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Pirelli: un “mondo” di house organ

L’internazionalità di un gruppo industriale si misura anche attraverso le sue parole. Quelle che giorno per giorno rivolge ai propri dipendenti: informazioni di servizio, notizie sull’andamento delle attività, reportage da altre realtà territoriali. Linguaggi e messaggi diversi, nel rispetto delle diversità e delle differenze per i lavoratori dei diversi Paesi. È la logica che ha ispirato la produzione degli house-organ Pirelli per oltre sessant’anni: la volontà di dotare ogni consociata estera del proprio specifico notiziario nasce infatti tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, nel momento di massima espansione internazionale del Gruppo Pirelli dopo la prima “ondata” che – tra gli anni Dieci e gli anni Trenta – aveva visto nascere le consociate di Spagna, Inghilterra, Argentina, Brasile. Il capostipite degli house organ Pirelli è quello italiano: Fatti e Notizie vede la luce nel 1950: pochi fogli che danno informazioni sulla disponibilità per i dipendenti di cure mediche, di colonie marine per i figli, di sconti sull’acquisto di generi di prima necessità, auguri per le nuove famiglie “pirelliane”. E in mezzo, il “pezzo forte” dedicato di volta in volta a far conoscere a tutti i colleghi italiani varie realtà locali anche poco note ai più: il piccolo stabilimento che tratta prodotti chimici, la torre di raffreddamento cresciuta tra i vulcanizzatori di Bicocca, gli impermeabili prodotti dall’unità Azienda Arona. È un’Italia felice di uscire dalla Guerra quella ritratta dai primi Fatti e Notizie, un paese tutto da ricostruire. L’house organ italiano esiste tutt’ora: ha accompagnato negli anni generazioni e generazioni di dipendenti, seguendo passo passo l’evoluzione del welfare aziendale nell’arco di quasi sette decenni.

Attorno alla metà degli anni Cinquanta nascono l’argentino Pàginas e il brasiliano Noticias: la “criança”, la gioventù, è la protagonista assoluta delle pagine di questi house organ: giovani per cui è giusto costruire scuole, giovani che scoprono “dove lavora papà”, giovani che nello sport – il football, ovvio! – fanno grande la reputazione di Pirelli nel Nuovo Mondo. E anche nel caso di Noticias, bello l’impegno con cui si racconta ai colleghi di San Paolo di come sarà il futuro stabilimento di Campinas, o di come è la vita nelle piantagioni di gomma di Oriboca, o ancora di quanto la Pirelli Brasile si adoperi per “restaurare” il quartiere Pelourinho di Salvador de Bahia.

Nel 1960 sono inaugurate le consociate in Grecia e in Turchia, con i rispettivi house organ: Ta Nea, come l’omonimo quotidiano nazionale greco, è il giornale che di mese in mese fa conoscere ai “nuovi pirelliani” di Patrasso la realtà dei colleghi italiani, tedeschi, brasiliani. È un caso a sé stante quello del turco Pirelli, non un vero e proprio house organ quanto piuttosto un magazine ispirato all’italiana Pirelli, rivista che in quell’inizio anni Sessanta fa scuola tra le pubblicazioni aziendali aperte anche al grande pubblico delle edicole. Il giornale edito dalla Turk Pirelli è un vero e proprio rotocalco che tratta temi sociali, reportage turistici, racconti patinati sulle cantanti e le dive del cinema. Soprattutto italiane. Almeno un articolo è poi dedicato ogni mese alla figura del Padre della Patria Mustafa Kemal Atatürk.

Il tedesco Aktuell è specializzato nel trattare tecnologie e invenzioni innovative: anche le copertine riprendono rigorosi segni grafici che ricordano il disegno battistrada dei pneumatici. Più aperto ai temi della socialità – il pub aziendale, la nuova sede, le feste di Natale tra colleghi – è l’inglese World, che si avvale anche della collaborazione del “mago” del design editoriale Derek Forsyth.

E poi, arriva la globalizzazione dei primi Novanta. E con uno sguardo che abbraccia tutti i diversi mercati Pirelli nel mondo, anche la comunicazione interna assume una voce unica e da tutti condivisa. Con il periodico Pirelli World, nato nel 1993, il concetto di house organ assume una valenza globale e “transnazionale” che riconduce a una realtà produttiva coerente e unitaria: una Pirelli unica per un mondo complesso.

L’internazionalità di un gruppo industriale si misura anche attraverso le sue parole. Quelle che giorno per giorno rivolge ai propri dipendenti: informazioni di servizio, notizie sull’andamento delle attività, reportage da altre realtà territoriali. Linguaggi e messaggi diversi, nel rispetto delle diversità e delle differenze per i lavoratori dei diversi Paesi. È la logica che ha ispirato la produzione degli house-organ Pirelli per oltre sessant’anni: la volontà di dotare ogni consociata estera del proprio specifico notiziario nasce infatti tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, nel momento di massima espansione internazionale del Gruppo Pirelli dopo la prima “ondata” che – tra gli anni Dieci e gli anni Trenta – aveva visto nascere le consociate di Spagna, Inghilterra, Argentina, Brasile. Il capostipite degli house organ Pirelli è quello italiano: Fatti e Notizie vede la luce nel 1950: pochi fogli che danno informazioni sulla disponibilità per i dipendenti di cure mediche, di colonie marine per i figli, di sconti sull’acquisto di generi di prima necessità, auguri per le nuove famiglie “pirelliane”. E in mezzo, il “pezzo forte” dedicato di volta in volta a far conoscere a tutti i colleghi italiani varie realtà locali anche poco note ai più: il piccolo stabilimento che tratta prodotti chimici, la torre di raffreddamento cresciuta tra i vulcanizzatori di Bicocca, gli impermeabili prodotti dall’unità Azienda Arona. È un’Italia felice di uscire dalla Guerra quella ritratta dai primi Fatti e Notizie, un paese tutto da ricostruire. L’house organ italiano esiste tutt’ora: ha accompagnato negli anni generazioni e generazioni di dipendenti, seguendo passo passo l’evoluzione del welfare aziendale nell’arco di quasi sette decenni.

Attorno alla metà degli anni Cinquanta nascono l’argentino Pàginas e il brasiliano Noticias: la “criança”, la gioventù, è la protagonista assoluta delle pagine di questi house organ: giovani per cui è giusto costruire scuole, giovani che scoprono “dove lavora papà”, giovani che nello sport – il football, ovvio! – fanno grande la reputazione di Pirelli nel Nuovo Mondo. E anche nel caso di Noticias, bello l’impegno con cui si racconta ai colleghi di San Paolo di come sarà il futuro stabilimento di Campinas, o di come è la vita nelle piantagioni di gomma di Oriboca, o ancora di quanto la Pirelli Brasile si adoperi per “restaurare” il quartiere Pelourinho di Salvador de Bahia.

Nel 1960 sono inaugurate le consociate in Grecia e in Turchia, con i rispettivi house organ: Ta Nea, come l’omonimo quotidiano nazionale greco, è il giornale che di mese in mese fa conoscere ai “nuovi pirelliani” di Patrasso la realtà dei colleghi italiani, tedeschi, brasiliani. È un caso a sé stante quello del turco Pirelli, non un vero e proprio house organ quanto piuttosto un magazine ispirato all’italiana Pirelli, rivista che in quell’inizio anni Sessanta fa scuola tra le pubblicazioni aziendali aperte anche al grande pubblico delle edicole. Il giornale edito dalla Turk Pirelli è un vero e proprio rotocalco che tratta temi sociali, reportage turistici, racconti patinati sulle cantanti e le dive del cinema. Soprattutto italiane. Almeno un articolo è poi dedicato ogni mese alla figura del Padre della Patria Mustafa Kemal Atatürk.

Il tedesco Aktuell è specializzato nel trattare tecnologie e invenzioni innovative: anche le copertine riprendono rigorosi segni grafici che ricordano il disegno battistrada dei pneumatici. Più aperto ai temi della socialità – il pub aziendale, la nuova sede, le feste di Natale tra colleghi – è l’inglese World, che si avvale anche della collaborazione del “mago” del design editoriale Derek Forsyth.

E poi, arriva la globalizzazione dei primi Novanta. E con uno sguardo che abbraccia tutti i diversi mercati Pirelli nel mondo, anche la comunicazione interna assume una voce unica e da tutti condivisa. Con il periodico Pirelli World, nato nel 1993, il concetto di house organ assume una valenza globale e “transnazionale” che riconduce a una realtà produttiva coerente e unitaria: una Pirelli unica per un mondo complesso.

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Donne e uomini d’impresa

Un libro in corso di pubblicazione racconta ruolo e forza delle persone all’interno delle organizzazioni della produzione

Non risorse ma donne e uomini in carne e ossa. Menti pensanti. Fulcri dell’impresa. Ma anche esseri che devono ricevere rispetto e dignità. Non semplici risorse, appunto. È il nuovo profilo interpretativo e di gestione che in questi ultimi tempi si sta profilando nelle imprese. Si sta cioè comprendendo in modo sempre più evidente come sia determinante avere all’interno della propria organizzazione persone qualificate, competenti e motivate, persone appunto, non risorse umane. Passaggio culturale prima ancora che gestionale, quello di passare dal concetto di “risorsa” a quello di “persona” è tutt’altro che scontato.

Il libro di Andrea di Lenna che sta per essere pubblicato – “Risorsa a chi? Valorizzare le persone per migliorare le performance aziendali” – può aiutare a comprendere il significato di quello che sta accadendo. Che a dire la verità era stato già preconizzato decenni fa: “Le organizzazioni sono delle comunità di esseri umani, non dei contenitori di risorse umane”, affermò infatti Henry Mintzberg, incominciando a delineare la necessità di un new deal nella gestione di chi quotidianamente opera all’interno delle aziende, qualsiasi esse siano in termini di tipologia, dimensione e business.
Donne e uomini, dunque. Con tutte le loro peculiarità di individui e gruppi. Di Lenna, partendo dall’analisi delle culture di riferimento delle aziende e dall’esplorazione delle caratteristiche di vision, mission e valori delle organizzazioni stesse, arriva a dare risposta ad alcune fondamentali domande. Per esempio, come devono essere selezionate le persone nelle aziende che vogliono mantenere la propria competitività? E che tipo di formazione bisogna considerare per sviluppare le persone in modo adeguato? E poi come gestire la motivazione delle persone all’interno dei contesti organizzativi? E quali sono le caratteristiche degli ambienti di lavoro più efficaci, sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista organizzativo?

Quanto raccontato da Di Lenna non è solo un approccio teorico, ma contiene anche numerosi casi pratici e situazioni concrete della quotidiana vita aziendale.
Emerge da tutto questo un elemento che nelle imprese è stato sempre presente ma che spesso, e per lungo tempo, è stato colpevolmente dimenticato: la forte presenza della persone all’interno delle organizzazioni della produzione. Non risorse, appunto, ma la ricchezza vera di ogni contesto produttivo.

Risorsa a chi? Valorizzare le persone per migliorare le performance aziendali
Andrea di Lenna
Egea, 2018

Un libro in corso di pubblicazione racconta ruolo e forza delle persone all’interno delle organizzazioni della produzione

Non risorse ma donne e uomini in carne e ossa. Menti pensanti. Fulcri dell’impresa. Ma anche esseri che devono ricevere rispetto e dignità. Non semplici risorse, appunto. È il nuovo profilo interpretativo e di gestione che in questi ultimi tempi si sta profilando nelle imprese. Si sta cioè comprendendo in modo sempre più evidente come sia determinante avere all’interno della propria organizzazione persone qualificate, competenti e motivate, persone appunto, non risorse umane. Passaggio culturale prima ancora che gestionale, quello di passare dal concetto di “risorsa” a quello di “persona” è tutt’altro che scontato.

Il libro di Andrea di Lenna che sta per essere pubblicato – “Risorsa a chi? Valorizzare le persone per migliorare le performance aziendali” – può aiutare a comprendere il significato di quello che sta accadendo. Che a dire la verità era stato già preconizzato decenni fa: “Le organizzazioni sono delle comunità di esseri umani, non dei contenitori di risorse umane”, affermò infatti Henry Mintzberg, incominciando a delineare la necessità di un new deal nella gestione di chi quotidianamente opera all’interno delle aziende, qualsiasi esse siano in termini di tipologia, dimensione e business.
Donne e uomini, dunque. Con tutte le loro peculiarità di individui e gruppi. Di Lenna, partendo dall’analisi delle culture di riferimento delle aziende e dall’esplorazione delle caratteristiche di vision, mission e valori delle organizzazioni stesse, arriva a dare risposta ad alcune fondamentali domande. Per esempio, come devono essere selezionate le persone nelle aziende che vogliono mantenere la propria competitività? E che tipo di formazione bisogna considerare per sviluppare le persone in modo adeguato? E poi come gestire la motivazione delle persone all’interno dei contesti organizzativi? E quali sono le caratteristiche degli ambienti di lavoro più efficaci, sia dal punto di vista fisico che dal punto di vista organizzativo?

Quanto raccontato da Di Lenna non è solo un approccio teorico, ma contiene anche numerosi casi pratici e situazioni concrete della quotidiana vita aziendale.
Emerge da tutto questo un elemento che nelle imprese è stato sempre presente ma che spesso, e per lungo tempo, è stato colpevolmente dimenticato: la forte presenza della persone all’interno delle organizzazioni della produzione. Non risorse, appunto, ma la ricchezza vera di ogni contesto produttivo.

Risorsa a chi? Valorizzare le persone per migliorare le performance aziendali
Andrea di Lenna
Egea, 2018

Cultura dell’impresa 4.0

Una indagine di Ca’ Foscari esplora i legami fra il nuovo paradigma produttivo e la situazione del settore dell’auto

 

Nuovi strumenti di produzione e nuova cultura d’impresa. Questione di comprensione e di cambiamento. Attenzione al nuovo da parte di imprenditori e manager. Che si tramutano in organizzazioni della produzione diverse dal passato, più efficienti, certamente da osservare e sperimentare in continuazione. Accade così anche di fronte a Industria 4.0: nuovo presente e nuovo orizzonte anche per l’industria italiana. Seppure con qualche difficoltà.

Ad indagare i risvolti di Industria 4.0 applicata al comparto dell’auto è stata una ricerca di Anna Cabigiosu (del CAMI – Dipartimento di Management, Università Ca’ Foscari di Venezia). Il suo “Industria 4.0: diffusione, applicazioni  e rischi nel settore auto” è una puntuale analisi del nuovo paradigma produttivo, della situazione dell’applicazione al settore dell’auto in Italia e delle prospettive future. In particolare vengono presi in considerazione: le tecnologie e le potenzialità del paradigma 4.0, il Piano Calenda, la rilevanza e diffusione dell’innovazione 4.0 nel settore dell’auto, la tipologia delle imprese che scelgono l’innovazione 4.0 nel settore dell’auto, le aree funzionali coinvolte dall’innovazione 4.0 nel settore dell’auto, le difficoltà che vi sono.

Cabigiosu conduce così una sorta di viaggio in un settore importante e delicato per l’industria nazionale, ma anche dentro Industria 4.0. Quest’ultima vinene subito spiegata con chiarezza e lucidità, così come viene delineato il settore al quale deve applicarsi.

Al termine dell’indagine viene puntato il dito non sulle difficoltà tecniche di applicazione del nuovo metodo di produzione ma sul fatto che “in generale il mondo 4.0 sembra ancora opaco e non sufficientemente noto”. Occorrono più informazione e più comprensione per affrontare un cambio così radicale di organizzazione della produzione. Che comunque costa tempo e fatica (organizzativa e finanziaria).

Insomma, Industria 4.0 può essere (e sarà), davvero la quarta rivoluzione industriale, ma questa deve essere compresa a fondo per diventare patrimonio della cultura del produrre. A ben vedere è lo stesso percorso fatto dalle innovazioni precedenti che hanno caratterizzato le altre rivoluzioni industriali.

Lo scrivere di Anna Cabigiosu ha un gran pregio: è chiaro e lineare, conduce il lettore a capire (anche se il tema non è certo di quelli più avvincenti).

Industria 4.0: diffusione, applicazioni  e rischi nel settore auto

Anna Cabigiosu

Ricerche per l’innovazione nell’industria automotive, 2018, pagg. 251-265

Una indagine di Ca’ Foscari esplora i legami fra il nuovo paradigma produttivo e la situazione del settore dell’auto

 

Nuovi strumenti di produzione e nuova cultura d’impresa. Questione di comprensione e di cambiamento. Attenzione al nuovo da parte di imprenditori e manager. Che si tramutano in organizzazioni della produzione diverse dal passato, più efficienti, certamente da osservare e sperimentare in continuazione. Accade così anche di fronte a Industria 4.0: nuovo presente e nuovo orizzonte anche per l’industria italiana. Seppure con qualche difficoltà.

Ad indagare i risvolti di Industria 4.0 applicata al comparto dell’auto è stata una ricerca di Anna Cabigiosu (del CAMI – Dipartimento di Management, Università Ca’ Foscari di Venezia). Il suo “Industria 4.0: diffusione, applicazioni  e rischi nel settore auto” è una puntuale analisi del nuovo paradigma produttivo, della situazione dell’applicazione al settore dell’auto in Italia e delle prospettive future. In particolare vengono presi in considerazione: le tecnologie e le potenzialità del paradigma 4.0, il Piano Calenda, la rilevanza e diffusione dell’innovazione 4.0 nel settore dell’auto, la tipologia delle imprese che scelgono l’innovazione 4.0 nel settore dell’auto, le aree funzionali coinvolte dall’innovazione 4.0 nel settore dell’auto, le difficoltà che vi sono.

Cabigiosu conduce così una sorta di viaggio in un settore importante e delicato per l’industria nazionale, ma anche dentro Industria 4.0. Quest’ultima vinene subito spiegata con chiarezza e lucidità, così come viene delineato il settore al quale deve applicarsi.

Al termine dell’indagine viene puntato il dito non sulle difficoltà tecniche di applicazione del nuovo metodo di produzione ma sul fatto che “in generale il mondo 4.0 sembra ancora opaco e non sufficientemente noto”. Occorrono più informazione e più comprensione per affrontare un cambio così radicale di organizzazione della produzione. Che comunque costa tempo e fatica (organizzativa e finanziaria).

Insomma, Industria 4.0 può essere (e sarà), davvero la quarta rivoluzione industriale, ma questa deve essere compresa a fondo per diventare patrimonio della cultura del produrre. A ben vedere è lo stesso percorso fatto dalle innovazioni precedenti che hanno caratterizzato le altre rivoluzioni industriali.

Lo scrivere di Anna Cabigiosu ha un gran pregio: è chiaro e lineare, conduce il lettore a capire (anche se il tema non è certo di quelli più avvincenti).

Industria 4.0: diffusione, applicazioni  e rischi nel settore auto

Anna Cabigiosu

Ricerche per l’innovazione nell’industria automotive, 2018, pagg. 251-265

Racconto di Milano città industriale: teatro, immagini e letteratura per dare voce a lavoro e cambiamento

“La cultura industriale è un ponte tra economia e crescita sociale al centro dell’identità europea”. È impegnativo il tema di fondo della XVII Settimana della Cultura d’Impresa 2018, organizzata da Confindustria e Museimpresa, in calendario dal 9 al 23 novembre (dunque una settimana tanto densa di impegni, in tutta Italia, da dover dilatare la scansione formale del tempo). A Milano coincide con BookCity, più di 1.300 eventi tra biblioteche, teatri, scuole, università, librerie, piazze, club, ospedali, carceri, sale pubbliche e spazi privati, per parlare di libri: romanzi, poesia, storia, politica, economia e tanto altro ancora. Sapere e piacere. Ascolti e incontri. In una città dei libri aperta e accogliente.

In Pirelli si va in scena con un “Racconto di Milano città industriale”: letteratura, conversazioni, parole e immagini delle fabbriche e dei quartieri milanesi, tra ricordi e attualità. L’appuntamento è nell’Auditorium dell’HeadQuarters Pirelli in Bicocca, giovedì 15, alle 19, per iniziativa della Fondazione Pirelli e del Teatro Franco Parenti, in collaborazione con l’Università Bicocca, appunto nel contesto del programma di incontri di BookCity e della Settimana della Cultura d’Impresa. La serata sarà arricchita da un piccolo giocattolo della memoria: la lettura di alcuni brani di un melodramma neorealista di Alberto Moravia, commissionato nel 1947 da Alberto Pirelli e pensato per la regia di Roberto Rossellini, ma mai realizzato. Quelle parole di uno dei maggiori scrittori italiani tornano adesso a vivere con le voci di due bravissimi attori, Marina Rocco e Rosario Lisma.

Ritrovato nei cassetti dell’Archivio Storico Pirelli, il testo di Moravia ha per titolo “Questa è la nostra città” e descrive così la vita quotidiana della Milano industriale: “Ecco la fabbrica Pirelli. Gli operai conversano da ogni parte nel piazzale prospiciente la portineria, tra i carrettini di frutta e le bancarelle dei venditori di sigarette. Un debole sole autunnale gioca sul piazzale e sulle mura della Pirelli. Gli operai entrano in fila, vanno a riporre la bicicletta nel deposito, sotto la tettoia, e quindi si avviano ciascuno al proprio reparto”. Persone che diventano personaggi. Individui. E coralità. Le fabbriche sono state un luogo sociale, di incontri e conflitti, collaborazione e discussioni. Nel tempo, anche spazi vivi e vitali in cui scoprire e vivere con partecipazione le dimensioni della cittadinanza legata al lavoro, con tutto l’intreccio tra diritti e doveri, identità e responsabilità. Fabbriche, come occasione di inclusione sociale. La letteratura migliore, così come il cinema, il teatro, la fotografia, ne sono stati testimoni.

Oltre Moravia, Marina Rocco e Rosario Lisma leggeranno brani di romanzi su Milano e testi tratti dalla Rivista Pirelli. Grandi firme: da Dino Buzzati ad Alda Merini, da Carlo Emilio Gadda a Giorgio Scerbanenco, da Primo Levi a Ottiero Ottieri. Per arrivare alle pagine contemporanee di Giorgio Fontana, Alberto Rollo e altri scrittori ancora. Alle letture s’alterneranno i dialoghi con gli scrittori Piero Colaprico e Giuseppe Lupo e con Pietro Redondi, professore all’università Milano Bicocca. Memorie. E attualità.

C’è sempre Milano, sullo sfondo di tutto: una metropoli contemporanea dai tanti volti diversi ma che conserva, ancora forti, le tracce dell’identità di città industriale e le fa vivere nel corso di radicali trasformazioni economiche e sociali. Non ci sono più le fabbriche tradizionali, ma crescono le neo-fabbriche in cui i processi della digital economy tengono insieme, in modo nuovo, produzione e servizi, ricerca e relazioni virtuose con l’università. Un’attualità di competitività e di crescita che ha radici nella tradizionale attitudine milanese a “fare, e fare bene”. E che iniziative come il “Racconto di Milano città industriale” aiutano a tenere al centro dell’attenzione pubblica. Una scelta culturale che ha una solida rilevanza economica.

È un importante motore dell’Italia, infatti, l’industria (siamo sempre il secondo Paese manifatturiero, dopo la Germania, grazie alle nostre imprese di meccatronica, meccanica, robotica, gomma, automotive, plastica, robotica, chimica, farmaceutica, oltre ai tradizionali settori del “made in Italy” di arredamento, abbigliamento e agro-alimentare). “Fabbriche belle”, spesso, ben progettate, trasparenti, accoglienti, sicure. E fabbriche sostenibili, ambientalmente e socialmente, da green economy all’avanguardia in Europa. Vale la pena ricordarlo, a un’opinione pubblica spesso inconsapevole, distratta. E ribadirlo in una stagione difficile in cui trovano troppo spazio, anche in ambienti di governo, atteggiamenti anti-impresa e anti-scienza. L’industria è crescita, sviluppo, inclusione, solidarietà. Ha caratteristiche che giocano tra competizione e spirito di comunità, ricchezza e lavoro, innovazione tecnologica e cambiamento sociale. Merita memoria partecipe. E che il suo racconto continui.

“La cultura industriale è un ponte tra economia e crescita sociale al centro dell’identità europea”. È impegnativo il tema di fondo della XVII Settimana della Cultura d’Impresa 2018, organizzata da Confindustria e Museimpresa, in calendario dal 9 al 23 novembre (dunque una settimana tanto densa di impegni, in tutta Italia, da dover dilatare la scansione formale del tempo). A Milano coincide con BookCity, più di 1.300 eventi tra biblioteche, teatri, scuole, università, librerie, piazze, club, ospedali, carceri, sale pubbliche e spazi privati, per parlare di libri: romanzi, poesia, storia, politica, economia e tanto altro ancora. Sapere e piacere. Ascolti e incontri. In una città dei libri aperta e accogliente.

In Pirelli si va in scena con un “Racconto di Milano città industriale”: letteratura, conversazioni, parole e immagini delle fabbriche e dei quartieri milanesi, tra ricordi e attualità. L’appuntamento è nell’Auditorium dell’HeadQuarters Pirelli in Bicocca, giovedì 15, alle 19, per iniziativa della Fondazione Pirelli e del Teatro Franco Parenti, in collaborazione con l’Università Bicocca, appunto nel contesto del programma di incontri di BookCity e della Settimana della Cultura d’Impresa. La serata sarà arricchita da un piccolo giocattolo della memoria: la lettura di alcuni brani di un melodramma neorealista di Alberto Moravia, commissionato nel 1947 da Alberto Pirelli e pensato per la regia di Roberto Rossellini, ma mai realizzato. Quelle parole di uno dei maggiori scrittori italiani tornano adesso a vivere con le voci di due bravissimi attori, Marina Rocco e Rosario Lisma.

Ritrovato nei cassetti dell’Archivio Storico Pirelli, il testo di Moravia ha per titolo “Questa è la nostra città” e descrive così la vita quotidiana della Milano industriale: “Ecco la fabbrica Pirelli. Gli operai conversano da ogni parte nel piazzale prospiciente la portineria, tra i carrettini di frutta e le bancarelle dei venditori di sigarette. Un debole sole autunnale gioca sul piazzale e sulle mura della Pirelli. Gli operai entrano in fila, vanno a riporre la bicicletta nel deposito, sotto la tettoia, e quindi si avviano ciascuno al proprio reparto”. Persone che diventano personaggi. Individui. E coralità. Le fabbriche sono state un luogo sociale, di incontri e conflitti, collaborazione e discussioni. Nel tempo, anche spazi vivi e vitali in cui scoprire e vivere con partecipazione le dimensioni della cittadinanza legata al lavoro, con tutto l’intreccio tra diritti e doveri, identità e responsabilità. Fabbriche, come occasione di inclusione sociale. La letteratura migliore, così come il cinema, il teatro, la fotografia, ne sono stati testimoni.

Oltre Moravia, Marina Rocco e Rosario Lisma leggeranno brani di romanzi su Milano e testi tratti dalla Rivista Pirelli. Grandi firme: da Dino Buzzati ad Alda Merini, da Carlo Emilio Gadda a Giorgio Scerbanenco, da Primo Levi a Ottiero Ottieri. Per arrivare alle pagine contemporanee di Giorgio Fontana, Alberto Rollo e altri scrittori ancora. Alle letture s’alterneranno i dialoghi con gli scrittori Piero Colaprico e Giuseppe Lupo e con Pietro Redondi, professore all’università Milano Bicocca. Memorie. E attualità.

C’è sempre Milano, sullo sfondo di tutto: una metropoli contemporanea dai tanti volti diversi ma che conserva, ancora forti, le tracce dell’identità di città industriale e le fa vivere nel corso di radicali trasformazioni economiche e sociali. Non ci sono più le fabbriche tradizionali, ma crescono le neo-fabbriche in cui i processi della digital economy tengono insieme, in modo nuovo, produzione e servizi, ricerca e relazioni virtuose con l’università. Un’attualità di competitività e di crescita che ha radici nella tradizionale attitudine milanese a “fare, e fare bene”. E che iniziative come il “Racconto di Milano città industriale” aiutano a tenere al centro dell’attenzione pubblica. Una scelta culturale che ha una solida rilevanza economica.

È un importante motore dell’Italia, infatti, l’industria (siamo sempre il secondo Paese manifatturiero, dopo la Germania, grazie alle nostre imprese di meccatronica, meccanica, robotica, gomma, automotive, plastica, robotica, chimica, farmaceutica, oltre ai tradizionali settori del “made in Italy” di arredamento, abbigliamento e agro-alimentare). “Fabbriche belle”, spesso, ben progettate, trasparenti, accoglienti, sicure. E fabbriche sostenibili, ambientalmente e socialmente, da green economy all’avanguardia in Europa. Vale la pena ricordarlo, a un’opinione pubblica spesso inconsapevole, distratta. E ribadirlo in una stagione difficile in cui trovano troppo spazio, anche in ambienti di governo, atteggiamenti anti-impresa e anti-scienza. L’industria è crescita, sviluppo, inclusione, solidarietà. Ha caratteristiche che giocano tra competizione e spirito di comunità, ricchezza e lavoro, innovazione tecnologica e cambiamento sociale. Merita memoria partecipe. E che il suo racconto continui.

Quando l’etere è globale.
Tutto il mondo Pirelli in TV

Pirelli è stata un’azienda internazionale fin dall’inizio della sua storia: risale infatti al 1902 il primo stabilimento all’estero, in Spagna. Negli anni immediatamente successivi sono state inaugurate le fabbriche in Inghilterra, e poi in Argentina, in Brasile… Fino ad arrivare al “mondo Pirelli” di oggi, con 18 stabilimenti in 12 paesi. E sempre più globale è diventata nel tempo anche la comunicazione visiva del Gruppo. Da questo punto di vista, l’avvento della televisione ha avuto un effetto accelerativo senza precedenti: attraverso il mezzo comune della TV, tutte le Pirelli del mondo hanno infatti creato un loro lessico pubblicitario che ne ha caratterizzato fortemente l’immagine. Gli anni Ottanta del Novecento, in particolare, hanno visto moltiplicarsi gli sforzi creativi da parte di tutti i diversi mercati del Gruppo: il pneumatico come oggetto di un “racconto” globale da declinare su gusti e orientamenti locali, paese per paese. Il volume La Pubblicità con la P maiuscola, realizzato dalla Fondazione Pirelli nel 2017 come indagine sulla comunicazione visiva dagli anni Settanta ai primi anni Duemila, dedica un’ampia sezione proprio a questo fenomeno della pubblicità televisiva del recente passato, al mondo Pirelli che si riflette nello schermo della TV.

È la consociata inglese Pirelli Limited a distinguersi in quegli anni per creatività, con una serie di spot che hanno segnato un’epoca. D’altra parte, proprio in terra inglese era nato già negli anni Sessanta il Calendario Pirelli, e sempre dalla Pirelli Ltd era stato prodotto, nel 1966, il lungometraggio La lepre e la tartaruga, in cui il regista Hugh Hudson (premio Oscar per “Momenti di gloria”) racconta un inseguimento tra una Jaguar e un camion lungo l’Autostrada del Sole sotto il segno del Cinturato. Nel 1980 la consociata inglese realizza lo spot Pirellibility, considerato uno tra i primi esperimenti di animazione digitalizzata e poi, nel 1986, il racconto thriller Double Indemnity che, con l’headline Gripping Stuff, farà storia nei mercati anglofoni. È del 1989 un altro piccolo capolavoro televisivo: l’epico The Day the Earth Stood Still, protagonista il Pirelli P Zero sulla Lamborghini Countach Anniversary sullo sfondo dei Sassi di Matera.

L’Italia “risponde” negli stessi anni con La base della sicurezza: un ragazzino biondo che gioca in mezzo alla strada, la frenata provvidenziale della macchina bianca in arrivo dotata di pneumatici Pirelli Serie Larga. Nessuna parola, nessuna colonna sonora: la creatività è quella dell’agenzia interna Centro. Nel 1983 in Francia viene lanciata la campagna Une sculpture d’avance, in cui il protagonista è un umanoide che in un’atmosfera ipertecnologica si muove rapidamente grazie a un pneumatico Pirelli P8, mentre in Scandinavia viene proposto il geniale The most wanted tyres: al “centro della scena” una ragazza in tacchi a spillo rossi che lascia incautamente incustodita la sua Ferrari gommata Pirelli P7. In Germania viene lanciata in quegli anni la campagna Die Beine Ihres Autos: brevi filmati nei quali i protagonisti si spostano in equilibrio su un pneumatico come fosse “sulle gambe delle loro auto”; arrivano invece dalla Spagna le atmosfere romantiche di Reflejos, e dalla Turchia il divertente spot di un Pirelli P4 dotato di vita propria.

Fa storia a sé, in questi anni Ottanta televisivi, il Brasile: nel ciclo di mini-comedies Que categoria! del 1981, testimonial famosi come il calciatore Sócrates, l’attrice Kate Lyra, il pilota automobilistico Wilson Fittipaldi entrano nel negozio del gommista per acquistare il “Cinturaço”. E sempre dal paese sudamericano ci giunge Pantera, a fine decennio, tutto giocato sull’inseguimento tra la Jaguar nera di Diabolik e la pantera nera i cui artigli tracciano il disegno del Pirelli P600. Sono anni di completa autonomia di linguaggi e registri comunicativi: dovrà arrivare Sharon Stone, nel 1993, a “riunire” tutte le Pirelli del mondo nella celebre campagna internazionale Se vuoi guidare, guida davvero. Una grande testimonial per una comunicazione davvero “globale”.

Pirelli è stata un’azienda internazionale fin dall’inizio della sua storia: risale infatti al 1902 il primo stabilimento all’estero, in Spagna. Negli anni immediatamente successivi sono state inaugurate le fabbriche in Inghilterra, e poi in Argentina, in Brasile… Fino ad arrivare al “mondo Pirelli” di oggi, con 18 stabilimenti in 12 paesi. E sempre più globale è diventata nel tempo anche la comunicazione visiva del Gruppo. Da questo punto di vista, l’avvento della televisione ha avuto un effetto accelerativo senza precedenti: attraverso il mezzo comune della TV, tutte le Pirelli del mondo hanno infatti creato un loro lessico pubblicitario che ne ha caratterizzato fortemente l’immagine. Gli anni Ottanta del Novecento, in particolare, hanno visto moltiplicarsi gli sforzi creativi da parte di tutti i diversi mercati del Gruppo: il pneumatico come oggetto di un “racconto” globale da declinare su gusti e orientamenti locali, paese per paese. Il volume La Pubblicità con la P maiuscola, realizzato dalla Fondazione Pirelli nel 2017 come indagine sulla comunicazione visiva dagli anni Settanta ai primi anni Duemila, dedica un’ampia sezione proprio a questo fenomeno della pubblicità televisiva del recente passato, al mondo Pirelli che si riflette nello schermo della TV.

È la consociata inglese Pirelli Limited a distinguersi in quegli anni per creatività, con una serie di spot che hanno segnato un’epoca. D’altra parte, proprio in terra inglese era nato già negli anni Sessanta il Calendario Pirelli, e sempre dalla Pirelli Ltd era stato prodotto, nel 1966, il lungometraggio La lepre e la tartaruga, in cui il regista Hugh Hudson (premio Oscar per “Momenti di gloria”) racconta un inseguimento tra una Jaguar e un camion lungo l’Autostrada del Sole sotto il segno del Cinturato. Nel 1980 la consociata inglese realizza lo spot Pirellibility, considerato uno tra i primi esperimenti di animazione digitalizzata e poi, nel 1986, il racconto thriller Double Indemnity che, con l’headline Gripping Stuff, farà storia nei mercati anglofoni. È del 1989 un altro piccolo capolavoro televisivo: l’epico The Day the Earth Stood Still, protagonista il Pirelli P Zero sulla Lamborghini Countach Anniversary sullo sfondo dei Sassi di Matera.

L’Italia “risponde” negli stessi anni con La base della sicurezza: un ragazzino biondo che gioca in mezzo alla strada, la frenata provvidenziale della macchina bianca in arrivo dotata di pneumatici Pirelli Serie Larga. Nessuna parola, nessuna colonna sonora: la creatività è quella dell’agenzia interna Centro. Nel 1983 in Francia viene lanciata la campagna Une sculpture d’avance, in cui il protagonista è un umanoide che in un’atmosfera ipertecnologica si muove rapidamente grazie a un pneumatico Pirelli P8, mentre in Scandinavia viene proposto il geniale The most wanted tyres: al “centro della scena” una ragazza in tacchi a spillo rossi che lascia incautamente incustodita la sua Ferrari gommata Pirelli P7. In Germania viene lanciata in quegli anni la campagna Die Beine Ihres Autos: brevi filmati nei quali i protagonisti si spostano in equilibrio su un pneumatico come fosse “sulle gambe delle loro auto”; arrivano invece dalla Spagna le atmosfere romantiche di Reflejos, e dalla Turchia il divertente spot di un Pirelli P4 dotato di vita propria.

Fa storia a sé, in questi anni Ottanta televisivi, il Brasile: nel ciclo di mini-comedies Que categoria! del 1981, testimonial famosi come il calciatore Sócrates, l’attrice Kate Lyra, il pilota automobilistico Wilson Fittipaldi entrano nel negozio del gommista per acquistare il “Cinturaço”. E sempre dal paese sudamericano ci giunge Pantera, a fine decennio, tutto giocato sull’inseguimento tra la Jaguar nera di Diabolik e la pantera nera i cui artigli tracciano il disegno del Pirelli P600. Sono anni di completa autonomia di linguaggi e registri comunicativi: dovrà arrivare Sharon Stone, nel 1993, a “riunire” tutte le Pirelli del mondo nella celebre campagna internazionale Se vuoi guidare, guida davvero. Una grande testimonial per una comunicazione davvero “globale”.

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Bookcity, Fondazione Pirelli racconta la Milano industriale

Le proteste di Assolombarda per un fisco che danneggia le imprese e la partenza di “Connext”, per innovazione e sviluppo sostenibile  

Le piccole imprese italiane contro le grandi. Le strutture produttive diffuse sui territori contro i “poteri forti” e i “salotti buoni”. Le fabbrichette contro le multinazionali. Chi non conosce affatto il tessuto industriale italiano usa questi schemi fuori dalla realtà per provare a riscrivere politiche industriali, come si pensa in ambienti di governo a proposito dei contenuti della manovra a “sostegno delle imprese”. “Poche idee ma confuse”, avrebbe detto Mino Maccari, genio dell’arte e della satira degli anni Cinquanta.

Perché? E’ stato drasticamente depotenziato il piano per “Industria 4.0” che pur aveva stimolato forti investimenti di migliaia d’imprese per innovare impianti, prodotti e servizi: niente più super-ammormaneto, iper-ammortamento prorogato al 2020 ma ridotto per sfavorire i grandi gruppi, proprio quelli con maggiore capacità d’investimento, scomparso lo stimolo alla formazione, indispensabile per fare crescere mano d’opera e competenze adatte all’industria digital. E ancora: abolito il contributo alla capitalizzazione delle imprese e fermato al 2020 il credito d’imposta per ricerca e sviluppo, rendendo comunque fin da subito più complicato ridotto. C’è invece una mini-Ires per le aziende che investono e assumono, ma tagliata su misura per le mini-imprese.

Niente taglio fiscale, addio alla flat tax promessa. C’è solo una tassa del 15% per le partite Iva fino a 65mila euro di fatturato (botteghe, piccoli studi professionali, impresine individuali soprattutto del commercio e dei servizi minuti) e un’agevolazione fiscale, sempre al 15%, per i professori che danno lezioni private di ripetizione (chissà cosa mai c’entra, questa misura, con le politiche di crescita del Pil…).

Nulla per lo sviluppo dell’industria e delle imprese più capaci di produttività e competitività e dunque di crescita dell’economia, molto invece per finanziamenti a pioggia di sapore clientelare, pre-elettorale. Altro che manovra per lo sviluppo economico, come il governo giallo-verde proclama in Italia e a Bruxelles.

“Una legge di bilancio scollegata dalla realtà. C’è ostilità verso le imprese”, taglia corto Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda, la più grande struttura territoriale di Confindustria (6mila imprese iscritte, nell’area economicamente più dinamica e innovativa d’Italia), in un’intervista a “la Repubblica” (3 novembre). Bonomi elenca tutti gli errori della manovra, ribadisce l’assoluta contrarietà dell’organizzazione al condono fiscale e sulla mini-Ires è categorico: “Così com’è formulata non serve a niente”,”. E, con manifesta ironia: “La possono cancellare domani. Così risparmiano i fondi per la sua eventuale copertura, semplificano le procedure e non sprecano la carta su cui è scritta”.

Assolombarda ha le carte in regola, per discutere del rapporto tra fisco efficace e crescita economica. Ha di recente presentato un corposo “libro bianco” su “Fisco, imprese e crescita”, un volume di 210 pagine fitto di dati, tabelle, analisi e proposte. Lo ha discusso in incontri con membri di governo e parlamentari di tutti gli schieramenti eletti a Milano, accompagnando le singole proposte con numeri ed esempi concreti di costi e vantaggi per le imprese, il lavoro e per l’erario stesso. Ne ha parlato con i media. Niente.

Adesso arrivano le indicazioni della manovra, penalizzanti per le imprese, soprattutto per quelle medio grandi, e con contributi a pioggia per le piccole e le piccolissime. Ma sono proprio le grandi imprese quelle che innovano di più, stimolano la ricerca e la diffusione di nuove tecnologie, aiutano le università per i programmi più ambiziosi. E alle grandi, alle multinazionali migliori fa riferimento il fitto tessuto che lega imprese diverse, al di là delle dimensioni, in distretti, filiere produttive, reti, meta-distretti, sofisticate supply chain che sostengono anche la penetrazione dell’industria italiana sui mercati internazionali.

Bonomi ha ragione: “C’è ostilità verso le imprese”. E le misure fiscali governative, oltre che avere un inaccettabile sapore punitivo nei confronti delle aziende che anche in questi anni difficili hanno investito, innovato, conquistato nuovi mercati, puntato i loro capitali e le loro risorse di competenze e conoscenza sulla crescita economica, rischiano d’avere un risultato fortemente depressivo: i sussidi a pioggia garantiscono una certa sussistenza alle imprese più deboli ma non ne aiutano l’evoluzione e scoraggiano gli investimenti delle imprese più dinamiche. Ma senza investimenti, interni e internazionali, non c’è sviluppo. Tranne che nell’immaginario dei proclami governativi gonfi di propaganda.

“L’impresa è un vero incubatore di coesione sociale”, insiste Bonomi, oltre che un motore di crescita e di lavoro (un lavoro vero, non quello vagheggiato attraverso sussidi da “reddito di cittadinanza”.

Le imprese sono giustamente in grande allarme. Contro le politiche di governo, dalla cattiva manovra ai freni per gli investimenti pubblici in infrastrutture (a cominciare dall’Alta velocità), dai condoni per fisco e abusi edilizi all’ostilità verso l’Europa ammiccando agli Usa di Trump e alla Russia di Putin che lavorano per indebolire la Ue, gli imprenditori di Milano e Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia, Toscana dicono ad alta voce che non sono affatto d’accordo.

Non sono l’opposizione. Ma un attore sociale con senso della collettività. Non tifano per un partito ma “per l’Italia e per tutto ciò che fa bene al paese”. Un governo responsabile li ascolterebbe. Se responsabile, appunto.

Ci sono risposte immediate al disgoverno, che vengono dal mondo economico. E risposte di lungo periodo. Come dimostra “Connext”, l’ultima iniziativa di Confindustria, avviata in questo autunno 2018 e programmando un grande appuntamento per tutte le 160mila imprese iscritte all’organizzazione proprio a Milano, per il 7 e l’8 del prossimo febbraio 2019.

“C’è un tessuto economico di grande pregio che, facendo sistema, può realizzare un salto di qualità. Dunque, ecco un progetto di partenariato industriale, di alleanza tra aziende per innovare, fare rete e crescere”, sostiene Antonella Mansi, vicepresidente di Confindustria, anima dell’iniziativa per costruire sviluppo e guardare insieme ai mercati internazionali (intervista a “Il Sole24Ore”, 28 ottobre). E ancora: “Integrare le filiere in modo verticale e creare anche scambi orizzontali d’innovazione e competenze”, dialogando pure con paesi esteri, europei continentali e mediterranei (la Germania, il Marocco) e con mondi (il credito, la finanza, la Borsa, i servizi, i centri di ricerca) che, nel fitto tessuto delle relazioni economiche, tengono in piedi la parte più attiva dell’Italia, quella che permette al Paese di non affondare nelle paludi di clientele, assistenze, abusi, favori, sussidi, protezioni improduttive. Un processo, quello avviato dalla Manzi in Confindustria, con la collaborazione di Assolombarda, che prova a dare voce e spazio a un’Italia competitiva e collaborativa, inclusiva e produttiva, tutta diversa dallo schematismo di governo su “piccoli contro grandi”, “italiani contro multinazionali” di cui abbiamo parlato all’inizio. Un’Italia molto più vera delle fake news, cui va data molta attenzione.

“Connext” ha già cominciato ad andare in giro per l’Italia, con un road show da Venezia a Cagliari e Napoli, da Torino a Bari, da Firenze a Roma e Catania, per arrivare all’appuntamento di Milano di febbraio. Dibattiti, confronti, ricerche, riflessioni critiche e autocritiche. E un’attenzione concentrata su quattro aree tematiche, che riassumono la sostanza dei cambiamenti in corso nelle nostre imprese: persona, azienda, città e territorio. Spiega Antonella Mansi: “Il tema persona è declinato coinvolgendo le filiere di scienze della vita, salute, benessere, welfare. L’azienda, la fabbrica, viene intesa nell’espressione dell’innovazione, della realtà virtuale, del cloud. La città comprende energia, ambiente, rigenerazione urbana, servizi. Il territorio è considerato laboratorio dello sviluppo sostenibile e dell’economia circolare”.

C’è appunto un pensiero generale, dietro tutto quest’impegno, che va oltre i confini tradizionali delle rappresentanze imprenditoriali. Si parla di cambiamenti e sviluppo economico più equilibrato, di “economia giusta”, di ciò che lega “competitività” e comunità”. E’ un pensiero che si muove all’altezza dei tempi. Merita ascolto e rispetto.

Le piccole imprese italiane contro le grandi. Le strutture produttive diffuse sui territori contro i “poteri forti” e i “salotti buoni”. Le fabbrichette contro le multinazionali. Chi non conosce affatto il tessuto industriale italiano usa questi schemi fuori dalla realtà per provare a riscrivere politiche industriali, come si pensa in ambienti di governo a proposito dei contenuti della manovra a “sostegno delle imprese”. “Poche idee ma confuse”, avrebbe detto Mino Maccari, genio dell’arte e della satira degli anni Cinquanta.

Perché? E’ stato drasticamente depotenziato il piano per “Industria 4.0” che pur aveva stimolato forti investimenti di migliaia d’imprese per innovare impianti, prodotti e servizi: niente più super-ammormaneto, iper-ammortamento prorogato al 2020 ma ridotto per sfavorire i grandi gruppi, proprio quelli con maggiore capacità d’investimento, scomparso lo stimolo alla formazione, indispensabile per fare crescere mano d’opera e competenze adatte all’industria digital. E ancora: abolito il contributo alla capitalizzazione delle imprese e fermato al 2020 il credito d’imposta per ricerca e sviluppo, rendendo comunque fin da subito più complicato ridotto. C’è invece una mini-Ires per le aziende che investono e assumono, ma tagliata su misura per le mini-imprese.

Niente taglio fiscale, addio alla flat tax promessa. C’è solo una tassa del 15% per le partite Iva fino a 65mila euro di fatturato (botteghe, piccoli studi professionali, impresine individuali soprattutto del commercio e dei servizi minuti) e un’agevolazione fiscale, sempre al 15%, per i professori che danno lezioni private di ripetizione (chissà cosa mai c’entra, questa misura, con le politiche di crescita del Pil…).

Nulla per lo sviluppo dell’industria e delle imprese più capaci di produttività e competitività e dunque di crescita dell’economia, molto invece per finanziamenti a pioggia di sapore clientelare, pre-elettorale. Altro che manovra per lo sviluppo economico, come il governo giallo-verde proclama in Italia e a Bruxelles.

“Una legge di bilancio scollegata dalla realtà. C’è ostilità verso le imprese”, taglia corto Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda, la più grande struttura territoriale di Confindustria (6mila imprese iscritte, nell’area economicamente più dinamica e innovativa d’Italia), in un’intervista a “la Repubblica” (3 novembre). Bonomi elenca tutti gli errori della manovra, ribadisce l’assoluta contrarietà dell’organizzazione al condono fiscale e sulla mini-Ires è categorico: “Così com’è formulata non serve a niente”,”. E, con manifesta ironia: “La possono cancellare domani. Così risparmiano i fondi per la sua eventuale copertura, semplificano le procedure e non sprecano la carta su cui è scritta”.

Assolombarda ha le carte in regola, per discutere del rapporto tra fisco efficace e crescita economica. Ha di recente presentato un corposo “libro bianco” su “Fisco, imprese e crescita”, un volume di 210 pagine fitto di dati, tabelle, analisi e proposte. Lo ha discusso in incontri con membri di governo e parlamentari di tutti gli schieramenti eletti a Milano, accompagnando le singole proposte con numeri ed esempi concreti di costi e vantaggi per le imprese, il lavoro e per l’erario stesso. Ne ha parlato con i media. Niente.

Adesso arrivano le indicazioni della manovra, penalizzanti per le imprese, soprattutto per quelle medio grandi, e con contributi a pioggia per le piccole e le piccolissime. Ma sono proprio le grandi imprese quelle che innovano di più, stimolano la ricerca e la diffusione di nuove tecnologie, aiutano le università per i programmi più ambiziosi. E alle grandi, alle multinazionali migliori fa riferimento il fitto tessuto che lega imprese diverse, al di là delle dimensioni, in distretti, filiere produttive, reti, meta-distretti, sofisticate supply chain che sostengono anche la penetrazione dell’industria italiana sui mercati internazionali.

Bonomi ha ragione: “C’è ostilità verso le imprese”. E le misure fiscali governative, oltre che avere un inaccettabile sapore punitivo nei confronti delle aziende che anche in questi anni difficili hanno investito, innovato, conquistato nuovi mercati, puntato i loro capitali e le loro risorse di competenze e conoscenza sulla crescita economica, rischiano d’avere un risultato fortemente depressivo: i sussidi a pioggia garantiscono una certa sussistenza alle imprese più deboli ma non ne aiutano l’evoluzione e scoraggiano gli investimenti delle imprese più dinamiche. Ma senza investimenti, interni e internazionali, non c’è sviluppo. Tranne che nell’immaginario dei proclami governativi gonfi di propaganda.

“L’impresa è un vero incubatore di coesione sociale”, insiste Bonomi, oltre che un motore di crescita e di lavoro (un lavoro vero, non quello vagheggiato attraverso sussidi da “reddito di cittadinanza”.

Le imprese sono giustamente in grande allarme. Contro le politiche di governo, dalla cattiva manovra ai freni per gli investimenti pubblici in infrastrutture (a cominciare dall’Alta velocità), dai condoni per fisco e abusi edilizi all’ostilità verso l’Europa ammiccando agli Usa di Trump e alla Russia di Putin che lavorano per indebolire la Ue, gli imprenditori di Milano e Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia, Toscana dicono ad alta voce che non sono affatto d’accordo.

Non sono l’opposizione. Ma un attore sociale con senso della collettività. Non tifano per un partito ma “per l’Italia e per tutto ciò che fa bene al paese”. Un governo responsabile li ascolterebbe. Se responsabile, appunto.

Ci sono risposte immediate al disgoverno, che vengono dal mondo economico. E risposte di lungo periodo. Come dimostra “Connext”, l’ultima iniziativa di Confindustria, avviata in questo autunno 2018 e programmando un grande appuntamento per tutte le 160mila imprese iscritte all’organizzazione proprio a Milano, per il 7 e l’8 del prossimo febbraio 2019.

“C’è un tessuto economico di grande pregio che, facendo sistema, può realizzare un salto di qualità. Dunque, ecco un progetto di partenariato industriale, di alleanza tra aziende per innovare, fare rete e crescere”, sostiene Antonella Mansi, vicepresidente di Confindustria, anima dell’iniziativa per costruire sviluppo e guardare insieme ai mercati internazionali (intervista a “Il Sole24Ore”, 28 ottobre). E ancora: “Integrare le filiere in modo verticale e creare anche scambi orizzontali d’innovazione e competenze”, dialogando pure con paesi esteri, europei continentali e mediterranei (la Germania, il Marocco) e con mondi (il credito, la finanza, la Borsa, i servizi, i centri di ricerca) che, nel fitto tessuto delle relazioni economiche, tengono in piedi la parte più attiva dell’Italia, quella che permette al Paese di non affondare nelle paludi di clientele, assistenze, abusi, favori, sussidi, protezioni improduttive. Un processo, quello avviato dalla Manzi in Confindustria, con la collaborazione di Assolombarda, che prova a dare voce e spazio a un’Italia competitiva e collaborativa, inclusiva e produttiva, tutta diversa dallo schematismo di governo su “piccoli contro grandi”, “italiani contro multinazionali” di cui abbiamo parlato all’inizio. Un’Italia molto più vera delle fake news, cui va data molta attenzione.

“Connext” ha già cominciato ad andare in giro per l’Italia, con un road show da Venezia a Cagliari e Napoli, da Torino a Bari, da Firenze a Roma e Catania, per arrivare all’appuntamento di Milano di febbraio. Dibattiti, confronti, ricerche, riflessioni critiche e autocritiche. E un’attenzione concentrata su quattro aree tematiche, che riassumono la sostanza dei cambiamenti in corso nelle nostre imprese: persona, azienda, città e territorio. Spiega Antonella Mansi: “Il tema persona è declinato coinvolgendo le filiere di scienze della vita, salute, benessere, welfare. L’azienda, la fabbrica, viene intesa nell’espressione dell’innovazione, della realtà virtuale, del cloud. La città comprende energia, ambiente, rigenerazione urbana, servizi. Il territorio è considerato laboratorio dello sviluppo sostenibile e dell’economia circolare”.

C’è appunto un pensiero generale, dietro tutto quest’impegno, che va oltre i confini tradizionali delle rappresentanze imprenditoriali. Si parla di cambiamenti e sviluppo economico più equilibrato, di “economia giusta”, di ciò che lega “competitività” e comunità”. E’ un pensiero che si muove all’altezza dei tempi. Merita ascolto e rispetto.

La cultura della comunicazione sociale

Una tesi presentata alla LUISS analizza la pubblicità sociale scoprendo forti legami fra profit e no profit

“Non si può non comunicare”. Assunto di base per tutti, anche per le imprese. Anche per quelle che pensano e credono che la comunicazione sia altro per loro, un’entità che non riguarda la produzione, le dinamiche dei mercati, l’organizzazione del lavoro. Invece no. E’ vero che “non si può non comunicare”. Ed è anche vero che occorre però comunicare bene, e quindi conoscere gli strumenti della comunicazione, gli effetti degli stessi, la potenza d’urto che una buona (oppure una cattiva) comunicazione può contenere.

Aspetto particolare di tutto questo, è la comunicazione sociale; che può fra l’altro costituire un aspetto importante per molte imprese che vedono nella comunicazione l’esplicitazione della responsabilità sociale d’impresa.

Nell’ambito della comunicazione sociale (e della comunicazione a tutto tondo), un ruolo speciale assume poi la pubblicità.

“La pubblicità sociale”, lavoro di tesi alla LUISS di Matteo D’Argenio, è una buona introduzione proprio agli aspetti relativi la comunicazione e la pubblicità sociale. D’Argenio suddivide la sua ricerca in alcune parti distinte e complementari. Prima analizza la storia e l’evoluzione della pubblicità con particolare attenzione a quella sociale; poi approfondisce le cosiddette modalità comunicative non convenzionali; infine (prima di affrontare un caso partico), valuta i legami fra comunicazione sociale e associazioni no profit. Fatto tutto questo, D’Argenio affronta il caso pratico della pubblicità sociale di Adbusters contro la Nike.

“La sfera sociale e commerciale – spiega nelle conclusioni D’Argenio -, si sono negli ultimi anni incrociate a più riprese, mescolandosi in diverse maniere”. E non solo, perché l’autore constata anche come la “pubblicità sociale (soprattutto quando i protagonisti sono le organizzazioni non profit), abbia fatto nel tempo da apripista per una serie di sperimentazioni che si rintracciano anche in chi effettivamente un prodotto vuole venderlo”. Insomma, no profit e profit, dal punto di vista comunicativo, possono spesso mescolarsi. Un cambio di cultura d’impresa che deve fare pensare ed essere approfondito in tutti i suoi aspetti ed effetti.

La pubblicità sociale

Matteo D’Argenio

Tesi, LUISS, Dipartimento di Scienze Politiche, Cattedra di Linguaggi dei Nuovi Media , 2018

Una tesi presentata alla LUISS analizza la pubblicità sociale scoprendo forti legami fra profit e no profit

“Non si può non comunicare”. Assunto di base per tutti, anche per le imprese. Anche per quelle che pensano e credono che la comunicazione sia altro per loro, un’entità che non riguarda la produzione, le dinamiche dei mercati, l’organizzazione del lavoro. Invece no. E’ vero che “non si può non comunicare”. Ed è anche vero che occorre però comunicare bene, e quindi conoscere gli strumenti della comunicazione, gli effetti degli stessi, la potenza d’urto che una buona (oppure una cattiva) comunicazione può contenere.

Aspetto particolare di tutto questo, è la comunicazione sociale; che può fra l’altro costituire un aspetto importante per molte imprese che vedono nella comunicazione l’esplicitazione della responsabilità sociale d’impresa.

Nell’ambito della comunicazione sociale (e della comunicazione a tutto tondo), un ruolo speciale assume poi la pubblicità.

“La pubblicità sociale”, lavoro di tesi alla LUISS di Matteo D’Argenio, è una buona introduzione proprio agli aspetti relativi la comunicazione e la pubblicità sociale. D’Argenio suddivide la sua ricerca in alcune parti distinte e complementari. Prima analizza la storia e l’evoluzione della pubblicità con particolare attenzione a quella sociale; poi approfondisce le cosiddette modalità comunicative non convenzionali; infine (prima di affrontare un caso partico), valuta i legami fra comunicazione sociale e associazioni no profit. Fatto tutto questo, D’Argenio affronta il caso pratico della pubblicità sociale di Adbusters contro la Nike.

“La sfera sociale e commerciale – spiega nelle conclusioni D’Argenio -, si sono negli ultimi anni incrociate a più riprese, mescolandosi in diverse maniere”. E non solo, perché l’autore constata anche come la “pubblicità sociale (soprattutto quando i protagonisti sono le organizzazioni non profit), abbia fatto nel tempo da apripista per una serie di sperimentazioni che si rintracciano anche in chi effettivamente un prodotto vuole venderlo”. Insomma, no profit e profit, dal punto di vista comunicativo, possono spesso mescolarsi. Un cambio di cultura d’impresa che deve fare pensare ed essere approfondito in tutti i suoi aspetti ed effetti.

La pubblicità sociale

Matteo D’Argenio

Tesi, LUISS, Dipartimento di Scienze Politiche, Cattedra di Linguaggi dei Nuovi Media , 2018

Non solo caos

L’ultimo libro di un’economista internazionale analizza la difficile situazione in cui viviamo e indica una strada d’uscita

Consapevolezza di dove si è. E di dove si sta andando. Lo si è già detto molte volte, ma vale la pena ripeterlo. E’ buona cosa per tutti – cittadini, imprenditori, manager, operai, impiegati -, dotarsi degli strumenti per capire dove si è collocati e verso dove si cammina. Non si tratta solo di coscienza civile, ma di qualcosa di più vasto. Che ha mille risvolti. Chi poi governa le imprese deve avere strumenti di analisi e conoscenza se possibile ancora più sofisticati. E’ il caso di “Sull’orlo del caos. Rimettere a posto la democrazia per crescere”, scritto da Dambisa Moyo (economista e saggista, attenta ai temi macroeconomici e agli affari internazionali) appena tradotto in Italia.

Il libro è non solo un vasto affresco della situazione in cui si trova il mondo (sull’orlo del caso, appunto), ma anche una forte grido per trovare (tutti) le strade migliori verso una ripresa e uno sviluppo di cui tutti (cittadini e imprese), sentono il bisogno ma di cui pare si sia smarrita la direzione. Una generazione dopo la caduta del muro di Berlino – spiega Moyo -, il mondo è di nuovo sull’orlo del caos. Le proteste e le rivolte si moltiplicano, racconta l’autrice, ma pare che tutte abbiano un tratto comune: le persone chiedono ai loro governi di fare di più per migliorare le loro vite e di farlo velocemente. Ma, viene sottolineato subito dopo, nelle attuali condizioni di crescita “anemica”, i decisori politici non sono in grado di offrir loro qualsivoglia soluzione. La crescente ineguaglianza dei redditi e un’economia stagnante rappresentano una minaccia sia per il mondo sviluppato sia per i paesi in via di sviluppo, e i leader politici non possono più permettersi di ignorare la tempesta che è già all’orizzonte.

Moyo svolge quindi il suo ragionamento analizzando la storia e le vicende economiche degli ultimi anni approfondendo il concetto di crescita, studiando le tendenze protezionistiche, l’evoluzione delle applicazioni della democrazia. Vengono così individuati “quattro venti contrari”: la demografia, l’ineguaglianza, la scarsità delle materie prime, l’innovazione tecnologica. E’ dall’insieme di queste condizioni che nascono il caos attuale e la difficoltà nel superarlo.

Ma il testo di Moyo non abbandona una visione positiva del nostro futuro.  La crescita economica è essenziale per la stabilità globale – spiega -, ma le democrazie liberali di oggi non sono più in grado di generarla. Non dobbiamo tuttavia rassegnarci a imboccare una direzione che si allontani dalla democrazia, sostiene Moyo, piuttosto dobbiamo riformare radicalmente la democrazia stessa.

Da tutto questo Moyo propone dieci riforme. Le proposte ruotano attorno alla trasformazione del modo in cui si svolgono le elezioni, alterano il modo in cui vengono giudicati i politici e assicurano che sia gli elettori sia i politici abbiano una visione a lungo termine.

Il libro di Dambisa Moyo è da leggere con mente aperta. Non sempre può essere totalmente condiviso da tutti. Ma non è questo che importa. Molto più importante è il contenuto delle poco più di 200 pagine di testo: un messaggio di speranza verso la capacità del mondo di riscattarsi. Un messaggio che vale per tutti.

Sull’orlo del caos. Rimettere a posto la democrazia per crescere

Dambisa Moyo

Egea, 2018

L’ultimo libro di un’economista internazionale analizza la difficile situazione in cui viviamo e indica una strada d’uscita

Consapevolezza di dove si è. E di dove si sta andando. Lo si è già detto molte volte, ma vale la pena ripeterlo. E’ buona cosa per tutti – cittadini, imprenditori, manager, operai, impiegati -, dotarsi degli strumenti per capire dove si è collocati e verso dove si cammina. Non si tratta solo di coscienza civile, ma di qualcosa di più vasto. Che ha mille risvolti. Chi poi governa le imprese deve avere strumenti di analisi e conoscenza se possibile ancora più sofisticati. E’ il caso di “Sull’orlo del caos. Rimettere a posto la democrazia per crescere”, scritto da Dambisa Moyo (economista e saggista, attenta ai temi macroeconomici e agli affari internazionali) appena tradotto in Italia.

Il libro è non solo un vasto affresco della situazione in cui si trova il mondo (sull’orlo del caso, appunto), ma anche una forte grido per trovare (tutti) le strade migliori verso una ripresa e uno sviluppo di cui tutti (cittadini e imprese), sentono il bisogno ma di cui pare si sia smarrita la direzione. Una generazione dopo la caduta del muro di Berlino – spiega Moyo -, il mondo è di nuovo sull’orlo del caos. Le proteste e le rivolte si moltiplicano, racconta l’autrice, ma pare che tutte abbiano un tratto comune: le persone chiedono ai loro governi di fare di più per migliorare le loro vite e di farlo velocemente. Ma, viene sottolineato subito dopo, nelle attuali condizioni di crescita “anemica”, i decisori politici non sono in grado di offrir loro qualsivoglia soluzione. La crescente ineguaglianza dei redditi e un’economia stagnante rappresentano una minaccia sia per il mondo sviluppato sia per i paesi in via di sviluppo, e i leader politici non possono più permettersi di ignorare la tempesta che è già all’orizzonte.

Moyo svolge quindi il suo ragionamento analizzando la storia e le vicende economiche degli ultimi anni approfondendo il concetto di crescita, studiando le tendenze protezionistiche, l’evoluzione delle applicazioni della democrazia. Vengono così individuati “quattro venti contrari”: la demografia, l’ineguaglianza, la scarsità delle materie prime, l’innovazione tecnologica. E’ dall’insieme di queste condizioni che nascono il caos attuale e la difficoltà nel superarlo.

Ma il testo di Moyo non abbandona una visione positiva del nostro futuro.  La crescita economica è essenziale per la stabilità globale – spiega -, ma le democrazie liberali di oggi non sono più in grado di generarla. Non dobbiamo tuttavia rassegnarci a imboccare una direzione che si allontani dalla democrazia, sostiene Moyo, piuttosto dobbiamo riformare radicalmente la democrazia stessa.

Da tutto questo Moyo propone dieci riforme. Le proposte ruotano attorno alla trasformazione del modo in cui si svolgono le elezioni, alterano il modo in cui vengono giudicati i politici e assicurano che sia gli elettori sia i politici abbiano una visione a lungo termine.

Il libro di Dambisa Moyo è da leggere con mente aperta. Non sempre può essere totalmente condiviso da tutti. Ma non è questo che importa. Molto più importante è il contenuto delle poco più di 200 pagine di testo: un messaggio di speranza verso la capacità del mondo di riscattarsi. Un messaggio che vale per tutti.

Sull’orlo del caos. Rimettere a posto la democrazia per crescere

Dambisa Moyo

Egea, 2018

Racconti di Milano città industriale

Il 15 novembre alle ore 19.00 presso l’Auditorium dell’Headquarters Pirelli nel quartiere Bicocca, Fondazione Pirelli organizza una serata interamente dedicata al capoluogo lombardo, metropoli moderna e poliedrica, che conserva nei luoghi e nella memoria le tracce della sua identità di città industriale.

Lo spettacolo, realizzato in collaborazione con il Teatro Franco Parenti e l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, vedrà sul palcoscenico gli attori Marina Rocco e Rosario Lisma interpretare alcune pagine tratte dalla storica rivista “Pirelli” e brani di romanzi sulla città meneghina: dalla visita di Dino Buzzati al grattacielo Pirelli alla descrizione dei “megateri dell’edilizia milanese” di Alberto Savinio, dalle poesie di Alda Merini agli efferati crimini della Milano della mala degli anni sessanta raccontati da Giorgio Scerbanenco, dalle mura delle fabbriche viste come “muraglia cinese” da Ottiero Ottieri, alla ”educazione milanese” di Alberto Rollo. Le letture condotte dai due attori s’intrecceranno alle parole e alle riflessioni di Antonio Calabrò, direttore della Fondazione Pirelli, Piero Colaprico, giornalista e scrittore, Giuseppe Lupo, scrittore e professore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, e Pietro Redondi, docente dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Un dialogo polifonico tra passato e presente illustrato attraverso le immagini provenienti dal ricco archivio fotografico della Fondazione Pirelli: sul grande schermo dell’Auditorium infatti si potranno ammirare il reportage della costruzione della Metropolitana M1 realizzato da Arno Hammacher tra il 1958 e il 1961, capace di evidenziare con prospettive insolite il cantiere e il lavoro degli operai; gli scatti dei grandi fotografi Paolo Monti, Aldo Ballo, Giancarlo Scalfati che ritraggono la costruzione del grattacielo Pirelli, uno dei momenti di massima vitalità progettuale ed economica della città in piena espansione post bellica; e ancora gli interni di fabbrica e le strade delle città solcate dalla nebbia, percorse da Vespe e Lambrette o da lavoratori che si affrettano a raggiungere il proprio posto di lavoro.

Durante la serata verranno letti inoltre per la prima volta alcuni estratti della sceneggiatura di “Questa è la nostra città”, melodramma neorealista scritto da Alberto Moravia nel 1947 e conservato nell’Archivio Storico Pirelli. Il film, mai tradotto in pellicola, fu commissionato da Alberto Pirelli per il settantacinquesimo anniversario dell’azienda e avrebbe dovuto essere diretto da Roberto Rossellini uno dei registi più illustri di quegli anni. La sceneggiatura descrive le vicende della famiglia Riva, tre generazioni di operai alla Pirelli.

Nel testo Moravia si sofferma anche sulla vita quotidiana della Milano industriale raccontandola attraverso la fabbrica Pirelli Bicocca degli anni quaranta: “Ecco la fabbrica Pirelli. Gli operai conversano da ogni parte nel piazzale prospiciente la portineria, tra i carrettini di frutta e le bancarelle dei venditori di sigarette. Un debole sole autunnale gioca sul piazzale e sulle mura della Pirelli. Gli operai entrano in fila, vanno a riporre la bicicletta nel deposito, sotto la tettoia, e quindi si avviano ciascuno al proprio reparto.”

Il 15 novembre alle ore 19.00 presso l’Auditorium dell’Headquarters Pirelli nel quartiere Bicocca, Fondazione Pirelli organizza una serata interamente dedicata al capoluogo lombardo, metropoli moderna e poliedrica, che conserva nei luoghi e nella memoria le tracce della sua identità di città industriale.

Lo spettacolo, realizzato in collaborazione con il Teatro Franco Parenti e l’Università degli Studi di Milano-Bicocca, vedrà sul palcoscenico gli attori Marina Rocco e Rosario Lisma interpretare alcune pagine tratte dalla storica rivista “Pirelli” e brani di romanzi sulla città meneghina: dalla visita di Dino Buzzati al grattacielo Pirelli alla descrizione dei “megateri dell’edilizia milanese” di Alberto Savinio, dalle poesie di Alda Merini agli efferati crimini della Milano della mala degli anni sessanta raccontati da Giorgio Scerbanenco, dalle mura delle fabbriche viste come “muraglia cinese” da Ottiero Ottieri, alla ”educazione milanese” di Alberto Rollo. Le letture condotte dai due attori s’intrecceranno alle parole e alle riflessioni di Antonio Calabrò, direttore della Fondazione Pirelli, Piero Colaprico, giornalista e scrittore, Giuseppe Lupo, scrittore e professore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, e Pietro Redondi, docente dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Un dialogo polifonico tra passato e presente illustrato attraverso le immagini provenienti dal ricco archivio fotografico della Fondazione Pirelli: sul grande schermo dell’Auditorium infatti si potranno ammirare il reportage della costruzione della Metropolitana M1 realizzato da Arno Hammacher tra il 1958 e il 1961, capace di evidenziare con prospettive insolite il cantiere e il lavoro degli operai; gli scatti dei grandi fotografi Paolo Monti, Aldo Ballo, Giancarlo Scalfati che ritraggono la costruzione del grattacielo Pirelli, uno dei momenti di massima vitalità progettuale ed economica della città in piena espansione post bellica; e ancora gli interni di fabbrica e le strade delle città solcate dalla nebbia, percorse da Vespe e Lambrette o da lavoratori che si affrettano a raggiungere il proprio posto di lavoro.

Durante la serata verranno letti inoltre per la prima volta alcuni estratti della sceneggiatura di “Questa è la nostra città”, melodramma neorealista scritto da Alberto Moravia nel 1947 e conservato nell’Archivio Storico Pirelli. Il film, mai tradotto in pellicola, fu commissionato da Alberto Pirelli per il settantacinquesimo anniversario dell’azienda e avrebbe dovuto essere diretto da Roberto Rossellini uno dei registi più illustri di quegli anni. La sceneggiatura descrive le vicende della famiglia Riva, tre generazioni di operai alla Pirelli.

Nel testo Moravia si sofferma anche sulla vita quotidiana della Milano industriale raccontandola attraverso la fabbrica Pirelli Bicocca degli anni quaranta: “Ecco la fabbrica Pirelli. Gli operai conversano da ogni parte nel piazzale prospiciente la portineria, tra i carrettini di frutta e le bancarelle dei venditori di sigarette. Un debole sole autunnale gioca sul piazzale e sulle mura della Pirelli. Gli operai entrano in fila, vanno a riporre la bicicletta nel deposito, sotto la tettoia, e quindi si avviano ciascuno al proprio reparto.”

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