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Quattordici storie nel futuro presente

Un libro raccoglie i racconti di donne e uomini nelle imprese italiane in evoluzione

Donne e uomini. E poi macchine, fabbriche e uffici. Più che altro però sogni che diventano realtà. Multiformi, mai perfette, sempre in evoluzione, comunque in cammino. A ben vedere le imprese sono il risultato di questi elementi. Fatte da tecnica ma soprattutto da persone (imprenditori, manager, tecnici, operai e impiegati), le organizzazioni della produzione devono essere esplorate. Partendo anche da chi le popola.

È quello che ha fatto Edoardo Segantini – giornalista di lungo corso, da tempo al Corriere della Sera ma dal passato anche in altri giornali –, con il suo “La nuova chiave a stella”. Omaggio assoluto a Primo Levi, la cui natura si capisce subito dal sottotitolo: “Storie di persone nella fabbrica del futuro”. Perché il libro in effetti racconta le vicende di persone (donne e uomini) che si muovono in fabbriche e uffici di oggi guardando a ciò che potrebbe accadere domani.

Il libro (circa 200 pagine), si dipana così in quattordici racconti di protagonisti di una trasformazione storica: la Quarta Rivoluzione Industriale. Un fatto visto attraverso molteplici aspetti: non solo l’innovazione tecnologica, l’intelligenza artificiale, la fabbrica connessa, ma un mutamento culturale, sociale e umano molto più profondo e dirompente. Tutti i protagonisti hanno in comune coraggio, curiosità per i cambiamenti. Sanno collaborare con gli altri e reagire alle sconfitte. Si aggiornano. Hanno simpatia per il mondo.

La filosofia del libro emerge dalle parole dello stesso Segantini: “Per scrivere questo libro, ho parlato con molte persone e visitato decine di fabbriche. L’obiettivo non era soltanto vedere delle cose, anche mirabili: ma capire che cosa pensano, come ragionano, che cosa vogliono le persone che lavorano nella fabbrica del futuro. Ho approfondito quattordici storie che mi sono sembrate le più interessanti. Non ho scelto i testimoni in base alla posizione gerarchica né sono andato in cerca di celebrità: ho preferito puntare sulle vite di personaggi non illustri (anche se illustri per me)”. Scorrono quindi le storie di chi lavora in aziende importanti e note (da FCA ad Amazon, passando per Dallara, Alfa Romeo, CNH Industrial, Poliform, StMicroelectronics) oltre che in organizzazioni sindacali. Obiettivo: raccontare le nuove opportunità e le nuove scosse, provocate da un terremoto in cui l’uomo deve restare al centro della scena.

Racconti, quindi, ma non solo. Segantini infatti non perde di vista la difficile realtà dell’oggi con i problemi legati alla disoccupazione (anche tecnologica), i tempi della transizione e la necessità di mettere mano ad una diversa impostazione del mercato del lavoro. Per l’autore proprio i racconti contenuti nel libro possono indicare un possibile futuro e quindi una possibile strada da percorrere.

Da leggere con un’attenzione in più, poi, è l’intervista che lo stesso Segantini fece nel 1984 a Levi.

La nuova chiave a stella. Storie di persone nella fabbrica del futuro

Edoardo Segantini

Guerini, 2017

Un libro raccoglie i racconti di donne e uomini nelle imprese italiane in evoluzione

Donne e uomini. E poi macchine, fabbriche e uffici. Più che altro però sogni che diventano realtà. Multiformi, mai perfette, sempre in evoluzione, comunque in cammino. A ben vedere le imprese sono il risultato di questi elementi. Fatte da tecnica ma soprattutto da persone (imprenditori, manager, tecnici, operai e impiegati), le organizzazioni della produzione devono essere esplorate. Partendo anche da chi le popola.

È quello che ha fatto Edoardo Segantini – giornalista di lungo corso, da tempo al Corriere della Sera ma dal passato anche in altri giornali –, con il suo “La nuova chiave a stella”. Omaggio assoluto a Primo Levi, la cui natura si capisce subito dal sottotitolo: “Storie di persone nella fabbrica del futuro”. Perché il libro in effetti racconta le vicende di persone (donne e uomini) che si muovono in fabbriche e uffici di oggi guardando a ciò che potrebbe accadere domani.

Il libro (circa 200 pagine), si dipana così in quattordici racconti di protagonisti di una trasformazione storica: la Quarta Rivoluzione Industriale. Un fatto visto attraverso molteplici aspetti: non solo l’innovazione tecnologica, l’intelligenza artificiale, la fabbrica connessa, ma un mutamento culturale, sociale e umano molto più profondo e dirompente. Tutti i protagonisti hanno in comune coraggio, curiosità per i cambiamenti. Sanno collaborare con gli altri e reagire alle sconfitte. Si aggiornano. Hanno simpatia per il mondo.

La filosofia del libro emerge dalle parole dello stesso Segantini: “Per scrivere questo libro, ho parlato con molte persone e visitato decine di fabbriche. L’obiettivo non era soltanto vedere delle cose, anche mirabili: ma capire che cosa pensano, come ragionano, che cosa vogliono le persone che lavorano nella fabbrica del futuro. Ho approfondito quattordici storie che mi sono sembrate le più interessanti. Non ho scelto i testimoni in base alla posizione gerarchica né sono andato in cerca di celebrità: ho preferito puntare sulle vite di personaggi non illustri (anche se illustri per me)”. Scorrono quindi le storie di chi lavora in aziende importanti e note (da FCA ad Amazon, passando per Dallara, Alfa Romeo, CNH Industrial, Poliform, StMicroelectronics) oltre che in organizzazioni sindacali. Obiettivo: raccontare le nuove opportunità e le nuove scosse, provocate da un terremoto in cui l’uomo deve restare al centro della scena.

Racconti, quindi, ma non solo. Segantini infatti non perde di vista la difficile realtà dell’oggi con i problemi legati alla disoccupazione (anche tecnologica), i tempi della transizione e la necessità di mettere mano ad una diversa impostazione del mercato del lavoro. Per l’autore proprio i racconti contenuti nel libro possono indicare un possibile futuro e quindi una possibile strada da percorrere.

Da leggere con un’attenzione in più, poi, è l’intervista che lo stesso Segantini fece nel 1984 a Levi.

La nuova chiave a stella. Storie di persone nella fabbrica del futuro

Edoardo Segantini

Guerini, 2017

Cultura letteraria d’impresa

Uno dei più recenti interventi del Governatore della Banca d’Italia, riesce ad unire economia e letteratura fornendo le linee di una completa cultura del produrre

 

È ormai cosa che circola piuttosto spesso: di fronte alla digitalizzazione sempre più spinta dell’economia e della produzione, è importante non perdere di vista anche ciò che è altro da queste. Per eccesso, donne e uomini contro macchine e computer. Che non è cosa da fare e nemmeno da perseguire, ma che indica quanto sia importante oggi – anche nelle imprese e più in generale nelle economie -, guardare agli aspetti umani e creativi dell’attività produttiva e di tutto quanto ad essa può essere connesso. Cultura d’impresa a tutto campo, insomma. Fatta anche di responsabilità sociale nei confronti di ciò che sta fuori dalle fabbriche e dagli uffici. E fatta anche dalla coesistenza di calcolo e arte, organizzazione e letteratura, conoscenza e tutto tondo.

A questo proposto, è una buona lettura quanto detto e scritto da Ignazio Visco (Governatore della Banca d’Italia), in occasione del 35° Seminario di Perfezionamento della Scuola per Librai e in particolare sulla domanda: “Dove nascono le storie?”.

Visco nel suo “Investire in conoscenza” scrive da economista e Governatore, ma anche da appassionato lettore. E scrive riuscendo a mettere insieme – in nemmeno una ventina di pagine -, ragionamenti che legano la buona economia con il buon leggere, la finanza con la letteratura, le necessità impellenti circa la ripresa dello sviluppo con quelle altrettanti impellenti di una cultura umanistica che si va perdendo.

Il racconto del fitto intreccio fra letteratura ed economia – perché poi di racconto si tratta -, inizia quindi dalla risposta alla domanda su dove nascano le storie (anche in economia) per poi passare al “mondo che cambia e i ritardi dell’Italia” (sintesi del progresso e della posizione del nostro Paese) che finisce con il toccare temi spinosi come quello della natura del capitale umano e delle competenze e quindi della formazione e della scuola; per arrivare a chiedersi dove davvero la nostra società stia andando. Visco quindi conclude elaborando una risposta. Il percorso giusto è quello dell’investire in cultura e conoscenza (a questo proposito viene rilevato un seppur minimo cambiamento positivo). Elementi che non sono però solamente tecnica e calcolo, ma qualcosa di ben più ampio.

Percorrendo il testo del Governatore fioccano autori disparatissimi, di vario genere e tutti calzanti: Adam Smith e émile Zola, Ivan Turgenev e George Eliot e poi ancora Tolstoj, Sraffa, Keynes, Tomasi di Lampedusa, Durrenmatt, Wilder, Omero, Oscar Wilde, Tullio De Mauro e Federico Caffè, senza contare Dante, Seneca e Socrate. Tutti posti al servizio non dell’economia oppure della letteratura, ma della conoscenza completa.

Colpisce ad un certo punto la citazione di un passo di Durrenmatt sul caso (e quindi indirettamente sul calcolo, anche in economia), tratto da un racconto poliziesco (“La promessa” di circa 60 anni fa) che dice: “Voi costruite le vostre trame con logica. […] Con la logica ci si accosta soltanto parzialmente alla verità […] i fattori di disturbo che si intrufolano nel gioco sono così frequenti che troppo spesso sono unicamente la fortuna professionale e il caso a decidere a nostro favore. O in nostro sfavore. […] Un fatto non può ‘tornare’ come torna un conto, perché noi non conosciamo mai tutti i fattori necessari ma soltanto pochi elementi per lo più secondari. E ciò che è casuale, incalcolabile, incommensurabile ha una parte troppo grande”.

Leggere Visco è in questo caso – forse più che in altri -, una bella esperienza, da fare e rifare.

Investire in conoscenza

Ignazio Visco

35° Seminario di Perfezionamento della Scuola per Librai su: “Tradizione e innovazione in libreria”, Giornata conclusiva: “Dove nascono le storie?”

Venezia, Fondazione Cini, 2018

Uno dei più recenti interventi del Governatore della Banca d’Italia, riesce ad unire economia e letteratura fornendo le linee di una completa cultura del produrre

 

È ormai cosa che circola piuttosto spesso: di fronte alla digitalizzazione sempre più spinta dell’economia e della produzione, è importante non perdere di vista anche ciò che è altro da queste. Per eccesso, donne e uomini contro macchine e computer. Che non è cosa da fare e nemmeno da perseguire, ma che indica quanto sia importante oggi – anche nelle imprese e più in generale nelle economie -, guardare agli aspetti umani e creativi dell’attività produttiva e di tutto quanto ad essa può essere connesso. Cultura d’impresa a tutto campo, insomma. Fatta anche di responsabilità sociale nei confronti di ciò che sta fuori dalle fabbriche e dagli uffici. E fatta anche dalla coesistenza di calcolo e arte, organizzazione e letteratura, conoscenza e tutto tondo.

A questo proposto, è una buona lettura quanto detto e scritto da Ignazio Visco (Governatore della Banca d’Italia), in occasione del 35° Seminario di Perfezionamento della Scuola per Librai e in particolare sulla domanda: “Dove nascono le storie?”.

Visco nel suo “Investire in conoscenza” scrive da economista e Governatore, ma anche da appassionato lettore. E scrive riuscendo a mettere insieme – in nemmeno una ventina di pagine -, ragionamenti che legano la buona economia con il buon leggere, la finanza con la letteratura, le necessità impellenti circa la ripresa dello sviluppo con quelle altrettanti impellenti di una cultura umanistica che si va perdendo.

Il racconto del fitto intreccio fra letteratura ed economia – perché poi di racconto si tratta -, inizia quindi dalla risposta alla domanda su dove nascano le storie (anche in economia) per poi passare al “mondo che cambia e i ritardi dell’Italia” (sintesi del progresso e della posizione del nostro Paese) che finisce con il toccare temi spinosi come quello della natura del capitale umano e delle competenze e quindi della formazione e della scuola; per arrivare a chiedersi dove davvero la nostra società stia andando. Visco quindi conclude elaborando una risposta. Il percorso giusto è quello dell’investire in cultura e conoscenza (a questo proposito viene rilevato un seppur minimo cambiamento positivo). Elementi che non sono però solamente tecnica e calcolo, ma qualcosa di ben più ampio.

Percorrendo il testo del Governatore fioccano autori disparatissimi, di vario genere e tutti calzanti: Adam Smith e émile Zola, Ivan Turgenev e George Eliot e poi ancora Tolstoj, Sraffa, Keynes, Tomasi di Lampedusa, Durrenmatt, Wilder, Omero, Oscar Wilde, Tullio De Mauro e Federico Caffè, senza contare Dante, Seneca e Socrate. Tutti posti al servizio non dell’economia oppure della letteratura, ma della conoscenza completa.

Colpisce ad un certo punto la citazione di un passo di Durrenmatt sul caso (e quindi indirettamente sul calcolo, anche in economia), tratto da un racconto poliziesco (“La promessa” di circa 60 anni fa) che dice: “Voi costruite le vostre trame con logica. […] Con la logica ci si accosta soltanto parzialmente alla verità […] i fattori di disturbo che si intrufolano nel gioco sono così frequenti che troppo spesso sono unicamente la fortuna professionale e il caso a decidere a nostro favore. O in nostro sfavore. […] Un fatto non può ‘tornare’ come torna un conto, perché noi non conosciamo mai tutti i fattori necessari ma soltanto pochi elementi per lo più secondari. E ciò che è casuale, incalcolabile, incommensurabile ha una parte troppo grande”.

Leggere Visco è in questo caso – forse più che in altri -, una bella esperienza, da fare e rifare.

Investire in conoscenza

Ignazio Visco

35° Seminario di Perfezionamento della Scuola per Librai su: “Tradizione e innovazione in libreria”, Giornata conclusiva: “Dove nascono le storie?”

Venezia, Fondazione Cini, 2018

Metropoli Milano, come progettare e governare tra competizione hi tech, lavoro e solidarietà

Milano, un futuro da progettare e decidere. Da provare a scrivere. E discutere. Milano come paradigma d’una tendenza internazionale alla prevalenza delle metropoli e delle megalopoli come luoghi centrali dell’innovazione e dello sviluppo economico. Con tutto il carico delle opportunità e dei problemi, tra smart economy, lavoro in crisi, vecchi e nuovi diritti, competizione accesa e inclusione sociale. Antinomie, conflitti, nuove sfide. Ci sono buoni libri che aiutano a capire meglio. Un buon esempio: “Milano e il secolo delle città”, scritto da Giuseppe Sala, pubblicato da La nave di Teseo e presentato ieri sera, con gran pubblico, al Piccolo Teatro, in un colloquio con Ferruccio De Bortoli. Un libro da sindaco. E da persona che sa bene come le metropoli abbiano uno straordinario bisogno di pensiero, di visione, di dibattito sincero. E di governo. In un confronto dialettico tra pubblica amministrazione e soggetti sociali, dall’Assolombarda alle altre imprese dei servizi e ai sindacati, dai centri della cultura, della scienza e dell’università alla Chiesa ambrosiana.

La Milano di cui si parla è una città aperta, consapevole da sempre che “milanese è chi lavora a Milano”, come nella cultura della responsabilità e dell’accoglienza che risale ai tempi di Ambrogio vescovo. Ed è una città innovativa e operosa, attenta a mercati e imprese (le porte di Milano hanno sempre avuto una funzione economica: caselli del dazio, luoghi d’ingresso e uscita delle merci). Ma anche responsabile socialmente. Milano modello? Senza arroganza antipatica, Milano come locomotiva d’un incrocio d’attività economiche, tra manifattura, servizi, finanza, economia della conoscenza, rilancio delle radici industriali e stimolo alle start up. Un processo che coinvolge una “megalopoli padana” da venti milioni d’abitanti, da Torino alla via Emilia da Motor Valley, Food Valley e Packaging Valley con industrie, centri di ricerca e università, dalle valli ai piedi delle Alpi alle distese imprenditoriali del Nord Est dopo Brescia e Verona. Una megalopoli tra le più forti d’Europa. L’orizzonte è il 2030, strategie e scelte politiche di lungo periodo. Analogo a quello del dibattito in corso su spazi e funzioni della metropoli negli incontri dell’Advisory Board di Assolombarda, con la partecipazione dei maggiori imprenditori e manager delle grandi imprese italiane e internazionali.

“Milano sta facendo la sua parte. Deve continuare a farla per sé, mentre il resto d’Italia si accontenta delle ricadute di indotto (che si sono) e di immagine o questo impegno può rientrare in un disegno politico del Paese?”, si chiede Sala. La risposta è ovvia. Ma la sua attuazione è tutt’altro che scontata. Se ne riparlerà dopo le elezioni del 4 marzo.

Certo, Milano andrà avanti. Più debole e fragile, comunque, se non starà dentro un disegno di governo generale (e di investimenti pubblici nazionali su infrastrutture, formazione, riforme per l’innovazione, il lavoro, la qualità di funzionamento della pubblica amministrazione).

Sala racconta una Milano efficiente, quella dell’Expo e degli investimenti internazionali che arrivano sempre più consistenti. E solidale, con gli impegni per le periferie. Attraente (crescono le presenze turistiche, tra tempo libero, cultura e affari), l’unica città italiana innovativa nell’elenco stilato dal World Economic Forum. E capace di reggere le sfide internazionali, come quella per la sede dell’Ema (Milano ha presentato a Bruxelles un progetto di qualità e tempestivo, con un luogo, il Grattacielo Pirelli, già pronto per ospitare gli uffici dell’Agenzia del Farmaco; Amsterdam, premiata dall’estrazione a sorte, invece no, sino alla pessima figura internazionale dei lavori incompiuti e dei rinvii: un capovolgimento dei luoghi comuni, noi efficienti, gli arroganti olandesi pasticcioni e inadempienti).

Milano dunque paradigma. Con tutte le difficoltà e le contraddizioni che nessuno nasconde. Come risulta, peraltro, dai racconti del “Viaggio in Italia” pubblicati in un numero speciale della rivista “Il Mulino” (di Milano scrive Gabriele Pasqui, urbanista del Politecnico, ma in tanti si confrontano nel bene e nel male con Milano, per descrivere “un Paese plurale, difficile e bellissimo”). E dai saggi pubblicati in “Brand Milano”, un “Atlante della nuova narrativa identitaria” a cura di Stefano Rolando, promosso dal Comitato Scientifico degli Atenei milanesi e pubblicato da Mimesis. Brand non come marchio e comunicazione, ma come “evoluzione di un grande patrimonio simbolico urbano”, come identità profonda e futuribile, come motore di racconto dello sviluppo.

Si torna così al tema cardine del ruolo delle grandi città. La letteratura politica, economica e sociologica è sempre più ampia e densa di analisi interessanti e di suggerimenti. Si può fare riferimento all’essenziale saggio mandato in libreria pochi anni fa, nel 2013, da Benjamin R. Barber, politologo americano di grande influenza, “If Mayors ruled the World”, Yale University Press, con un un sottotitolo esplicito, “Dysfuncional Nations, Rising Cities”. E arrivare a tempi recenti con “The New Urban Crisis” di Richard Florida, edito da Basic Books: il teorico dell’ascesa della “nuova classe creativa” (un successo editoriale internazionale del 2003) nota adesso che “our cities are increasing inequality, deepening segregation, and failing the middle class” e si chiede come reagire, come cercare cioè di attenuare le diseguaglianze, come provare a fare crescere metropoli più inclusive, migliorando infrastrutture, servizi, accoglienze e cercando di governare le tendenze del mercato immobiliare, le crescenti disparità dei prezzi delle case tra le aree privilegiate dei “creativi” e quelle, impoverite, dei ceti “al servizio” dei creativi stessi. Con un’idea di fondo: la creatività è fondamentale (con tutti i corollari delle libertà, del dinamismo individuale, dei premi al mercato selettivo e al merito), ma nessuno può pensare di fare a meno di scelte politiche, urbanistiche, di riequilibrio sociale. Scelte che investono i “Mayors” cari a Barber, ma anche gli Stati nazionali e, per quel che ci riguarda, gli organismi politici della Ue. Come e con che miscela tra metropoli ed Europa? Il dibattito è aperto.

Sono utili, in questo, le analisi e le indicazioni di Parag Khanna, ex consigliere di Obama e analista del Centre on Asia and Globalization di Singapore in “La rinascita delle Città-Stato”, appena pubblicato in Italia da Fazi: “Il futuro è già qui: entro trent’anni la politica mondiale sarà dominata da macro-città, megalopoli influenti e così connesse tra loro da non diversi più piegare al concetto di confine. Città-Stato efficienti sul modello di quelle antiche, dunque non necessariamente indipendenti ma con un’autonomia tale da potersi impegnare in relazioni globali di cui beneficerà tutto il territorio circostante”. Singapore e Dubai, Amburgo e Istanbul, New York e Londra, Barcellona e Milano ne sono esempi. Già, proprio la Barcellona motore economico della Spagna, che non sogna la secessione da Madrid ma una più dinamica autonomia catalana nel quadro dell’Europa e del Mediterraneo.

Città-Stato è una forma di governo, che ricorda le potenti città rinascimentali italiane, Genova e Venezia, Firenze e appunto Milano, ma anche le ricche città anseatiche forti di finanza, commerci, porti e cantieri navali, poi finite in crisi nei secoli del trionfo degli Stati nazionali, tra Seicento e avvio del Novecento. Ma, storia a parte, Città-Stato è una dimensione economica e sociale con cui fare in modo nuovo i conti, in stagioni di economie globali, interconnessioni spinte ma anche riscoperta dei valori del genius loci come strumento competitivo, dei territori come distintività ed esclusività di prodotti, esperienze, servizi. Lo spiegano bene Carlo Ratti e Matthew Claudel in “La città di domani”, Einaudi: “Come le reti stanno cambiando il futuro urbano”.

Viviamo tempi di crisi. E di metamorfosi. Difficile, immersi nella quotidianità spesso contraddittoria dei flussi economici e sociali, individuare le tendenze e i segni forti del cambiamento. Ma è proprio questa la sfida culturale e politica da cogliere: dare un ordine dinamico ai fatti, elaborare prospettive, cercare di definire un “senso” delle scelte politiche ed economiche. Sfida da classe dirigente in senso ampio, da vera e propria ruling class, che decide e applica le regole. Sfida di responsabilità civile.

Nella storia, da Ambrogio vescovo all’Illuminismo, dal Risorgimento di Cattaneo agli anni Cinquanta e Sessanta del boom economico animato anche da lungimiranti imprenditori e intellettuali visionari (spesso in stretta collaborazione), proprio questo Milano ha fatto, pur non essendo capitale: lasciare segni forti di progresso, coniugare interesse economici e valori sociali, competitività e solidarietà. E fornire paradigmi interessanti sia all’Italia che all’Europa. Sono temi di oggi.

Milano, un futuro da progettare e decidere. Da provare a scrivere. E discutere. Milano come paradigma d’una tendenza internazionale alla prevalenza delle metropoli e delle megalopoli come luoghi centrali dell’innovazione e dello sviluppo economico. Con tutto il carico delle opportunità e dei problemi, tra smart economy, lavoro in crisi, vecchi e nuovi diritti, competizione accesa e inclusione sociale. Antinomie, conflitti, nuove sfide. Ci sono buoni libri che aiutano a capire meglio. Un buon esempio: “Milano e il secolo delle città”, scritto da Giuseppe Sala, pubblicato da La nave di Teseo e presentato ieri sera, con gran pubblico, al Piccolo Teatro, in un colloquio con Ferruccio De Bortoli. Un libro da sindaco. E da persona che sa bene come le metropoli abbiano uno straordinario bisogno di pensiero, di visione, di dibattito sincero. E di governo. In un confronto dialettico tra pubblica amministrazione e soggetti sociali, dall’Assolombarda alle altre imprese dei servizi e ai sindacati, dai centri della cultura, della scienza e dell’università alla Chiesa ambrosiana.

La Milano di cui si parla è una città aperta, consapevole da sempre che “milanese è chi lavora a Milano”, come nella cultura della responsabilità e dell’accoglienza che risale ai tempi di Ambrogio vescovo. Ed è una città innovativa e operosa, attenta a mercati e imprese (le porte di Milano hanno sempre avuto una funzione economica: caselli del dazio, luoghi d’ingresso e uscita delle merci). Ma anche responsabile socialmente. Milano modello? Senza arroganza antipatica, Milano come locomotiva d’un incrocio d’attività economiche, tra manifattura, servizi, finanza, economia della conoscenza, rilancio delle radici industriali e stimolo alle start up. Un processo che coinvolge una “megalopoli padana” da venti milioni d’abitanti, da Torino alla via Emilia da Motor Valley, Food Valley e Packaging Valley con industrie, centri di ricerca e università, dalle valli ai piedi delle Alpi alle distese imprenditoriali del Nord Est dopo Brescia e Verona. Una megalopoli tra le più forti d’Europa. L’orizzonte è il 2030, strategie e scelte politiche di lungo periodo. Analogo a quello del dibattito in corso su spazi e funzioni della metropoli negli incontri dell’Advisory Board di Assolombarda, con la partecipazione dei maggiori imprenditori e manager delle grandi imprese italiane e internazionali.

“Milano sta facendo la sua parte. Deve continuare a farla per sé, mentre il resto d’Italia si accontenta delle ricadute di indotto (che si sono) e di immagine o questo impegno può rientrare in un disegno politico del Paese?”, si chiede Sala. La risposta è ovvia. Ma la sua attuazione è tutt’altro che scontata. Se ne riparlerà dopo le elezioni del 4 marzo.

Certo, Milano andrà avanti. Più debole e fragile, comunque, se non starà dentro un disegno di governo generale (e di investimenti pubblici nazionali su infrastrutture, formazione, riforme per l’innovazione, il lavoro, la qualità di funzionamento della pubblica amministrazione).

Sala racconta una Milano efficiente, quella dell’Expo e degli investimenti internazionali che arrivano sempre più consistenti. E solidale, con gli impegni per le periferie. Attraente (crescono le presenze turistiche, tra tempo libero, cultura e affari), l’unica città italiana innovativa nell’elenco stilato dal World Economic Forum. E capace di reggere le sfide internazionali, come quella per la sede dell’Ema (Milano ha presentato a Bruxelles un progetto di qualità e tempestivo, con un luogo, il Grattacielo Pirelli, già pronto per ospitare gli uffici dell’Agenzia del Farmaco; Amsterdam, premiata dall’estrazione a sorte, invece no, sino alla pessima figura internazionale dei lavori incompiuti e dei rinvii: un capovolgimento dei luoghi comuni, noi efficienti, gli arroganti olandesi pasticcioni e inadempienti).

Milano dunque paradigma. Con tutte le difficoltà e le contraddizioni che nessuno nasconde. Come risulta, peraltro, dai racconti del “Viaggio in Italia” pubblicati in un numero speciale della rivista “Il Mulino” (di Milano scrive Gabriele Pasqui, urbanista del Politecnico, ma in tanti si confrontano nel bene e nel male con Milano, per descrivere “un Paese plurale, difficile e bellissimo”). E dai saggi pubblicati in “Brand Milano”, un “Atlante della nuova narrativa identitaria” a cura di Stefano Rolando, promosso dal Comitato Scientifico degli Atenei milanesi e pubblicato da Mimesis. Brand non come marchio e comunicazione, ma come “evoluzione di un grande patrimonio simbolico urbano”, come identità profonda e futuribile, come motore di racconto dello sviluppo.

Si torna così al tema cardine del ruolo delle grandi città. La letteratura politica, economica e sociologica è sempre più ampia e densa di analisi interessanti e di suggerimenti. Si può fare riferimento all’essenziale saggio mandato in libreria pochi anni fa, nel 2013, da Benjamin R. Barber, politologo americano di grande influenza, “If Mayors ruled the World”, Yale University Press, con un un sottotitolo esplicito, “Dysfuncional Nations, Rising Cities”. E arrivare a tempi recenti con “The New Urban Crisis” di Richard Florida, edito da Basic Books: il teorico dell’ascesa della “nuova classe creativa” (un successo editoriale internazionale del 2003) nota adesso che “our cities are increasing inequality, deepening segregation, and failing the middle class” e si chiede come reagire, come cercare cioè di attenuare le diseguaglianze, come provare a fare crescere metropoli più inclusive, migliorando infrastrutture, servizi, accoglienze e cercando di governare le tendenze del mercato immobiliare, le crescenti disparità dei prezzi delle case tra le aree privilegiate dei “creativi” e quelle, impoverite, dei ceti “al servizio” dei creativi stessi. Con un’idea di fondo: la creatività è fondamentale (con tutti i corollari delle libertà, del dinamismo individuale, dei premi al mercato selettivo e al merito), ma nessuno può pensare di fare a meno di scelte politiche, urbanistiche, di riequilibrio sociale. Scelte che investono i “Mayors” cari a Barber, ma anche gli Stati nazionali e, per quel che ci riguarda, gli organismi politici della Ue. Come e con che miscela tra metropoli ed Europa? Il dibattito è aperto.

Sono utili, in questo, le analisi e le indicazioni di Parag Khanna, ex consigliere di Obama e analista del Centre on Asia and Globalization di Singapore in “La rinascita delle Città-Stato”, appena pubblicato in Italia da Fazi: “Il futuro è già qui: entro trent’anni la politica mondiale sarà dominata da macro-città, megalopoli influenti e così connesse tra loro da non diversi più piegare al concetto di confine. Città-Stato efficienti sul modello di quelle antiche, dunque non necessariamente indipendenti ma con un’autonomia tale da potersi impegnare in relazioni globali di cui beneficerà tutto il territorio circostante”. Singapore e Dubai, Amburgo e Istanbul, New York e Londra, Barcellona e Milano ne sono esempi. Già, proprio la Barcellona motore economico della Spagna, che non sogna la secessione da Madrid ma una più dinamica autonomia catalana nel quadro dell’Europa e del Mediterraneo.

Città-Stato è una forma di governo, che ricorda le potenti città rinascimentali italiane, Genova e Venezia, Firenze e appunto Milano, ma anche le ricche città anseatiche forti di finanza, commerci, porti e cantieri navali, poi finite in crisi nei secoli del trionfo degli Stati nazionali, tra Seicento e avvio del Novecento. Ma, storia a parte, Città-Stato è una dimensione economica e sociale con cui fare in modo nuovo i conti, in stagioni di economie globali, interconnessioni spinte ma anche riscoperta dei valori del genius loci come strumento competitivo, dei territori come distintività ed esclusività di prodotti, esperienze, servizi. Lo spiegano bene Carlo Ratti e Matthew Claudel in “La città di domani”, Einaudi: “Come le reti stanno cambiando il futuro urbano”.

Viviamo tempi di crisi. E di metamorfosi. Difficile, immersi nella quotidianità spesso contraddittoria dei flussi economici e sociali, individuare le tendenze e i segni forti del cambiamento. Ma è proprio questa la sfida culturale e politica da cogliere: dare un ordine dinamico ai fatti, elaborare prospettive, cercare di definire un “senso” delle scelte politiche ed economiche. Sfida da classe dirigente in senso ampio, da vera e propria ruling class, che decide e applica le regole. Sfida di responsabilità civile.

Nella storia, da Ambrogio vescovo all’Illuminismo, dal Risorgimento di Cattaneo agli anni Cinquanta e Sessanta del boom economico animato anche da lungimiranti imprenditori e intellettuali visionari (spesso in stretta collaborazione), proprio questo Milano ha fatto, pur non essendo capitale: lasciare segni forti di progresso, coniugare interesse economici e valori sociali, competitività e solidarietà. E fornire paradigmi interessanti sia all’Italia che all’Europa. Sono temi di oggi.

Vittorio Sereni, un poeta interista all’Ufficio Stampa Pirelli

Nel numero di aprile 1952, la Rivista Pirelli pubblica “Case lombarde”: una riflessione sull’architettura popolare che, con i suoi cascinali e le sue stalle, punteggia la pianura padana, disegnandone una sorta di “geografia del cuore”. La prosa asciutta ed evocativa porta la firma di Vittorio Sereni: è la prima collaborazione del poeta luinese con la rivista edita dalla Pirelli e diretta da Arturo Tofanelli e Leonardo Sinisgalli.

Poco meno che quarantenne, Sereni  è già un autore affermato. Nel 1941 -prima di essere richiamato al fronte-  ha pubblicato la raccolta di poesie “Frontiera”, mentre è del 1947 il “Diario di Algeria” nato dall’esperienza da prigioniero di guerra in Nordafrica tra il ’43 e il ’45. Nel 1952 Sereni  insegna italiano e latino al Liceo Classico Carducci di Milano e vive con la moglie Maria Luisa e le due figlie Maria Teresa e Silvia. E’ una delle “grandi firme” della Rivista Pirelli, che fin dalla sua nascita, nel 1948, ospita contributi di grandi scrittori e intellettuali contemporanei: la “triade ermetica” Ungaretti-Quasimodo-Montale nel 1949, Riccardo Bacchelli nel 1950, Piero Chiara e Michele Prisco nel 1952. Lo stesso direttore Leonardo Sinisgalli è soprannominato il “poeta ingegnere”.
E’ proprio quello di Sinisgalli il nome che Sereni  indica nella casella “referenze”  della domanda di assunzione alla Pirelli Spa, inoltrata il 16 agosto 1952. I due si conoscono fin dai tempi dell’Università:  poeti “compagni di viaggio” cui si aggiungevano Alfonso Gatto, Carlo Betocchi, Giancarlo Vigorelli e nientemeno che il grande Salvatore Quasimodo che già aveva avuto modo di lodare la tesi di laurea del giovane Sereni su Guido Gozzano. La Pirelli e la sua Rivista diventano fatalmente il punto di reincontro tra Sereni e Sinisgalli. La domanda di impiego è accettata: destinazione il Servizio Propaganda, che altro non è che la Direzione Comunicazione di oggi. Ne è capo indiscusso Arrigo Castellani che, lungimirante, ha intenzione di creare un ufficio appositamente dedicato ai rapporti con la stampa: a Sereni   -già collaboratore di riviste come “Corrente” e “Rassegna d’Italia”- la responsabilità di guidarlo. Sarà lo stesso Castellani, a ridosso della scadenza del contratto annuale, a scrivere alla Direzione del Personale: “siamo completamente soddisfatti del lavoro svolto dal Dr.Sereni e riterremmo anzi che a suo tempo lo stesso passasse nella categoria dei funzionari”. Impiego a tempo indeterminato: il fascicolo personale  del Dr. Prof. Vittorio Sereni,  conservato presso l’Archivio Storico Pirelli, è contrassegnato dalla matricola 4062, centro contabile 0400, Direzione Propaganda.
Nei sei anni di lavoro dipendente in Pirelli  -uscirà nel 1958, destinazione Mondadori–  Sereni dirada via via le sue apparizioni sulla Rivista. Pochi articoli, ma di grande spessore: uno è già sul n°6 del 1953 in cui, firmandosi V.S.,  fa un “Bilancio segreto di un anno di pubblicità” dopo che il “suo” Servizio Propaganda ha vinto il premio Palma d’Oro dell’advertising, grazie alle suole Coria di Bruno Munari, al pneumatico Stelvio di Ezio Bonini, alle boule per l’acqua calda di Bramante Buffoni.
Un altro articolo del  Sereni “pirelliano” è ormai diventato una pietra miliare nella storia della Rivista: “Una P lunga cinquant’anni”, narrazione leggendaria della nascita del logo Pirelli a New York. Sereni continuerà a collaborare con la Rivista anche dopo aver lasciato l’azienda: è del 1963 il racconto “La cattura”, apertamente autobiografico, giocato sul conflitto morale tra vincitori e vinti durante lo sbarco degli Alleati in Sicilia.
A partire dal 1964, da collaboratore esterno della Rivista, Sereni dà vita alla rubrica di critica letteraria “Nei libri e fuori”. E così il pubblico italiano conosce “La tregua” di Primo Levi, e Mary Mc Carthy e Massimo Bontempelli, e “Il colosso di Maroussi” di Henry Miller e le poesie di Georgios Seferis, fino al postumo “Festa mobile” di Hemingway, recensito sulla Rivista n°4 del 1964.
E poi arriva “Il fantasma nerazzurro”, n° 5-6 del 1964: “Io qui sarei dunque incaricato di prendere le parti dell’Inter o piuttosto di giustificare la coloritura nerazzurra di una parte dei miei pensieri e sentimenti”; l’intellettuale cede al tifo rimpiangendo il leggendario calciatore Giuseppe Meazza, detto Peppino, “il fantasma nerazzurro”.
E dove c’è un “fantasma”, c’è anche un mistero. L’articolo originale è corredato infatti da un disegno astratto di Alberto Sughi. Risale però allo stesso anno – il 1964 – un disegno di Riccardo Manzi, recentemente acquisito dalla Fondazione Pirelli, che raffigura proprio un giocatore di calcio in maglia nerazzurra accompagnato dall’appunto  di mano pirelliana “Naso troppo grande!”. Era forse destinato a illustrare l’articolo di Sereni?  Non è sicuro, mentre con assoluta certezza possiamo datare l’ultimo intervento di Vittorio Sereni sulla Rivista Pirelli: si tratta di “Due voci veneziane”, sul n°5/6 del 1970.

 

Nel numero di aprile 1952, la Rivista Pirelli pubblica “Case lombarde”: una riflessione sull’architettura popolare che, con i suoi cascinali e le sue stalle, punteggia la pianura padana, disegnandone una sorta di “geografia del cuore”. La prosa asciutta ed evocativa porta la firma di Vittorio Sereni: è la prima collaborazione del poeta luinese con la rivista edita dalla Pirelli e diretta da Arturo Tofanelli e Leonardo Sinisgalli.

Poco meno che quarantenne, Sereni  è già un autore affermato. Nel 1941 -prima di essere richiamato al fronte-  ha pubblicato la raccolta di poesie “Frontiera”, mentre è del 1947 il “Diario di Algeria” nato dall’esperienza da prigioniero di guerra in Nordafrica tra il ’43 e il ’45. Nel 1952 Sereni  insegna italiano e latino al Liceo Classico Carducci di Milano e vive con la moglie Maria Luisa e le due figlie Maria Teresa e Silvia. E’ una delle “grandi firme” della Rivista Pirelli, che fin dalla sua nascita, nel 1948, ospita contributi di grandi scrittori e intellettuali contemporanei: la “triade ermetica” Ungaretti-Quasimodo-Montale nel 1949, Riccardo Bacchelli nel 1950, Piero Chiara e Michele Prisco nel 1952. Lo stesso direttore Leonardo Sinisgalli è soprannominato il “poeta ingegnere”.
E’ proprio quello di Sinisgalli il nome che Sereni  indica nella casella “referenze”  della domanda di assunzione alla Pirelli Spa, inoltrata il 16 agosto 1952. I due si conoscono fin dai tempi dell’Università:  poeti “compagni di viaggio” cui si aggiungevano Alfonso Gatto, Carlo Betocchi, Giancarlo Vigorelli e nientemeno che il grande Salvatore Quasimodo che già aveva avuto modo di lodare la tesi di laurea del giovane Sereni su Guido Gozzano. La Pirelli e la sua Rivista diventano fatalmente il punto di reincontro tra Sereni e Sinisgalli. La domanda di impiego è accettata: destinazione il Servizio Propaganda, che altro non è che la Direzione Comunicazione di oggi. Ne è capo indiscusso Arrigo Castellani che, lungimirante, ha intenzione di creare un ufficio appositamente dedicato ai rapporti con la stampa: a Sereni   -già collaboratore di riviste come “Corrente” e “Rassegna d’Italia”- la responsabilità di guidarlo. Sarà lo stesso Castellani, a ridosso della scadenza del contratto annuale, a scrivere alla Direzione del Personale: “siamo completamente soddisfatti del lavoro svolto dal Dr.Sereni e riterremmo anzi che a suo tempo lo stesso passasse nella categoria dei funzionari”. Impiego a tempo indeterminato: il fascicolo personale  del Dr. Prof. Vittorio Sereni,  conservato presso l’Archivio Storico Pirelli, è contrassegnato dalla matricola 4062, centro contabile 0400, Direzione Propaganda.
Nei sei anni di lavoro dipendente in Pirelli  -uscirà nel 1958, destinazione Mondadori–  Sereni dirada via via le sue apparizioni sulla Rivista. Pochi articoli, ma di grande spessore: uno è già sul n°6 del 1953 in cui, firmandosi V.S.,  fa un “Bilancio segreto di un anno di pubblicità” dopo che il “suo” Servizio Propaganda ha vinto il premio Palma d’Oro dell’advertising, grazie alle suole Coria di Bruno Munari, al pneumatico Stelvio di Ezio Bonini, alle boule per l’acqua calda di Bramante Buffoni.
Un altro articolo del  Sereni “pirelliano” è ormai diventato una pietra miliare nella storia della Rivista: “Una P lunga cinquant’anni”, narrazione leggendaria della nascita del logo Pirelli a New York. Sereni continuerà a collaborare con la Rivista anche dopo aver lasciato l’azienda: è del 1963 il racconto “La cattura”, apertamente autobiografico, giocato sul conflitto morale tra vincitori e vinti durante lo sbarco degli Alleati in Sicilia.
A partire dal 1964, da collaboratore esterno della Rivista, Sereni dà vita alla rubrica di critica letteraria “Nei libri e fuori”. E così il pubblico italiano conosce “La tregua” di Primo Levi, e Mary Mc Carthy e Massimo Bontempelli, e “Il colosso di Maroussi” di Henry Miller e le poesie di Georgios Seferis, fino al postumo “Festa mobile” di Hemingway, recensito sulla Rivista n°4 del 1964.
E poi arriva “Il fantasma nerazzurro”, n° 5-6 del 1964: “Io qui sarei dunque incaricato di prendere le parti dell’Inter o piuttosto di giustificare la coloritura nerazzurra di una parte dei miei pensieri e sentimenti”; l’intellettuale cede al tifo rimpiangendo il leggendario calciatore Giuseppe Meazza, detto Peppino, “il fantasma nerazzurro”.
E dove c’è un “fantasma”, c’è anche un mistero. L’articolo originale è corredato infatti da un disegno astratto di Alberto Sughi. Risale però allo stesso anno – il 1964 – un disegno di Riccardo Manzi, recentemente acquisito dalla Fondazione Pirelli, che raffigura proprio un giocatore di calcio in maglia nerazzurra accompagnato dall’appunto  di mano pirelliana “Naso troppo grande!”. Era forse destinato a illustrare l’articolo di Sereni?  Non è sicuro, mentre con assoluta certezza possiamo datare l’ultimo intervento di Vittorio Sereni sulla Rivista Pirelli: si tratta di “Due voci veneziane”, sul n°5/6 del 1970.

 

Visioni d’imprese audaci

I racconti di esperienze imprenditoriali delineano l’essenza multiforme di chi crea e fa muovere le organizzazioni della produzione

 

 Fiducia in ciò di cui ci si sente capaci ma anche voglia di fare e di coinvolgere gli altri. E poi qualcosa che è difficilmente sintetizzabile e ancora di più comprensibile da parte chi non l’ha vissuto. La sintesi dell’essere imprenditoriale rischia comunque di delineare sempre un’immagine parziale. Occorre allora il racconto per capire meglio. È quello che ha fatto Ray Smilor con il suo “Audaci Visionari. Come gli imprenditori fondano aziende generano fiducia e creano ricchezza” pubblicato in Italia poche settimane fa con una nuova edizione.

Smilor è attualmente Presidente della Foundation for enterprise development oltre che essere stato a lungo insegnante presso la Graduate School of business dell’Università del Texas. Le imprese le conosce bene e comprende quindi l’inafferrabilità della loro essenza se si guarda solamente alla teoria. Il libro quindi è la presentazione di storie concrete di successi e fallimenti d’impresa. E’ attraverso questa tecnica di narrazione  che l’autore decifra il codice genetico imprenditoriale, oltre che illustrare le qualità che consentono agli imprenditori di superare gli ostacoli e di muovere verso il futuro con energia e ottimismo, riuscendo a trascinare altre persone nel loro cammino.

Fatto da sei sezioni e un epilogo, il libro (poco più di 200 pagine), inizia con il sondare l’anima dell’imprenditore per passare poi a capire quelli che vengono definiti come “i segreti” dell’imprenditorialità e successivamente le qualità che ogni imprenditore che voglia dirsi tale deve avere. Smilor poi guarda più da vicino al “lato oscuro” dell’imprenditoria (e cioè i fallimenti e le imprese andate male così come l’immagine negativa che può accompagnare questa attività),  e poi all’impatto sociale della stessa. Ne emerge un ritratto multiforme dell’imprenditorialità, mai uguale, sempre diverso e in evoluzione, fatto di molte vittorie e altrettante sconfitte. Lontano dalla teoria d’impresa fissata nei manuali, ma immerso totalmente in una realtà contraddittoria e anch’essa continuamente mutevole.

Gli imprenditori, sostiene Smilor, “credono fermamente nella loro abilità di influenzare gli eventi, nella loro capacità di indirizzare la sorte e nel loro potere di modellare il futuro”. Audaci, appunto, e anche visionari.

Storia di storie d’imprese, il libro – che ha forse solo la pecca di avere troppe prefazioni, presentazioni e premesse prima di arrivare al vero succo dell’autore -, è da leggere con attenzione e magari rileggere in alcune sue parti.

Audaci Visionari. Come gli imprenditori fondano aziende generano fiducia e creano ricchezza

Ray Smilor

Guerini Next, 2017

I racconti di esperienze imprenditoriali delineano l’essenza multiforme di chi crea e fa muovere le organizzazioni della produzione

 

 Fiducia in ciò di cui ci si sente capaci ma anche voglia di fare e di coinvolgere gli altri. E poi qualcosa che è difficilmente sintetizzabile e ancora di più comprensibile da parte chi non l’ha vissuto. La sintesi dell’essere imprenditoriale rischia comunque di delineare sempre un’immagine parziale. Occorre allora il racconto per capire meglio. È quello che ha fatto Ray Smilor con il suo “Audaci Visionari. Come gli imprenditori fondano aziende generano fiducia e creano ricchezza” pubblicato in Italia poche settimane fa con una nuova edizione.

Smilor è attualmente Presidente della Foundation for enterprise development oltre che essere stato a lungo insegnante presso la Graduate School of business dell’Università del Texas. Le imprese le conosce bene e comprende quindi l’inafferrabilità della loro essenza se si guarda solamente alla teoria. Il libro quindi è la presentazione di storie concrete di successi e fallimenti d’impresa. E’ attraverso questa tecnica di narrazione  che l’autore decifra il codice genetico imprenditoriale, oltre che illustrare le qualità che consentono agli imprenditori di superare gli ostacoli e di muovere verso il futuro con energia e ottimismo, riuscendo a trascinare altre persone nel loro cammino.

Fatto da sei sezioni e un epilogo, il libro (poco più di 200 pagine), inizia con il sondare l’anima dell’imprenditore per passare poi a capire quelli che vengono definiti come “i segreti” dell’imprenditorialità e successivamente le qualità che ogni imprenditore che voglia dirsi tale deve avere. Smilor poi guarda più da vicino al “lato oscuro” dell’imprenditoria (e cioè i fallimenti e le imprese andate male così come l’immagine negativa che può accompagnare questa attività),  e poi all’impatto sociale della stessa. Ne emerge un ritratto multiforme dell’imprenditorialità, mai uguale, sempre diverso e in evoluzione, fatto di molte vittorie e altrettante sconfitte. Lontano dalla teoria d’impresa fissata nei manuali, ma immerso totalmente in una realtà contraddittoria e anch’essa continuamente mutevole.

Gli imprenditori, sostiene Smilor, “credono fermamente nella loro abilità di influenzare gli eventi, nella loro capacità di indirizzare la sorte e nel loro potere di modellare il futuro”. Audaci, appunto, e anche visionari.

Storia di storie d’imprese, il libro – che ha forse solo la pecca di avere troppe prefazioni, presentazioni e premesse prima di arrivare al vero succo dell’autore -, è da leggere con attenzione e magari rileggere in alcune sue parti.

Audaci Visionari. Come gli imprenditori fondano aziende generano fiducia e creano ricchezza

Ray Smilor

Guerini Next, 2017

Più poesia per le imprese

Un articolo apparso sull’Harvard Business Review insiste sulla necessità di non basare tutto solo sul calcolo e sulla pianificazione

L’impresa è calcolo ma deve essere anche altro. Rischio, istinto, avventura, capacità di guardare più lontano. Si dice “arte del produrre” non a caso. Sempre – certo – con un’attenzione importante a far quadrare i bilanci; che devono tuttavia ormai comprendere anche altro oltre a colonne di numeri. Percorrendo questa strada fa bene leggere “Liberal Arts in Data Age” di Josh M. Olejarz apparso sulla Harvard Business Review qualche tempo fa.

Articolo breve ma intenso, quanto scritto da Olejarz (che è da un quinquennio circa assistant editor di HBR), ruota attorno ad una constatazione: “In quale situazione di grande svantaggio potremmo finire, noi e il mondo, se costringessimo le nostre menti ad affrontare tutti i problemi allo stesso modo”. E’ dal rischio e attorno al rischio dell’omologazione che ragiona l’autore. Indicando come un mondo fatto solo di calcolo, algoritmi e big data  diverrebbe presto un mondo a senso unico e quindi privo di fantasia e di risorse, Olejarz traccia una strada diversa. Anche per le imprese. Anzi, Olejarz punta il dito contro le cosiddette Stem (acronimo di Science, Technology, Engineering, Mathematics). In altre parole, si andrebbe verso un orizzonte fatto non solo di omologazione ma anche di assenza di capacità di rispondere adeguatamente agli imprevisti. Esattamente l’opposto della condizione nella quale deve trovarsi sempre un’impresa.

Quindi che fare? Per Olejarz la soluzione è semplice: dare spazio alla filosofia, alla letteratura e alla poesia. Non solo coding, quindi, ma anche bellezza, estro, innovatività intesa come capacità di rompere gli schemi.

Qualità e non solo quantità – pare indicare Olejarz -, devono permeare anche società e imprese. Che detto in altri termini significa come rigore quantitativo e attenzione all’organizzazione debbano andare di pari passo con qualità come l’empatia, la prudenza e la saggezza proprie delle discipline umanistiche.

L’intervento di Olejarz ha il grande merito di spalancare lo sguardo di chi legge su un panorama ad oggi conosciuto solo in parte e che invece merita di essere esplorato di più.

Liberal Arts in Data Age

Josh M. Olejarz

Harvard Business Review, luglio-agosto, 2017

Un articolo apparso sull’Harvard Business Review insiste sulla necessità di non basare tutto solo sul calcolo e sulla pianificazione

L’impresa è calcolo ma deve essere anche altro. Rischio, istinto, avventura, capacità di guardare più lontano. Si dice “arte del produrre” non a caso. Sempre – certo – con un’attenzione importante a far quadrare i bilanci; che devono tuttavia ormai comprendere anche altro oltre a colonne di numeri. Percorrendo questa strada fa bene leggere “Liberal Arts in Data Age” di Josh M. Olejarz apparso sulla Harvard Business Review qualche tempo fa.

Articolo breve ma intenso, quanto scritto da Olejarz (che è da un quinquennio circa assistant editor di HBR), ruota attorno ad una constatazione: “In quale situazione di grande svantaggio potremmo finire, noi e il mondo, se costringessimo le nostre menti ad affrontare tutti i problemi allo stesso modo”. E’ dal rischio e attorno al rischio dell’omologazione che ragiona l’autore. Indicando come un mondo fatto solo di calcolo, algoritmi e big data  diverrebbe presto un mondo a senso unico e quindi privo di fantasia e di risorse, Olejarz traccia una strada diversa. Anche per le imprese. Anzi, Olejarz punta il dito contro le cosiddette Stem (acronimo di Science, Technology, Engineering, Mathematics). In altre parole, si andrebbe verso un orizzonte fatto non solo di omologazione ma anche di assenza di capacità di rispondere adeguatamente agli imprevisti. Esattamente l’opposto della condizione nella quale deve trovarsi sempre un’impresa.

Quindi che fare? Per Olejarz la soluzione è semplice: dare spazio alla filosofia, alla letteratura e alla poesia. Non solo coding, quindi, ma anche bellezza, estro, innovatività intesa come capacità di rompere gli schemi.

Qualità e non solo quantità – pare indicare Olejarz -, devono permeare anche società e imprese. Che detto in altri termini significa come rigore quantitativo e attenzione all’organizzazione debbano andare di pari passo con qualità come l’empatia, la prudenza e la saggezza proprie delle discipline umanistiche.

L’intervento di Olejarz ha il grande merito di spalancare lo sguardo di chi legge su un panorama ad oggi conosciuto solo in parte e che invece merita di essere esplorato di più.

Liberal Arts in Data Age

Josh M. Olejarz

Harvard Business Review, luglio-agosto, 2017

Milano, un buon funzionamento della giustizia fa crescere gli investimenti e rafforza l’economia

“Il funzionamento della giustizia rappresenta uno dei parametri di valutazione primari per misurare il grado di civiltà di un Paese, con ricadute importanti sia per gli investimenti nazionali, sia per l’attrattività degli investimenti provenienti dall’estero”. Comincia così, dopo i saluti istituzionali e di rito, la relazione con cui Marina Tavassi, presidente della Corte d’Appello di Milano, ha aperto sabato 27 gennaio l’Anno Giudiziario. Un’attenzione marcata ai temi dell’economia. Una chiara consapevolezza della stretta relazione tra efficacia ed efficienza della giustizia e sviluppo economico e sociale. Una netta coscienza dei confronti su cui impegnarsi: non solo con le altre sedi giudiziarie italiane (Milano ne è avanguardia) ma anche con quelle internazionali. E una grande severità su quel che ancora resta da fare per un buon funzionamento degli apparati giudiziari. L’esercizio della giurisdizione va vissuto come servizio al cittadino. E in una stagione così complessa e contrastata della vita del Paese e delle sue istituzioni, la magistratura e più in generale il mondo giudiziario (avvocatura compresa) devono fare di tutto per non essere considerati una casta. Una relazione importante, dunque. Aperta. Dialogica. Sulla scia di quanto già da tempo il Palazzo di Giustizia di Milano mette in luce, già negli anni in cui a presiedere la Corte d’Appello era Giovanni Canzio (sabato in prima fila, dopo aver terminato il suo mandato come Primo Presidente della Corte di Cassazione).

Milano città internazionale dell’economia e delle imprese ha infatti nell’attività giudiziaria uno dei punti di riferimento essenziali: lo nota giustamente Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda, commentando le relazione e apprezzando l’attenzione della presidente della Corte d’Appello alle esigenze delle buone imprese e all’attività di Assolombarda per la legalità.

Vale la pena dunque rileggere le indicazioni della presidente Tavassi, come riferimento strategico per la crescita equilibrata di Milano, metropoli di respiro europeo in cui le istituzioni e le funzioni pubbliche – la Giustizia, appunto – contribuiscono in modo determinante a muovere la macchina dell’economia.

Legalità e competitività si muovono secondo strette relazioni virtuose: “Per ristabilire la fiducia nel ciclo economico del Paese è necessario creare un ambiente favorevole agli investimenti, facilitando così la crescita del mercato. Sistemi certi di risoluzione delle liti e tempi rapidi di definizione svolgono un ruolo fondamentale nelle decisioni di investimento delle imprese le quali valutano il rischio di essere coinvolte in lunghe vertenze di lavoro, tributarie o il procedure di insolvenza”: il cosiddetto “rischio Paese”.

L’indicazione è chiara: “Laddove i sistemi giudiziari assicurano una corretta esecuzione dei contratti e una rapida soddisfazione dei diritti, le imprese e i singoli sono dissuasi dall’assumere comportamenti opportunistici. I costi delle operazioni si riducono e gli investimenti possono essere indirizzati verso settori innovativi, contribuendo così a creare nuovi posti di lavoro e a migliorare non solo l’economia e gli interesse commerciali ma anche il livello di vita dei singoli e il benessere della società”. E’ una indicazione strategica che, al di là delle parole della relazione, conferma il cammino fatto da Palazzo di Giustizia a Milano nel corso degli anni, con scelte operative e provvedimenti che riguardano sia la giurisdizione (i processi, le sentenze) sia il funzionamento amministrativo dell’apparato giudiziario: diminuiscono i tempi per arrivare alle sentenze, sia civili che penali (Milano, grande sede, è all’avanguardia in Italia, ma regge anche la competizione con altre città europee), si smaltisce più velocemente il carico delle cause arretrate, il “Tribunale delle imprese” assicura una maggiore certezza delle liti. E cresce la consapevolezza dell’utilità di fare ricorso a soluzioni delle controversie alternative a quelle giudiziarie (gli arbitrati, le mediazioni) in modo da lasciare all’intervento dei giudici i casi più gravi e complessi, senza ingolfare di liti le aule di Tribunale e Corte d’Appello.

Restano certo molti problemi: i tempi ancora lunghi dei processi (una questione ribadita dal presidente dell’Ordine degli avvocati Remo Danovi), le insufficienze degli apparati, i limiti generali del mondo della giustizia in Italia, di cui anche Milano, naturalmente, risente. La relazione della presidente Tavassi ne dà compiutamente conto. Senza trascurare comunque di indicare il percorso fatto e guardare con un minimo di fiducia critica al futuro.

Sono tutti temi cari ad Assolombarda, guardando agli interessi delle imprese come motori essenziali di ricchezza diffusa, di lavoro, di inclusione e promozione sociale. E che si rinnovano nella continuazione della oramai solida collaborazione tra Palazzo di Giustizia, la SDA Bocconi e, appunto, Assolombarda nella costruzione, anno dopo anno, dei Bilanci di responsabilità sociale della Corte d’Appello, del Tribunale e della Procura della Repubblica.

C’è un altro tema, su cui Giustizia e imprese trovano importanti punti di intesa: la lotta contro le mafie, l’impegno per fare fronte alla crescita inquinante, proprio a Milano, della criminalità organizzata. La relazione del Procuratore Generale Roberto Giordano ha ribadito la pericolosità della presenza di ‘ndrangheta, Cosa Nostra siciliana e camorra: un pericolo attuale anche per l’economia, il mercato, le imprese, oltre che più in generale per la convivenza civile. Un allarme ripetuto. Che va ascoltato e accolto. La legalità e lo sviluppo economico sono dimensioni convergenti.

“Il funzionamento della giustizia rappresenta uno dei parametri di valutazione primari per misurare il grado di civiltà di un Paese, con ricadute importanti sia per gli investimenti nazionali, sia per l’attrattività degli investimenti provenienti dall’estero”. Comincia così, dopo i saluti istituzionali e di rito, la relazione con cui Marina Tavassi, presidente della Corte d’Appello di Milano, ha aperto sabato 27 gennaio l’Anno Giudiziario. Un’attenzione marcata ai temi dell’economia. Una chiara consapevolezza della stretta relazione tra efficacia ed efficienza della giustizia e sviluppo economico e sociale. Una netta coscienza dei confronti su cui impegnarsi: non solo con le altre sedi giudiziarie italiane (Milano ne è avanguardia) ma anche con quelle internazionali. E una grande severità su quel che ancora resta da fare per un buon funzionamento degli apparati giudiziari. L’esercizio della giurisdizione va vissuto come servizio al cittadino. E in una stagione così complessa e contrastata della vita del Paese e delle sue istituzioni, la magistratura e più in generale il mondo giudiziario (avvocatura compresa) devono fare di tutto per non essere considerati una casta. Una relazione importante, dunque. Aperta. Dialogica. Sulla scia di quanto già da tempo il Palazzo di Giustizia di Milano mette in luce, già negli anni in cui a presiedere la Corte d’Appello era Giovanni Canzio (sabato in prima fila, dopo aver terminato il suo mandato come Primo Presidente della Corte di Cassazione).

Milano città internazionale dell’economia e delle imprese ha infatti nell’attività giudiziaria uno dei punti di riferimento essenziali: lo nota giustamente Carlo Bonomi, presidente di Assolombarda, commentando le relazione e apprezzando l’attenzione della presidente della Corte d’Appello alle esigenze delle buone imprese e all’attività di Assolombarda per la legalità.

Vale la pena dunque rileggere le indicazioni della presidente Tavassi, come riferimento strategico per la crescita equilibrata di Milano, metropoli di respiro europeo in cui le istituzioni e le funzioni pubbliche – la Giustizia, appunto – contribuiscono in modo determinante a muovere la macchina dell’economia.

Legalità e competitività si muovono secondo strette relazioni virtuose: “Per ristabilire la fiducia nel ciclo economico del Paese è necessario creare un ambiente favorevole agli investimenti, facilitando così la crescita del mercato. Sistemi certi di risoluzione delle liti e tempi rapidi di definizione svolgono un ruolo fondamentale nelle decisioni di investimento delle imprese le quali valutano il rischio di essere coinvolte in lunghe vertenze di lavoro, tributarie o il procedure di insolvenza”: il cosiddetto “rischio Paese”.

L’indicazione è chiara: “Laddove i sistemi giudiziari assicurano una corretta esecuzione dei contratti e una rapida soddisfazione dei diritti, le imprese e i singoli sono dissuasi dall’assumere comportamenti opportunistici. I costi delle operazioni si riducono e gli investimenti possono essere indirizzati verso settori innovativi, contribuendo così a creare nuovi posti di lavoro e a migliorare non solo l’economia e gli interesse commerciali ma anche il livello di vita dei singoli e il benessere della società”. E’ una indicazione strategica che, al di là delle parole della relazione, conferma il cammino fatto da Palazzo di Giustizia a Milano nel corso degli anni, con scelte operative e provvedimenti che riguardano sia la giurisdizione (i processi, le sentenze) sia il funzionamento amministrativo dell’apparato giudiziario: diminuiscono i tempi per arrivare alle sentenze, sia civili che penali (Milano, grande sede, è all’avanguardia in Italia, ma regge anche la competizione con altre città europee), si smaltisce più velocemente il carico delle cause arretrate, il “Tribunale delle imprese” assicura una maggiore certezza delle liti. E cresce la consapevolezza dell’utilità di fare ricorso a soluzioni delle controversie alternative a quelle giudiziarie (gli arbitrati, le mediazioni) in modo da lasciare all’intervento dei giudici i casi più gravi e complessi, senza ingolfare di liti le aule di Tribunale e Corte d’Appello.

Restano certo molti problemi: i tempi ancora lunghi dei processi (una questione ribadita dal presidente dell’Ordine degli avvocati Remo Danovi), le insufficienze degli apparati, i limiti generali del mondo della giustizia in Italia, di cui anche Milano, naturalmente, risente. La relazione della presidente Tavassi ne dà compiutamente conto. Senza trascurare comunque di indicare il percorso fatto e guardare con un minimo di fiducia critica al futuro.

Sono tutti temi cari ad Assolombarda, guardando agli interessi delle imprese come motori essenziali di ricchezza diffusa, di lavoro, di inclusione e promozione sociale. E che si rinnovano nella continuazione della oramai solida collaborazione tra Palazzo di Giustizia, la SDA Bocconi e, appunto, Assolombarda nella costruzione, anno dopo anno, dei Bilanci di responsabilità sociale della Corte d’Appello, del Tribunale e della Procura della Repubblica.

C’è un altro tema, su cui Giustizia e imprese trovano importanti punti di intesa: la lotta contro le mafie, l’impegno per fare fronte alla crescita inquinante, proprio a Milano, della criminalità organizzata. La relazione del Procuratore Generale Roberto Giordano ha ribadito la pericolosità della presenza di ‘ndrangheta, Cosa Nostra siciliana e camorra: un pericolo attuale anche per l’economia, il mercato, le imprese, oltre che più in generale per la convivenza civile. Un allarme ripetuto. Che va ascoltato e accolto. La legalità e lo sviluppo economico sono dimensioni convergenti.

Buon compleanno Pirelli

28 gennaio: quasi un secolo e mezzo è passato da quel giorno d’inverno del 1872, quando il ventitreenne ingegner Giovanni Battista Pirelli si presentò davanti a Stefano Allocchio – notaio in Milano – per firmare “la costituzione di Società in accomandita semplice per la fabbricazione e vendita di articoli di gomma elastica”. Iniziava così una lunga storia di uomini e di macchine.

Una storia di mescolatori, di vulcanizzatori, di caldaie e di calandre: strumenti che il giovane Pirelli aveva scoperto un paio d’anni prima, durante il suo “viaggio di istruzione”  – frutto di una borsa di studio – presso le prime fabbriche di caucciù in Francia e Germania. Era gennaio: l‘ingegner Pirelli sarebbe partito presto per andarli a comperare di persona, quei macchinari da installare nello stabilimento in costruzione in via Ponte Seveso. I migliori mescolatori li produceva la Jos. Robinson & Co di Manchester, in Inghilterra, mentre per la caldaia si sarebbe optato per la milanese Edoardo Süffert & C. Programmi e progetti che il giovane imprenditore aveva raccontato al giornalista della rivista l’Industriale: “dal canto nostro sempre ben lieti di registrare tutto quanto è prova del crescente nostro sviluppo economico, così pubblichiamo di buon grado alcune notizie su questo recente stabilimento, che, festosi, salutiamo…”.  E se poi gli affari fossero andati particolarmente bene, col tempo si sarebbe potuto anche affrontare l’investimento in una delle gigantesche macchine che produceva la Farrel Foundry and Machine lassù nel Connecticut, Stati Uniti. Tutto questo – nel gennaio del 1872 – passava forse per la testa di “uno studente romantico”, come lo definirà Pier Emilio Gennarini nella storia dell’azienda scritta per la Rivista Pirelli molti anni dopo, nel 1949. Uno studente romantico che credeva nel progetto di un’industria nuova.

Quasi un anno dopo, l’1 gennaio 1873, Ghezzi Francesco fu Giovanni diventò la matricola n° 1, operaio e lavorante in gomma, presso lo stabilimento di Milano. Avrebbe imparato presto a far funzionare il mescolatore Robinson, a controllare la caldaia Süffert. E ad insegnarlo ad altri dopo di lui. Da allora sono passati centoquarantasei anni di uomini e macchine: oggi l’industria è 4.0. Un capitale di esperienza e umanità, a partire da quella firma del 28 gennaio 1872 sull’atto costitutivo che ancora ci fa da testimone di tutta una storia.

28 gennaio: quasi un secolo e mezzo è passato da quel giorno d’inverno del 1872, quando il ventitreenne ingegner Giovanni Battista Pirelli si presentò davanti a Stefano Allocchio – notaio in Milano – per firmare “la costituzione di Società in accomandita semplice per la fabbricazione e vendita di articoli di gomma elastica”. Iniziava così una lunga storia di uomini e di macchine.

Una storia di mescolatori, di vulcanizzatori, di caldaie e di calandre: strumenti che il giovane Pirelli aveva scoperto un paio d’anni prima, durante il suo “viaggio di istruzione”  – frutto di una borsa di studio – presso le prime fabbriche di caucciù in Francia e Germania. Era gennaio: l‘ingegner Pirelli sarebbe partito presto per andarli a comperare di persona, quei macchinari da installare nello stabilimento in costruzione in via Ponte Seveso. I migliori mescolatori li produceva la Jos. Robinson & Co di Manchester, in Inghilterra, mentre per la caldaia si sarebbe optato per la milanese Edoardo Süffert & C. Programmi e progetti che il giovane imprenditore aveva raccontato al giornalista della rivista l’Industriale: “dal canto nostro sempre ben lieti di registrare tutto quanto è prova del crescente nostro sviluppo economico, così pubblichiamo di buon grado alcune notizie su questo recente stabilimento, che, festosi, salutiamo…”.  E se poi gli affari fossero andati particolarmente bene, col tempo si sarebbe potuto anche affrontare l’investimento in una delle gigantesche macchine che produceva la Farrel Foundry and Machine lassù nel Connecticut, Stati Uniti. Tutto questo – nel gennaio del 1872 – passava forse per la testa di “uno studente romantico”, come lo definirà Pier Emilio Gennarini nella storia dell’azienda scritta per la Rivista Pirelli molti anni dopo, nel 1949. Uno studente romantico che credeva nel progetto di un’industria nuova.

Quasi un anno dopo, l’1 gennaio 1873, Ghezzi Francesco fu Giovanni diventò la matricola n° 1, operaio e lavorante in gomma, presso lo stabilimento di Milano. Avrebbe imparato presto a far funzionare il mescolatore Robinson, a controllare la caldaia Süffert. E ad insegnarlo ad altri dopo di lui. Da allora sono passati centoquarantasei anni di uomini e macchine: oggi l’industria è 4.0. Un capitale di esperienza e umanità, a partire da quella firma del 28 gennaio 1872 sull’atto costitutivo che ancora ci fa da testimone di tutta una storia.

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Pirelli, il futuro è qui

Montagne di carta. La “Pirelli” sull’alpinismo

Il nome della testata, per esteso, era “Pirelli. Rivista d’Informazione e di Tecnica“. Per tutti, più semplicemente, la “Rivista Pirelli”. Realizzata a Milano dalla Direzione Propaganda del Gruppo — la chiameremmo adesso Direzione Comunicazione — andò in edicola dal 1948 al 1972: un prodotto editoriale pressoché unico nel suo genere, la voce con la quale un gruppo industriale voleva discorrere direttamente con il proprio pubblico di riferimento — oggi diremmo stakeholder — su fatti e questioni di vario genere. Dai problemi del traffico alla congiuntura economica, dalle scoperte scientifiche al turismo, dallo sport all’architettura: un mondo a 360 gradi, come “a tutto tondo” è il campo visivo di una multinazionale che fa della cultura e dell’impegno sociale i propri asset intangibili quanto inalienabili. A scrivere per la Rivista Pirelli, le più grandi firme del tempo: Eugenio Montale e Giuseppe UngarettiUmberto Eco e Carlo Emilio Gadda, Domenico Rea e Vittorio Sereni, Mario Soldati e Italo Calvino.

Ma se si trattava di alpinismo il primo nome era quello di Dino Buzzati. Bellunese, Buzzati parlava di montagne già con Bàrnabo nel suo primo romanzo del 1933. E chissà quanto gli sarà costato titolare “Stupidità della montagna” l’articolo pubblicato sulla Rivista Pirelli  n°5, ottobre 1951. È la storia di Pietro B. – già attempato, vedovo, saggio e danaroso – che cerca di convincere il nipote Enrico che la scalata al Monte Disgrazia è una grande perdita di tempo e di energie: ma perchè far tanta fatica a salire per poi dover discendere? Ma quanto è cretino l’alpinismo? Ovviamente, l’animo montanaro di Buzzati farà alla fine prevalere la passione di Enrico: “Ciao, zio Pietro, io ti saluto, io prendo il treno, io parto per le idiote stupide cretine meravigliose mie montagne!”.

E poi venne la celebre e controversa spedizione italiana alla conquista della vetta himalayana del K2: era il 1954. A lui — Rivista Pirelli n°1, 1954 — il compito di riportare la dettagliatissima cronaca di come Ardito Desio preparò l’impresa, dei suoi compagni di viaggio Compagnoni e Lacedelli, del giovane Walter Bonatti, dei dubbi e degli entusiasmi della vigilia, della minuziosa selezione dell’equipaggiamento: tende isotermiche, scarponi da 7000 metri, giacche a vento “dai colori vivacissimi, per essere avvistati sul bianco della neve”. Tanta gomma Pirelli, nella conquista del K2: in particolare, furono sperimentate nei laboratori di Bicocca le speciali maschere respiratorie a circuito aperto — in grado cioè di utilizzare anche a ottomila metri l’ossigeno dell’atmosfera — molto più leggere rispetto alle tradizionali maschere a circuito chiuso con le loro pesantissime bombole. Già sei mesi prima della partenza, il progetto K2 si guadagnò con Ardito Desio la copertina del numero di  gennaio del ’54. Probabilmente, per  il carattere decisamente forte dell’esploratore friulano, quella copertina serviva a “bilanciare” quell’altra cover che la Rivista aveva dedicato — numero di dicembre 1950 — a Piero Ghiglione. Considerato il padre dell’alpinismo italiano, Ghiglione aveva compiuto la prima ascensione “tricolore” alla vetta africana del Ruvenzori nel 1949, andando poi all’assalto dei “seimila” andini nel 1950. Anche in quelle imprese, suole e materassini pneumatici Pirelli avevano fatto la differenza.

Non furono solo Buzzati o Desio o Ghiglione a parlarci di montagne sulle pagine della Rivista Pirelli. “Tre divinità sull’Appennino” titolava il racconto apparso sul n°2 del 1950, a firma Riccardo Bacchelli. Ovvio, siamo distanti anni luce dagli ottomila del K2 o anche solo dalle asperità dolomitiche: ma ancora di montagne si tratta, anche se più dolci e pur avvolte nel mito. Nel sogno di Bacchelli sono Minerva, Apollo e Dioniso a dare vita al “nodo di fiumi e montagne che si aggruppa nelle regioni del Catria e della Falterona”, da dove “si disciolgono i fiumi e le parlate della Toscana e del Lazio, dell’Umbria e delle Marche”. Ed ecco l’Arno di Minerva, e le assolate valli umbre di Apollo, e le vigne “splendidi regali” di Dioniso. Monti divini, in bilico tra arte e leggenda.

Il nome della testata, per esteso, era “Pirelli. Rivista d’Informazione e di Tecnica“. Per tutti, più semplicemente, la “Rivista Pirelli”. Realizzata a Milano dalla Direzione Propaganda del Gruppo — la chiameremmo adesso Direzione Comunicazione — andò in edicola dal 1948 al 1972: un prodotto editoriale pressoché unico nel suo genere, la voce con la quale un gruppo industriale voleva discorrere direttamente con il proprio pubblico di riferimento — oggi diremmo stakeholder — su fatti e questioni di vario genere. Dai problemi del traffico alla congiuntura economica, dalle scoperte scientifiche al turismo, dallo sport all’architettura: un mondo a 360 gradi, come “a tutto tondo” è il campo visivo di una multinazionale che fa della cultura e dell’impegno sociale i propri asset intangibili quanto inalienabili. A scrivere per la Rivista Pirelli, le più grandi firme del tempo: Eugenio Montale e Giuseppe UngarettiUmberto Eco e Carlo Emilio Gadda, Domenico Rea e Vittorio Sereni, Mario Soldati e Italo Calvino.

Ma se si trattava di alpinismo il primo nome era quello di Dino Buzzati. Bellunese, Buzzati parlava di montagne già con Bàrnabo nel suo primo romanzo del 1933. E chissà quanto gli sarà costato titolare “Stupidità della montagna” l’articolo pubblicato sulla Rivista Pirelli  n°5, ottobre 1951. È la storia di Pietro B. – già attempato, vedovo, saggio e danaroso – che cerca di convincere il nipote Enrico che la scalata al Monte Disgrazia è una grande perdita di tempo e di energie: ma perchè far tanta fatica a salire per poi dover discendere? Ma quanto è cretino l’alpinismo? Ovviamente, l’animo montanaro di Buzzati farà alla fine prevalere la passione di Enrico: “Ciao, zio Pietro, io ti saluto, io prendo il treno, io parto per le idiote stupide cretine meravigliose mie montagne!”.

E poi venne la celebre e controversa spedizione italiana alla conquista della vetta himalayana del K2: era il 1954. A lui — Rivista Pirelli n°1, 1954 — il compito di riportare la dettagliatissima cronaca di come Ardito Desio preparò l’impresa, dei suoi compagni di viaggio Compagnoni e Lacedelli, del giovane Walter Bonatti, dei dubbi e degli entusiasmi della vigilia, della minuziosa selezione dell’equipaggiamento: tende isotermiche, scarponi da 7000 metri, giacche a vento “dai colori vivacissimi, per essere avvistati sul bianco della neve”. Tanta gomma Pirelli, nella conquista del K2: in particolare, furono sperimentate nei laboratori di Bicocca le speciali maschere respiratorie a circuito aperto — in grado cioè di utilizzare anche a ottomila metri l’ossigeno dell’atmosfera — molto più leggere rispetto alle tradizionali maschere a circuito chiuso con le loro pesantissime bombole. Già sei mesi prima della partenza, il progetto K2 si guadagnò con Ardito Desio la copertina del numero di  gennaio del ’54. Probabilmente, per  il carattere decisamente forte dell’esploratore friulano, quella copertina serviva a “bilanciare” quell’altra cover che la Rivista aveva dedicato — numero di dicembre 1950 — a Piero Ghiglione. Considerato il padre dell’alpinismo italiano, Ghiglione aveva compiuto la prima ascensione “tricolore” alla vetta africana del Ruvenzori nel 1949, andando poi all’assalto dei “seimila” andini nel 1950. Anche in quelle imprese, suole e materassini pneumatici Pirelli avevano fatto la differenza.

Non furono solo Buzzati o Desio o Ghiglione a parlarci di montagne sulle pagine della Rivista Pirelli. “Tre divinità sull’Appennino” titolava il racconto apparso sul n°2 del 1950, a firma Riccardo Bacchelli. Ovvio, siamo distanti anni luce dagli ottomila del K2 o anche solo dalle asperità dolomitiche: ma ancora di montagne si tratta, anche se più dolci e pur avvolte nel mito. Nel sogno di Bacchelli sono Minerva, Apollo e Dioniso a dare vita al “nodo di fiumi e montagne che si aggruppa nelle regioni del Catria e della Falterona”, da dove “si disciolgono i fiumi e le parlate della Toscana e del Lazio, dell’Umbria e delle Marche”. Ed ecco l’Arno di Minerva, e le assolate valli umbre di Apollo, e le vigne “splendidi regali” di Dioniso. Monti divini, in bilico tra arte e leggenda.

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