palombaro, articoli tecnici in gomma, camere d’aria per velocipedi”. E, finalmente, “1 pneumatico completo per automobile”. A dimostrare come una grande azienda italiana non abbia nulla da invidiare ai colossi americani, le prime sei delle ventun casse complessive spedite a Saint Louis il 16 febbraio 1904 contengono l’intero padiglione della Pirelli & C. con disegni e istruzioni per il montaggio in loco. I fasti della partecipazione all’Expo Universale di Milano 1906 fanno spesso dimenticare che, nello stesso anno, la Pirelli & C. è presente ancora una volta al di là dell’Atlantico, e all’Esposizione di New York dell’ottobre 1906 è ormai protagonista assoluto il pneumatico. Nella patria dei motori l’Azienda si presenta promuovendo il suo nuovissimo business per il mondo dei trasporti: in esposizione c’è un Ercole di misura 910 x 90 montato su un innovativo cerchio smontabile che permette un “cambio gomme” facile e rapidissimo. Troppo importante è l’America per chi vuole crescere nel mondo dei pneumatici: proprio presso gli uffici dell’importatore newyorkese nascerà infatti l’anno dopo la “P lunga”, e dalla metropoli statunitense prenderà il via, nel 1908, il raid New York-Parigi a cui parteciperanno il pilota Emilio “Giulio” Sirtori e il giornalista Antonio Scarfoglio a bordo della Züst gommata Pirelli.

Ma la vera “seconda patria” del Gruppo Pirelli diventa il Sudamerica, tra Argentina e Brasile, a cominciare dalla fine degli anni Venti del Novecento. Non è quindi casuale che, già nel maggio del 1910, Pirelli partecipi all’Esposizione Internazionale di Buenos Aires, in occasione del centenario della Repubblica Argentina. “Ferrovie e Trasporti terrestri. Agricoltura. Igiene e Medicina” sono le tre grandi aree che costituiscono l’expo sudamericana: Pirelli è presente in tutte, dai tubi e paracolpi per le carrozze ferroviarie ai pneumatici per automobili e gomme piene per camion, dai “necessaires da viaggio” ai tessuti gommati per aeroplani, dalle pompe per disinfezione ai cavi speciali per linee subacquee. E’ un’azienda che sta costruendo il proprio ruolo di multinazionale quella presente in tutte le grandi expo universali di questo inizio secolo. Poi, ci pensa la Storia a dettare i tempi della crescita: presso l’Archivio Storico Pirelli c’è un fascicolo dedicato alla partecipazione del Gruppo all’Esposizione Internazionale delle Industrie Elettriche di Barcellona. O almeno, di quella che sarebbe dovuta essere la partecipazione: il fascicolo – vuoto – porta la data dell’aprile 1915.

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L’Europa, un “Piano Marshall” per le infrastutture per rafforzare l’integrazione e favorire sviluppo

L’Europa, per l’impresa italiana, è uno scenario di riferimento essenziale. Un’Europa che, al di là dei miti fondativi, ha bisogno di riflettere profondamente sulla sua crisi e su un funzionamento di strutture e burocrazie che incontrano crescenti critiche in larghi settori dell’opinione pubblica.

Per ragionare di riforme e rilancio vale la pena partire da un intervento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, davanti a una platea di ragazzi universitari di Lund, durante una visita in Svezia, il 15 novembre scorso: l’Europa “attraversa una fase complessa”, in cui “le sollecitazioni e le scosse che l’edificio comune deve assorbire sono intense” ma bisogna andare avanti. L’Europa non è una semplice unione doganale” né tantomeno “un comitato d’affari” ma molto di più: “Stabilità e sicurezza”.

Segnali essenziali vengono anche dal mondo dell’economia: “Se l’Europa avesse uno scatto di dignità e culturale tornerebbe a ragionare sui fondamentali, lancerebbe un grande piano infrastrutturale e creerebbe valore per tutti. Un progetto di ampio respiro non avrebbe difficoltà a essere finanziato da tutte le grandi banche internazionali”, sostiene Marco Tronchetti Provera, Ceo di Pirelli, lanciando, in un’intervista a “Il Sole24Ore” del 16 novembre,  la proposta di un piano di investimenti su scala continentale e richiamando il Piano Marshall del secondo dopoguerra. Un intervento che avrebbe anche un’ambizione politica: “L’Europa non è mai stata unificata davvero e l’unione, come dimostra la storia, la fanno le infrastrutture”.

La proposta parte da una visione critica dell’attuale Ue, non mette naturalmente in dubbio la moneta unica ma suggerisce un cambiamento: “Dall’Europa del rigore all’Europa dello sviluppo”: dopo Jacques Delors, secondo Tronchetti, in Europa s’è creato “un sistema di regole dove il rigore ha distrutto la crescita invece di promuovere lo sviluppo e l’integrazione. Con la follia di unire la moneta senza unire veramente l’economia. Si è proceduto a un allargamento prematuro a 27 paesi che ha bloccato il sistema, in assenza di un quadro infrastrutturale comune. Per non parlare della difesa, della politica estera, della politica energetica”. Serve insomma uno scatto d’orgoglio e di fantasia politica, un grande progetto di rilancio europeo. Le infrastrutture, materiali e immateriali, le strade, le ferrovie e i porti e la rete di connessioni digitali, hanno un ruolo essenziale: promuovono sviluppo, rinsaldano i legami, fanno comunità. La proposta di Tronchetti ha avuto eco e raccolto consensi in ambienti vasti, di imprenditori e politici: “Occorre investire sulle reti, colmando il ritardo europeo”, commenta Gian Maria Gros-Pietro, presidente di Intesa San Paolo; “Gli europeisti veri sono convinti che vada rianciato il processo di intagrazione”, sostiene Albero Bombassei, presidente Brembo. E sull’Europa come spazio cardine di competitività insistono Marco Bonometti, Omr, industria automotive, Giuseppe Pasini, acciaio, presidente degli industriali di Brescia, Alessandro Spada, impiantistica, vicepresidente di Assolombarda e un autorevole economista come Giorgio Barba Navaretti: “Europa casa comune con regole e progetti”.

La proposta di Tronchetti sul Piano Marshall per le infrastrutture sposta il segno del discorso pubblico verso un’idea responsabile di riforma e rilancio. Evita le secche della propaganda dei “No” e ripropone in positivo la relazione sviluppo economico-istituzioni-democrazia. Un buon esempio di “riformismo europeo”. Una strada da seguire.

Ha dunque ragione Giuliano Ferrara quando, da buon conoscitore della politica europea, proclama, su “Il Foglio”: “Adesso basta vergognarsi dell’Europa”. E spiega: “Europa 2019 è una cosa seria e il senso della prossima campagna elettorale sarà chiarire ciò che conta, far capire la natura del conflitto e della divisione. L’Europa è pace, l’Antieuropa è guerra. Ora basta scherzare, è ora di lottare”. Nella dimensione appassionata e responsabile delle politica, l’appello di Ferrara coglie un punto essenziale: su grandi scelte che riguardano il futuro di tutti, serve un dibattito aperto, franco, libero, carico non di propaganda ma di conoscenza di valori e interessi, di fatti e conseguenze. Servono, insomma, buona politica e informazione seria.

Proprio in questo contesto vale la pena ricordare un altro monito del presidente della Repubblica Mattarella, nel centenario della fine della Grande Guerra: “Nessuno Stato ce la farà da solo. E proprio il ricordo di quel conflitto così drammatico e doloroso impone di rafforzare la cooperazione tra i popoli. Non torneremo agli anni Venti o agli anni Trenta. Non temo la ricomparsa degli spettri del passato, anche se mi preoccupano pulsioni di egoismi e supremazie d’interessi contro quelli degli altri”. Memoria storica, contro “il nazionalismo che portò la guerra”. Con un richiamo d’attualità: “Nell’imminenza della Grande Guerra furono compiute manipolazioni gravi a danno delle opinioni pubbliche: un rischio da cui, con i pericoli che corrono sul web, occorre guardarsi anche oggi”.

E’ stata ricchezza diffusa, l’Europa, dai valori fondativi del “Manifesto di Ventotene” (sottoscritto nel 1944 in un’isola dell’esilio antifascista da quattro personalità di grande cultura, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Ursula Hirschmann) alle scelte politiche dei “padri dell’Europa” Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer, Jean Monnet, Robert Schuman e Paul-Henri Spaak, dai primi mercati aperti sino all’attualità dell’euro, della Banca Centrale Europea e delle politiche fiscali e sociali comuni. Scambi. Integrazioni di filiere produttive (i legami tra industria tedesca e industria italiana, dall’automotive alla meccanica, dalla robotica alla chimica, sono sempre più stretti). E quella straordinaria esperienza popolare dell’Erasmus, gli scambi scolastici che in trent’anni hanno permesso a quattro milioni di ragazzi di vivere nel cuore di altri paesi della Ue, di sentirsi davvero europei, in una costruzione d’identità ricca e molteplice. E pace e collaborazione internazionale, una delle più lunghe stagioni di pace e benessere di tutta la storia dell’Europa.

Un processo complesso e contraddittorio, naturalmente, come tutte le costruzioni storiche dell’uomo. Tutt’altro che privo di limiti ed errori. Adesso, pensando già alla prospettiva delle elezioni della primavera 2019 per il rinnovo del Parlamento della Ue, emerge chiara la responsabilità di chi siede al vertice di governi e istituzioni di saper costruire un discorso pubblico serio, competente, forte d’un credibile progetto di riforma e non alimentato da demagogie e animosità polemiche. Il quadro è quello d’una Europa percorsa da tensioni e contrasti, con spinte nazionaliste e populiste, tra le rigidità poco liberali del “Gruppo di Visegrad” (Ungheria, Polonia, Repubblica ceca e Slovacchia, il cui benessere, però, dipende molto dai finanziamenti della Ue e dagli investimenti dei principali paesi europei), le fratture della Brexit e la fragilità dell’asse tradizionale tra Francia e Germania, le nuove tendenze della politica del governo Lega-5Stelle a cambiare il tradizionale orientamento filo-atlantico e filo europeo della politica estera italiana e a privilegiare invece gli Usa di Trump e la Russia di Putin, entrambi, pur se per motivi diversi, ostili alla Ue, anzi, peggio, attivamente impegnati per il suo dissolvimento. Ne è protagonista proprio il vice-premier Matteo Salvini, ministro degli Interni e leader della Lega, l’uomo forte del governo: “In Russia mi sento a casa mia, mentre in alcuni paesi Ue no”, ha detto durante una visita a Mosca, a metà ottobre 2018, suscitando un mare di polemiche. E, allargando lo sguardo, ecco il parere preoccupato di Colin Crouch, politologo di grande spessore: “I nazionalisti del Vecchio Continente sono al servizio di un disegno ispirato da Trump e Putin: distruggere la Ue”.

C’è dunque un’Europa insidiata da forze di potere globali che tendono a indebolirla. Ma l’Europa è un insieme di valori troppo importanti per non impegnarsi a evitarne la crisi. E dunque è un’Europa essenziale, da riformare e rafforzare, come garanzia di migliori equilibri sia internazionali che interni: l’Europa del welfare, della condivisione, dell’inclusione sociale, delle libertà e della democrazia liberale. Un “patrimonio dell’umanità”, se si volessero usare le categorie dell’Unesco. Una forza di sviluppo positiva. Più Europa, quindi. E un’Europa più politica. Ne è convinta anche Marta Dassù, sofisticata analista di politica internazionale, direttrice di “Aspenia”, la rivista dell’Aspen Institute Italia: “Rifondare il legame tra le democrazie occidentali, nell’era dell’ascesa delle potenze autoritarie, rientra nei migliori interessi europei e in quelli dell’America”.

“All’Europa serve più integrazione”, dichiara in sistesi Mario Draghi, presidente della Bce, consapevole da tempo dei rischi che si corrono nell’aggravarsi degli scontri tra un’Italia “sovranista” e incurante dei vincoli sui comuni conti pubblici e i “falchi” dei paesi del Nord che mai hanno amato una declinazione “mediterranea” dell’Europa e sono sempre pronti a picchiare sull’Italia per concentrare poteri e risorse nel recinto “continentale” e mitteleuropeo.

L’Europa ha bisogno di critiche e riforme, non di picconatori, per il bene della “casa comune”. E l’Italia, di quest’Europa, è stata fondatrice e poi, nel tempo, partner di primo piano. Un ruolo che va riconfermato e difeso, proprio in una stagione in cui l’Europa e l’integrazione devono fare passi importanti di cambiamento e miglioramento.

L’Europa, per l’impresa italiana, è uno scenario di riferimento essenziale. Un’Europa che, al di là dei miti fondativi, ha bisogno di riflettere profondamente sulla sua crisi e su un funzionamento di strutture e burocrazie che incontrano crescenti critiche in larghi settori dell’opinione pubblica.

Per ragionare di riforme e rilancio vale la pena partire da un intervento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, davanti a una platea di ragazzi universitari di Lund, durante una visita in Svezia, il 15 novembre scorso: l’Europa “attraversa una fase complessa”, in cui “le sollecitazioni e le scosse che l’edificio comune deve assorbire sono intense” ma bisogna andare avanti. L’Europa non è una semplice unione doganale” né tantomeno “un comitato d’affari” ma molto di più: “Stabilità e sicurezza”.

Segnali essenziali vengono anche dal mondo dell’economia: “Se l’Europa avesse uno scatto di dignità e culturale tornerebbe a ragionare sui fondamentali, lancerebbe un grande piano infrastrutturale e creerebbe valore per tutti. Un progetto di ampio respiro non avrebbe difficoltà a essere finanziato da tutte le grandi banche internazionali”, sostiene Marco Tronchetti Provera, Ceo di Pirelli, lanciando, in un’intervista a “Il Sole24Ore” del 16 novembre,  la proposta di un piano di investimenti su scala continentale e richiamando il Piano Marshall del secondo dopoguerra. Un intervento che avrebbe anche un’ambizione politica: “L’Europa non è mai stata unificata davvero e l’unione, come dimostra la storia, la fanno le infrastrutture”.

La proposta parte da una visione critica dell’attuale Ue, non mette naturalmente in dubbio la moneta unica ma suggerisce un cambiamento: “Dall’Europa del rigore all’Europa dello sviluppo”: dopo Jacques Delors, secondo Tronchetti, in Europa s’è creato “un sistema di regole dove il rigore ha distrutto la crescita invece di promuovere lo sviluppo e l’integrazione. Con la follia di unire la moneta senza unire veramente l’economia. Si è proceduto a un allargamento prematuro a 27 paesi che ha bloccato il sistema, in assenza di un quadro infrastrutturale comune. Per non parlare della difesa, della politica estera, della politica energetica”. Serve insomma uno scatto d’orgoglio e di fantasia politica, un grande progetto di rilancio europeo. Le infrastrutture, materiali e immateriali, le strade, le ferrovie e i porti e la rete di connessioni digitali, hanno un ruolo essenziale: promuovono sviluppo, rinsaldano i legami, fanno comunità. La proposta di Tronchetti ha avuto eco e raccolto consensi in ambienti vasti, di imprenditori e politici: “Occorre investire sulle reti, colmando il ritardo europeo”, commenta Gian Maria Gros-Pietro, presidente di Intesa San Paolo; “Gli europeisti veri sono convinti che vada rianciato il processo di intagrazione”, sostiene Albero Bombassei, presidente Brembo. E sull’Europa come spazio cardine di competitività insistono Marco Bonometti, Omr, industria automotive, Giuseppe Pasini, acciaio, presidente degli industriali di Brescia, Alessandro Spada, impiantistica, vicepresidente di Assolombarda e un autorevole economista come Giorgio Barba Navaretti: “Europa casa comune con regole e progetti”.

La proposta di Tronchetti sul Piano Marshall per le infrastrutture sposta il segno del discorso pubblico verso un’idea responsabile di riforma e rilancio. Evita le secche della propaganda dei “No” e ripropone in positivo la relazione sviluppo economico-istituzioni-democrazia. Un buon esempio di “riformismo europeo”. Una strada da seguire.

Ha dunque ragione Giuliano Ferrara quando, da buon conoscitore della politica europea, proclama, su “Il Foglio”: “Adesso basta vergognarsi dell’Europa”. E spiega: “Europa 2019 è una cosa seria e il senso della prossima campagna elettorale sarà chiarire ciò che conta, far capire la natura del conflitto e della divisione. L’Europa è pace, l’Antieuropa è guerra. Ora basta scherzare, è ora di lottare”. Nella dimensione appassionata e responsabile delle politica, l’appello di Ferrara coglie un punto essenziale: su grandi scelte che riguardano il futuro di tutti, serve un dibattito aperto, franco, libero, carico non di propaganda ma di conoscenza di valori e interessi, di fatti e conseguenze. Servono, insomma, buona politica e informazione seria.

Proprio in questo contesto vale la pena ricordare un altro monito del presidente della Repubblica Mattarella, nel centenario della fine della Grande Guerra: “Nessuno Stato ce la farà da solo. E proprio il ricordo di quel conflitto così drammatico e doloroso impone di rafforzare la cooperazione tra i popoli. Non torneremo agli anni Venti o agli anni Trenta. Non temo la ricomparsa degli spettri del passato, anche se mi preoccupano pulsioni di egoismi e supremazie d’interessi contro quelli degli altri”. Memoria storica, contro “il nazionalismo che portò la guerra”. Con un richiamo d’attualità: “Nell’imminenza della Grande Guerra furono compiute manipolazioni gravi a danno delle opinioni pubbliche: un rischio da cui, con i pericoli che corrono sul web, occorre guardarsi anche oggi”.

E’ stata ricchezza diffusa, l’Europa, dai valori fondativi del “Manifesto di Ventotene” (sottoscritto nel 1944 in un’isola dell’esilio antifascista da quattro personalità di grande cultura, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Ursula Hirschmann) alle scelte politiche dei “padri dell’Europa” Alcide De Gasperi, Konrad Adenauer, Jean Monnet, Robert Schuman e Paul-Henri Spaak, dai primi mercati aperti sino all’attualità dell’euro, della Banca Centrale Europea e delle politiche fiscali e sociali comuni. Scambi. Integrazioni di filiere produttive (i legami tra industria tedesca e industria italiana, dall’automotive alla meccanica, dalla robotica alla chimica, sono sempre più stretti). E quella straordinaria esperienza popolare dell’Erasmus, gli scambi scolastici che in trent’anni hanno permesso a quattro milioni di ragazzi di vivere nel cuore di altri paesi della Ue, di sentirsi davvero europei, in una costruzione d’identità ricca e molteplice. E pace e collaborazione internazionale, una delle più lunghe stagioni di pace e benessere di tutta la storia dell’Europa.

Un processo complesso e contraddittorio, naturalmente, come tutte le costruzioni storiche dell’uomo. Tutt’altro che privo di limiti ed errori. Adesso, pensando già alla prospettiva delle elezioni della primavera 2019 per il rinnovo del Parlamento della Ue, emerge chiara la responsabilità di chi siede al vertice di governi e istituzioni di saper costruire un discorso pubblico serio, competente, forte d’un credibile progetto di riforma e non alimentato da demagogie e animosità polemiche. Il quadro è quello d’una Europa percorsa da tensioni e contrasti, con spinte nazionaliste e populiste, tra le rigidità poco liberali del “Gruppo di Visegrad” (Ungheria, Polonia, Repubblica ceca e Slovacchia, il cui benessere, però, dipende molto dai finanziamenti della Ue e dagli investimenti dei principali paesi europei), le fratture della Brexit e la fragilità dell’asse tradizionale tra Francia e Germania, le nuove tendenze della politica del governo Lega-5Stelle a cambiare il tradizionale orientamento filo-atlantico e filo europeo della politica estera italiana e a privilegiare invece gli Usa di Trump e la Russia di Putin, entrambi, pur se per motivi diversi, ostili alla Ue, anzi, peggio, attivamente impegnati per il suo dissolvimento. Ne è protagonista proprio il vice-premier Matteo Salvini, ministro degli Interni e leader della Lega, l’uomo forte del governo: “In Russia mi sento a casa mia, mentre in alcuni paesi Ue no”, ha detto durante una visita a Mosca, a metà ottobre 2018, suscitando un mare di polemiche. E, allargando lo sguardo, ecco il parere preoccupato di Colin Crouch, politologo di grande spessore: “I nazionalisti del Vecchio Continente sono al servizio di un disegno ispirato da Trump e Putin: distruggere la Ue”.

C’è dunque un’Europa insidiata da forze di potere globali che tendono a indebolirla. Ma l’Europa è un insieme di valori troppo importanti per non impegnarsi a evitarne la crisi. E dunque è un’Europa essenziale, da riformare e rafforzare, come garanzia di migliori equilibri sia internazionali che interni: l’Europa del welfare, della condivisione, dell’inclusione sociale, delle libertà e della democrazia liberale. Un “patrimonio dell’umanità”, se si volessero usare le categorie dell’Unesco. Una forza di sviluppo positiva. Più Europa, quindi. E un’Europa più politica. Ne è convinta anche Marta Dassù, sofisticata analista di politica internazionale, direttrice di “Aspenia”, la rivista dell’Aspen Institute Italia: “Rifondare il legame tra le democrazie occidentali, nell’era dell’ascesa delle potenze autoritarie, rientra nei migliori interessi europei e in quelli dell’America”.

“All’Europa serve più integrazione”, dichiara in sistesi Mario Draghi, presidente della Bce, consapevole da tempo dei rischi che si corrono nell’aggravarsi degli scontri tra un’Italia “sovranista” e incurante dei vincoli sui comuni conti pubblici e i “falchi” dei paesi del Nord che mai hanno amato una declinazione “mediterranea” dell’Europa e sono sempre pronti a picchiare sull’Italia per concentrare poteri e risorse nel recinto “continentale” e mitteleuropeo.

L’Europa ha bisogno di critiche e riforme, non di picconatori, per il bene della “casa comune”. E l’Italia, di quest’Europa, è stata fondatrice e poi, nel tempo, partner di primo piano. Un ruolo che va riconfermato e difeso, proprio in una stagione in cui l’Europa e l’integrazione devono fare passi importanti di cambiamento e miglioramento.

La governance d’impresa politica

Da un filosofo canadese un libro che mette insieme i metodi di gestione aziendale con quelli della politica

 

I metodi di gestione d’impresa trasferiti nell’ambito della politica e della società. Confusione di ruoli. Insieme di tecniche di gestione applicate ad ambiti diversi dai consueti. E’ una situazione ormai acquisita ma ancora non compresa così a fondo come dovrebbe essere. Cultura d’impresa in ambiti che possono non essere quelli appropriati. Il tema è importante, anche per la “buona” cultura d’impresa. Per comprenderlo meglio è necessario leggere “Governance. Il management totalitario” scritto da Alain Deneault (filosofo e insegnante di scienze politiche a Montréal) e appena tradotto in Italia.

Il libro ruota attorno al termine dal quale prende il titolo: governance. Ed inizia da una constatazione: nell’ultimo quarto del XX secolo per descrivere e regolamentare il funzionamento delle organizzazioni e delle strutture aziendali i teorici delle imprese ricorrono a un termine che, sin dal lontano XVI secolo, era un semplice sinonimo di governo: governance. All’inizio degli anni Ottanta il termine viene introdotto nella vita pubblica col pretesto di affermare la necessità di una sana gestione delle istituzioni dello Stato e diventa il “grazioso nome” di una gestione neoliberale dello Stato, caratterizzata da deregulation e privatizzazione dei servizi pubblici. Ma non basta. Perché detto in altre parole, secondo l’autore, la governance è un’espressione volutamente indeterminata che esprime la nuova arte della politica “senza governo”, senza quella pratica, cioè, che presuppone una politica dibattuta pubblicamente.

Deneault sviluppa quindi il concetto di governance applicato alla politica attraverso 50 capitoli che ragionano ognuno su un aspetto diverso del tema partendo da un assunto – “Ridurre la politica a una tecnica” -, e arrivando ad un altro – “Fare del nulla una forza” -, ai quali si aggiunge una conclusione che è una domanda: “…ma lei cosa propone?”. In mezzo è un viaggio acuto con tappe graffianti e spesso irriverenti, che toccano numerosi aspetti non solo del vivere civile, ma anche dalla politica, delle tecniche di governo, dell’atteggiamento di tutti noi di fronte alla cosa pubblica e ai nostri interessi. E ovviamente dei rapporti fra imprese e politica. Emerge così un discorso che indica come la morte della politica abbia dato vita ad “un’arte della gestione” che tuttavia stride nell’ambito delle comunità.

Deneault ragiona come un filosofo della politica e come un acuto osservatore della realtà. Irriverente, si è detto, e graffiante, si è anche detto, l’argomentare di Deneault è in ogni caso qualcosa che lascia il segno. Leggendolo si può anche non essere d’accordo, ma la sua lettura fa bene a tutti, anche agli imprenditori e ai manager, alla cultura d’impresa e del vivere civile.

Governance. Il management totalitario

Alain Deneault
Neri Pozza, 2018

Da un filosofo canadese un libro che mette insieme i metodi di gestione aziendale con quelli della politica

 

I metodi di gestione d’impresa trasferiti nell’ambito della politica e della società. Confusione di ruoli. Insieme di tecniche di gestione applicate ad ambiti diversi dai consueti. E’ una situazione ormai acquisita ma ancora non compresa così a fondo come dovrebbe essere. Cultura d’impresa in ambiti che possono non essere quelli appropriati. Il tema è importante, anche per la “buona” cultura d’impresa. Per comprenderlo meglio è necessario leggere “Governance. Il management totalitario” scritto da Alain Deneault (filosofo e insegnante di scienze politiche a Montréal) e appena tradotto in Italia.

Il libro ruota attorno al termine dal quale prende il titolo: governance. Ed inizia da una constatazione: nell’ultimo quarto del XX secolo per descrivere e regolamentare il funzionamento delle organizzazioni e delle strutture aziendali i teorici delle imprese ricorrono a un termine che, sin dal lontano XVI secolo, era un semplice sinonimo di governo: governance. All’inizio degli anni Ottanta il termine viene introdotto nella vita pubblica col pretesto di affermare la necessità di una sana gestione delle istituzioni dello Stato e diventa il “grazioso nome” di una gestione neoliberale dello Stato, caratterizzata da deregulation e privatizzazione dei servizi pubblici. Ma non basta. Perché detto in altre parole, secondo l’autore, la governance è un’espressione volutamente indeterminata che esprime la nuova arte della politica “senza governo”, senza quella pratica, cioè, che presuppone una politica dibattuta pubblicamente.

Deneault sviluppa quindi il concetto di governance applicato alla politica attraverso 50 capitoli che ragionano ognuno su un aspetto diverso del tema partendo da un assunto – “Ridurre la politica a una tecnica” -, e arrivando ad un altro – “Fare del nulla una forza” -, ai quali si aggiunge una conclusione che è una domanda: “…ma lei cosa propone?”. In mezzo è un viaggio acuto con tappe graffianti e spesso irriverenti, che toccano numerosi aspetti non solo del vivere civile, ma anche dalla politica, delle tecniche di governo, dell’atteggiamento di tutti noi di fronte alla cosa pubblica e ai nostri interessi. E ovviamente dei rapporti fra imprese e politica. Emerge così un discorso che indica come la morte della politica abbia dato vita ad “un’arte della gestione” che tuttavia stride nell’ambito delle comunità.

Deneault ragiona come un filosofo della politica e come un acuto osservatore della realtà. Irriverente, si è detto, e graffiante, si è anche detto, l’argomentare di Deneault è in ogni caso qualcosa che lascia il segno. Leggendolo si può anche non essere d’accordo, ma la sua lettura fa bene a tutti, anche agli imprenditori e ai manager, alla cultura d’impresa e del vivere civile.

Governance. Il management totalitario

Alain Deneault
Neri Pozza, 2018

Nostalgia innovativa

Una tesi dell’Università LUISS affronta il tema dei significati delle produzioni retro che diventano leve per le imprese

Guardare con occhi giusti al passato, per costruire meglio il presente e gettare le basi per un futuro migliore. Vale anche per le imprese. E non si tratta sempre di grandi strategie, ma spesso di accortezza nel riproporre soluzioni (e oggetti) che arrivano da lontano.

Il ragionamento attorno al “passato” che ancora è intorno a noi, è uno degli aspetti più interessanti delle strategie commerciali di molte imprese. Quello della proposta di oggetti vintage è l’esplicitazione di un passato attualissimo, si potrebbe dire, tanto attuale da costituire non una semplice strategia di marketing ma qualcosa di più complesso, che coinvolge l’intera cultura del produrre di molte aziende. Vintage come leva di crescita, quindi, e non solo come strategia per vendere di più.

Attorno al binomio passato-presente, ha ragionato Jacopo Maria Conti con la sua tesi “Tra nostalgia e innovazione: come i significati legati al retro possono aiutare le imprese a sviluppare offerte innovative” presentata alla LUISS. Il punto da cui parte Conti è semplice: “In un mondo in cui Internet ha reso impossibile dimenticare qualunque cosa – scrive Conti -, il Passato resta tale solo nella misura in cui non ci è concesso di cambiarlo. Per il resto, tutte le suggestioni, i ricordi, i manufatti, gli ideali di un’epoca andata possono continuare a rivivere, ad essere riscoperti. E nel momento in cui le persone si sentono spaesate, trascinate dalla corrente di cambiamenti troppo rapidi anche solo da razionalizzare, il Passato affiora come un’ancora di salvezza, l’unico punto fermo in un mare di prospettive instabili”.

Conti quindi ragiona sul fatto che la visione comune che il marketing ha del vintage , può essere spesso fuorviante. Non si tratta solo di riportare le persone indietro nel tempo, ma di qualcosa di diverso e di più complesso. Qualcosa che può davvero contribuire alla creazione di una nuova cultura del produrre e del consumare.

Il lavoro di Conti quindi passa ad esaminare uno dei fenomeni più diffusi legati al vintage  – il retrogaming -, per poi arrivare ad una analisi più ravvicinata del vintage e del retro visti come elementi culturali; un’analisi alla quale segue quella dei collegamenti fra imprese e comunità di consumatori affezionati a questi tipi di prodotti.

Uno dei punti più qualificanti dell’intera ricerca, sta nello sforzo di comprendere il processo che porta dalla tradizione (la “nostalgia” del consumatore) all’innovazione d’impresa.

Il lavoro di Conti è certamente originale e non può trovare tutti perfettamente d’accordo. Ma ha il pregio non solo di parlar chiaro, ma anche di esplorare mercati nuovi, forme d’impresa poco note, culture del produrre e del consumare ancora troppo sconosciute.

Tra nostalgia e innovazione: come i significati legati al retro possono aiutare le imprese a sviluppare offerte innovative

Jacopo Maria Conti

Tesi. LUISS, Dipartimento di Impresa e Management, Cattedra di Comunicazione di Marketing & Linguaggi dei Nuovi Media, 2018

Una tesi dell’Università LUISS affronta il tema dei significati delle produzioni retro che diventano leve per le imprese

Guardare con occhi giusti al passato, per costruire meglio il presente e gettare le basi per un futuro migliore. Vale anche per le imprese. E non si tratta sempre di grandi strategie, ma spesso di accortezza nel riproporre soluzioni (e oggetti) che arrivano da lontano.

Il ragionamento attorno al “passato” che ancora è intorno a noi, è uno degli aspetti più interessanti delle strategie commerciali di molte imprese. Quello della proposta di oggetti vintage è l’esplicitazione di un passato attualissimo, si potrebbe dire, tanto attuale da costituire non una semplice strategia di marketing ma qualcosa di più complesso, che coinvolge l’intera cultura del produrre di molte aziende. Vintage come leva di crescita, quindi, e non solo come strategia per vendere di più.

Attorno al binomio passato-presente, ha ragionato Jacopo Maria Conti con la sua tesi “Tra nostalgia e innovazione: come i significati legati al retro possono aiutare le imprese a sviluppare offerte innovative” presentata alla LUISS. Il punto da cui parte Conti è semplice: “In un mondo in cui Internet ha reso impossibile dimenticare qualunque cosa – scrive Conti -, il Passato resta tale solo nella misura in cui non ci è concesso di cambiarlo. Per il resto, tutte le suggestioni, i ricordi, i manufatti, gli ideali di un’epoca andata possono continuare a rivivere, ad essere riscoperti. E nel momento in cui le persone si sentono spaesate, trascinate dalla corrente di cambiamenti troppo rapidi anche solo da razionalizzare, il Passato affiora come un’ancora di salvezza, l’unico punto fermo in un mare di prospettive instabili”.

Conti quindi ragiona sul fatto che la visione comune che il marketing ha del vintage , può essere spesso fuorviante. Non si tratta solo di riportare le persone indietro nel tempo, ma di qualcosa di diverso e di più complesso. Qualcosa che può davvero contribuire alla creazione di una nuova cultura del produrre e del consumare.

Il lavoro di Conti quindi passa ad esaminare uno dei fenomeni più diffusi legati al vintage  – il retrogaming -, per poi arrivare ad una analisi più ravvicinata del vintage e del retro visti come elementi culturali; un’analisi alla quale segue quella dei collegamenti fra imprese e comunità di consumatori affezionati a questi tipi di prodotti.

Uno dei punti più qualificanti dell’intera ricerca, sta nello sforzo di comprendere il processo che porta dalla tradizione (la “nostalgia” del consumatore) all’innovazione d’impresa.

Il lavoro di Conti è certamente originale e non può trovare tutti perfettamente d’accordo. Ma ha il pregio non solo di parlar chiaro, ma anche di esplorare mercati nuovi, forme d’impresa poco note, culture del produrre e del consumare ancora troppo sconosciute.

Tra nostalgia e innovazione: come i significati legati al retro possono aiutare le imprese a sviluppare offerte innovative

Jacopo Maria Conti

Tesi. LUISS, Dipartimento di Impresa e Management, Cattedra di Comunicazione di Marketing & Linguaggi dei Nuovi Media, 2018

Una serata all’insegna del passato e del presente di Milano tra teatro, musica, fotografia e buona letteratura

Giovedì 15 novembre oltre 400 persone hanno affollato l’Auditorium dell’Headquarters di Pirelli nel quartiere di Milano Bicocca per partecipare alla serata “Racconti di Milano città industriale. Parole e immagini della Fondazione Pirelli”, organizzata da Fondazione Pirelli in collaborazione con il Teatro Franco Parenti e l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Ad accogliere il pubblico in sala e a introdurre il tema della serata immagini video della Milano che fu e della Milano contemporanea e, come sottofondo, le canzoni che hanno fatto la storia della città, dal famoso S.T.R.A.M.I.L.A.N.O, composta nel 1928 e resa celebre dall’interpretazione di Milly, all’intramontabile brano di Roberto Vecchioni “Luci a San Siro” passando per la canzone dialettale milanese di Nanni Svampa e Enzo Iannacci e al più recente brano di Vinicio Capossela “Pioggia di Novembre”.

In scena, gli attori Marina Rocco e Rosario Lisma si sono cimentati nell’interpretazione di brani di diverse epoche e atmosfere in grado di dar conto delle molteplici sfaccettature della Milano industriale: una città fatta di strade e vicoli, di amori, di abitudini, di fabbriche osservate dall’esterno e dall’interno, di grattacieli e di vita operaia. Una città tutta da scoprire che, come amava dire Guido Vergani, “non è bella, è un tipo”. Dino Buzzati, Giorgio Scerbanenco, Alberto Savinio, e ancora Ottiero Ottieri, Giorgio Fontana e Alberto Rollo sono solo alcuni dei 13 autori i cui brani – tratti da romanzi e dalla storica rivista “Pirelli” – hanno offerto lo spunto alle riflessioni di Giuseppe Lupo, Piero Colaprico e Pietro Redondi, guidati dalle domande del Direttore della Fondazione Pirelli Antonio Calabrò. Ad accompagnare la serata, sullo schermo dell’Auditorium le immagini conservate presso l’Archivio Storico Pirelli: un percorso visivo a mostrare l’evoluzione urbanistica e sociale della città meneghina,  dal reportage fotografico di Arno Hammacher del cantiere della Metropolitana M1, agli scatti che ritraggono la costruzione del grattacielo Pirelli, dagli interni di fabbrica degli anni Venti del primo stabilimento dell’azienda ai più recenti scatti dell’industria 4.0 di Carlo Furgeri Gilbert.

La serata ha avuto il suo culmine nella lettura da parte dei due attori di alcuni stralci della sceneggiatura “Questa è la nostra città”, commissionata da Pirelli ad Alberto Moravia nel 1947. Uno spaccato di vita operaia che attraverso la presentazione delle diverse generazioni della famiglia Riva descrive la vita quotidiana della Milano delle fabbriche.

Il dialogo tra attori e relatori sul palco ha restituito un’immagine di una città profondamente cambiata dal punto di vista architettonico, sociale ed economico ma che conserva ancora una forte identità industriale o meglio “industriosa”, per citare lo stesso Piero Colaprico.

Giovedì 15 novembre oltre 400 persone hanno affollato l’Auditorium dell’Headquarters di Pirelli nel quartiere di Milano Bicocca per partecipare alla serata “Racconti di Milano città industriale. Parole e immagini della Fondazione Pirelli”, organizzata da Fondazione Pirelli in collaborazione con il Teatro Franco Parenti e l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Ad accogliere il pubblico in sala e a introdurre il tema della serata immagini video della Milano che fu e della Milano contemporanea e, come sottofondo, le canzoni che hanno fatto la storia della città, dal famoso S.T.R.A.M.I.L.A.N.O, composta nel 1928 e resa celebre dall’interpretazione di Milly, all’intramontabile brano di Roberto Vecchioni “Luci a San Siro” passando per la canzone dialettale milanese di Nanni Svampa e Enzo Iannacci e al più recente brano di Vinicio Capossela “Pioggia di Novembre”.

In scena, gli attori Marina Rocco e Rosario Lisma si sono cimentati nell’interpretazione di brani di diverse epoche e atmosfere in grado di dar conto delle molteplici sfaccettature della Milano industriale: una città fatta di strade e vicoli, di amori, di abitudini, di fabbriche osservate dall’esterno e dall’interno, di grattacieli e di vita operaia. Una città tutta da scoprire che, come amava dire Guido Vergani, “non è bella, è un tipo”. Dino Buzzati, Giorgio Scerbanenco, Alberto Savinio, e ancora Ottiero Ottieri, Giorgio Fontana e Alberto Rollo sono solo alcuni dei 13 autori i cui brani – tratti da romanzi e dalla storica rivista “Pirelli” – hanno offerto lo spunto alle riflessioni di Giuseppe Lupo, Piero Colaprico e Pietro Redondi, guidati dalle domande del Direttore della Fondazione Pirelli Antonio Calabrò. Ad accompagnare la serata, sullo schermo dell’Auditorium le immagini conservate presso l’Archivio Storico Pirelli: un percorso visivo a mostrare l’evoluzione urbanistica e sociale della città meneghina,  dal reportage fotografico di Arno Hammacher del cantiere della Metropolitana M1, agli scatti che ritraggono la costruzione del grattacielo Pirelli, dagli interni di fabbrica degli anni Venti del primo stabilimento dell’azienda ai più recenti scatti dell’industria 4.0 di Carlo Furgeri Gilbert.

La serata ha avuto il suo culmine nella lettura da parte dei due attori di alcuni stralci della sceneggiatura “Questa è la nostra città”, commissionata da Pirelli ad Alberto Moravia nel 1947. Uno spaccato di vita operaia che attraverso la presentazione delle diverse generazioni della famiglia Riva descrive la vita quotidiana della Milano delle fabbriche.

Il dialogo tra attori e relatori sul palco ha restituito un’immagine di una città profondamente cambiata dal punto di vista architettonico, sociale ed economico ma che conserva ancora una forte identità industriale o meglio “industriosa”, per citare lo stesso Piero Colaprico.

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Moravia e la fabbrica. Il film mai visto

Milano e la fabbrica – Moravia neorealista nel melodramma voluto da Pirelli

La città delle fabbriche

Viaggio nel futuro. Fondazione Pirelli Educational ai Coolest Projects Milano 2018

Sabato 17 novembre Fondazione Pirelli parteciperà ai Coolest Projects Milano 2018: progetto internazionale promosso da CoderDojo Foundation, che dà la possibilità ai più giovani di presentare le proprie invenzioni nell’ambito della creatività digitale.

Fondazione Pirelli e il Dipartimento di Ricerca e Sviluppo dell’azienda presenteranno – nell’area inspiring e con uno speech dedicato – i progetti Fondazione Pirelli Educational e Pirelli Cyber.

Pirelli, da oltre 145 anni all’avanguardia nell’ambito della ricerca tecnico scientifica, ha infatti da poco lanciato il progetto Cyber Technologies.

I Cyber Tyres sin dal 2005 hanno via via mostrato il loro enorme potenziale arrivando recentemente alla presentazione di soluzioni intelligenti finalizzate alla massima integrazione pneumatico-auto-automobilista, un dialogo diretto tra il guidatore e la sua vettura grazie a un sensore posto all’interno del pneumatico capace di fornire informazioni importanti sullo stato della gomma. Il pneumatico diventa in questo modo un prodotto digitale, in grado di interagire in modo efficace con le esigenze della future mobility;  inoltre ha la possibilità di rilevare in tempo reale le condizioni di pericolo durante il viaggio e di prevenire così la possibilità di incidenti.

La sicurezza stradale e l’innovazione tecnologica sono tematiche importanti che vengono affrontate anche da Fondazione Pirelli attraverso le attività Educational, offerte ogni anno a studenti di diversa età: percorsi didattici svolti in Fondazione ma anche all’interno del Dipartimento di Ricerca e Sviluppo, nei laboratori di chimica e fisica, nello stabilimento Next Mirs e nel Polo Industriale di Settimo Torinese con lo scopo di avvicinare i più giovani al mondo del lavoro e alle sue trasformazioni digitali.

Tra i vari percorsi proposti, “La chimica del pneumatico”, “Viaggio alla scoperta del pneumatico” e “Occhi meccanici, robot digitali e musica per la fabbrica del futuro” permettono ai ragazzi di conoscere le diverse fasi di realizzazione di un pneumatico, dagli ingredienti con i quali è costituita una mescola alla realizzazione del disegno per un battistrada, dai test a cui sono sottoposti i pneumatici alla produzione automatizzata.

Un vero e proprio viaggio attraverso i documenti dell’Archivio Storico aziendale, dalla prima fabbrica alle nuove scoperte tecnologiche come il Cyber Tyre. Un secolo e mezzo di ricerca e innovazione verso l’era digitale.

Sabato 17 novembre Fondazione Pirelli parteciperà ai Coolest Projects Milano 2018: progetto internazionale promosso da CoderDojo Foundation, che dà la possibilità ai più giovani di presentare le proprie invenzioni nell’ambito della creatività digitale.

Fondazione Pirelli e il Dipartimento di Ricerca e Sviluppo dell’azienda presenteranno – nell’area inspiring e con uno speech dedicato – i progetti Fondazione Pirelli Educational e Pirelli Cyber.

Pirelli, da oltre 145 anni all’avanguardia nell’ambito della ricerca tecnico scientifica, ha infatti da poco lanciato il progetto Cyber Technologies.

I Cyber Tyres sin dal 2005 hanno via via mostrato il loro enorme potenziale arrivando recentemente alla presentazione di soluzioni intelligenti finalizzate alla massima integrazione pneumatico-auto-automobilista, un dialogo diretto tra il guidatore e la sua vettura grazie a un sensore posto all’interno del pneumatico capace di fornire informazioni importanti sullo stato della gomma. Il pneumatico diventa in questo modo un prodotto digitale, in grado di interagire in modo efficace con le esigenze della future mobility;  inoltre ha la possibilità di rilevare in tempo reale le condizioni di pericolo durante il viaggio e di prevenire così la possibilità di incidenti.

La sicurezza stradale e l’innovazione tecnologica sono tematiche importanti che vengono affrontate anche da Fondazione Pirelli attraverso le attività Educational, offerte ogni anno a studenti di diversa età: percorsi didattici svolti in Fondazione ma anche all’interno del Dipartimento di Ricerca e Sviluppo, nei laboratori di chimica e fisica, nello stabilimento Next Mirs e nel Polo Industriale di Settimo Torinese con lo scopo di avvicinare i più giovani al mondo del lavoro e alle sue trasformazioni digitali.

Tra i vari percorsi proposti, “La chimica del pneumatico”, “Viaggio alla scoperta del pneumatico” e “Occhi meccanici, robot digitali e musica per la fabbrica del futuro” permettono ai ragazzi di conoscere le diverse fasi di realizzazione di un pneumatico, dagli ingredienti con i quali è costituita una mescola alla realizzazione del disegno per un battistrada, dai test a cui sono sottoposti i pneumatici alla produzione automatizzata.

Un vero e proprio viaggio attraverso i documenti dell’Archivio Storico aziendale, dalla prima fabbrica alle nuove scoperte tecnologiche come il Cyber Tyre. Un secolo e mezzo di ricerca e innovazione verso l’era digitale.

Milano industriale: non solo una questione di fabbriche

CIAO, COME POSSO AIUTARTI?