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Ecco il nuovo “triangolo industriale” tra Milano, Veneto ed Emilia: le sfide dell’economia aperta

Si scrivono pagine d’una rinnovata geografia economica. Si traccia, per esempio, un “nuovo triangolo industriale” che ha come vertici Milano, il Veneto delle piccole e medie imprese e l’Emilia delle multinazionali tascabili. E, dopo la stagione degli anni Cinquanta e Sessanta del boom economico, quando il “triangolo industriale” era quello delle grandi imprese tra la Genova dell’industria pubblica d’acciaio e cantieri, la Torino della Fiat e la Milano delle banche e delle “grandi famiglie” imprenditoriali, adesso le dinamiche economiche portano alla ribalta i servizi hi tech, l’economia della conoscenza e la manifattura competitiva della meccatronica, della chimica, della gomma, dell’agro-industria e dell’arredamento, nel segno di “Industry 4.0”, dell’export e delle eccellenze da secondo paese manifatturiero d’Europa, in stretta relazione con la Germania. Nei blog delle scorse settimane avevamo parlato di “Regione A4”, per indicare i territori che scorrono lungo l’autostrada che dal Piemonte, passando dal baricentro Milano, va verso il Veneto e il Friuli. Adesso questa geografia s’arricchisce di articolazioni e specificazioni. E nel tempo potrà trovare numeri originali d’interpretazione attraverso un nuovo strumento d’analisi dell’Istat, il Rsbl (Registro statistico di base dei luoghi), appena varato per fotografare meglio l’economia reale (Corriere della Sera, 14 giugno) e che già adesso indica proprio Milano al primo posto in Italia come valore aggiunto in generale ma anche come produttività (il valore aggiunto per addetto).

Di questo “nuovo triangolo industriale” spostato verso il Nord Est s’è molto parlato, la scorsa settimana, in occasione della nascita di una forte associazione territoriale di Confindustria, l’Assindustria Veneto Centro, che mette insieme le organizzazioni imprenditoriali di Padova e Treviso: 3.400 imprese associate (piccole, in maggioranza ma molto dinamiche), con 160mila dipendenti, espressione d’un sistema che nel 2017 ha esportato per 22,5 miliardi di euro, il 37% di tutto l’export veneto e il 5% dell’export nazionale. E’ la seconda organizzazione territoriale di Confindustria, dopo l’Assolombarda (che riunisce Milano, Lodi e Monza e la Brianza, quasi 6mila imprese). E si muove da tempo in sintonia, oltre che con l’Assolombarda, anche con la recente Confindustria Emilia Centro (riorganizzazione che tiene insieme Bologna, Modena e Ferrara). Il “nuovo triangolo industriale”, appunto, 324 miliardi di Pil (maggiore di quello della Danimarca), un valore aggiunto manifatturiero di 53 miliardi (più di quello del Belgio) e una grande capacità di pesare nel cuore della più forte manifattura europea.

Le aggregazioni sono il frutto migliore della “riforma Pesenti”, il profondo rinnovamento di Confindustria secondo le indicazioni d’una commissione presieduta da Carlo Pesenti (famiglia storica del miglior capitalismo italiano, al vertice dell’Italmobiliare, attività principali tra Milano e Bergamo). Ma il loro significato maggiore non sta solo nel miglioramento delle capacità di rappresentanza delle imprese e nel miglioramento dei servizi offerti alle aziende iscritte, quanto soprattutto nella scelta di fare emergere con forza il ruolo di soggetti sociali – le imprese ben organizzate – che hanno molto da dire sullo sviluppo sostenibile, il lavoro, le relazioni industriali, l’innovazione, il miglioramento dei mercati, le dinamiche di crescita internazionale dell’economia italiana in chiave europea.

Ancora un paio di dati, per capire meglio. Tutta l’area racchiusa in questo “nuovo triangolo industriale” ha un Pil complessivo maggiore di quello dei Paesi Bassi, della Svezia e della Polonia, un valore aggiunto manifatturiero maggiore della Spagna, un peso europeo, insomma, di primissimo piano. E’ una zona economica densa non solo d’imprese legate tra loro da vincoli da filiere e piattaforme produttive molto innovative, ma anche di università e centri di ricerca, strutture modernissime di servizi e logistica, poli turistici, centri d’arte, organizzazioni culturali di prestigio internazionale (teatri, musica, festival letterari, gallerie) e attività di editoria e comunicazione, tradizionali e multimediali. E proprio per queste caratteristiche, oltre che per un elevato livello di qualità della vita (molte delle sue città sono da tempo ai primi posti della classifica annuale de “Il Sole24Ore” Sole città dove si vive meglio) può fare da traino d’un ambizioso progetto di sviluppo europeo che saldi l’Europa continentale al Mediterraneo.

È un’economia aperta, fortemente segnata dall’export, ben integrata con l’industria tedesca ma anche francese e quanto mai sensibile a processi di attività di mercati dinamici. E dunque ostile a dazi, barriere, chiusure, protezionismi e nazionalismi economici e semmai, proprio al contrario, attenta ad attrarre capitali, investimenti internazionali, conoscenze e competenze, talenti caratterizzati da un forte grado d’innovazione.

Cosa serve, a questo vero e proprio motore di sviluppo italiano? Politiche industriali che rafforzino ricerca e innovazione (in continuità con i provvedimenti dei precedenti governi su Industry 4.0: metà delle imprese lombarde ne hanno fatto buon uso, investendo in macchinari “digital” e processi innovativi). Sostegni alla competitività e all’export. Scelte per la formazione di capitale umano di qualità. E infrastrutture, materiali e immateriali: strade, porti, ferrovie con il completamento dell’Alta Velocità lungo l’asse Ovest-Est, aeroporti, centri logistici intermodali e “banda larga” per le comunicazioni hi tech. Proprio quelle infrastrutture (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana) su cui in ambienti del nuovo governo si covano forti resistenze, per malinteso ambientalismo. Un giudizio netto di prospettiva arriva proprio da Assolombarda, con le parole del suo presidente Carlo Bonomi: “Non siamo disposti a transigere, non accettiamo pregiudiziali ideologiche che siano d’ostacolo alla realizzazione delle opere necessarie per lo sviluppo dei nostri territori”. Il “nuovo triangolo industriale”, insomma, è un’originale figura geometrica e geografica: veloce, dinamica. E aperta.

Si scrivono pagine d’una rinnovata geografia economica. Si traccia, per esempio, un “nuovo triangolo industriale” che ha come vertici Milano, il Veneto delle piccole e medie imprese e l’Emilia delle multinazionali tascabili. E, dopo la stagione degli anni Cinquanta e Sessanta del boom economico, quando il “triangolo industriale” era quello delle grandi imprese tra la Genova dell’industria pubblica d’acciaio e cantieri, la Torino della Fiat e la Milano delle banche e delle “grandi famiglie” imprenditoriali, adesso le dinamiche economiche portano alla ribalta i servizi hi tech, l’economia della conoscenza e la manifattura competitiva della meccatronica, della chimica, della gomma, dell’agro-industria e dell’arredamento, nel segno di “Industry 4.0”, dell’export e delle eccellenze da secondo paese manifatturiero d’Europa, in stretta relazione con la Germania. Nei blog delle scorse settimane avevamo parlato di “Regione A4”, per indicare i territori che scorrono lungo l’autostrada che dal Piemonte, passando dal baricentro Milano, va verso il Veneto e il Friuli. Adesso questa geografia s’arricchisce di articolazioni e specificazioni. E nel tempo potrà trovare numeri originali d’interpretazione attraverso un nuovo strumento d’analisi dell’Istat, il Rsbl (Registro statistico di base dei luoghi), appena varato per fotografare meglio l’economia reale (Corriere della Sera, 14 giugno) e che già adesso indica proprio Milano al primo posto in Italia come valore aggiunto in generale ma anche come produttività (il valore aggiunto per addetto).

Di questo “nuovo triangolo industriale” spostato verso il Nord Est s’è molto parlato, la scorsa settimana, in occasione della nascita di una forte associazione territoriale di Confindustria, l’Assindustria Veneto Centro, che mette insieme le organizzazioni imprenditoriali di Padova e Treviso: 3.400 imprese associate (piccole, in maggioranza ma molto dinamiche), con 160mila dipendenti, espressione d’un sistema che nel 2017 ha esportato per 22,5 miliardi di euro, il 37% di tutto l’export veneto e il 5% dell’export nazionale. E’ la seconda organizzazione territoriale di Confindustria, dopo l’Assolombarda (che riunisce Milano, Lodi e Monza e la Brianza, quasi 6mila imprese). E si muove da tempo in sintonia, oltre che con l’Assolombarda, anche con la recente Confindustria Emilia Centro (riorganizzazione che tiene insieme Bologna, Modena e Ferrara). Il “nuovo triangolo industriale”, appunto, 324 miliardi di Pil (maggiore di quello della Danimarca), un valore aggiunto manifatturiero di 53 miliardi (più di quello del Belgio) e una grande capacità di pesare nel cuore della più forte manifattura europea.

Le aggregazioni sono il frutto migliore della “riforma Pesenti”, il profondo rinnovamento di Confindustria secondo le indicazioni d’una commissione presieduta da Carlo Pesenti (famiglia storica del miglior capitalismo italiano, al vertice dell’Italmobiliare, attività principali tra Milano e Bergamo). Ma il loro significato maggiore non sta solo nel miglioramento delle capacità di rappresentanza delle imprese e nel miglioramento dei servizi offerti alle aziende iscritte, quanto soprattutto nella scelta di fare emergere con forza il ruolo di soggetti sociali – le imprese ben organizzate – che hanno molto da dire sullo sviluppo sostenibile, il lavoro, le relazioni industriali, l’innovazione, il miglioramento dei mercati, le dinamiche di crescita internazionale dell’economia italiana in chiave europea.

Ancora un paio di dati, per capire meglio. Tutta l’area racchiusa in questo “nuovo triangolo industriale” ha un Pil complessivo maggiore di quello dei Paesi Bassi, della Svezia e della Polonia, un valore aggiunto manifatturiero maggiore della Spagna, un peso europeo, insomma, di primissimo piano. E’ una zona economica densa non solo d’imprese legate tra loro da vincoli da filiere e piattaforme produttive molto innovative, ma anche di università e centri di ricerca, strutture modernissime di servizi e logistica, poli turistici, centri d’arte, organizzazioni culturali di prestigio internazionale (teatri, musica, festival letterari, gallerie) e attività di editoria e comunicazione, tradizionali e multimediali. E proprio per queste caratteristiche, oltre che per un elevato livello di qualità della vita (molte delle sue città sono da tempo ai primi posti della classifica annuale de “Il Sole24Ore” Sole città dove si vive meglio) può fare da traino d’un ambizioso progetto di sviluppo europeo che saldi l’Europa continentale al Mediterraneo.

È un’economia aperta, fortemente segnata dall’export, ben integrata con l’industria tedesca ma anche francese e quanto mai sensibile a processi di attività di mercati dinamici. E dunque ostile a dazi, barriere, chiusure, protezionismi e nazionalismi economici e semmai, proprio al contrario, attenta ad attrarre capitali, investimenti internazionali, conoscenze e competenze, talenti caratterizzati da un forte grado d’innovazione.

Cosa serve, a questo vero e proprio motore di sviluppo italiano? Politiche industriali che rafforzino ricerca e innovazione (in continuità con i provvedimenti dei precedenti governi su Industry 4.0: metà delle imprese lombarde ne hanno fatto buon uso, investendo in macchinari “digital” e processi innovativi). Sostegni alla competitività e all’export. Scelte per la formazione di capitale umano di qualità. E infrastrutture, materiali e immateriali: strade, porti, ferrovie con il completamento dell’Alta Velocità lungo l’asse Ovest-Est, aeroporti, centri logistici intermodali e “banda larga” per le comunicazioni hi tech. Proprio quelle infrastrutture (ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana) su cui in ambienti del nuovo governo si covano forti resistenze, per malinteso ambientalismo. Un giudizio netto di prospettiva arriva proprio da Assolombarda, con le parole del suo presidente Carlo Bonomi: “Non siamo disposti a transigere, non accettiamo pregiudiziali ideologiche che siano d’ostacolo alla realizzazione delle opere necessarie per lo sviluppo dei nostri territori”. Il “nuovo triangolo industriale”, insomma, è un’originale figura geometrica e geografica: veloce, dinamica. E aperta.

La buona impresa

Un documento della Chiesa appena pubblicato, mette in fila e riordina i principi che legano etica, economia, finanza e organizzazione della produzione

Finanza e impresa. E corretta gestione di quest’ultima. Cultura del produrre non per accumulare ma per dare. Temi complessi e importanti, che vanno di pari passo con quelli del ruolo dell’impresa, dell’imprenditore, dei manager in relazione alla responsabilità sociali delle organizzazioni della produzione. Così come quelli dell’etica economica e dell’etica sociale.

Per capire di più e meglio, fa bene leggere “Oeconomicae et pecuniariae quaestiones. Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario”, volumetto scritto a più mani dai componenti della Congregazione per la dottrina della fede e appena pubblicato.

Le prime righe del testo dicono già tutto del contenuto e delle intenzioni nel momento in cui si parla della necessità, nei fatti dell’economia e della finanza, della presenza di “una chiara fondazione etica, che assicuri al benessere raggiunto quella qualità umana delle relazioni che i meccanismi economici, da soli, non sono in grado di produrre”. E ancora di quanto oggi sia necessario un “connubio fra sapere tecnico e sapienza umana, senza di cui ogni umano agire finisce per deteriorarsi”. Etica ed economia quindi. Conti fatti bene, ma con attenzione anche ad altro.

Il documento della Congregazione per la dottrina della fede quindi, affronta l’argomento gettando prima le basi di un ragionamento che metta insieme etica e attività umana; poi affrontando quelle che vengono definite “alcune puntualizzazioni nel contesto odierno” e che guardano più direttamente all’economia, alla produzione, alla finanza e alle imprese. È qui che si parla, per esempio, della necessità di un “mercato sano” dal quale possono derivare etica e dignità dell’uomo. Ed è qui che naturalmente la Congregazione per la dottrina della fede punta il dito quando, per esempio, scrive: “L’esperienza degli ultimi decenni ha mostrato con evidenza, da una parte, quanto sia ingenua la fiducia in una presunta autosufficienza allocativa dei mercati, indipendente da qualunque etica, e dall’altra, l’impellente necessità di una loro adeguata regolazione, che coniughi nello stesso tempo libertà e tutela di tutti i soggetti che vi operano in regime di una sana e corretta interazione, specialmente dei più vulnerabili”. Ed è ancora da questo passaggio che si toccano temi delicati come quello dell’intermediazione, delle banche, della trasparenza. Si arriva così a guardare più da vicino l’impresa che, viene precisato, “costituisce un’importante rete di relazioni e, a suo modo, rappresenta un vero corpo sociale intermedio, con una sua propria cultura e prassi. Tali cultura e prassi, mentre determinano l’organizzazione interna all’impresa, influiscono altresì sul tessuto sociale nel quale essa agisce”.

Il documento – dopo aver toccato altri temi come quelli delle tecniche produttive, della ripartizione dei profitti, della gestione dei risparmi –, arriva poi ad una conclusione tutt’altro che pessimista: “Davanti all’imponenza e pervasività degli odierni sistemi economico-finanziari – viene infatti scritto –, potremmo essere tentati di rassegnarci al cinismo ed a pensare che con le nostre povere forze possiamo fare ben poco. In realtà, ciascuno di noi può fare molto, specialmente se non rimane solo”.

“Oeconomicae et pecuniariae quaestiones” è solo in apparenza una lettura facile; in realtà rappresenta una base d’azione importante per  chi si trova nell’ambito dei moderni sistemi della produzione. Libro piccolo in termini di numero di pagine, “Oeconomicae et pecuniariae quaestiones” dovrebbe essere su ogni tavolo d’impresa.

Oeconomicae et pecuniariae quaestiones. Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario

Congregazione per la dottrina della fede

Libreria Editrice Vaticana, 2018

Un documento della Chiesa appena pubblicato, mette in fila e riordina i principi che legano etica, economia, finanza e organizzazione della produzione

Finanza e impresa. E corretta gestione di quest’ultima. Cultura del produrre non per accumulare ma per dare. Temi complessi e importanti, che vanno di pari passo con quelli del ruolo dell’impresa, dell’imprenditore, dei manager in relazione alla responsabilità sociali delle organizzazioni della produzione. Così come quelli dell’etica economica e dell’etica sociale.

Per capire di più e meglio, fa bene leggere “Oeconomicae et pecuniariae quaestiones. Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario”, volumetto scritto a più mani dai componenti della Congregazione per la dottrina della fede e appena pubblicato.

Le prime righe del testo dicono già tutto del contenuto e delle intenzioni nel momento in cui si parla della necessità, nei fatti dell’economia e della finanza, della presenza di “una chiara fondazione etica, che assicuri al benessere raggiunto quella qualità umana delle relazioni che i meccanismi economici, da soli, non sono in grado di produrre”. E ancora di quanto oggi sia necessario un “connubio fra sapere tecnico e sapienza umana, senza di cui ogni umano agire finisce per deteriorarsi”. Etica ed economia quindi. Conti fatti bene, ma con attenzione anche ad altro.

Il documento della Congregazione per la dottrina della fede quindi, affronta l’argomento gettando prima le basi di un ragionamento che metta insieme etica e attività umana; poi affrontando quelle che vengono definite “alcune puntualizzazioni nel contesto odierno” e che guardano più direttamente all’economia, alla produzione, alla finanza e alle imprese. È qui che si parla, per esempio, della necessità di un “mercato sano” dal quale possono derivare etica e dignità dell’uomo. Ed è qui che naturalmente la Congregazione per la dottrina della fede punta il dito quando, per esempio, scrive: “L’esperienza degli ultimi decenni ha mostrato con evidenza, da una parte, quanto sia ingenua la fiducia in una presunta autosufficienza allocativa dei mercati, indipendente da qualunque etica, e dall’altra, l’impellente necessità di una loro adeguata regolazione, che coniughi nello stesso tempo libertà e tutela di tutti i soggetti che vi operano in regime di una sana e corretta interazione, specialmente dei più vulnerabili”. Ed è ancora da questo passaggio che si toccano temi delicati come quello dell’intermediazione, delle banche, della trasparenza. Si arriva così a guardare più da vicino l’impresa che, viene precisato, “costituisce un’importante rete di relazioni e, a suo modo, rappresenta un vero corpo sociale intermedio, con una sua propria cultura e prassi. Tali cultura e prassi, mentre determinano l’organizzazione interna all’impresa, influiscono altresì sul tessuto sociale nel quale essa agisce”.

Il documento – dopo aver toccato altri temi come quelli delle tecniche produttive, della ripartizione dei profitti, della gestione dei risparmi –, arriva poi ad una conclusione tutt’altro che pessimista: “Davanti all’imponenza e pervasività degli odierni sistemi economico-finanziari – viene infatti scritto –, potremmo essere tentati di rassegnarci al cinismo ed a pensare che con le nostre povere forze possiamo fare ben poco. In realtà, ciascuno di noi può fare molto, specialmente se non rimane solo”.

“Oeconomicae et pecuniariae quaestiones” è solo in apparenza una lettura facile; in realtà rappresenta una base d’azione importante per  chi si trova nell’ambito dei moderni sistemi della produzione. Libro piccolo in termini di numero di pagine, “Oeconomicae et pecuniariae quaestiones” dovrebbe essere su ogni tavolo d’impresa.

Oeconomicae et pecuniariae quaestiones. Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario

Congregazione per la dottrina della fede

Libreria Editrice Vaticana, 2018

Buone imprese per una buona società

Sintetizzati i legami fra l’etica del produrre e del gestire con il ruolo dell’imprenditore nella vita civile

 

Etica dell’impresa ed etica sociale. Buona economia e buona società. Le imprese come attori sul territorio, motori di progresso. Binomi che dovrebbero essere consolidati e consueti. E che invece non trovano ancora la diffusione che dovrebbero avere. Spesso la consuetudine è la degenerazione. Eppure è dall’etica (anche dell’impresa) che occorre partire. Così come ha fatto Francesco Corti con la sua tesi  “L’etica d’impresa come risorsa di sviluppo sociale e risorsa aziendale di fronte alla mafia” discussa nell’ambito della Facoltà di scienze politiche, economiche e sociali di Milano.

Corti applica il concetto che identifica l’etica d’impresa come intimamente legata alla natura stessa dell’imprenditore fatta di creatività, orgoglio, amore per l’impresa, capacità di valorizzare l’uomo, intelligenza nelle scelte professionali. E’ così che la buona economia passa per il buon imprenditore, cioè per chi lavora davvero per l’impresa ed è egli stesso prima di tutto lavoratore.

E’ da queste premesse che Corti parte per sviluppare il suo ragionamento presentando prima di tutto i principi alla base dell’etica applicata alle organizzazioni della produzione, per poi passare all’analisi delle relazioni fra etica d’impresa e responsabilità sociale (comprendendo anche le degenerazioni di questa relazione). Il lavoro passa quindi ad esaminare alcune esperienze di etica d’impresa applicata concretamente: le vicende relative alla mafia e all’economia, alcuni esempi di buona economia d’impresa. Scorrono così nel testo le storie del lavoro di Marco Vitale e Giovanni Falcone, i casi di Libera Terra, Addiopizzo, Altromercato, Officina Casona, La Tela.

La scrittura di Francesco Corti è appassionata e precisa: in uno dei passi finali del testo scrive: “L’etica d’impresa (…) va vissuta, metabolizzata e considerata intrinseca alla vita dell’organizzazione economica”. Corti riesce in relativamente poche pagine a condensare non solo molte conoscenze ma anche – e soprattutto -, un sentimento d’impresa che va coltivato e diffuso. Il risultato è un testo che va al di là di una semplice tesi.

L’etica d’impresa come risorsa di sviluppo sociale e risorsa aziendale di fronte alla mafia

Francesco Corti

Tesi, Università degli studi di Milano, Facoltà di scienze politiche, economiche e sociali, 2017

Sintetizzati i legami fra l’etica del produrre e del gestire con il ruolo dell’imprenditore nella vita civile

 

Etica dell’impresa ed etica sociale. Buona economia e buona società. Le imprese come attori sul territorio, motori di progresso. Binomi che dovrebbero essere consolidati e consueti. E che invece non trovano ancora la diffusione che dovrebbero avere. Spesso la consuetudine è la degenerazione. Eppure è dall’etica (anche dell’impresa) che occorre partire. Così come ha fatto Francesco Corti con la sua tesi  “L’etica d’impresa come risorsa di sviluppo sociale e risorsa aziendale di fronte alla mafia” discussa nell’ambito della Facoltà di scienze politiche, economiche e sociali di Milano.

Corti applica il concetto che identifica l’etica d’impresa come intimamente legata alla natura stessa dell’imprenditore fatta di creatività, orgoglio, amore per l’impresa, capacità di valorizzare l’uomo, intelligenza nelle scelte professionali. E’ così che la buona economia passa per il buon imprenditore, cioè per chi lavora davvero per l’impresa ed è egli stesso prima di tutto lavoratore.

E’ da queste premesse che Corti parte per sviluppare il suo ragionamento presentando prima di tutto i principi alla base dell’etica applicata alle organizzazioni della produzione, per poi passare all’analisi delle relazioni fra etica d’impresa e responsabilità sociale (comprendendo anche le degenerazioni di questa relazione). Il lavoro passa quindi ad esaminare alcune esperienze di etica d’impresa applicata concretamente: le vicende relative alla mafia e all’economia, alcuni esempi di buona economia d’impresa. Scorrono così nel testo le storie del lavoro di Marco Vitale e Giovanni Falcone, i casi di Libera Terra, Addiopizzo, Altromercato, Officina Casona, La Tela.

La scrittura di Francesco Corti è appassionata e precisa: in uno dei passi finali del testo scrive: “L’etica d’impresa (…) va vissuta, metabolizzata e considerata intrinseca alla vita dell’organizzazione economica”. Corti riesce in relativamente poche pagine a condensare non solo molte conoscenze ma anche – e soprattutto -, un sentimento d’impresa che va coltivato e diffuso. Il risultato è un testo che va al di là di una semplice tesi.

L’etica d’impresa come risorsa di sviluppo sociale e risorsa aziendale di fronte alla mafia

Francesco Corti

Tesi, Università degli studi di Milano, Facoltà di scienze politiche, economiche e sociali, 2017

Fondazione Pirelli Educational: un altro anno di cultura d’impresa raccontata ai ragazzi

Con la chiusura delle scuole anche il programma Educational per l’anno scolastico 2017/2018 volge al termine per la pausa estiva.

Quest’anno circa 100 classi e 2000 studenti hanno partecipato alle attività didattiche ideate e organizzate da Fondazione Pirelli, scegliendo tra 20 percorsi tematici.

Gli argomenti affrontati sono stati molteplici: dalla progettazione e produzione di un pneumatico all’evoluzione della grafica pubblicitaria e della comunicazione visiva, dall’organizzazione e redazione di una rivista d’autore all’analisi di una fotografia storica d’archivio, dal cinema d’impresa alla sicurezza stradale.

Per  quest’anno le classi primarie e secondarie di primo e secondo grado hanno potuto accogliere negli spazi delle proprie scuole alcune delle proposte offerte. Fondazione Pirelli Educational si è recata così in trasferta in diversi istituti di Milano e Lombardia con i propri supporti multimediali e materiali creativi.

I percorsi alla scoperta dell’area Bicocca sono stati anche per quest’anno accolti con entusiasmo. Gli studenti delle scuole secondarie hanno avuto occasione di visitare l’Headquarters Pirelli e – attraverso la visione di materiali d’archivio e video storici – apprendere come il quartiere si è trasformato nel corso del tempo, di entrare nei laboratori chimici di analisi per conoscere i materiali che costituiscono un pneumatico, di assistere  nei laboratori di Ricerca e Sviluppo ai principali test indoor a cui un pneumatico è sottoposto in fase di progettazione.

Fondazione Pirelli Educational ha anche per quest’anno aperto le porte ad alcuni degli impianti più tecnologicamente avanzati di Pirelli: il Polo Industriale di Settimo Torinese e la fabbrica Next MIRS di Milano Bicocca, con l’obiettivo di mostrare ai ragazzi il mondo dell’Industry 4.0, la fabbrica digitale, robotizzata e interconnessa.

Infine, alla sua VI edizione, 60 docenti hanno partecipato al corso di formazione e aggiornamento Cinema & Storia, organizzato in collaborazione con Fondazione ISEC e Fondazione Cineteca Italiana. Il corso dal titolo Per un lessico della contemporaneità. Comprendere e insegnare l’età conteporanea ha permesso l’avvicinamento a importanti questioni della contemporaneità, quali la geopolitica, le nuove frontiere del lavoro e il rapporto tra finanza ed economia reale, attraverso lezioni, laboratori e proiezioni cinematografiche.

Seguiteci su fondazionepirelli.org per scoprire le novità del programma 2018/2019.

Con la chiusura delle scuole anche il programma Educational per l’anno scolastico 2017/2018 volge al termine per la pausa estiva.

Quest’anno circa 100 classi e 2000 studenti hanno partecipato alle attività didattiche ideate e organizzate da Fondazione Pirelli, scegliendo tra 20 percorsi tematici.

Gli argomenti affrontati sono stati molteplici: dalla progettazione e produzione di un pneumatico all’evoluzione della grafica pubblicitaria e della comunicazione visiva, dall’organizzazione e redazione di una rivista d’autore all’analisi di una fotografia storica d’archivio, dal cinema d’impresa alla sicurezza stradale.

Per  quest’anno le classi primarie e secondarie di primo e secondo grado hanno potuto accogliere negli spazi delle proprie scuole alcune delle proposte offerte. Fondazione Pirelli Educational si è recata così in trasferta in diversi istituti di Milano e Lombardia con i propri supporti multimediali e materiali creativi.

I percorsi alla scoperta dell’area Bicocca sono stati anche per quest’anno accolti con entusiasmo. Gli studenti delle scuole secondarie hanno avuto occasione di visitare l’Headquarters Pirelli e – attraverso la visione di materiali d’archivio e video storici – apprendere come il quartiere si è trasformato nel corso del tempo, di entrare nei laboratori chimici di analisi per conoscere i materiali che costituiscono un pneumatico, di assistere  nei laboratori di Ricerca e Sviluppo ai principali test indoor a cui un pneumatico è sottoposto in fase di progettazione.

Fondazione Pirelli Educational ha anche per quest’anno aperto le porte ad alcuni degli impianti più tecnologicamente avanzati di Pirelli: il Polo Industriale di Settimo Torinese e la fabbrica Next MIRS di Milano Bicocca, con l’obiettivo di mostrare ai ragazzi il mondo dell’Industry 4.0, la fabbrica digitale, robotizzata e interconnessa.

Infine, alla sua VI edizione, 60 docenti hanno partecipato al corso di formazione e aggiornamento Cinema & Storia, organizzato in collaborazione con Fondazione ISEC e Fondazione Cineteca Italiana. Il corso dal titolo Per un lessico della contemporaneità. Comprendere e insegnare l’età conteporanea ha permesso l’avvicinamento a importanti questioni della contemporaneità, quali la geopolitica, le nuove frontiere del lavoro e il rapporto tra finanza ed economia reale, attraverso lezioni, laboratori e proiezioni cinematografiche.

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Alfredo Binda, ciclista e giornalista per la rivista “Pirelli”

Seguendo lo svolgersi dell’edizione 2018 del Giro Ciclistico d’Italia Under 23  -terminato sabato 16 giugno a Cà del Poggio, provincia di Treviso, laureando il campione in Maglia Bianca Pirelli-  la rubrica “Storie dal mondo Pirelli” rievoca un’altra grande manifestazione del passato dedicata ai giovani ciclisti dilettanti in procinto di fare il grande salto verso il professionismo: il Gran Premio Pirelli. Nato da un’idea dell’ex-campione del pedale Alfredo Binda, il Gran Premio Pirelli vide la sua prima edizione nel 1949: visto il successo, si capì fin da subito che altre ne sarebbero seguite negli anni. “Io ho ormai 49 anni e sono tra i ‘vecchi’; ma se avessi 30 primavere di meno, le garantisco che al Gran Premio Pirelli parteciperei anche con le gomme a terra” raccontava nel 1951 Binda in una delle tante interviste rilasciate alla rivista “Pirelli”.

“Il G.P.P. ha solamente tre anni di vita, ma è già una classica. Io lo definirei la Milano-Sanremo dei dilettanti”: Alfredo Binda aveva particolare motivo di orgoglio, visto che a quella edizione 1951 del Gran Premio partecipò per la prima volta anche un nutrito gruppo di ciclisti stranieri. Addentrandosi negli Anni Cinquanta, il Gran Premio Internazionale Pirelli divenne la più bella realtà del ciclismo giovanile in Europa: “Sono così rare le occasioni in cui possiamo mettere a confronto i nostri dilettanti con quelli delle altre nazioni” -scriveva Giuseppe Ambrosini nell’articolo pubblicato sulla rivista “Pirelli” di ottobre 1952– “che dobbiamo essere grati alla grande firma milanese di offrircene annualmente una così importante e solenne”. Il giornalista ribadiva che gran parte del merito di tale successo spettava  al Commendator Arturo Pozzo, direttore vendite Pneumatici Pirelli e “regista ideale per abilità direttiva sempre animata da giovanile spirito sportivo”. Era stato lui, un giorno d’ottobre dell’ormai lontano 1948, a chiedere ad Alfredo Binda di farsi venire una buona idea per rilanciare il ciclismo dopo i cupi anni di guerra: lui -e la Pirelli- l’avrebbero senza dubbio sostenuto.

La sera del 10 ottobre 1955 Arturo Pozzo morì improvvisamente: aveva sessantasei anni. Il giorno precedente aveva premiato Sante Ranucci, vincitore al velodromo Vigorelli di Milano della VII edizione del Gran Premio Pirelli. Per la manifestazione inventata assieme a Binda sette anni prima, la scomparsa di Pozzo fu un duro colpo: se ne correranno ancora due edizioni, con l’attribuzione del Trofeo Arturo Pozzo disegnato dall’architetto-designer Roberto Menghi nella gara del 1956. La finale del IX Gran Premio Ciclistico Internazionale Pirelli, disputata il 22 settembre del 1957, vide la vittoria del giovane veneto Federico Galeaz. Se il manager Arturo Pozzo fu la “mente” del Gran Premio Pirelli, il ciclista Alfredo Binda ne era stato sicuramente il “braccio”. Al campione di Cittiglio, paesetto della Valcuvia sopra Varese, il compito di chiudere un’epoca ricordando in “Nove anni con la gioventù” per la rivista “Pirelli” n° 6, novembre 1957. “I campioni che il pubblico acclama provengono tutti dalle file di sconosciuti dilettanti: contadini, meccanici, garzoni o semplici giovanotti senza mestiere che hanno una gran passione per la bicicletta…I dilettanti corrono ancora senza alcuna prospettiva di premio immediato e quando la fatica li fa crollare, staccano onestamente dalla loro maglia il numero di corsa e ritornano a casa, percorrendo altre centinaia di chilometri in bicicletta… Ma ho notato, quest’anno, in tutti i giovani, uno spirito particolarmente combattivo. Hanno rinnovato alla svelta e con fresca irruenza la struttura del nostro ciclismo”.

Seguendo lo svolgersi dell’edizione 2018 del Giro Ciclistico d’Italia Under 23  -terminato sabato 16 giugno a Cà del Poggio, provincia di Treviso, laureando il campione in Maglia Bianca Pirelli-  la rubrica “Storie dal mondo Pirelli” rievoca un’altra grande manifestazione del passato dedicata ai giovani ciclisti dilettanti in procinto di fare il grande salto verso il professionismo: il Gran Premio Pirelli. Nato da un’idea dell’ex-campione del pedale Alfredo Binda, il Gran Premio Pirelli vide la sua prima edizione nel 1949: visto il successo, si capì fin da subito che altre ne sarebbero seguite negli anni. “Io ho ormai 49 anni e sono tra i ‘vecchi’; ma se avessi 30 primavere di meno, le garantisco che al Gran Premio Pirelli parteciperei anche con le gomme a terra” raccontava nel 1951 Binda in una delle tante interviste rilasciate alla rivista “Pirelli”.

“Il G.P.P. ha solamente tre anni di vita, ma è già una classica. Io lo definirei la Milano-Sanremo dei dilettanti”: Alfredo Binda aveva particolare motivo di orgoglio, visto che a quella edizione 1951 del Gran Premio partecipò per la prima volta anche un nutrito gruppo di ciclisti stranieri. Addentrandosi negli Anni Cinquanta, il Gran Premio Internazionale Pirelli divenne la più bella realtà del ciclismo giovanile in Europa: “Sono così rare le occasioni in cui possiamo mettere a confronto i nostri dilettanti con quelli delle altre nazioni” -scriveva Giuseppe Ambrosini nell’articolo pubblicato sulla rivista “Pirelli” di ottobre 1952– “che dobbiamo essere grati alla grande firma milanese di offrircene annualmente una così importante e solenne”. Il giornalista ribadiva che gran parte del merito di tale successo spettava  al Commendator Arturo Pozzo, direttore vendite Pneumatici Pirelli e “regista ideale per abilità direttiva sempre animata da giovanile spirito sportivo”. Era stato lui, un giorno d’ottobre dell’ormai lontano 1948, a chiedere ad Alfredo Binda di farsi venire una buona idea per rilanciare il ciclismo dopo i cupi anni di guerra: lui -e la Pirelli- l’avrebbero senza dubbio sostenuto.

La sera del 10 ottobre 1955 Arturo Pozzo morì improvvisamente: aveva sessantasei anni. Il giorno precedente aveva premiato Sante Ranucci, vincitore al velodromo Vigorelli di Milano della VII edizione del Gran Premio Pirelli. Per la manifestazione inventata assieme a Binda sette anni prima, la scomparsa di Pozzo fu un duro colpo: se ne correranno ancora due edizioni, con l’attribuzione del Trofeo Arturo Pozzo disegnato dall’architetto-designer Roberto Menghi nella gara del 1956. La finale del IX Gran Premio Ciclistico Internazionale Pirelli, disputata il 22 settembre del 1957, vide la vittoria del giovane veneto Federico Galeaz. Se il manager Arturo Pozzo fu la “mente” del Gran Premio Pirelli, il ciclista Alfredo Binda ne era stato sicuramente il “braccio”. Al campione di Cittiglio, paesetto della Valcuvia sopra Varese, il compito di chiudere un’epoca ricordando in “Nove anni con la gioventù” per la rivista “Pirelli” n° 6, novembre 1957. “I campioni che il pubblico acclama provengono tutti dalle file di sconosciuti dilettanti: contadini, meccanici, garzoni o semplici giovanotti senza mestiere che hanno una gran passione per la bicicletta…I dilettanti corrono ancora senza alcuna prospettiva di premio immediato e quando la fatica li fa crollare, staccano onestamente dalla loro maglia il numero di corsa e ritornano a casa, percorrendo altre centinaia di chilometri in bicicletta… Ma ho notato, quest’anno, in tutti i giovani, uno spirito particolarmente combattivo. Hanno rinnovato alla svelta e con fresca irruenza la struttura del nostro ciclismo”.

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Reti per crescere

Una ricerca condotta da Inapp sistema e chiarisce le condizioni per la creazione di reti d’impresa

Unire le forze per affrontare meglio l’avventura. L’indicazione non è nuova, ma è certamente sempre valida. Anche – e soprattutto -, quando si parla di economia e di produzione. Impresa comunque non facile, quella di “mettersi insieme” per fare di più e meglio va certamente studiata, soprattutto dal punto di vista delle risorse umane che possono essere messe in campo. E’ quello che ha fatto un gruppo di lavoro che fa capo ad Inapp e che ha svolto una analisi sui legami fra necessità di fare rete fra aziende, risorse umane presenti e esigenze formative. “Reti d’imprese come sistemi dinamici. Uno studio sul modello organizzativo delle competenze” è il rapporto – redatto da Anna Vaiasicca -, scaturito da questo insieme di indagini.

L’indagine prende le mosse dalla costatazione della necessità di far fronte alla globalizzazione costituendo reti d’impresa solide e competitive. Una necessità alla quale le aziende italiane pare abbiano risposto con buoni risultati, che tuttavia possono essere ancora migliorati. Partendo anche dalla formazione e dallo sviluppo di competenze adeguate.

Il rapporto si sviluppa quindi in quattro passi successivi. Prima di tutto viene sintetizzato il tema generale delle “reti d’impresa come integrazione di saperi”, poi viene approfondita l’esperienza italiana con una attenzione particolare ai contratti di rete. Successivamente viene analizzata più da vicino la creazione e l’attività del “sistema rete d’imprese”, guardando alle dinamiche interne e al ruolo delle risorse umane. E’ in questa parte che vengono messe a fuoco le indicazioni relative alle competenze da sviluppare. Chiude quindi l’indagine un approfondimento su alcuni casi studio (resi però quasi sempre anonimi). Fra questi “un primo gruppo di reti si compone di imprese manifatturiere, piccole e medie, che operano nel settore della meccanica e della meccatronica”, è poi la volta di “una rete costituita da imprese nella provincia di Varese e di una seconda composta da aziende che operano nel settore turistico”.

Esaustiva seppur complessa la descrizione di rete che viene quindi posta nella parte finale del testo: “Il sistema di rete si basa quindi sull’integrazione del sapere, anche specifico di settore, al quale ogni nodo contribuisce per la realizzazione degli obiettivi generali, svolgendo attività che vengono continuamente ridefinite dalle interazioni di chi partecipa all’esecuzione dei compiti che di volta in volta risultano necessari. La conoscenza circola in più direzioni, in verticale, mettendo in contatto il management e la proprietà con fornitori, clienti e ciclo di produzione, e in orizzontale, dalle singole imprese al team di lavoro trasversale e da questo, arricchito, nuovamente verso le unità produttive. Nella conoscenza condivisa prevale la regola dei sistemi complessi, nei quali non è più possibile distinguere l’apporto degli individui e delle singole imprese, la qual cosa determina un equilibrio dinamico tra patrimonio comune e interno di ogni singola azienda”.

Reti d’imprese come sistemi dinamici. Uno studio sul modello organizzativo delle competenze

Anna Vaiasicca (INAPP)

INAPP, maggio 2018

Una ricerca condotta da Inapp sistema e chiarisce le condizioni per la creazione di reti d’impresa

Unire le forze per affrontare meglio l’avventura. L’indicazione non è nuova, ma è certamente sempre valida. Anche – e soprattutto -, quando si parla di economia e di produzione. Impresa comunque non facile, quella di “mettersi insieme” per fare di più e meglio va certamente studiata, soprattutto dal punto di vista delle risorse umane che possono essere messe in campo. E’ quello che ha fatto un gruppo di lavoro che fa capo ad Inapp e che ha svolto una analisi sui legami fra necessità di fare rete fra aziende, risorse umane presenti e esigenze formative. “Reti d’imprese come sistemi dinamici. Uno studio sul modello organizzativo delle competenze” è il rapporto – redatto da Anna Vaiasicca -, scaturito da questo insieme di indagini.

L’indagine prende le mosse dalla costatazione della necessità di far fronte alla globalizzazione costituendo reti d’impresa solide e competitive. Una necessità alla quale le aziende italiane pare abbiano risposto con buoni risultati, che tuttavia possono essere ancora migliorati. Partendo anche dalla formazione e dallo sviluppo di competenze adeguate.

Il rapporto si sviluppa quindi in quattro passi successivi. Prima di tutto viene sintetizzato il tema generale delle “reti d’impresa come integrazione di saperi”, poi viene approfondita l’esperienza italiana con una attenzione particolare ai contratti di rete. Successivamente viene analizzata più da vicino la creazione e l’attività del “sistema rete d’imprese”, guardando alle dinamiche interne e al ruolo delle risorse umane. E’ in questa parte che vengono messe a fuoco le indicazioni relative alle competenze da sviluppare. Chiude quindi l’indagine un approfondimento su alcuni casi studio (resi però quasi sempre anonimi). Fra questi “un primo gruppo di reti si compone di imprese manifatturiere, piccole e medie, che operano nel settore della meccanica e della meccatronica”, è poi la volta di “una rete costituita da imprese nella provincia di Varese e di una seconda composta da aziende che operano nel settore turistico”.

Esaustiva seppur complessa la descrizione di rete che viene quindi posta nella parte finale del testo: “Il sistema di rete si basa quindi sull’integrazione del sapere, anche specifico di settore, al quale ogni nodo contribuisce per la realizzazione degli obiettivi generali, svolgendo attività che vengono continuamente ridefinite dalle interazioni di chi partecipa all’esecuzione dei compiti che di volta in volta risultano necessari. La conoscenza circola in più direzioni, in verticale, mettendo in contatto il management e la proprietà con fornitori, clienti e ciclo di produzione, e in orizzontale, dalle singole imprese al team di lavoro trasversale e da questo, arricchito, nuovamente verso le unità produttive. Nella conoscenza condivisa prevale la regola dei sistemi complessi, nei quali non è più possibile distinguere l’apporto degli individui e delle singole imprese, la qual cosa determina un equilibrio dinamico tra patrimonio comune e interno di ogni singola azienda”.

Reti d’imprese come sistemi dinamici. Uno studio sul modello organizzativo delle competenze

Anna Vaiasicca (INAPP)

INAPP, maggio 2018

Non solo Industria 4.0

Le nuove tecnologie non sono sufficienti per per il futuro della manifattura

Si fa presto a dire “Industria 4.0”. Poi però occorre attuarla e, soprattutto, riempirla di contenuti e di persone. Senza dimenticare il contesto, vicino e lontano, nel quale “Industria 4.0” si applica. Insomma, il nuovo modello industriale è certamente da prendere in serie considerazione e da seguire, ma occorre non fermarsi lì.

È di fatto da questa posizione che Sesto Viticoli si è mosso per scrivere “Verso un manifatturiero italiano 4.0. Ricerca tecnologia e non solo”. Il senso del libro è nel sottotitolo: “Ricerca tecnologia e non solo”. Lo svolgimento del ragionamento conduce a riconoscere come il settore manifatturiero ricopra certamente un ruolo centrale sia nelle economie avanzate sia in quelle in via di sviluppo, e che un suo futuro sia concepibile ormai solo nell’ottica del modello “Industria 4.0”. Il problema, secondo Viticoli, nasce da qui in avanti.
Il dibattito oggi in corso – viene spiegato nelle prime pagine del libro –, è dominato dall’importanza di introdurre le Tecnologie Digitali (IoT, Big Data, Intelligenza Artificiale, Cloud, Automazione avanzata e via discorrendo), all’interno dei processi e delle organizzazioni aziendali, quasi come se una particolare dotazione tecnologica risolvesse da sola l’insieme dei problemi e delle sfide, oltre che dei ritardi, che si sono accumulati nel sistema industriale nazionale oltre che nel corso della crisi.

Per Viticoli ci vuole anche dell’altro. E prima di tutto una visione più ampia della situazione dei possibili sviluppi. Il libro quindi parte da una analisi di “cosa succede nel mondo” per poi passare alle linee per “costruire un futuro” e quindi agli strumenti tecnologici a disposizione. Il salto di qualità avviene subito dopo. Viticoli esamina la necessità di adeguamento delle organizzazioni della produzione a “Industria 4.0”, di formazione e di creazione di reti d’impresa, di capacità di trasferimento tecnologico oltre che di trasformazione delle relazioni fra pubblico e privato.

Per avvalorare il tutto, l’autore ha raccolto una serie di testimonianze dirette raccolta in organizzazioni pubbliche e private come Fca, Ericsson, Farmindustria, Fincantieri, LFoundry, Pirelli, Thales Alenia Space, Telecom, Cnr, Enea, Scuola Normale Pisa.

Il libro di Viticoli è importante perché racconta bene cosa sta accadendo e soprattutto perché guarda a “Industria 4.0” non come ad una formula magica ma come “un’evoluzione di un tessuto di competenze e cultura già esistenti da reimpostare e finalizzare in un arco temporale congruo”.

“Industria 4.0” come un cammino, quindi, da compiere tutti e non solo con le tecnologie. Fatto culturale prima che tecnico.

Verso un manifatturiero italiano 4.0. Ricerca tecnologia e non solo

Sesto Viticoli

Guerini, 2017

Le nuove tecnologie non sono sufficienti per per il futuro della manifattura

Si fa presto a dire “Industria 4.0”. Poi però occorre attuarla e, soprattutto, riempirla di contenuti e di persone. Senza dimenticare il contesto, vicino e lontano, nel quale “Industria 4.0” si applica. Insomma, il nuovo modello industriale è certamente da prendere in serie considerazione e da seguire, ma occorre non fermarsi lì.

È di fatto da questa posizione che Sesto Viticoli si è mosso per scrivere “Verso un manifatturiero italiano 4.0. Ricerca tecnologia e non solo”. Il senso del libro è nel sottotitolo: “Ricerca tecnologia e non solo”. Lo svolgimento del ragionamento conduce a riconoscere come il settore manifatturiero ricopra certamente un ruolo centrale sia nelle economie avanzate sia in quelle in via di sviluppo, e che un suo futuro sia concepibile ormai solo nell’ottica del modello “Industria 4.0”. Il problema, secondo Viticoli, nasce da qui in avanti.
Il dibattito oggi in corso – viene spiegato nelle prime pagine del libro –, è dominato dall’importanza di introdurre le Tecnologie Digitali (IoT, Big Data, Intelligenza Artificiale, Cloud, Automazione avanzata e via discorrendo), all’interno dei processi e delle organizzazioni aziendali, quasi come se una particolare dotazione tecnologica risolvesse da sola l’insieme dei problemi e delle sfide, oltre che dei ritardi, che si sono accumulati nel sistema industriale nazionale oltre che nel corso della crisi.

Per Viticoli ci vuole anche dell’altro. E prima di tutto una visione più ampia della situazione dei possibili sviluppi. Il libro quindi parte da una analisi di “cosa succede nel mondo” per poi passare alle linee per “costruire un futuro” e quindi agli strumenti tecnologici a disposizione. Il salto di qualità avviene subito dopo. Viticoli esamina la necessità di adeguamento delle organizzazioni della produzione a “Industria 4.0”, di formazione e di creazione di reti d’impresa, di capacità di trasferimento tecnologico oltre che di trasformazione delle relazioni fra pubblico e privato.

Per avvalorare il tutto, l’autore ha raccolto una serie di testimonianze dirette raccolta in organizzazioni pubbliche e private come Fca, Ericsson, Farmindustria, Fincantieri, LFoundry, Pirelli, Thales Alenia Space, Telecom, Cnr, Enea, Scuola Normale Pisa.

Il libro di Viticoli è importante perché racconta bene cosa sta accadendo e soprattutto perché guarda a “Industria 4.0” non come ad una formula magica ma come “un’evoluzione di un tessuto di competenze e cultura già esistenti da reimpostare e finalizzare in un arco temporale congruo”.

“Industria 4.0” come un cammino, quindi, da compiere tutti e non solo con le tecnologie. Fatto culturale prima che tecnico.

Verso un manifatturiero italiano 4.0. Ricerca tecnologia e non solo

Sesto Viticoli

Guerini, 2017

Le imprese investono, innovano, esportano ma sono frenate dai limiti delle infrastrutture

S’affannano, le imprese italiane migliori, a produrre, innovare, diventare più competitive, esportare e investire sui mercati più dinamici. S’impegnano, con capitali e intelligenze, a cogliere tutte le opportunità offerte dalla “rivoluzione digitale” (se ne avuta una chiara eco, proprio nei giorni scorsi, al Make in Italy Festival a Thiene, Vicenza, ma anche al Festival dell’Economia a Trento). Il guaio è che poi si ritrovano rallentate da un collo di bottiglia, che rende il loro lavoro molto meno produttivo: la carenza delle infrastrutture. E così sono costrette ad arrancare rispetto alle imprese concorrenti di altri paesi europei (la Germania, la Francia) che hanno infrastrutture migliori, più efficienti: ferrovie, strade, porti, aeroporti ma anche reti di telecomunicazioni e “banda larga” per i collegamenti digital.

Che infrastrutture e logistica insufficienti siano un pesante freno allo sviluppo dell’Italia lo conferma l’ultimo rapporto sull’export della Sace (la società pubblica che sostiene gli investimenti esteri), intitolato “Keep calm & Made in Italy”, presentato il 12 giugno. Un dato, innanzitutto: l’Italia perde 70 miliardi all’anno di export, quattro punti di Pil, proprio per la carenza delle infrastrutture commerciali, a cominciare da quelle ferroviarie e marittime. E anche se negli ultimi anni si sta investendo (147 miliardi in logistica, dal 2013 al 2017), siamo indietro rispetto alla Germania (248 miliardi investiti nello stesso periodo), anche se stiamo un po’ meglio della Francia (122 miliardi) che comunque molto aveva fatto nella lunga stagione precedente. Investimenti, peraltro, rallentati da inefficienze burocratiche e da un clima di ostilità in settori dell’opinione pubblica che trova spazio anche in programmi e “contratti” politici.

Il confronto sulle con la Germania è obbligatorio: siamo la seconda manifattura europea, dopo quella tedesca, in alcuni settori contendiamo primati (chimica, meccatronica, farmaceutica d’avanguardia, arredamento) e le nostre imprese soprattutto nella “Regione A4” (lungo l’asse autostradale dal Piemonte al Friuli, con un’espansione verso l’Emilia delle “multinazionali tascabili”) hanno un dinamismo internazionale straordinario ma paghiamo un “costo logistica” che frena troppo la nostra competitività.

Lo mostra un indice internazionale, il Logistic Performance Index della Banca Mondiale, che attribuisce il primo posto alla Germania e solo il 19° all’Italia. In linea, anche il Global Competitive Index del World Economic Forum, che mette al primo posto, per qualità delle infrastrutture interessate dagli scambi internazionali i Paesi Bassi, seguiti da Germania, Giappone, Usa. La Francia è al 9° posto, il Regno Unito all’11° e l’Italia appena al 26° (“IlSole24Ore”, 9 giugno).

A determinare una così scadente collocazione, sostiene il Rapporto Sace, sono le nostre “vie del mare”: abbiamo fatto poco, non abbiamo sfruttato la straordinaria posizione geografica al centro del Mediterraneo e, a causa “degli scarsi investimenti in infrastrutture marittime e portuali tra il 2013 e il 2017 l’Italia ha perso connettività riguardo alle principali reti marittime internazionali”.

Infrastrutture partita chiave per la crescita, dunque, per migliorare le connessioni tra l’Italia e le sue imprese, il resto dell’Europa e il mondo.

Proprio in un momento in cui si ridiscutono radicalmente flussi e regole degli scambi internazionali (il recente vertice del G7 in Canada ne è conferma) e aumentano le tensioni sui dazi nella partita aperta dagli Usa, è indispensabile che il sistema Paese, il governo, le forze politiche e gli attori sociali definiscano una chiara strategia di crescita che abbia, tra i suoi cardini, proprio le infrastrutture e la politica industriale.

In questo quadro sono preoccupanti alcune tendenze, che emergono nella maggioranza che sostiene il governo, a mettere ai margini proprio le infrastrutture, in nome di malintesi interessi ambientalistici. E sono meritevoli di grande ascolto le prese di posizione di presidenti di Regione, come Chiamparino, Pd, in Piemonte e Zaia, Lega, in Veneto (“La Stampa”, 8 e 9 giugno), ma anche Toti, Forza Italia, in Liguria, Bonaccini, Pd in Emilia Romagna e il sindaco di Milano Beppe Sala, Pd che, pur da diversi schieramenti politici, insistono comunque perché le infrastrutture e le “grandi opere” siano centrali nei programmi di governo e nelle scelte d’investimento conseguenti.

Ci sono grandi partite internazionali, che chiamano in causa l’Italia e le sue imprese. A cominciare dalla Belt and Road Iniziative, il progetto di una “nuova Via della Seta” tra Far East e occidente sui cui la Cina insiste e investe e che anche di recente è stato al centro di incontri e iniziative del Business Forum Italia-Cina. Il Mediterraneo e i porti italiani possono avere un ruolo di primo piano, le imprese italiane cogliere straordinarie opportunità di sviluppo su nuovi mercati. Il Rapporto Sace è molto chiaro: “Per l’Italia la Belt and Road Iniziative, nella sua configurazione attuale, è un incentivo alla modernizzazione delle infrastrutture logistiche, un’occasione di collaborazione e un propulsore per l’export”.

S’affannano, le imprese italiane migliori, a produrre, innovare, diventare più competitive, esportare e investire sui mercati più dinamici. S’impegnano, con capitali e intelligenze, a cogliere tutte le opportunità offerte dalla “rivoluzione digitale” (se ne avuta una chiara eco, proprio nei giorni scorsi, al Make in Italy Festival a Thiene, Vicenza, ma anche al Festival dell’Economia a Trento). Il guaio è che poi si ritrovano rallentate da un collo di bottiglia, che rende il loro lavoro molto meno produttivo: la carenza delle infrastrutture. E così sono costrette ad arrancare rispetto alle imprese concorrenti di altri paesi europei (la Germania, la Francia) che hanno infrastrutture migliori, più efficienti: ferrovie, strade, porti, aeroporti ma anche reti di telecomunicazioni e “banda larga” per i collegamenti digital.

Che infrastrutture e logistica insufficienti siano un pesante freno allo sviluppo dell’Italia lo conferma l’ultimo rapporto sull’export della Sace (la società pubblica che sostiene gli investimenti esteri), intitolato “Keep calm & Made in Italy”, presentato il 12 giugno. Un dato, innanzitutto: l’Italia perde 70 miliardi all’anno di export, quattro punti di Pil, proprio per la carenza delle infrastrutture commerciali, a cominciare da quelle ferroviarie e marittime. E anche se negli ultimi anni si sta investendo (147 miliardi in logistica, dal 2013 al 2017), siamo indietro rispetto alla Germania (248 miliardi investiti nello stesso periodo), anche se stiamo un po’ meglio della Francia (122 miliardi) che comunque molto aveva fatto nella lunga stagione precedente. Investimenti, peraltro, rallentati da inefficienze burocratiche e da un clima di ostilità in settori dell’opinione pubblica che trova spazio anche in programmi e “contratti” politici.

Il confronto sulle con la Germania è obbligatorio: siamo la seconda manifattura europea, dopo quella tedesca, in alcuni settori contendiamo primati (chimica, meccatronica, farmaceutica d’avanguardia, arredamento) e le nostre imprese soprattutto nella “Regione A4” (lungo l’asse autostradale dal Piemonte al Friuli, con un’espansione verso l’Emilia delle “multinazionali tascabili”) hanno un dinamismo internazionale straordinario ma paghiamo un “costo logistica” che frena troppo la nostra competitività.

Lo mostra un indice internazionale, il Logistic Performance Index della Banca Mondiale, che attribuisce il primo posto alla Germania e solo il 19° all’Italia. In linea, anche il Global Competitive Index del World Economic Forum, che mette al primo posto, per qualità delle infrastrutture interessate dagli scambi internazionali i Paesi Bassi, seguiti da Germania, Giappone, Usa. La Francia è al 9° posto, il Regno Unito all’11° e l’Italia appena al 26° (“IlSole24Ore”, 9 giugno).

A determinare una così scadente collocazione, sostiene il Rapporto Sace, sono le nostre “vie del mare”: abbiamo fatto poco, non abbiamo sfruttato la straordinaria posizione geografica al centro del Mediterraneo e, a causa “degli scarsi investimenti in infrastrutture marittime e portuali tra il 2013 e il 2017 l’Italia ha perso connettività riguardo alle principali reti marittime internazionali”.

Infrastrutture partita chiave per la crescita, dunque, per migliorare le connessioni tra l’Italia e le sue imprese, il resto dell’Europa e il mondo.

Proprio in un momento in cui si ridiscutono radicalmente flussi e regole degli scambi internazionali (il recente vertice del G7 in Canada ne è conferma) e aumentano le tensioni sui dazi nella partita aperta dagli Usa, è indispensabile che il sistema Paese, il governo, le forze politiche e gli attori sociali definiscano una chiara strategia di crescita che abbia, tra i suoi cardini, proprio le infrastrutture e la politica industriale.

In questo quadro sono preoccupanti alcune tendenze, che emergono nella maggioranza che sostiene il governo, a mettere ai margini proprio le infrastrutture, in nome di malintesi interessi ambientalistici. E sono meritevoli di grande ascolto le prese di posizione di presidenti di Regione, come Chiamparino, Pd, in Piemonte e Zaia, Lega, in Veneto (“La Stampa”, 8 e 9 giugno), ma anche Toti, Forza Italia, in Liguria, Bonaccini, Pd in Emilia Romagna e il sindaco di Milano Beppe Sala, Pd che, pur da diversi schieramenti politici, insistono comunque perché le infrastrutture e le “grandi opere” siano centrali nei programmi di governo e nelle scelte d’investimento conseguenti.

Ci sono grandi partite internazionali, che chiamano in causa l’Italia e le sue imprese. A cominciare dalla Belt and Road Iniziative, il progetto di una “nuova Via della Seta” tra Far East e occidente sui cui la Cina insiste e investe e che anche di recente è stato al centro di incontri e iniziative del Business Forum Italia-Cina. Il Mediterraneo e i porti italiani possono avere un ruolo di primo piano, le imprese italiane cogliere straordinarie opportunità di sviluppo su nuovi mercati. Il Rapporto Sace è molto chiaro: “Per l’Italia la Belt and Road Iniziative, nella sua configurazione attuale, è un incentivo alla modernizzazione delle infrastrutture logistiche, un’occasione di collaborazione e un propulsore per l’export”.

Il Gran Premio Pirelli, vetrina per giovani ciclisti

Ha preso ufficialmente il via il 7 giugno, con il prologo di Forlì, il Giro d’Italia Under 23 edizione 2018: è la più importante corsa a tappe di ciclismo su strada destinata ai dilettanti. La maglia bianca del leader sarà sponsorizzata Pirelli, e non potrebbe essere diversamente. Perchè il legame tra Pirelli e il ciclismo giovane viene da molto lontano. Era il marzo 1949 quando, nell’articolo “Dilettanti in allarme” firmato da Nino Nutrizio per la rivistaPirelli”, il ciclista Alfredo Binda raccontava con orgoglio: “Sono preso con il Gran Premio Pirelli, ho dato la mia parola, ho accettato questo incarico”.

Il grande campione del pedale, lasciata da una decina d’anni l’attività agonistica e in procinto di diventare Commissario Tecnico della nazionale di ciclismo, in quella primavera del Dopoguerra era infatti impegnatissimo a girare l’Italia per organizzare la prima edizione del Gran Premio Pirelli, “una gigantesca competizione ciclistica per dilettanti, con dieci eliminatorie regionali e una finalissima, migliaia di corridori impegnati, due milioni e mezzo di premi”. E in più era prevista la messa a disposizione per tutti i concorrenti di tre tubolariSpecialissimo Corsa”, il top della gamma Pirelli per il ciclismo da competizione. Un’idea che Binda aveva a suo tempo proposto ad Arturo Pozzo, alto dirigente del Gruppo Pirelli nel settore Pneumatici, trovandone un pieno ed entusiastico appoggio. “Per conto mio sento di poter affermare, senza tema di essere smentito, che il Gran Premio Pirelli è il vero Campionato italiano dei dilettanti” dichiarava Binda nell’articolo “Nuovi campioni dal G.P. Pirelli” da lui stesso firmato per la rivista di luglio 1949.

Così partì la prima edizione del Gran Premio Pirelli, con corse eliminatorie disputate a livello locale in dieci regioni d’Italia: gare “dotate di premi, di assistenza, di ogni più piccolo particolare tecnico” ricorda ancora Nino Nutrizio in “Il successo del G.P. Pirelli”, sulla rivista in edicola nel novembre 1949. “I primi cinque di ogni eliminatoria venivano di diritto invitati alla prova di Milano. Ad essi se ne aggiunsero altri 50 degni di potersi valere della prova d’appello… Così domenica mattina 9 ottobre, 120 dilettanti erano all’Arena di Milano ad aspettare il via per la finalissima”. E quindi, partenza da Milano verso Treviglio, e poi su verso il Varesotto: Varese, Tradate, Saronno per poi riscendere verso Milano e puntare alla volata finale: il mitico velodromo Vigorelli. E non sarà un caso che anche il tempio milanese del ciclismo fu fortemente voluto da quel Giuseppe Vigorelli che a lungo ricoprì lo stesso ruolo di Arturo Pozzo in Pirelli. Il Gran Premio Pirelli del 1949 se lo aggiudicò il ventenne pistoiese Loretto Petrucci della società ciclistica Nicolò Biondo di Carpi: un giovane che proprio sconosciuto non era, dal momento che già da due anni faceva parte della Nazionale. Nella sua non lunga ma intensa carriera, Petrucci riuscirà a vincere per due volte la Milano-Sanremo con la Bianchi, nel 1952 e 1953.

Il successo del Gran Premio Pirelli 1949 fu riconosciuto anche dalla penna  -spesso critica-  del grande giornalista Nutrizio: “La Pirelli è benemerita come nessun altri per questo indirizzo per la riscossa delle forze giovanili. A quando qualche cosa di simile anche in altri sport che hanno bisogno di cercare nei vivai inesauribili del nostro popolo i campioni di domani?”.
“Come lo sport in generale è sinonimo di salute e di giovinezza -commentò Alfredo Binda nell’intervista lampo pubblicata sulla rivista “Pirelli” n. 1 del 1950–  il Gran Premio Pirelli è sinonimo di avvenire per le giovani promesse del ciclismo italiano”. Binda, da parte sua, aveva voluto fin da subito che la manifestazione si chiamasse Primo Gran Premio Pirelli, nella certezza che altre edizioni sarebbero seguite, anno dopo anno. E fu infatti così, per quasi un decennio.

Ha preso ufficialmente il via il 7 giugno, con il prologo di Forlì, il Giro d’Italia Under 23 edizione 2018: è la più importante corsa a tappe di ciclismo su strada destinata ai dilettanti. La maglia bianca del leader sarà sponsorizzata Pirelli, e non potrebbe essere diversamente. Perchè il legame tra Pirelli e il ciclismo giovane viene da molto lontano. Era il marzo 1949 quando, nell’articolo “Dilettanti in allarme” firmato da Nino Nutrizio per la rivistaPirelli”, il ciclista Alfredo Binda raccontava con orgoglio: “Sono preso con il Gran Premio Pirelli, ho dato la mia parola, ho accettato questo incarico”.

Il grande campione del pedale, lasciata da una decina d’anni l’attività agonistica e in procinto di diventare Commissario Tecnico della nazionale di ciclismo, in quella primavera del Dopoguerra era infatti impegnatissimo a girare l’Italia per organizzare la prima edizione del Gran Premio Pirelli, “una gigantesca competizione ciclistica per dilettanti, con dieci eliminatorie regionali e una finalissima, migliaia di corridori impegnati, due milioni e mezzo di premi”. E in più era prevista la messa a disposizione per tutti i concorrenti di tre tubolariSpecialissimo Corsa”, il top della gamma Pirelli per il ciclismo da competizione. Un’idea che Binda aveva a suo tempo proposto ad Arturo Pozzo, alto dirigente del Gruppo Pirelli nel settore Pneumatici, trovandone un pieno ed entusiastico appoggio. “Per conto mio sento di poter affermare, senza tema di essere smentito, che il Gran Premio Pirelli è il vero Campionato italiano dei dilettanti” dichiarava Binda nell’articolo “Nuovi campioni dal G.P. Pirelli” da lui stesso firmato per la rivista di luglio 1949.

Così partì la prima edizione del Gran Premio Pirelli, con corse eliminatorie disputate a livello locale in dieci regioni d’Italia: gare “dotate di premi, di assistenza, di ogni più piccolo particolare tecnico” ricorda ancora Nino Nutrizio in “Il successo del G.P. Pirelli”, sulla rivista in edicola nel novembre 1949. “I primi cinque di ogni eliminatoria venivano di diritto invitati alla prova di Milano. Ad essi se ne aggiunsero altri 50 degni di potersi valere della prova d’appello… Così domenica mattina 9 ottobre, 120 dilettanti erano all’Arena di Milano ad aspettare il via per la finalissima”. E quindi, partenza da Milano verso Treviglio, e poi su verso il Varesotto: Varese, Tradate, Saronno per poi riscendere verso Milano e puntare alla volata finale: il mitico velodromo Vigorelli. E non sarà un caso che anche il tempio milanese del ciclismo fu fortemente voluto da quel Giuseppe Vigorelli che a lungo ricoprì lo stesso ruolo di Arturo Pozzo in Pirelli. Il Gran Premio Pirelli del 1949 se lo aggiudicò il ventenne pistoiese Loretto Petrucci della società ciclistica Nicolò Biondo di Carpi: un giovane che proprio sconosciuto non era, dal momento che già da due anni faceva parte della Nazionale. Nella sua non lunga ma intensa carriera, Petrucci riuscirà a vincere per due volte la Milano-Sanremo con la Bianchi, nel 1952 e 1953.

Il successo del Gran Premio Pirelli 1949 fu riconosciuto anche dalla penna  -spesso critica-  del grande giornalista Nutrizio: “La Pirelli è benemerita come nessun altri per questo indirizzo per la riscossa delle forze giovanili. A quando qualche cosa di simile anche in altri sport che hanno bisogno di cercare nei vivai inesauribili del nostro popolo i campioni di domani?”.
“Come lo sport in generale è sinonimo di salute e di giovinezza -commentò Alfredo Binda nell’intervista lampo pubblicata sulla rivista “Pirelli” n. 1 del 1950–  il Gran Premio Pirelli è sinonimo di avvenire per le giovani promesse del ciclismo italiano”. Binda, da parte sua, aveva voluto fin da subito che la manifestazione si chiamasse Primo Gran Premio Pirelli, nella certezza che altre edizioni sarebbero seguite, anno dopo anno. E fu infatti così, per quasi un decennio.

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